A poche ore dal varo della manovra in Consiglio dei ministri le anticipazioni e le voci che circolano sui giornali di oggi sono a dir poco deprimenti. Non solo rispetto alle nuove entrate i tagli strutturali previsti non sembrano assumere la forma necessaria di una vera e propria "aggressione" alla spesa pubblica e sono troppo diluiti nel tempo, non solo non s'intravedono all'orizzonte né una riduzione, sia pur minima, della pressione fiscale, né vere "frustate" liberalizzatrici, ma spuntano tasse e balzelli di ogni tipo che rivelano un approccio anti mercato col quale sarà difficile portarci oltre l'1% annuo di crescita. E senza crescita, è a rischio persino l'obiettivo minimo di questa manovra: il pareggio di bilancio nel 2014.
Al di là di alcune misure condivisibili, si prosegue con una logica da Prima Repubblica, cioè con una caccia grossa a coloro che hanno ancora qualche spicciolo da parte. Il saccheggio dei granai, insomma, mentre l'obiettivo dovrebbe essere quello di farli riempire i granai e di ampliare la platea di quanti producono ricchezza. Manca solo la rapina notte tempo sui conti corrente messa a segno da Amato nel '92, e poi siamo ad una manovra da Prima Repubblica. L'impressione che se ne ricava è che piuttosto che spendere meno, i politici se ne inventino una in più di Dracula per succhiare altro sangue. Una buona metà degli italiani si chiederanno a questo punto che cosa hanno votato a fare il centrodestra nel 2008. Di un centrodestra del genere l'Italia non ha bisogno, non ha alcun senso.
L'adeguamento dell'età di pensionamento delle donne a quella degli uomini, a 65 anni, è una barzelletta: avverrà in modo graduale a partire dal 2020 concludendosi nel 2030! Si rinuncia ad una misura impopolare ma strutturale, per una altrettanto impopolare ma certo non virtuosa: il superbollo sui Suv e le auto di grossa cilindrata (quale la prossima "riforma strutturale", l'aumento delle imposte sulle sigarette?). Attenzione: avrebbe un qualche senso far pagare ai fumatori le spese sanitarie che lo Stato dovrà sostenere per curare le loro malattie, e ha un qualche senso "punire" questa mania dei Suv giganteschi, che nel contesto urbano delle nostre città sono una follia. E la reintroduzione del ticket sanitario avrà l'effetto di responsabilizzare un minimo i cittadini nel ricorso ad esami specialistici e al pronto soccorso. Ma è la mentalità che rivelano queste misure ad essere preoccupante: raccontano di un governo che anziché concentrarsi unicamente nel tagliare la spesa, cerca spasmodicamente nuove entrate.
Ci sono poi misure che rivelano un istinto anti mercato e che rischiano di avere un impatto persino depressivo sull'economia. Tassare le transazioni finanziarie e accanirsi sulla gestione delle attività finanziarie da parte delle banche è una roba "comunista". Punto. Si punisce chi decide di investire i propri risparmi (da una fonte di reddito già tassata) nel finanziamento di attività produttive, pur sapendo della cronica difficoltà delle nostre imprese di ottenere credito dalle banche e finanziamenti in Borsa. Tra l'altro, come ricorda Nicola Porro su Il Giornale, «se una banca o una società devono pagare un euro in più di imposte, è molto probabile che facciano di tutto per traslarle sul proprio cliente. Il quale, a sua volta, se è in grado, le fa pagare al suo di cliente. La sintesi finale è la regressività dell'imposta».
E' positiva la conferma della riforma del Patto di stabilità per i Comuni, per cui chi rispetta gli obiettivi di bilancio e ha soldi in avanzo potrà spendere, a differenza di quanto avviene oggi, così come è rassicurante l'allentamento delle "ganasce fiscali", con il raddoppio dei termini oltre i quali scattano i pignoramenti (da 120 a 240 giorni). Il Foglio si accontenta della liberalizzazione degli orari e dei giorni di apertura degli esercizi commerciali (ma solo nei comuni di interesse turistico e nelle città d’arte), ed è certamente un'ottima misura «sviluppista», ma il segno generale della manovra è a dir poco conservativo dell'esistente. Il pressing su Tremonti sembra non aver prodotto un sussulto di riforme liberali, sia sulla spesa che sulle tasse, bensì una diluizione nel tempo e un ammorbidimento (soprattutto, sembra, su previdenza e costi della politica) dei tagli. Ciascuno è impegnato a salvare dalla sforbiciata il proprio portafoglio ministeriale, non a offrire al Paese un approccio nuovo alla riduzione della spesa pubblica. Manca un ripensamento generale dello Stato e delle sue funzioni, mentre siamo di fronte ad una manutenzione, sia pure "responsabile" ma semplicemente ragionieristica dell'esistente. E non è detto che basti. Il giudizio sulla manovra lo daranno Moody's e le altre agenzie di rating, ma potrebbe essere senza appello.
Dove tagliare? I conti che fa Oscar Giannino sono impietosi nella loro semplicità. Basta avere la volontà politica di tagliare. Basta guardare i numeri e chiunque può comprendere all'istante come difendendo la spesa pubblica i politici difendono in realtà se stessi, mentre fanno credere ai cittadini di difendere i servizi - scadenti - che ricevono dallo Stato.
Thursday, June 30, 2011
Wednesday, June 29, 2011
Compromesso al ribasso
Il più tipico dei compromessi al ribasso è quello che si sta profilando sulla manovra fra Tremonti da una parte e Berlusconi, Bossi e gli altri ministri dall'altra. Nonostante delle buone misure ci saranno quasi certamente, si è preferito vivacchiare piuttosto che porsi obiettivi ambiziosi. E gli italiani hanno già espresso il loro giudizio sui governi che tendono a vivacchiare. Aspettiamo il varo ufficiale, ma come temevamo il pressing su Tremonti non sta producendo un sussulto di riforme liberali, sia sulla spesa che sulle tasse, bensì una diluizione nel tempo e un ammorbidimento (soprattutto, sembra, su previdenza e costi della politica) dei tagli. Ciascuno è impegnato a salvare dalla sforbiciata il proprio portafoglio ministeriale, non a offrire al Paese un approccio nuovo alla riduzione della spesa pubblica. Manca un ripensamento generale dello Stato e delle sue funzioni, mentre siamo di fronte ad una manutenzione, sia pure "responsabile" ma semplicemente ragionieristica dell'esistente. E non è detto che basti per allontanarci dal baratro in cui è precipitata la Grecia. Infatti, spostando in là negli anni i tagli più corposi rischiamo di non apprezzarne gli effetti benefici sui conti pubblici. Di rimanere sul filo del rasoio per altri due anni. Forse Bruxelles sì, ma non è detto che i mercati ci concederanno questo tempo. Rivelatrici saranno le decisioni di Moody's e le altre agenzie sull'ipotesi minacciata di declassamento del rating sul nostro debito, ma stiamo giocando col fuoco.
Serviva invece più coraggio. Sulle tasse, ma anche sui tagli alla spesa e sulle tante altre riforme e liberalizzazioni che potevano essere fatte a costo zero. In vista del 2013 la domanda chiave che nel centrodestra dovrebbero porsi è: potremo presentarci di fronte ai nostri elettori sostenendo di aver ridotto il peso dello Stato e cominciato a sgravare le spalle di famiglie e imprese? Al netto di autolesionismi e suicidi del centrosinistra, dalla risposta a questa domanda dipenderanno le sorti elettorali del centrodestra. Il rischio è che non solo si arrivi al 2013 con la solita crescita che non supera l'1% annuo, ma che nemmeno i conti pubblici siano incontestabilmente in ordine. Arrivare al pareggio nel 2013 avrebbe significato anticipare dei sacrifici, ma almeno presentarsi alle elezioni avendo raggiunto un traguardo.
Serviva invece più coraggio. Sulle tasse, ma anche sui tagli alla spesa e sulle tante altre riforme e liberalizzazioni che potevano essere fatte a costo zero. In vista del 2013 la domanda chiave che nel centrodestra dovrebbero porsi è: potremo presentarci di fronte ai nostri elettori sostenendo di aver ridotto il peso dello Stato e cominciato a sgravare le spalle di famiglie e imprese? Al netto di autolesionismi e suicidi del centrosinistra, dalla risposta a questa domanda dipenderanno le sorti elettorali del centrodestra. Il rischio è che non solo si arrivi al 2013 con la solita crescita che non supera l'1% annuo, ma che nemmeno i conti pubblici siano incontestabilmente in ordine. Arrivare al pareggio nel 2013 avrebbe significato anticipare dei sacrifici, ma almeno presentarsi alle elezioni avendo raggiunto un traguardo.
Tuesday, June 28, 2011
Se salta il tappo Tremonti
Fin dai primi passi della legislatura avevamo ben presente quale fosse il rischio del prevalere, nella compagine governativa, delle spinte anti-tremontiane. Da critici della prima ora del tremontismo avvertivamo tuttavia che non tutte le forze che si oppongono all'immobilismo rigorista del ministro erano volte al "bene". Ci sono quanti - e sono purtroppo minoritari - rimproverano al ministro di aver represso con la scusa della crisi lo slancio riformatore dell'Esecutivo, ritenendo invece che proprio la crisi economica nel 2009, così come oggi la crisi dell'eurodebito, offrivano l'occasione per far digerire al Paese riforme profonde sia per mettere in sicurezza i conti pubblici che per favorire la crescita. Ma molti degli avversari di Tremonti, forse la maggior parte, si nascondono dietro la necessità delle cosiddette politiche per lo sviluppo al solo scopo di proteggere dai tagli il proprio portafoglio ministeriale o la propria fetta di spesa pubblica.
Per questo oggi far saltare il tappo Tremonti presenta molte incognite, qualche opportunità ma anche molti rischi. Ripeto: è ciò che, da critico di Tremonti, l'onestà intellettuale mi impone però di riconoscere. Non so come andrà a finire il braccio di ferro tra Berlusconi e Bossi da una parte e il ministro dall'altro. Il rigore, più che necessario, rischia di essere fine a se stesso, se il Paese continua a crescere dell'1% annuo (quando va bene), e quindi potremmo svegliarci non tra qualche anno, ma tra qualche mese, e scoprire che tutti i sacrifici fatti non sono serviti a nulla. Ma d'altra parte, se il pressing sul ministro, o addirittura il suo allontanamento, portassero ad allentare i cordoni della borsa, o a non tagliare la spesa nella misura necessaria, allora sarebbe una catastrofe.
Occorre invece essere più coraggiosi nei tagli alla spesa per poter essere più coraggiosi nel tagliare le tasse. Lo Stato va ridotto. Di più. Va sottoposto ad una spietata cura dimagrante. E restituire ai cittadini, alle imprese e alle famiglie, una parte dei loro guadagni oggi vampirizzati dal fisco è l'unico modo per incoraggiare le attività produttive. A meno che non si ritenga, come Bersani, che per incoraggiarle occorra prelevare «soldi freschi» dalle tasche dei cittadini per redistribuirli in modo dirigistico alle attività che una cerchia di "illuminati" ritiene più produttive (alla fine secondo le proprie convenienze politiche). E' ciò che intendono quanti parlano di una "politica industriale".
Molta demagogia si è fatta sui cosiddetti tagli lineari, quando tutti sappiamo che in Italia, appena ci si chiede dove tagliare selettivamente, dal presidente della Repubblica fino all'ultimo degli editorialisti nessuno indica con precisione dove tagliare, tutti però sono bravissimi ad indicare i settori che non solo meritano di non subire tagli, ma persino di ricevere investimenti ulteriori. Un'ipocrisia francamente insopportabile di fronte alla quale appaiono di gran lunga più onesti i tagli lineari di Tremonti.
A due condizioni a mio avviso si possono rendere politicamente sostenibili misure impopolari ma certo non antipopolari: 1) dalla politica deve giungere un esempio concreto - e tra i tagli che vengono ipotizzati, il livellamento dei compensi pubblici alla media europea è una misura dal valore non soltanto simbolico. Certo è che il modo in cui Tremonti ha fatto filtrare le sue proposte anti-casta non è stato dei più limpidi e desta qualche sospetto che si prepari a giocare la carta demagogica in chiave tutta personale ("mi hanno fatto fuori perché volevo tagliare i privilegi della politica"), presentandosi tra qualche mese come salvatore della patria. 2) che a fronte della minaccia di finire come la Grecia, si offra agli italiani una prospettiva incoraggiante: stiamo riducendo lo Stato per rendervi più ricchi e più liberi. Per questo è fondamentale che quella fiscale sia una vera riforma.
La riduzione effettiva della pressione fiscale può anche essere minima in questa fase, ma dev'esserci. Naturalmente non in deficit, ma prelevare le risorse da qualche altra "tasca" sarebbe un inganno, oltre che probabilmente dannoso per l'economia. Un punto percentuale in più di Iva - in Italia già alta e altamente evasa - potrebbe essere facilmente eroso da ulteriore evasione, nonché fornire un alibi per aumenti ingiustificati dei prezzi, mentre l'aliquota sulle rendite finanziarie dovrebbe restare competitiva per non scoraggiare gli investimenti nel settore privato. Piuttosto, disboscare il sistema di deduzioni e detrazioni, semplificare, e tagliare ulteriormente la spesa. Se per centrare l'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2014 servono 40 miliardi, perché non si taglia la spesa di 50 per destinarne 10 alla riduzione della pressione fiscale complessiva?
La Lega ha ragione quando chiede che il patto di stabilità interno sia più clemente con i comuni virtuosi, ma ha torto quando rifiuta l'allungamento dell'età pensionabile. Dev'essere chiaro a tutti i cinquantenni che lavorare qualche anno di più è un sacrificio non fine a se stesso, o peggio un regalo al governo, ma a beneficiarne saranno i propri figli. E sarebbe delinquenziale se, esattamente come ha fatto il governo Prodi, per non mandare in pensione i cinquantenni qualche anno più tardi si aumentassero di nuovo i contributi ai lavoratori parasubordinati, i cosiddetti precari, che oltre a sopportare sulle proprie spalle tutto il peso della rigidità del mercato del lavoro, si ritrovano già buste paga piuttosto leggere.
Per questo oggi far saltare il tappo Tremonti presenta molte incognite, qualche opportunità ma anche molti rischi. Ripeto: è ciò che, da critico di Tremonti, l'onestà intellettuale mi impone però di riconoscere. Non so come andrà a finire il braccio di ferro tra Berlusconi e Bossi da una parte e il ministro dall'altro. Il rigore, più che necessario, rischia di essere fine a se stesso, se il Paese continua a crescere dell'1% annuo (quando va bene), e quindi potremmo svegliarci non tra qualche anno, ma tra qualche mese, e scoprire che tutti i sacrifici fatti non sono serviti a nulla. Ma d'altra parte, se il pressing sul ministro, o addirittura il suo allontanamento, portassero ad allentare i cordoni della borsa, o a non tagliare la spesa nella misura necessaria, allora sarebbe una catastrofe.
Occorre invece essere più coraggiosi nei tagli alla spesa per poter essere più coraggiosi nel tagliare le tasse. Lo Stato va ridotto. Di più. Va sottoposto ad una spietata cura dimagrante. E restituire ai cittadini, alle imprese e alle famiglie, una parte dei loro guadagni oggi vampirizzati dal fisco è l'unico modo per incoraggiare le attività produttive. A meno che non si ritenga, come Bersani, che per incoraggiarle occorra prelevare «soldi freschi» dalle tasche dei cittadini per redistribuirli in modo dirigistico alle attività che una cerchia di "illuminati" ritiene più produttive (alla fine secondo le proprie convenienze politiche). E' ciò che intendono quanti parlano di una "politica industriale".
Molta demagogia si è fatta sui cosiddetti tagli lineari, quando tutti sappiamo che in Italia, appena ci si chiede dove tagliare selettivamente, dal presidente della Repubblica fino all'ultimo degli editorialisti nessuno indica con precisione dove tagliare, tutti però sono bravissimi ad indicare i settori che non solo meritano di non subire tagli, ma persino di ricevere investimenti ulteriori. Un'ipocrisia francamente insopportabile di fronte alla quale appaiono di gran lunga più onesti i tagli lineari di Tremonti.
A due condizioni a mio avviso si possono rendere politicamente sostenibili misure impopolari ma certo non antipopolari: 1) dalla politica deve giungere un esempio concreto - e tra i tagli che vengono ipotizzati, il livellamento dei compensi pubblici alla media europea è una misura dal valore non soltanto simbolico. Certo è che il modo in cui Tremonti ha fatto filtrare le sue proposte anti-casta non è stato dei più limpidi e desta qualche sospetto che si prepari a giocare la carta demagogica in chiave tutta personale ("mi hanno fatto fuori perché volevo tagliare i privilegi della politica"), presentandosi tra qualche mese come salvatore della patria. 2) che a fronte della minaccia di finire come la Grecia, si offra agli italiani una prospettiva incoraggiante: stiamo riducendo lo Stato per rendervi più ricchi e più liberi. Per questo è fondamentale che quella fiscale sia una vera riforma.
La riduzione effettiva della pressione fiscale può anche essere minima in questa fase, ma dev'esserci. Naturalmente non in deficit, ma prelevare le risorse da qualche altra "tasca" sarebbe un inganno, oltre che probabilmente dannoso per l'economia. Un punto percentuale in più di Iva - in Italia già alta e altamente evasa - potrebbe essere facilmente eroso da ulteriore evasione, nonché fornire un alibi per aumenti ingiustificati dei prezzi, mentre l'aliquota sulle rendite finanziarie dovrebbe restare competitiva per non scoraggiare gli investimenti nel settore privato. Piuttosto, disboscare il sistema di deduzioni e detrazioni, semplificare, e tagliare ulteriormente la spesa. Se per centrare l'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2014 servono 40 miliardi, perché non si taglia la spesa di 50 per destinarne 10 alla riduzione della pressione fiscale complessiva?
La Lega ha ragione quando chiede che il patto di stabilità interno sia più clemente con i comuni virtuosi, ma ha torto quando rifiuta l'allungamento dell'età pensionabile. Dev'essere chiaro a tutti i cinquantenni che lavorare qualche anno di più è un sacrificio non fine a se stesso, o peggio un regalo al governo, ma a beneficiarne saranno i propri figli. E sarebbe delinquenziale se, esattamente come ha fatto il governo Prodi, per non mandare in pensione i cinquantenni qualche anno più tardi si aumentassero di nuovo i contributi ai lavoratori parasubordinati, i cosiddetti precari, che oltre a sopportare sulle proprie spalle tutto il peso della rigidità del mercato del lavoro, si ritrovano già buste paga piuttosto leggere.
Friday, June 24, 2011
Tagliare, non prelevare
Se fosse fondata questa indiscrezione, riportata su Corriere.it da Sergio Rizzo - e sempre ammesso che dalle intenzioni si riesca a passare ai fatti, superando i veti della "casta" - forse non sarebbe un punto di svolta per i conti pubblici, ma certo una piccola grande rivoluzione... "politica" e culturale, questo sì. Soprattutto il «livellamento remunerativo Italia-Europa», che credo avrebbe un valore tutt'altro che simbolico.
Vedremo presto dove Tremonti ha intenzione di incidere con il suo bisturi il corpo vivo della spesa pubblica, ma negli ultimi giorni sui quotidiani sono circolate varie ipotesi, che sarebbero allo studio del Tesoro e del governo. Alcune buone, altre meno buone, altre ancora davvero pessime.
Qui siamo dell'idea che sia per centrare l'obiettivo del pareggio di bilancio, sia per realizzare una riforma del fisco che includa una prima, percepibile limatura delle aliquote, occorra agire tagliando la spesa ed evitando, invece, nuove entrate. Qualsiasi nuova entrata, infatti, rischia di produrre effetti più recessivi dei tagli alla spesa. E soffocare ulteriormente una crescita già stentata potrebbe compromettere l'efficacia della manovra di rientro.
Sia l'aumento a 65 anni dell'età pensionabile delle donne anche nel settore privato (nel pubblico già è così), sia l'anticipo al 2013 per tutti, uomini e donne, dell'agganciamento automatico dell'età pensionabile alle speranze di vita, conferirebbero solidità e credibilità alla manovra. Auspicabili il disboscamento del sistema di deduzioni e detrazioni, in cui si nascondono inspiegabili privilegi, il prolungamento del blocco dei contratti e del turnover nel pubblico impiego, e ulteriori tagli ai ministeri, ai comuni e agli enti locali. Ricordando poi che le province, se non abolite, potrebbero essere dimezzate nel numero o quasi. Non si vogliono i cosiddetti tagli «lineari»? Allora ci pensino la Conferenza delle Regioni e l'Anci a fissare dei criteri per individuare gli enti più virtuosi cui risparmiare la dieta. Certo è che non ha tutti i torti la Lega quando pone la questione del patto di stabilità interno: a livello sistemico che i comuni con un bilancio in attivo non possano spendere i loro soldi, perché servono a ripianare i debiti altrui, è un incentivo perverso.
Escludendo i Bot, forse sulle rendite finanziarie si può ragionare, facendo attenzione però a mantenere un'aliquota competitiva con quella degli altri Paesi europei. Se per evidenti motivi va tutelato il finanziamento dei titoli di Stato, merita di esserlo anche quello del settore privato (che contribuisce al Pil) tramite il mercato azionario.
Ciò che invece a mio avviso va evitato è un aumento dell'Iva, che in Italia è già alta e altamente evasa. Tra l'altro, un punto percentuale in più potrebbe essere facilmente eroso da ulteriore evasione, nonché fornire un alibi per aumenti ingiustificati dei prezzi. Circoscrivere l'aumento dell'Iva ai beni di lusso è piuttosto demagogico. Da una parte è vero che Briatore non rinuncerebbe a farsi un nuovo yacht per un punto in più di Iva, ma certi beni sono alla portata di molti e c'è da chiedersi: la costruzione di beni di lusso, come barche, a quante persone, e per quanti mesi, dà lavoro?
Ogni ipotesi di aumento dei contributi per i lavoratori parasubordinati, ovvero collaboratori a progetto e partite Iva, già oggi al 26%, rappresenterebbe una vera e propria rapina ai danni dei precari, che hanno poche chance di vedersi restituire i contributi che versano oggi in forma di una pensione decente domani. L'aliquota fu elevata al 26% dal governo Prodi, che prese dalle tasche dei precari (dovrebbero ricordarselo bene, era ministro anche il signor Bersani!) i soldi per abolire lo scalone Maroni, allo scopo di continuare a mandare in pensione i cinquantenni. Allora sostenevano che l'aumento dell'aliquota avrebbe scoraggiato il ricorso al lavoro precario da parte delle imprese a favore di quello a tempo indeterminato. La realtà fu ben diversa: l'aumento contributivo fu per lo più sottratto alle buste paga già leggerissime dei precari, gli stessi precari di cui oggi - dopo averli massacrati - la sinistra si riempie la bocca. Un vero scandalo. Su questo sarebbe demenziale seguire l'esempio di Prodi e Padoa-Schioppa (e di Bersani).
Vedremo presto dove Tremonti ha intenzione di incidere con il suo bisturi il corpo vivo della spesa pubblica, ma negli ultimi giorni sui quotidiani sono circolate varie ipotesi, che sarebbero allo studio del Tesoro e del governo. Alcune buone, altre meno buone, altre ancora davvero pessime.
Qui siamo dell'idea che sia per centrare l'obiettivo del pareggio di bilancio, sia per realizzare una riforma del fisco che includa una prima, percepibile limatura delle aliquote, occorra agire tagliando la spesa ed evitando, invece, nuove entrate. Qualsiasi nuova entrata, infatti, rischia di produrre effetti più recessivi dei tagli alla spesa. E soffocare ulteriormente una crescita già stentata potrebbe compromettere l'efficacia della manovra di rientro.
Sia l'aumento a 65 anni dell'età pensionabile delle donne anche nel settore privato (nel pubblico già è così), sia l'anticipo al 2013 per tutti, uomini e donne, dell'agganciamento automatico dell'età pensionabile alle speranze di vita, conferirebbero solidità e credibilità alla manovra. Auspicabili il disboscamento del sistema di deduzioni e detrazioni, in cui si nascondono inspiegabili privilegi, il prolungamento del blocco dei contratti e del turnover nel pubblico impiego, e ulteriori tagli ai ministeri, ai comuni e agli enti locali. Ricordando poi che le province, se non abolite, potrebbero essere dimezzate nel numero o quasi. Non si vogliono i cosiddetti tagli «lineari»? Allora ci pensino la Conferenza delle Regioni e l'Anci a fissare dei criteri per individuare gli enti più virtuosi cui risparmiare la dieta. Certo è che non ha tutti i torti la Lega quando pone la questione del patto di stabilità interno: a livello sistemico che i comuni con un bilancio in attivo non possano spendere i loro soldi, perché servono a ripianare i debiti altrui, è un incentivo perverso.
Escludendo i Bot, forse sulle rendite finanziarie si può ragionare, facendo attenzione però a mantenere un'aliquota competitiva con quella degli altri Paesi europei. Se per evidenti motivi va tutelato il finanziamento dei titoli di Stato, merita di esserlo anche quello del settore privato (che contribuisce al Pil) tramite il mercato azionario.
Ciò che invece a mio avviso va evitato è un aumento dell'Iva, che in Italia è già alta e altamente evasa. Tra l'altro, un punto percentuale in più potrebbe essere facilmente eroso da ulteriore evasione, nonché fornire un alibi per aumenti ingiustificati dei prezzi. Circoscrivere l'aumento dell'Iva ai beni di lusso è piuttosto demagogico. Da una parte è vero che Briatore non rinuncerebbe a farsi un nuovo yacht per un punto in più di Iva, ma certi beni sono alla portata di molti e c'è da chiedersi: la costruzione di beni di lusso, come barche, a quante persone, e per quanti mesi, dà lavoro?
Ogni ipotesi di aumento dei contributi per i lavoratori parasubordinati, ovvero collaboratori a progetto e partite Iva, già oggi al 26%, rappresenterebbe una vera e propria rapina ai danni dei precari, che hanno poche chance di vedersi restituire i contributi che versano oggi in forma di una pensione decente domani. L'aliquota fu elevata al 26% dal governo Prodi, che prese dalle tasche dei precari (dovrebbero ricordarselo bene, era ministro anche il signor Bersani!) i soldi per abolire lo scalone Maroni, allo scopo di continuare a mandare in pensione i cinquantenni. Allora sostenevano che l'aumento dell'aliquota avrebbe scoraggiato il ricorso al lavoro precario da parte delle imprese a favore di quello a tempo indeterminato. La realtà fu ben diversa: l'aumento contributivo fu per lo più sottratto alle buste paga già leggerissime dei precari, gli stessi precari di cui oggi - dopo averli massacrati - la sinistra si riempie la bocca. Un vero scandalo. Su questo sarebbe demenziale seguire l'esempio di Prodi e Padoa-Schioppa (e di Bersani).
Adesso basta ammuine
E un'idea: Napolitano commissario straordinario
Certo che Napoli sommersa dai rifiuti (anche se oggi in strada ce ne sarebbero "solo" circa l'1% di quelli che c'erano nel 2008) è una questione nazionale, che colpisce duramente l'immagine del nostro Paese e che quindi il governo di Roma non può ignorare. Ma un conto è affrontare l'emergenza, tutt'altro risolvere il problema strutturalmente. Il che - lo sanno anche i sassi - spetta agli enti locali: Comune, innanzitutto, poi Regione e Provincia. Mentre il presidente Napolitano richiama il governo alle sue responsabilità, si scorda delle responsabilità di Napoli e dei napolitani. Sì, perché l'intervento di Palazzo Chigi è doveroso, ma c'è un grosso, gigantesco "ma". Aiutare un sindaco che è stato eletto sulla promessa di non realizzare né discariche né termovalorizzatori vuol dire soccorrere qualcuno che deliberatamente sabota l'unica soluzione strutturale possibile. In poche parole, farsi prendere per i fondelli e ritrovarsi tra qualche mese con la stessa identica emergenza.
Il neo sindaco pensa di risolvere tutto con la raccolta differenziata - che, per carità, è ormai un obbligo civico - ma a Napoli non è questo il problema. Altri comuni hanno livelli bassissimi di differenziata, eppure non sono sommersi dai rifiuti. Il problema a Napoli è che non c'è un posto dove portare i rifiuti in attesa del trituramento. Gli Stir sono diventati depositi di rifiuti e non riescono a triturarli, quindi a smaltirli per passare ad altri, e così via, si accumulano in strada. Servono discariche, insomma. De Magistris è in carica da pochi giorni ma di fronte all'evidenza già parla di complotti («diversi ambienti vogliono che Napoli resti sotto la spazzatura») e critica il governo perché non ha ancora approvato il decreto per trasportare i rifiuti fuori dalla Campania ed accollarne lo smaltimento ad altre regioni. Ah, ecco dunque la soluzione "strutturale" cui pensa il sindaco. Spera che la misura di portare i rifiuti fuori dalla regione possa - molto all'italiana - diventare una misura da temporanea a permanente. Insomma, un altro caso di emergenzialismo all'italiana.
Invece di arrendersi alla necessità di nuove discariche, De Magistris inventa i «siti di trasferenza». Si oppone a nuove discariche a norma di legge, quindi su siti controllati e sicuri, però ammassa per 72 ore la monnezza in luoghi scelti a caso, e magari di nascosto dalla cittadinanza. Forse si è trattato solo di propaganda e alla fine il neo sindaco farà le discariche, ma se è così, è ora che getti la maschera e dica la verità ai suoi cittadini.
Il governo deve intervenire, ma questa "operazione verità" da parte di De Magistris deve pretenderla. E in attesa di scoprire le sue intenzioni, abbia il coraggio di minacciare il commissariamento del Comune di Napoli se il sindaco si rifiuta di realizzare nuove discariche e termovalorizzatori. E avrei anche un'idea. Visto che pontifica un po' su tutto, il commissario straordinario potrebbe essere il presidente della Repubblica Napolitano.
Certo che Napoli sommersa dai rifiuti (anche se oggi in strada ce ne sarebbero "solo" circa l'1% di quelli che c'erano nel 2008) è una questione nazionale, che colpisce duramente l'immagine del nostro Paese e che quindi il governo di Roma non può ignorare. Ma un conto è affrontare l'emergenza, tutt'altro risolvere il problema strutturalmente. Il che - lo sanno anche i sassi - spetta agli enti locali: Comune, innanzitutto, poi Regione e Provincia. Mentre il presidente Napolitano richiama il governo alle sue responsabilità, si scorda delle responsabilità di Napoli e dei napolitani. Sì, perché l'intervento di Palazzo Chigi è doveroso, ma c'è un grosso, gigantesco "ma". Aiutare un sindaco che è stato eletto sulla promessa di non realizzare né discariche né termovalorizzatori vuol dire soccorrere qualcuno che deliberatamente sabota l'unica soluzione strutturale possibile. In poche parole, farsi prendere per i fondelli e ritrovarsi tra qualche mese con la stessa identica emergenza.
Il neo sindaco pensa di risolvere tutto con la raccolta differenziata - che, per carità, è ormai un obbligo civico - ma a Napoli non è questo il problema. Altri comuni hanno livelli bassissimi di differenziata, eppure non sono sommersi dai rifiuti. Il problema a Napoli è che non c'è un posto dove portare i rifiuti in attesa del trituramento. Gli Stir sono diventati depositi di rifiuti e non riescono a triturarli, quindi a smaltirli per passare ad altri, e così via, si accumulano in strada. Servono discariche, insomma. De Magistris è in carica da pochi giorni ma di fronte all'evidenza già parla di complotti («diversi ambienti vogliono che Napoli resti sotto la spazzatura») e critica il governo perché non ha ancora approvato il decreto per trasportare i rifiuti fuori dalla Campania ed accollarne lo smaltimento ad altre regioni. Ah, ecco dunque la soluzione "strutturale" cui pensa il sindaco. Spera che la misura di portare i rifiuti fuori dalla regione possa - molto all'italiana - diventare una misura da temporanea a permanente. Insomma, un altro caso di emergenzialismo all'italiana.
Invece di arrendersi alla necessità di nuove discariche, De Magistris inventa i «siti di trasferenza». Si oppone a nuove discariche a norma di legge, quindi su siti controllati e sicuri, però ammassa per 72 ore la monnezza in luoghi scelti a caso, e magari di nascosto dalla cittadinanza. Forse si è trattato solo di propaganda e alla fine il neo sindaco farà le discariche, ma se è così, è ora che getti la maschera e dica la verità ai suoi cittadini.
Il governo deve intervenire, ma questa "operazione verità" da parte di De Magistris deve pretenderla. E in attesa di scoprire le sue intenzioni, abbia il coraggio di minacciare il commissariamento del Comune di Napoli se il sindaco si rifiuta di realizzare nuove discariche e termovalorizzatori. E avrei anche un'idea. Visto che pontifica un po' su tutto, il commissario straordinario potrebbe essere il presidente della Repubblica Napolitano.
Thursday, June 23, 2011
Puro e semplice spionaggio
Non tanto l'assenza di una legge, ma soprattutto la totale mancanza di autogoverno - e governo - della magistratura è la causa prima di questo uso politico delle intercettazioni, che ha ormai oltrepassato i livelli di guardia. Si è materializzato, infatti, quello che in qualsiasi democrazia normale sarebbe percepito come uno dei peggiori incubi: governo, Parlamento, partiti vengono di fatto spiati e ne conseguono un condizionamento e una destabilizzazione costanti non di un "potere" sull'altro (quello giudiziario sul politico), che già sarebbe grave, ma di un singolo pm sulla vita delle istituzioni democratiche. Ormai i pm hanno perfezionato ed elevato a sistema l'escamotage usato per aggirare la legge che vieta di spiare deputati e senatori, alcuni dei quali sono anche ministri: basta individuare un personaggio con una rete di contatti di primo piano; ipotizzare nei suoi confronti un reato minore, abbastanza sfumato da poter essere sostenuto sulla base di prove puramente indiziarie; mettere sotto controllo tutte le sue utenze. Intercettazioni "a strascico", insomma, e il gioco è fatto. E se nella rete finisce un parlamentare, per il quale sarebbe necessaria l'autorizzazione della Camera di appartenenza, ops... basta fingere di non essersene accorti e continuare ad ascoltare. Le conversazioni magari non potranno essere utilizzate, ma quel che conta è che escano sui giornali. E nel caso limite in cui scatti una denuncia al Csm, la copertura da parte dei colleghi è scontata.
Bisignani è un pretesto, l'obiettivo vero è spiare, sputtanare, destabilizzare il governo. Se persino un Di Pietro ammette che stando alle carte «non sarà certo facile arrivare ad individuare dei reati, dei capi d'imputazione», per i quali anzi non vede i «presupposti», come può essere tollerabile che conversazioni penalmente irrilevanti, che per di più coinvolgono ministri e parlamentari, finiscano agli atti, e poi sui giornali, invece di essere immediatamente distrutte? Nella riservatezza di un colloquio privato abbondano battute, sfoghi, recriminazioni, giudizi tagliati con la roncola, invidie, che in politica (così come in qualsiasi "comunità", da una classe scolastica al posto di lavoro) sono all'ordine del giorno. Immaginate cosa succederebbe nel vostro ambiente se pettegolezzi e chiacchiere in libertà venissero improvvisamente estrapolate e rese pubbliche: anche il gruppo più affiatato apparirebbe in piena guerra civile.
Che autorevoli esponenti del Pdl non condividessero affatto la linea di scontro frontale di Berlusconi con Gianfranco Fini era noto, così come si possono immaginare i commenti in libertà degli stessi esponenti del Pdl sulla condotta privata del premier nei mesi del caso Ruby. Come al solito nulla di penalmente rilevante, ma l'effetto è quello di avvelenare il clima all'interno di un governo, e del partito di maggioranza. E questo è un potere pericoloso in mano ad un pm. Che un governo e un partito siano destabilizzati da ipotesi di casi di malversazione ci può stare, ma sulla base di chiacchiere politiche e millanterie da bar no, è un prezzo che il Paese non può pagare per soddisfare la sete di visibilità e magari l'ambizione politica di qualche magistrato.
Questi pm devono essere fermati. E se non lo fa il Csm, ci deve pensare la politica. Oggi tocca al governo Berlusconi e al Pdl, ma un domani potrebbe toccare ad un partito e a un governo di qualsiasi colore. Perché? Perché ormai più che "politica" - abbattere giudiziariamente l'avversario o bloccare ogni progetto di riforma della giustizia - la molla sembra una sfrenata ambizione personale. La fulminea carriera politica di molti ex pm, d'altra parte, rappresenta un potente incentivo a piegare a proprio personale vantaggio l'esercizio dell'azione penale. De Magistris e Woodcock sono dei fulgidi esempi. E il Csm, che mai è intervenuto per porre un argine alla disinvoltura con cui alcuni pm sono passati alla politica (di recente è entrato nella squadra di De Magistris a Napoli un procuratore che fino al giorno prima aveva indagato sugli avversari politici del nuovo sindaco), ne porta per intero la responsabilità.
Ecco perché più che una nuova legge sulle intercettazioni - che comunque serve, soprattutto per ridurne la mole e vietarne la pubblicazione - occorre una riforma complessiva della giustizia: che separi nettamente le carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti; che ponga i magistrati di fronte alle loro responsabilità in sede sia civile che penale; che consenta al Csm di tornare ad asssolvere la funzione per cui è stato concepito e istituito: non una sorta di "Consiglio dei guardiani" sul legislatore in materia di giustizia, né un sindacato delle toghe, ma un organo di autogoverno e una sede disciplinare.
Bisignani è un pretesto, l'obiettivo vero è spiare, sputtanare, destabilizzare il governo. Se persino un Di Pietro ammette che stando alle carte «non sarà certo facile arrivare ad individuare dei reati, dei capi d'imputazione», per i quali anzi non vede i «presupposti», come può essere tollerabile che conversazioni penalmente irrilevanti, che per di più coinvolgono ministri e parlamentari, finiscano agli atti, e poi sui giornali, invece di essere immediatamente distrutte? Nella riservatezza di un colloquio privato abbondano battute, sfoghi, recriminazioni, giudizi tagliati con la roncola, invidie, che in politica (così come in qualsiasi "comunità", da una classe scolastica al posto di lavoro) sono all'ordine del giorno. Immaginate cosa succederebbe nel vostro ambiente se pettegolezzi e chiacchiere in libertà venissero improvvisamente estrapolate e rese pubbliche: anche il gruppo più affiatato apparirebbe in piena guerra civile.
Che autorevoli esponenti del Pdl non condividessero affatto la linea di scontro frontale di Berlusconi con Gianfranco Fini era noto, così come si possono immaginare i commenti in libertà degli stessi esponenti del Pdl sulla condotta privata del premier nei mesi del caso Ruby. Come al solito nulla di penalmente rilevante, ma l'effetto è quello di avvelenare il clima all'interno di un governo, e del partito di maggioranza. E questo è un potere pericoloso in mano ad un pm. Che un governo e un partito siano destabilizzati da ipotesi di casi di malversazione ci può stare, ma sulla base di chiacchiere politiche e millanterie da bar no, è un prezzo che il Paese non può pagare per soddisfare la sete di visibilità e magari l'ambizione politica di qualche magistrato.
Questi pm devono essere fermati. E se non lo fa il Csm, ci deve pensare la politica. Oggi tocca al governo Berlusconi e al Pdl, ma un domani potrebbe toccare ad un partito e a un governo di qualsiasi colore. Perché? Perché ormai più che "politica" - abbattere giudiziariamente l'avversario o bloccare ogni progetto di riforma della giustizia - la molla sembra una sfrenata ambizione personale. La fulminea carriera politica di molti ex pm, d'altra parte, rappresenta un potente incentivo a piegare a proprio personale vantaggio l'esercizio dell'azione penale. De Magistris e Woodcock sono dei fulgidi esempi. E il Csm, che mai è intervenuto per porre un argine alla disinvoltura con cui alcuni pm sono passati alla politica (di recente è entrato nella squadra di De Magistris a Napoli un procuratore che fino al giorno prima aveva indagato sugli avversari politici del nuovo sindaco), ne porta per intero la responsabilità.
Ecco perché più che una nuova legge sulle intercettazioni - che comunque serve, soprattutto per ridurne la mole e vietarne la pubblicazione - occorre una riforma complessiva della giustizia: che separi nettamente le carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti; che ponga i magistrati di fronte alle loro responsabilità in sede sia civile che penale; che consenta al Csm di tornare ad asssolvere la funzione per cui è stato concepito e istituito: non una sorta di "Consiglio dei guardiani" sul legislatore in materia di giustizia, né un sindacato delle toghe, ma un organo di autogoverno e una sede disciplinare.
Wednesday, June 22, 2011
Doppia monnezza
Oltre al dramma, c'è la metafora. Monnezza nelle vie di Napoli. Monnezza che dalla procura di Napoli finisce sui giornali: 19.000 pagine di intercettazioni ambientali e telefoniche. Un'operazione di puro e semplice spionaggio. Avvalendosi però dei poteri pubblici e del denaro dei contribuenti. Intrattenere una vasta rete di relazioni con persone che contano sembra diventato di per sé un reato. E dev'essere l'unica cosa certa che emerge dalle indagini di Woodcock e Curcio su Bisignani, se almeno da tre giorni nei titoloni dei quotidiani non si fa riferimento ad alcun reato, ma solo, appunto, a fumose "P4", "reti", "mediazioni", "ragnatele", "governi-ombra". Persino un impressionante "Bisignani conosceva tutti", sparato così, in prima pagina, come se fosse la confessione di un assassino.
Il giochino ormai è talmente scoperto che solo chi è in malafede può fingere di non vederlo: si prende un personaggio con una rete di contatti di primo piano nella politica; si ipotizza nei suoi confronti un reato minore, abbastanza sfumato da poter essere sostenuto sulla base di prove puramente indiziarie; si mettono sotto controllo le sue utenze telefoniche, i pc, gli uffici, i suoi spostamenti. Prima o poi, gettando in questo modo, a strascico, la rete delle intercettazioni, è inevitabile che qualche pesce grosso rimanga impigliato. E se pure non fa nulla di male, se non è indagato, non importa. Basta che compaia il suo nome perché i giornali imbastiscano il romanzo. E come si supera il vincolo del segreto istruttorio per far finire le intercettazioni sui giornali? Presto detto: o si passano direttamente le carte ai giornalisti amici, oppure, "legalmente", basta allegare nell'ordinanza di custodia cautelare o nella richiesta al Parlamento tutte le intercettazioni che si vogliono, quelle più sfiziose, anche se palesemente non hanno nulla a che fare con i reati ipotizzati, ma che solleticano la fame di scandali dei media e del pubblico. E il gioco è fatto, via con la giostra. Male che vada al magistrato, popolarità e carriera politica assicurate. Consumati gli effetti politici e mediatici, dopo qualche mese, nessuno farà più caso agli inevitabili proscioglimenti.
A meno che non si contesti un episodio di corruzione - reato che però il gip non ha incluso tra quelli che a suo avviso giustificano le richieste di arresto -, fare e ricevere favori, tessere relazioni, scambiarsi confidenze, informazioni e pareri, raccomandare, offrire consigli, persino esercitare un'influenza politica, può essere di per sé un reato? Certo, ci sono le ipotesi di favoreggiamento e di violazione del segreto di indagine. Bisignani e Papa avrebbero riferito al sottosegretario Letta notizie riservate riguardanti inchieste che avrebbero visto in qualche modo coinvolti lui e altri membri dell'Esecutivo. Ora, a parte il fatto che stiamo parlando del segreto di Pulcinella, dato che tali inchieste finivano corredate di tutti i dettagli sulle pagine di tutti i giornali, e l'impressione è che Letta e Berlusconi, se informati, fossero gli ultimi o quasi a sapere, è per queste due ipotesi di reato che il gip ha autorizzato l'arresto del primo e la richiesta nei confronti del secondo. E' comprensibile che si scriva anche degli altri indagati, e delle altre più gravi ipotesi di reato, che per ora non hanno convinto il gip. Ma tutto il resto, le altre chiacchiere e le mezze frasi, non si comprende a che titolo - se non per sputtanare - finiscano sui giornali. Osserva giustamente Fabrizio Rondolino, oggi su il Giornale:
Il giochino ormai è talmente scoperto che solo chi è in malafede può fingere di non vederlo: si prende un personaggio con una rete di contatti di primo piano nella politica; si ipotizza nei suoi confronti un reato minore, abbastanza sfumato da poter essere sostenuto sulla base di prove puramente indiziarie; si mettono sotto controllo le sue utenze telefoniche, i pc, gli uffici, i suoi spostamenti. Prima o poi, gettando in questo modo, a strascico, la rete delle intercettazioni, è inevitabile che qualche pesce grosso rimanga impigliato. E se pure non fa nulla di male, se non è indagato, non importa. Basta che compaia il suo nome perché i giornali imbastiscano il romanzo. E come si supera il vincolo del segreto istruttorio per far finire le intercettazioni sui giornali? Presto detto: o si passano direttamente le carte ai giornalisti amici, oppure, "legalmente", basta allegare nell'ordinanza di custodia cautelare o nella richiesta al Parlamento tutte le intercettazioni che si vogliono, quelle più sfiziose, anche se palesemente non hanno nulla a che fare con i reati ipotizzati, ma che solleticano la fame di scandali dei media e del pubblico. E il gioco è fatto, via con la giostra. Male che vada al magistrato, popolarità e carriera politica assicurate. Consumati gli effetti politici e mediatici, dopo qualche mese, nessuno farà più caso agli inevitabili proscioglimenti.
A meno che non si contesti un episodio di corruzione - reato che però il gip non ha incluso tra quelli che a suo avviso giustificano le richieste di arresto -, fare e ricevere favori, tessere relazioni, scambiarsi confidenze, informazioni e pareri, raccomandare, offrire consigli, persino esercitare un'influenza politica, può essere di per sé un reato? Certo, ci sono le ipotesi di favoreggiamento e di violazione del segreto di indagine. Bisignani e Papa avrebbero riferito al sottosegretario Letta notizie riservate riguardanti inchieste che avrebbero visto in qualche modo coinvolti lui e altri membri dell'Esecutivo. Ora, a parte il fatto che stiamo parlando del segreto di Pulcinella, dato che tali inchieste finivano corredate di tutti i dettagli sulle pagine di tutti i giornali, e l'impressione è che Letta e Berlusconi, se informati, fossero gli ultimi o quasi a sapere, è per queste due ipotesi di reato che il gip ha autorizzato l'arresto del primo e la richiesta nei confronti del secondo. E' comprensibile che si scriva anche degli altri indagati, e delle altre più gravi ipotesi di reato, che per ora non hanno convinto il gip. Ma tutto il resto, le altre chiacchiere e le mezze frasi, non si comprende a che titolo - se non per sputtanare - finiscano sui giornali. Osserva giustamente Fabrizio Rondolino, oggi su il Giornale:
«La seconda generazione giustizialista si differenzia dalla prima per un dettaglio essenziale: le prove, ancorché indiziarie o contraddittorie, non contano un fico secco; conta lo scenario, il contesto, il "teorema", che tanto più eccita la fantasia dei lettori quanto maggiore è il coinvolgimento di personaggi più o meno famosi (non importa che siano indagati: basta che il loro nome interessi ai giornali). De Magistris e Woodcock hanno costruito così la propria immagine di giustizieri inflessibili: da "Why Not" alle "Toghe lucane", da Vallettopoli al "Savoiagate", non c'è inchiesta di questi coraggiosi magistrati che non si caratterizzi per l'enormità dell'intrigo denunciato, per lo sfarfallio mediatico dei suoi protagonisti, e per la mancanza assoluta di prove. Il passaggio alla politica nella sua forma degradata di populismo plebeo è naturalmente coessenziale a questo modo di intendere la giustizia: che non è la fatica e lo scrupolo dell'indagine, né l'imparzialità del giudizio, ma lo strumento irresponsabile per la costruzione della propria immagine di guerriero senza macchia e senza paura. In questo contesto distorto, gli insuccessi dimostrano che i nemici sono ancora forti, non che l'inchiesta non vale nulla. E del resto l'obiettivo non è mai giungere alla condanna, perché le prove non vengono neppure raccolte, ma distruggere la reputazione e la vita privata di coloro che, ricoperti di fango, suscitano gli applausi dei futuri elettori».
Tuesday, June 21, 2011
Il nodo Tremonti al pettine
La polemica sull'ipotesi di trasferimento di alcuni ministeri al nord riattizzata a Pontida da Bossi e a Roma da Alemanno e Polverini, ad uso personale, e quella sul ritiro dalla missione libica rischiano di distrarre di nuovo l'attenzione da uno dei temi che più interessa all'elettorato di centrodestra, che alle amministrative ha lanciato un forte segnale di insoddisfazione, e che quindi alla maggioranza converrebbe mantenere al centro dell'agenda di governo nei prossimi dodici mesi: la questione fiscale. Che era ritornata in primo piano da alcuni giorni ed era stata al centro del discorso di Bossi a Pontida. Ministeri e ritiro dalla Libia specchietti per le allodole, insomma, mentre il dato politico più rilevante del raduno annuale leghista sono state le frecciatine al ministro Tremonti, che deve «ingegnarsi» a trovare i soldi per la riforma fiscale e a porre fine alle misure "vessatorie" di Equitalia («una cosa vergognosa che neanche la sinistra aveva fatto», ha ammonito Bossi). Sembrano lontani i tempi del "Tremonti non si tocca", si sono aggiunti alcuni "se" e alcuni "ma". Sarà compito del premier, nell'intervento alle Camere di oggi e domani, correggere il tiro, ricentrare l'agenda della maggioranza sulle riforme che interessano ai cittadini, e magari - in privato - richiamare all'ordine ministri, sindaci e governatori smaniosi di visibilità personale.
Della telenovela sui ministeri ho scritto ieri. Riguardo la Libia, è vero che è una guerra nata male, proseguita peggio: i ritardi e i tentennamenti della Casa Bianca; il protagonismo elettoralistico di Sarkozy; il solito atteggiamento ondivago italiano. E l'ipocrisia umanitaria ha fatto il resto: da una parte rendendo inefficace l'azione militare, al punto che ad alcuni mesi dall'inizio dei bombardamenti non si riesce ancora ad avere ragione di un indomito Gheddafi; dall'altro, dando vita al paradosso di una delle guerre più unilaterali e meno autorizzate dall'Onu che si siano mai viste negli anni recenti, che sta proseguendo bomba dopo bomba, non senza vittime civili, questa volta lontano dagli sguardi delle telecamere e dalle penne degli accigliati editorialisti occidentali. Alla faccia di quanti ci spiegavano che ormai bisogna fare i conti con la guerra-in-diretta-tv, e quindi con le opinioni pubbliche interne. E' falso: è triste, ma i media e le opinioni pubbliche si "attivano" o meno se c'è un obiettivo di politica interna su cui riversare il biasimo per la guerra. E così l'Iraq era su tutti gli schermi per processare Bush e Blair; mentre la Libia, il Pakistan, lo Yemen, a nessuno interessano. A condurre, o ad aver avviato quelle guerre (senza nemmeno l'autorizzazione del suo Congresso) è il Nobel per la Pace Obama. Tutti contenti e sollevati.
La risoluzione Onu che autorizza l'uso della forza contro Gheddafi è molto meno ambigua rispetto a quella che autorizzava l'intervento militare contro Saddam Hussein. Quest'ultima minacciava «serie conseguenze», ma il regime iracheno da anni stava violando le condizioni dell'armistizio che pose fine alla prima guerra del Golfo. Dunque, violato l'armistizio, era legittimo riprendere esattamente da dove si era interrotto il lavoro oltre dieci anni prima: da Baghdad. La risoluzione sulla Libia invece limita esplicitamente l'intervento alla protezione dei civili, ma l'obiettivo manifesto della missione, esattamente come per l'Iraq, è il regime change, e la Nato in questi giorni ha dovuto ammettere di aver colpito dei civili. Eppure, i media hanno chiuso un occhio, anzi anche entrambi. Probabilmente perché non c'è un Bush o un Blair da biasimare, si preferisce fingere di credere all'alibi della guerra umanitaria.
Detto tutto questo, sarebbe semplicemente ridicolo ritirarci, come vorrebbe Maroni, perché non possiamo permetterci qualche migliaio di profughi, il cui flusso sulle nostre coste comunque non cesserebbe fermando gli aerei Nato, semmai aumenterebbe a causa della repressione di Gheddafi. E' di interesse vitale per l'Italia essere in prima fila in Libia, per influenzare a nostro favore il corso degli eventi in un Paese che bene o male è nel nostro "cortile di casa". Tra l'altro, la richiesta leghista di ridurre i nostri contingenti militari all'estero per tagliare le spese può essere soddisfatta su altre missioni: quella del Kosovo sta finalmente per concludersi per scadenza naturale; il ritiro dall'Afghanistan, da parte degli stessi americani, subirà probabilmente un'accelerazione; dal Libano si può andar via anche subito. Sarebbe un errore, tuttavia, ritirarci unilateralmente: avremmo dilapidato in un solo istante il capitale di credibilità internazionale costato tanti sacrifici ai nostri militari.
La questione fiscale al centro dell'azione di governo è dunque nell'interesse sia del Pdl che della Lega. Ed è emblematico che da Confindustria a Montezemolo, passando per Della Valle, quanti ieri criticavano la politica economica del governo - di cui Tremonti è riconosciuto "dominus" - perché carente sul lato della crescita, e in particolare del fisco, oggi che Berlusconi e Bossi sono in pressing sul ministro dell'Economia si ergono a strenui difensori del rigore tremontiano. Dal momento che appare ormai evidente a tutti o quasi che una riforma fiscale *non* in deficit, che punti primariamente ad una concreta semplificazione e sburocratizzazione, con un programma graduale ma certo di riduzione delle aliquote, si può fare, la questione è del tutto politica. Le chiavi della cassaforte infatti le ha Tremonti e bisognerà vedere se nel ministro alberga la volontà di fare questo "regalo" a Berlusconi e a Bossi, in modo che possano intestarsi parte dei meriti della riforma, così da poter andare di fronte ai propri elettori rivendicando "abbiamo abbassato le tasse", oppure se intende tenersela nel cassetto finché i due anziani leader non saranno bolliti a puntino.
Da questo ormai dipende non solo la legislatura, ma il futuro del centrodestra. Se infatti nel 2013 il centrodestra potrà presentarsi ai propri elettori dicendo "abbiamo tenuto i conti in ordine durante la crisi e siamo riusciti anche a riformare il fisco, iniziando a ridurre le imposte", allora avrà ancora qualche chance di rivincere le elezioni, con Berlusconi o qualcun altro candidato premier. Altrimenti il crollo, chiunque sia il leader, non sarebbe solo elettorale, ma anche culturale. Senza atti di governo concreti e politicamente qualificanti in cui identificarsi, il centrodestra rischierebbe di disintegrarsi come coalizione, nel Palazzo, così come nel Paese.
Della telenovela sui ministeri ho scritto ieri. Riguardo la Libia, è vero che è una guerra nata male, proseguita peggio: i ritardi e i tentennamenti della Casa Bianca; il protagonismo elettoralistico di Sarkozy; il solito atteggiamento ondivago italiano. E l'ipocrisia umanitaria ha fatto il resto: da una parte rendendo inefficace l'azione militare, al punto che ad alcuni mesi dall'inizio dei bombardamenti non si riesce ancora ad avere ragione di un indomito Gheddafi; dall'altro, dando vita al paradosso di una delle guerre più unilaterali e meno autorizzate dall'Onu che si siano mai viste negli anni recenti, che sta proseguendo bomba dopo bomba, non senza vittime civili, questa volta lontano dagli sguardi delle telecamere e dalle penne degli accigliati editorialisti occidentali. Alla faccia di quanti ci spiegavano che ormai bisogna fare i conti con la guerra-in-diretta-tv, e quindi con le opinioni pubbliche interne. E' falso: è triste, ma i media e le opinioni pubbliche si "attivano" o meno se c'è un obiettivo di politica interna su cui riversare il biasimo per la guerra. E così l'Iraq era su tutti gli schermi per processare Bush e Blair; mentre la Libia, il Pakistan, lo Yemen, a nessuno interessano. A condurre, o ad aver avviato quelle guerre (senza nemmeno l'autorizzazione del suo Congresso) è il Nobel per la Pace Obama. Tutti contenti e sollevati.
La risoluzione Onu che autorizza l'uso della forza contro Gheddafi è molto meno ambigua rispetto a quella che autorizzava l'intervento militare contro Saddam Hussein. Quest'ultima minacciava «serie conseguenze», ma il regime iracheno da anni stava violando le condizioni dell'armistizio che pose fine alla prima guerra del Golfo. Dunque, violato l'armistizio, era legittimo riprendere esattamente da dove si era interrotto il lavoro oltre dieci anni prima: da Baghdad. La risoluzione sulla Libia invece limita esplicitamente l'intervento alla protezione dei civili, ma l'obiettivo manifesto della missione, esattamente come per l'Iraq, è il regime change, e la Nato in questi giorni ha dovuto ammettere di aver colpito dei civili. Eppure, i media hanno chiuso un occhio, anzi anche entrambi. Probabilmente perché non c'è un Bush o un Blair da biasimare, si preferisce fingere di credere all'alibi della guerra umanitaria.
Detto tutto questo, sarebbe semplicemente ridicolo ritirarci, come vorrebbe Maroni, perché non possiamo permetterci qualche migliaio di profughi, il cui flusso sulle nostre coste comunque non cesserebbe fermando gli aerei Nato, semmai aumenterebbe a causa della repressione di Gheddafi. E' di interesse vitale per l'Italia essere in prima fila in Libia, per influenzare a nostro favore il corso degli eventi in un Paese che bene o male è nel nostro "cortile di casa". Tra l'altro, la richiesta leghista di ridurre i nostri contingenti militari all'estero per tagliare le spese può essere soddisfatta su altre missioni: quella del Kosovo sta finalmente per concludersi per scadenza naturale; il ritiro dall'Afghanistan, da parte degli stessi americani, subirà probabilmente un'accelerazione; dal Libano si può andar via anche subito. Sarebbe un errore, tuttavia, ritirarci unilateralmente: avremmo dilapidato in un solo istante il capitale di credibilità internazionale costato tanti sacrifici ai nostri militari.
La questione fiscale al centro dell'azione di governo è dunque nell'interesse sia del Pdl che della Lega. Ed è emblematico che da Confindustria a Montezemolo, passando per Della Valle, quanti ieri criticavano la politica economica del governo - di cui Tremonti è riconosciuto "dominus" - perché carente sul lato della crescita, e in particolare del fisco, oggi che Berlusconi e Bossi sono in pressing sul ministro dell'Economia si ergono a strenui difensori del rigore tremontiano. Dal momento che appare ormai evidente a tutti o quasi che una riforma fiscale *non* in deficit, che punti primariamente ad una concreta semplificazione e sburocratizzazione, con un programma graduale ma certo di riduzione delle aliquote, si può fare, la questione è del tutto politica. Le chiavi della cassaforte infatti le ha Tremonti e bisognerà vedere se nel ministro alberga la volontà di fare questo "regalo" a Berlusconi e a Bossi, in modo che possano intestarsi parte dei meriti della riforma, così da poter andare di fronte ai propri elettori rivendicando "abbiamo abbassato le tasse", oppure se intende tenersela nel cassetto finché i due anziani leader non saranno bolliti a puntino.
Da questo ormai dipende non solo la legislatura, ma il futuro del centrodestra. Se infatti nel 2013 il centrodestra potrà presentarsi ai propri elettori dicendo "abbiamo tenuto i conti in ordine durante la crisi e siamo riusciti anche a riformare il fisco, iniziando a ridurre le imposte", allora avrà ancora qualche chance di rivincere le elezioni, con Berlusconi o qualcun altro candidato premier. Altrimenti il crollo, chiunque sia il leader, non sarebbe solo elettorale, ma anche culturale. Senza atti di governo concreti e politicamente qualificanti in cui identificarsi, il centrodestra rischierebbe di disintegrarsi come coalizione, nel Palazzo, così come nel Paese.
Monday, June 20, 2011
Basta lucrare su Roma
Molti cittadini romani, lavorando nei ministeri (molti ci lavorano sul serio), immaginiamo siano contenti di vedere qualcuno ergersi a difesa dell'onore della "Capitale". Ebbene, devono sapere però che si tratta di pura demagogia sulla loro pelle. Si trattasse di un dibattito serio sulla suggestione della capitale "reticolare", come sembra credere Formigoni, magari si comincerebbe a parlare del trasferimento della Consob e dell'Antitrust a Milano. Invece, siamo alla pura demagogia. Questa telenovela dei ministeri è umiliante per il Nord, anche per gli elettori leghisti, cui scommetto che non può fregare di meno di avere qualche finto ministero; ma è umiliante anche per Roma, che vede Alemanno e Polverini lucrare visibilità su un'ipotesi che sanno bene essere irrealistica, approfittando del momento di caos nel Pdl e nella maggioranza. Si agitano, sgomitano, sia per farsi posto nel partito, sia per celare dietro la difesa della romanità le loro incapacità di governo della città e della Regione Lazio. E mentre si azzuffano sul nulla con i leghisti, nel frattempo in città si tollerano gli espropri comunisti.
Tra l'altro, nella lista delle richieste leghiste uscita da Pontida, una vera e propria agenda dei prossimi 180 giorni di governo, con scadenze precise, non c'è il trasferimento dei ministeri, che Bossi ha invece citato en passant nel suo discorso. Non si parla neanche di ritiro dalla missione libica, ma si chiede una generica «riduzione dei contingenti impegnati all'estero». Il che è possibile, e anzi auspicabile per quanto riguarda l'inutile, ipocrita e anche pericolosa missione in Libano. E' assurdo che proprio nel momento in cui le richieste leghiste si concentrano sulla riforma fiscale, sulla fine delle misure "vessatorie" di Equitalia («una cosa vergognosa che neanche la sinistra aveva fatto», ha ammonito Bossi) - e quindi per la prima volta il pressing su Tremonti è anche leghista - nel Pdl ci sia chi preferisce polemizzare e alzare la tensione sui ministeri al Nord, invece di incalzare la Lega sui tagli ai costi della politica e se non sull'abolizione, almeno su una drastica riduzione delle province.
Tra l'altro, nella lista delle richieste leghiste uscita da Pontida, una vera e propria agenda dei prossimi 180 giorni di governo, con scadenze precise, non c'è il trasferimento dei ministeri, che Bossi ha invece citato en passant nel suo discorso. Non si parla neanche di ritiro dalla missione libica, ma si chiede una generica «riduzione dei contingenti impegnati all'estero». Il che è possibile, e anzi auspicabile per quanto riguarda l'inutile, ipocrita e anche pericolosa missione in Libano. E' assurdo che proprio nel momento in cui le richieste leghiste si concentrano sulla riforma fiscale, sulla fine delle misure "vessatorie" di Equitalia («una cosa vergognosa che neanche la sinistra aveva fatto», ha ammonito Bossi) - e quindi per la prima volta il pressing su Tremonti è anche leghista - nel Pdl ci sia chi preferisce polemizzare e alzare la tensione sui ministeri al Nord, invece di incalzare la Lega sui tagli ai costi della politica e se non sull'abolizione, almeno su una drastica riduzione delle province.
Bene Daw, un passo avanti insieme
Caro Daw, mi fa piacere leggere la tua replica, nella quale oltre a rivendicare i meriti della tua iniziativa, che per altro io stesso nel mio post avevo riconosciuto a scanso di equivoci, spieghi che «dopo la rottamazione sarà necessariamente il turno di una fase "propositiva"». Chi strappa un po' di visibilità ha sempre ragione, e chi no torto. Se della vostra campagna «parlano in tanti, non solo giornali, radio o televisioni, ma anche politici», è senz'altro un vostro merito. Mi permettevo di suggerire un passo ulteriore, che abbia a che fare sempre con il ricambio della classe politica, altrimenti - esattamente come tu stesso riconosci - "bucare" i media rischierebbe di rivelarsi «esercizio sterile e inutile».
Sicuramente nella comunicazione abbiamo tutti da imparare da Daw, e il tema della legge elettorale - l'ho premesso io stesso tanto per non fare la figura dell'idiota - è «mediaticamente meno appagante». Solo una inesattezza però mi ha un po' infastidito del tuo post di replica: non penso affatto di risolvere i problemi del Paese con la legge elettorale. Ci mancherebbe. Si parlava di ricambio della classe politica e di primarie. A quello mi riferivo. E allora sì, se hai letto bene il mio post, questo particolare problema si risolve a mio modesto avviso con l'uninominale, di cui le primarie sono una logica conseguenza. Forse la nostra bravura potrebbe consistere nel far capire a chi ci legge quanto il ricambio della classe politica dipenda concretamente dalla legge elettorale. Volete "rottamare" i politici che vi sono venuti a noia? Ebbene, sappiate che l'uninominale vi dà un grilletto da premere. Anni fa, fu tanto chiaro questo concetto alla "pancia" della gente, che in due occasioni - nel '91 e nel '93 - i cittadini si recarono in massa a votare i referendum elettorali. Altri tempi, obietterai, ma come vedi non è impossibile che i cittadini identifichino in un sistema elettorale uno strumento utile per appagare la loro voglia di rinnovamento. Bisogna essere bravi a prospettarglierlo, e chi meglio di Daw, che nella comunicazione non ha rivali?
Se non si compie questo passo ulteriore, se restiamo alla «rottamazione», riusciamo sì a far parlare di noi per qualche giorno, ma rischiamo di restare al "morettismo". Ricordi Moretti sul palco di Piazza Navona davanti a Rutelli e Fassino attoniti? "Con questi qui non vinceremo mai!". Moretti aveva ragione, ma "quelli lì" ci sono ancora tutti. Vedi, il problema è che testata dopo testata, la cappa di silenzio si riesce talvolta a penetrare. Ma quello che "buca", per l'informazione chiamiamola "ufficiale", è la provocazione. Ecco: mi piacerebbe che la rete fosse presa in considerazione non solo per il folclore, per i rumors di "pancia" che fa arrivare alle antenne dei media, che percepiscono ciò che fa comodo in un certo momento, ma anche per le idee, le analisi, e i contributi costruttivi e non paludati che soprattutto la blogosfera di area liberale e conservatrice è in grado da anni di far circolare. E a fare questo mi pare che ancora nessun blogger ci sia riuscito, anche e soprattutto per la miopia dei mezzi di informazione tradizionali e della classe politica.
Tornando ai «problemi del Paese», è da quando è iniziato questo dibattito sulle primarie nel centrodestra che pur dichiarandomi assolutamente a favore, avverto però che non sono tutto. Se l'uninominale non è in cima alle priorità della gente, riconosciamo serenamente che agli elettori interessa poco anche chi sarà, e come verrà scelto, il coordinatore del Pdl in questa o quella regione. Non ne sapranno mai nemmeno il nome. La fiducia degli elettori che nel 2008 hanno votato centrodestra sta venendo meno per la deludente prova di governo. Se bisogna restare ai «problemi del Paese», allora il tema "meno Stato", in tutte le sue declinazioni, è quello decisivo. Ancor prima della «rottamazione».
Sicuramente nella comunicazione abbiamo tutti da imparare da Daw, e il tema della legge elettorale - l'ho premesso io stesso tanto per non fare la figura dell'idiota - è «mediaticamente meno appagante». Solo una inesattezza però mi ha un po' infastidito del tuo post di replica: non penso affatto di risolvere i problemi del Paese con la legge elettorale. Ci mancherebbe. Si parlava di ricambio della classe politica e di primarie. A quello mi riferivo. E allora sì, se hai letto bene il mio post, questo particolare problema si risolve a mio modesto avviso con l'uninominale, di cui le primarie sono una logica conseguenza. Forse la nostra bravura potrebbe consistere nel far capire a chi ci legge quanto il ricambio della classe politica dipenda concretamente dalla legge elettorale. Volete "rottamare" i politici che vi sono venuti a noia? Ebbene, sappiate che l'uninominale vi dà un grilletto da premere. Anni fa, fu tanto chiaro questo concetto alla "pancia" della gente, che in due occasioni - nel '91 e nel '93 - i cittadini si recarono in massa a votare i referendum elettorali. Altri tempi, obietterai, ma come vedi non è impossibile che i cittadini identifichino in un sistema elettorale uno strumento utile per appagare la loro voglia di rinnovamento. Bisogna essere bravi a prospettarglierlo, e chi meglio di Daw, che nella comunicazione non ha rivali?
Se non si compie questo passo ulteriore, se restiamo alla «rottamazione», riusciamo sì a far parlare di noi per qualche giorno, ma rischiamo di restare al "morettismo". Ricordi Moretti sul palco di Piazza Navona davanti a Rutelli e Fassino attoniti? "Con questi qui non vinceremo mai!". Moretti aveva ragione, ma "quelli lì" ci sono ancora tutti. Vedi, il problema è che testata dopo testata, la cappa di silenzio si riesce talvolta a penetrare. Ma quello che "buca", per l'informazione chiamiamola "ufficiale", è la provocazione. Ecco: mi piacerebbe che la rete fosse presa in considerazione non solo per il folclore, per i rumors di "pancia" che fa arrivare alle antenne dei media, che percepiscono ciò che fa comodo in un certo momento, ma anche per le idee, le analisi, e i contributi costruttivi e non paludati che soprattutto la blogosfera di area liberale e conservatrice è in grado da anni di far circolare. E a fare questo mi pare che ancora nessun blogger ci sia riuscito, anche e soprattutto per la miopia dei mezzi di informazione tradizionali e della classe politica.
Tornando ai «problemi del Paese», è da quando è iniziato questo dibattito sulle primarie nel centrodestra che pur dichiarandomi assolutamente a favore, avverto però che non sono tutto. Se l'uninominale non è in cima alle priorità della gente, riconosciamo serenamente che agli elettori interessa poco anche chi sarà, e come verrà scelto, il coordinatore del Pdl in questa o quella regione. Non ne sapranno mai nemmeno il nome. La fiducia degli elettori che nel 2008 hanno votato centrodestra sta venendo meno per la deludente prova di governo. Se bisogna restare ai «problemi del Paese», allora il tema "meno Stato", in tutte le sue declinazioni, è quello decisivo. Ancor prima della «rottamazione».
Friday, June 17, 2011
Caro Daw, occhio alla demagogia
Innanzitutto, sul partito abbiamo ragione noi (e con "noi" intendo non solo Daw, Right Nation, Sechi, ma mi ci metto anch'io) a chiedere che le cariche interne siano elettive e che le candidature alle cariche esterne vengano decise tramite le primarie, mentre l'onorevole Stracquadanio ha torto marcio. Nel rispondere a Sechi, su La7, è rimasto con una patata in bocca e la sua lunga risposta autobiografica non rileva affatto, non c'entra nulla con ciò di cui stiamo discutendo. E ci frega anche pochino di come ha fatto "carriera".
Occorre però stare molto attenti alla demagogia e su un paio di cose buttate lì con troppa faciloneria dall'onorevole del Pdl bisogna ragionare. Innanzitutto, demagogica mi sembra questa campagna "ad personam" sulla «rottamazione» degli esponenti di centrodestra, come se qualche decina o centinaia di lettori, pur con tutte le ragioni per essere "arrabbiati", siano legittimati a decretare chi è il bollito e chi no in una rosa di candidati selezionati piuttosto arbitrariamente per il giochino. Bella trovata mediatica, non c'è dubbio, e probabilmente troverà spazio nei migliori giornali e sui migliori siti. Se l'intenzione era "bucare", l'obiettivo è stato centrato.
Ma provo a suggerire qualcosa di più costruttivo e "ragionato". Invece di agitare il forcone internettiano, perché non rilanciare il tema dell'uninominale? Sarà mediaticamente meno appagante, ma bisogna riconoscere che l'uninominale (e tra l'altro è in quel sistema che le primarie nascono e si affermano) è l'unico vero strumento in grado di "rottamare" davvero - non nei convegni (alla Renzi & Civati), o sui nostri blog - la classe politica. E tra l'altro solo con l'uninominale avrebbero senso le primarie per scegliere i candidati al Parlamento nazionale. L'avversione bipartisan per l'uninominale non si spiega solo con la pretesa dei partiti di "acchittarsi" il sistema di voto più congeniale ai propri disegni politici, ma con rare eccezioni è profondamente radicata nella stragrande maggioranza dei parlamentari e dei dirigenti politici di ogni schieramento. Vi siete mai chiesti perché? Perché mette in gioco la loro personalissima sopravvivenza politica. Perché con l'uninominale secco, ad un turno, o sei dentro o sei fuori. Non ci sono vie di mezzo. E per quanto possano esserci collegi "blindati", anche i leader in disarmo o i "colonnelli" rampanti possono incappare in una sconfitta. Solo che non avrebbero ripescaggi né paracadute di sorta. Se poi, assieme all'uninominale e alle primarie, avessimo partiti leggeri, "all'americana", allora sarebbero costretti a cercarsi un lavoro vero.
Secondo, internet. Come pretendiamo che i politici reagiscano senza «sindromi da lesa maestà» alle nostre critiche, ebbene anche noi dobbiamo saper ragionare su noi stessi e la rete. Se quello di Stracquadanio sembrava un anatema nei confronti di internet perché ormai "in mano alla sinistra", e se in tutti questi anni il centrodestra, così come la stampa d'area (va detto!), ha colpevolmente snobbato cosa avevano e hanno da dire migliaia di blog che come noi hanno cercato di far circolare le idee liberali e conservatrici, tuttavia anch'io ho la sensazione che sul web, sui social network e i siti più visitati, la sinistra sia «quantitativamente soverchiante sul centrodestra». Non so se sia dovuto al fatto che i militanti della sinistra sono «fannulloni», ma riconoscerlo non significa in alcun modo sminuire ciò che molti blog e siti come i nostri fanno ogni giorno da anni. A me pare, ma la mia è un'opinione parziale, che oltre ad essere una supremazia solo quantitativa e per nulla qualitativa, sia anche una maggior capacità di penetrazione e che ciò dipenda da una maggiore faziosità e da un uso più "virale" della rete. Ciò che passa, ciò che si diffonde in rete come un tam tam è la battuta demagogica, ciò che "buca" e diventa evento mediatico in grado di rimbalzare sui media tradizionali, non sono le "idee", i dibattiti, le grandi questioni, ma lo sputo telematico in faccia all'avversario.
Infine, ricordiamoci che le primarie servono come il pane ma non sono, e non saranno tutto. Riconosciamo serenamente che agli elettori interessa poco chi sarà, e come verrà scelto, il coordinatore del Pdl in questa o quella regione. Non ne sapranno mai nemmeno il nome. La fiducia degli elettori che nel 2008 hanno votato centrodestra sta venendo meno per la deludente prova di governo. Punto. Se domattina avessimo le primarie, avremmo una garanzia in più che la classe dirigente del futuro sia migliore di questa, ma guardando al 2013 è da Palazzo Chigi che si possono riannodare i fili del consenso o tirarli via completamente.
Occorre però stare molto attenti alla demagogia e su un paio di cose buttate lì con troppa faciloneria dall'onorevole del Pdl bisogna ragionare. Innanzitutto, demagogica mi sembra questa campagna "ad personam" sulla «rottamazione» degli esponenti di centrodestra, come se qualche decina o centinaia di lettori, pur con tutte le ragioni per essere "arrabbiati", siano legittimati a decretare chi è il bollito e chi no in una rosa di candidati selezionati piuttosto arbitrariamente per il giochino. Bella trovata mediatica, non c'è dubbio, e probabilmente troverà spazio nei migliori giornali e sui migliori siti. Se l'intenzione era "bucare", l'obiettivo è stato centrato.
Ma provo a suggerire qualcosa di più costruttivo e "ragionato". Invece di agitare il forcone internettiano, perché non rilanciare il tema dell'uninominale? Sarà mediaticamente meno appagante, ma bisogna riconoscere che l'uninominale (e tra l'altro è in quel sistema che le primarie nascono e si affermano) è l'unico vero strumento in grado di "rottamare" davvero - non nei convegni (alla Renzi & Civati), o sui nostri blog - la classe politica. E tra l'altro solo con l'uninominale avrebbero senso le primarie per scegliere i candidati al Parlamento nazionale. L'avversione bipartisan per l'uninominale non si spiega solo con la pretesa dei partiti di "acchittarsi" il sistema di voto più congeniale ai propri disegni politici, ma con rare eccezioni è profondamente radicata nella stragrande maggioranza dei parlamentari e dei dirigenti politici di ogni schieramento. Vi siete mai chiesti perché? Perché mette in gioco la loro personalissima sopravvivenza politica. Perché con l'uninominale secco, ad un turno, o sei dentro o sei fuori. Non ci sono vie di mezzo. E per quanto possano esserci collegi "blindati", anche i leader in disarmo o i "colonnelli" rampanti possono incappare in una sconfitta. Solo che non avrebbero ripescaggi né paracadute di sorta. Se poi, assieme all'uninominale e alle primarie, avessimo partiti leggeri, "all'americana", allora sarebbero costretti a cercarsi un lavoro vero.
Secondo, internet. Come pretendiamo che i politici reagiscano senza «sindromi da lesa maestà» alle nostre critiche, ebbene anche noi dobbiamo saper ragionare su noi stessi e la rete. Se quello di Stracquadanio sembrava un anatema nei confronti di internet perché ormai "in mano alla sinistra", e se in tutti questi anni il centrodestra, così come la stampa d'area (va detto!), ha colpevolmente snobbato cosa avevano e hanno da dire migliaia di blog che come noi hanno cercato di far circolare le idee liberali e conservatrici, tuttavia anch'io ho la sensazione che sul web, sui social network e i siti più visitati, la sinistra sia «quantitativamente soverchiante sul centrodestra». Non so se sia dovuto al fatto che i militanti della sinistra sono «fannulloni», ma riconoscerlo non significa in alcun modo sminuire ciò che molti blog e siti come i nostri fanno ogni giorno da anni. A me pare, ma la mia è un'opinione parziale, che oltre ad essere una supremazia solo quantitativa e per nulla qualitativa, sia anche una maggior capacità di penetrazione e che ciò dipenda da una maggiore faziosità e da un uso più "virale" della rete. Ciò che passa, ciò che si diffonde in rete come un tam tam è la battuta demagogica, ciò che "buca" e diventa evento mediatico in grado di rimbalzare sui media tradizionali, non sono le "idee", i dibattiti, le grandi questioni, ma lo sputo telematico in faccia all'avversario.
Infine, ricordiamoci che le primarie servono come il pane ma non sono, e non saranno tutto. Riconosciamo serenamente che agli elettori interessa poco chi sarà, e come verrà scelto, il coordinatore del Pdl in questa o quella regione. Non ne sapranno mai nemmeno il nome. La fiducia degli elettori che nel 2008 hanno votato centrodestra sta venendo meno per la deludente prova di governo. Punto. Se domattina avessimo le primarie, avremmo una garanzia in più che la classe dirigente del futuro sia migliore di questa, ma guardando al 2013 è da Palazzo Chigi che si possono riannodare i fili del consenso o tirarli via completamente.
Thursday, June 16, 2011
Un nome una garanzia
Ancora lui: Woodcock. Un nome una garanzia. Fino ad oggi, garanzia di buco nell'acqua. Sì, perché è da anni che Woodcock ci prova a fare il grande salto da procuratore di provincia alle prese con qualche valletta a grande inquisitore del "potere" politico. Da sempre a caccia di vip, nella speranza di "agganciare" qualche politico, purtroppo non gli è ancora riuscito di incastrare un "pezzo grosso". Basta ricordare alcune delle sue imprese per chiedersi come possa fare ancora il magistrato, come disse Gianfranco Fini non molti anni fa, nel 2006, quando lo definì un pm «fantasioso», «un signore che in un Paese normale avrebbe già cambiato mestiere». Oltre 200 innocenti accusati senza fondamento in 14 anni di carriera, tra cui gli arrestati e poi prosciolti Corona e Vittorio Emanuele di Savoia e l'accusato e poi prosciolto Sottile. Questo l'imbarazzante "record" del pm Woodcock, di recente addirittura "promosso" da Potenza a Napoli, guarda un po', alla sezione reati contro la pubblica amministrazione. L'ultima? Qualche mese fa fece perquisire l'ufficio e le abitazioni di Sallusti e Porro per un articolo sulla Marcegaglia, ve lo ricordate? Titoloni sui giornali, caso politico e mediatico, e poi... il nulla. Sallusti dice di non essere stato ancora nemmeno interrogato dopo otto mesi.
Ma veniamo all'inchiesta che occupa le prime pagine dei giornali in questi giorni. Ne so poco e può darsi che stavolta Woodcock abbia trovato la sua gallina dalle uova d'oro. Diciamo solo che il suo "record" personale dovrebbe indurre ad una certa cautela. Non ho elementi, sto a quello che si legge sui giornali. Innanzitutto, la prima cosa che balza agli occhi è che la notizia, o per lo meno una delle notizie, che avrebbe dovuto aprire le prime pagine sarebbe dovuta essere qualcosa come "un duro colpo all'accusa". Sì, perché Bisignani è stato arrestato, del parlamentare del Pdl Papa (tra l'altro ex magistrato della stessa procura di Napoli sotto Cordova) si è chiesto l'arresto, e deciderà la Giunta per le autorizzazioni della Camera, ma dei 19 capi d'imputazione il gip (il giudice per le indagini preliminari) ne ha accolti solo 3 (tre!), tra cui violazione del segreto d'indagine e favoreggiamento. Non c'è, invece, associazione per delinquere, tanto meno "segreta". Ma naturalmente cosa fanno i giornali? Non titolano sulle imputazioni sulla base delle quali è stato effettivamente autorizzato dal gip l'arresto di Bisignani. No, titolano sui reati di "associazione segreta e corruzione", che il gip non ha incluso nell'ordinanza di arresto. Ma d'altra parte, sarebbe "saltato" il ghiotto titolo sulla fantomatica "P4", senza la quale sarebbe difficile colpire l'immaginario dei lettori.
Da quello che si legge oggi sui giornali, l'accusa per ora non ha in mano niente più che un giro di raccomandazioni e non meglio precisate violazioni del segreto di indagine, che visto quello che esce quotidianamente fa sorridere. Amaro. Tutto questo ancora al lordo del misero sottobosco di millanterie che come al solito circonda questi personaggi. Avere rapporti, tessere relazioni, raccogliere confidenze, raccomandare, non è reato. Altrimenti dovrebbe finire in galera il 90% del Paese. In un mondo in cui «notizie riservate di matrice giudiziaria» finiscono in tutte le redazioni dei giornali, e da lì sulle prime pagine e le aperture dei tg, e vengono usate per colpire questo o quello, senza che alcuna procura batta ciglio e spesso senza neanche lo straccio di un reato, ecco che improvvisamente si accendono i riflettori su un parlamentare che - ammesso e non concesso che siano provate le accuse - cerca di usare le sue conoscenze per saperne di più su inchieste che coinvolgono esponenti di governo ma che già sono finite su tutti i giornali.
Ma veniamo all'inchiesta che occupa le prime pagine dei giornali in questi giorni. Ne so poco e può darsi che stavolta Woodcock abbia trovato la sua gallina dalle uova d'oro. Diciamo solo che il suo "record" personale dovrebbe indurre ad una certa cautela. Non ho elementi, sto a quello che si legge sui giornali. Innanzitutto, la prima cosa che balza agli occhi è che la notizia, o per lo meno una delle notizie, che avrebbe dovuto aprire le prime pagine sarebbe dovuta essere qualcosa come "un duro colpo all'accusa". Sì, perché Bisignani è stato arrestato, del parlamentare del Pdl Papa (tra l'altro ex magistrato della stessa procura di Napoli sotto Cordova) si è chiesto l'arresto, e deciderà la Giunta per le autorizzazioni della Camera, ma dei 19 capi d'imputazione il gip (il giudice per le indagini preliminari) ne ha accolti solo 3 (tre!), tra cui violazione del segreto d'indagine e favoreggiamento. Non c'è, invece, associazione per delinquere, tanto meno "segreta". Ma naturalmente cosa fanno i giornali? Non titolano sulle imputazioni sulla base delle quali è stato effettivamente autorizzato dal gip l'arresto di Bisignani. No, titolano sui reati di "associazione segreta e corruzione", che il gip non ha incluso nell'ordinanza di arresto. Ma d'altra parte, sarebbe "saltato" il ghiotto titolo sulla fantomatica "P4", senza la quale sarebbe difficile colpire l'immaginario dei lettori.
Da quello che si legge oggi sui giornali, l'accusa per ora non ha in mano niente più che un giro di raccomandazioni e non meglio precisate violazioni del segreto di indagine, che visto quello che esce quotidianamente fa sorridere. Amaro. Tutto questo ancora al lordo del misero sottobosco di millanterie che come al solito circonda questi personaggi. Avere rapporti, tessere relazioni, raccogliere confidenze, raccomandare, non è reato. Altrimenti dovrebbe finire in galera il 90% del Paese. In un mondo in cui «notizie riservate di matrice giudiziaria» finiscono in tutte le redazioni dei giornali, e da lì sulle prime pagine e le aperture dei tg, e vengono usate per colpire questo o quello, senza che alcuna procura batta ciglio e spesso senza neanche lo straccio di un reato, ecco che improvvisamente si accendono i riflettori su un parlamentare che - ammesso e non concesso che siano provate le accuse - cerca di usare le sue conoscenze per saperne di più su inchieste che coinvolgono esponenti di governo ma che già sono finite su tutti i giornali.
Tuesday, June 14, 2011
In gioco l'identità del centrodestra
La mia personale impressione è che il voto referendario di domenica e lunedì sia stato molto più di merito sui quesiti di quanto i politici, di destra e di sinistra, tendano a credere. Contro il governo Berlusconi, certo, artefice di quelle leggi, ma non "antiberlusconiano", nel senso che stavolta si è votato per lo più nel merito delle questioni. Dai dati definitivi risulta che ha votato in massa l'intero bacino elettorale della sinistra, circa il 43-45% degli elettori, che forse mai come oggi negli ultimi due decenni s'era recato alle urne. I quesiti erano perfetti per colpire nel profondo l'immaginario di quel popolo. E certo, sullo sfondo c'era la spallata a Berlusconi, ma sbaglieremmo lettura se sottovalutassimo la forza d'attrazione di quei temi: l'ecologismo a prescindere dallo sviluppo; la rivincita del pubblico sul mercato; il giustizialismo. E così sappiamo una volta per tutte quali sono i comuni denominatori della sinistra: non dei partiti, ma degli elettori di sinistra in Italia. La "libertà", nell'accezione propria del liberalismo classico, è bandita dalla sinistra (dov'erano tutti questi elettori nel 2005 quando si votava per le libertà individuali e la laicità dello Stato?). E i pochi liberali che militano ancora a sinistra dovrebbero farsene una ragione.
Ma oltre a quel 43-45% hanno votato molti elettori meno politicizzati e più inclini al centrodestra. Ancor di più questi elettori hanno votato nel merito dei quesiti. In questo senso hanno ragione i vertici dei partiti di maggioranza a minimizzare e a rifiutare di sentirsi sconfitti. La sconfitta non sarà forse elettorale, sbaglierebbero però a sottovalutare un dato incontrovertibile: quegli elettori hanno votato insieme a tutto il popolo della sinistra. E se un ministro dell'Interno, i governatori del Veneto e del Lazio, il sindaco di Roma e chissà quanti altri amministratori locali, hanno votato con il popolo della sinistra, evidentemente qualcosa che non va c'è, e va ben oltre il malcontento dei propri elettori per l'operato del governo. Si tratta o no di qualcosa di ancor più preoccupante, e cioè di una sconfitta culturale, che rivela una crisi di identità politica, frutto di scelte di governo troppo a lungo rimandate? Se mancano per troppo tempo scelte caratterizzanti, quando arriva il momento di decidere nel merito non ci si riconosce più.
Ci si preoccupa della tenuta del governo, del Pdl, delle elezioni del 2013, ma in gioco c'è qualcosa di più serio: c'è una cultura di centrodestra in Italia che si possa distinguere nettamente da quella di sinistra? Che cosa ha lasciato in questi 17 anni il berlusconismo negli elettori di centrodestra, se una delle poche riforme utili e "liberali" fatte dal governo, quella sui servizi pubblici locali, viene così fragorosamente bocciata con il loro contributo determinante? Mi ricordo bene, quando venne approvato il decreto Ronchi, le critiche che andavano per la maggiore sia nel centrodestra che da parte del Pd e dell'Udc: si rimproveravano la sua timidezza nel privatizzare e in particolare le deroghe, un regalo alle amministrazioni locali leghiste.
Temendo il raggiungimento del quorum nel centrodestra hanno pensato di fare i vaghi, ma com'è evidente in queste ore, ciò non li ha risparmiati dall'apparire oggi come sconfitti. Eppure, probabilmente sarebbe bastato convincere almeno una parte, ma decisiva, di elettori di centrodestra che hanno contribuito al quorum, smascherando la disinformazione sui quesiti, quanto meno per far fallire la consultazione. L'astensione poteva essere l'indicazione di voto più efficace per difendere quelle leggi, ma non l'astensione dalla campagna referendaria (basti ricordare la campagna del mondo cattolico per l'astensione nel 2005: astensione dal voto, non dalla campagna).
Mi spiace, ma questa volta una lettura del voto imperniata sull'"antiberlusconismo" mi sembra riduttiva, irrispettosa nei confronti degli italiani che hanno votato e tutto sommato persino autoassolutoria per il centrodestra, quasi a voler scaricare sul capo tutte le colpe. Invece, qui è in gioco qualcosa che riguarda l'identità stessa della coalizione. Il centrodestra deve interrogarsi profondamente su che cosa vuol essere: perché altrove, ma soprattutto in Italia, o il centrodestra è sinonimo di "meno Stato" o, semplicemente, non è: non ha senso né futuro.
Lungi dal bersi le reciproche strumentalizzazioni dei politici, l'impressione è che gli italiani abbiano votato sul serio sui temi oggetto del referendum. Potremmo prendercela con la disinformazione e con la demagogia, e con la solita manina della Cassazione - avremmo ottimi motivi per farlo, siamo stati i primi e continueremo a denunciarle per quello che sono: truffe. Ma al netto delle truffe, occorre prendere atto - perché in democrazia occorre sforzarsi di mettersi nei panni degli elettori anche quando non si è d'accordo con essi - che in maggioranza gli italiani, anche molti che votano e voteranno centrodestra, restano culturalmente "di sinistra", nel senso che a sentir parlare di privato, mercato e profitti, mettono mano alla pistola. Tra i disprezzati politici e il mercato, scelgono i primi (anche se continueranno a lamentarsene), perché s'illudono che a questo mondo ci sia ancora qualcosa gratis. E non essere riuscito a mutare almeno un po' questa mentalità - anzi, essersi adeguato ad essa - è uno dei tanti fallimenti storici del centrodestra berlusconiano.
L'avversione al nucleare è così radicata nello stomaco degli italiani che non c'è dato di fatto o logica che tenga, ma sui servizi pubblici locali - inutile negarlo - ha prevalso un istinto statalista. Il risultato è un regalo alle 8.000 "caste" locali: salve le 24mila poltrone nei consigli di amministrazione (fonte Corte dei conti), la pacchia delle municipalizzate dove imbucare parenti e amici continuerà con il beneplacito dei cittadini (almeno finché non arriveranno le sanzioni Ue). E' stata sdegnosamente rigettata la remunerazione in bolletta dei capitali investiti, ma adesso o il servizio peggiorerà ancora, o vedremo comunque aumentare le tariffe (già salite del 10% quest'anno), l'Irap e l'addizionale Irpef, come ha fatto Vendola in Puglia. Ci rifiutiamo di remunerare in bolletta gli investimenti privati sul servizio idrico, ma nessuno si scandalizza se - come ricorda Nicola Porro su Il Giornale - per remunerare i privati (privati!) che investono in fotovoltaico ed eolico pagheremo 5 miliardi di euro l'anno per i prossimi vent'anni. Già quest'anno le nostre bollette dell'elettricità sono aumentate del 3,9 per cento, di cui il 3 per cento per i sussidi (fonte Authority per l'Energia). Basta non saperlo. Se invece dell'acqua fosse stato il pane, avremmo avuto lo stesso risultato: volete voi abrogare la norma per cui il fornaio riceve sul prezzo della pagnotta una remunerazione del 10%? "Sìììììì". Sarebbe andata in modo molto diverso, invece, se il quesito posto fosse stato un altro: avete investito i vostri risparmi in Bot sul servizio idrico, volete voi che il vostro investimento sia remunerato? Per l'italiano medio il profitto altrui è sempre sterco del diavolo, il proprio un diritto inalienabile. La raccomandazione per i figli degli altri una indecorosa parentopoli, per il proprio figlio spazio al merito. Questi siamo e questi resteremo.
Sotto le varie ondate di indignazione per qualsiasi scandalo, dalle lottizzazioni nella sanità alle parentopoli nelle università, su questo blog sono stato sempre chiaro: bando agli sterili moralismi, la scelta, per tutti i servizi pubblici (istruzione, sanità, energia o acqua) è affidarsi allo Stato (quindi ai politici) o al mercato (nel quale possono benissimo operare anche società a controllo prevalentemente pubblico). Una terza via non c'è: se si sceglie lo Stato, bisogna accettare che responsabili dei servizi siano i politici e non lamentarsi troppo di lottizzazioni, parentopoli e clientelismi, che fanno parte del pacchetto. Né bisogna commettere l'errore di pensare che tutto sia gratis, perché o il servizio è scadente, o le tasse sono elevate e il debito pubblico galoppante. Più spesso entrambe le cose. Vorrà dire che mano alla pistola la metterò io quando sentirò il prossimo che se ne lamenta!
Ma oltre a quel 43-45% hanno votato molti elettori meno politicizzati e più inclini al centrodestra. Ancor di più questi elettori hanno votato nel merito dei quesiti. In questo senso hanno ragione i vertici dei partiti di maggioranza a minimizzare e a rifiutare di sentirsi sconfitti. La sconfitta non sarà forse elettorale, sbaglierebbero però a sottovalutare un dato incontrovertibile: quegli elettori hanno votato insieme a tutto il popolo della sinistra. E se un ministro dell'Interno, i governatori del Veneto e del Lazio, il sindaco di Roma e chissà quanti altri amministratori locali, hanno votato con il popolo della sinistra, evidentemente qualcosa che non va c'è, e va ben oltre il malcontento dei propri elettori per l'operato del governo. Si tratta o no di qualcosa di ancor più preoccupante, e cioè di una sconfitta culturale, che rivela una crisi di identità politica, frutto di scelte di governo troppo a lungo rimandate? Se mancano per troppo tempo scelte caratterizzanti, quando arriva il momento di decidere nel merito non ci si riconosce più.
Ci si preoccupa della tenuta del governo, del Pdl, delle elezioni del 2013, ma in gioco c'è qualcosa di più serio: c'è una cultura di centrodestra in Italia che si possa distinguere nettamente da quella di sinistra? Che cosa ha lasciato in questi 17 anni il berlusconismo negli elettori di centrodestra, se una delle poche riforme utili e "liberali" fatte dal governo, quella sui servizi pubblici locali, viene così fragorosamente bocciata con il loro contributo determinante? Mi ricordo bene, quando venne approvato il decreto Ronchi, le critiche che andavano per la maggiore sia nel centrodestra che da parte del Pd e dell'Udc: si rimproveravano la sua timidezza nel privatizzare e in particolare le deroghe, un regalo alle amministrazioni locali leghiste.
Temendo il raggiungimento del quorum nel centrodestra hanno pensato di fare i vaghi, ma com'è evidente in queste ore, ciò non li ha risparmiati dall'apparire oggi come sconfitti. Eppure, probabilmente sarebbe bastato convincere almeno una parte, ma decisiva, di elettori di centrodestra che hanno contribuito al quorum, smascherando la disinformazione sui quesiti, quanto meno per far fallire la consultazione. L'astensione poteva essere l'indicazione di voto più efficace per difendere quelle leggi, ma non l'astensione dalla campagna referendaria (basti ricordare la campagna del mondo cattolico per l'astensione nel 2005: astensione dal voto, non dalla campagna).
Mi spiace, ma questa volta una lettura del voto imperniata sull'"antiberlusconismo" mi sembra riduttiva, irrispettosa nei confronti degli italiani che hanno votato e tutto sommato persino autoassolutoria per il centrodestra, quasi a voler scaricare sul capo tutte le colpe. Invece, qui è in gioco qualcosa che riguarda l'identità stessa della coalizione. Il centrodestra deve interrogarsi profondamente su che cosa vuol essere: perché altrove, ma soprattutto in Italia, o il centrodestra è sinonimo di "meno Stato" o, semplicemente, non è: non ha senso né futuro.
Lungi dal bersi le reciproche strumentalizzazioni dei politici, l'impressione è che gli italiani abbiano votato sul serio sui temi oggetto del referendum. Potremmo prendercela con la disinformazione e con la demagogia, e con la solita manina della Cassazione - avremmo ottimi motivi per farlo, siamo stati i primi e continueremo a denunciarle per quello che sono: truffe. Ma al netto delle truffe, occorre prendere atto - perché in democrazia occorre sforzarsi di mettersi nei panni degli elettori anche quando non si è d'accordo con essi - che in maggioranza gli italiani, anche molti che votano e voteranno centrodestra, restano culturalmente "di sinistra", nel senso che a sentir parlare di privato, mercato e profitti, mettono mano alla pistola. Tra i disprezzati politici e il mercato, scelgono i primi (anche se continueranno a lamentarsene), perché s'illudono che a questo mondo ci sia ancora qualcosa gratis. E non essere riuscito a mutare almeno un po' questa mentalità - anzi, essersi adeguato ad essa - è uno dei tanti fallimenti storici del centrodestra berlusconiano.
L'avversione al nucleare è così radicata nello stomaco degli italiani che non c'è dato di fatto o logica che tenga, ma sui servizi pubblici locali - inutile negarlo - ha prevalso un istinto statalista. Il risultato è un regalo alle 8.000 "caste" locali: salve le 24mila poltrone nei consigli di amministrazione (fonte Corte dei conti), la pacchia delle municipalizzate dove imbucare parenti e amici continuerà con il beneplacito dei cittadini (almeno finché non arriveranno le sanzioni Ue). E' stata sdegnosamente rigettata la remunerazione in bolletta dei capitali investiti, ma adesso o il servizio peggiorerà ancora, o vedremo comunque aumentare le tariffe (già salite del 10% quest'anno), l'Irap e l'addizionale Irpef, come ha fatto Vendola in Puglia. Ci rifiutiamo di remunerare in bolletta gli investimenti privati sul servizio idrico, ma nessuno si scandalizza se - come ricorda Nicola Porro su Il Giornale - per remunerare i privati (privati!) che investono in fotovoltaico ed eolico pagheremo 5 miliardi di euro l'anno per i prossimi vent'anni. Già quest'anno le nostre bollette dell'elettricità sono aumentate del 3,9 per cento, di cui il 3 per cento per i sussidi (fonte Authority per l'Energia). Basta non saperlo. Se invece dell'acqua fosse stato il pane, avremmo avuto lo stesso risultato: volete voi abrogare la norma per cui il fornaio riceve sul prezzo della pagnotta una remunerazione del 10%? "Sìììììì". Sarebbe andata in modo molto diverso, invece, se il quesito posto fosse stato un altro: avete investito i vostri risparmi in Bot sul servizio idrico, volete voi che il vostro investimento sia remunerato? Per l'italiano medio il profitto altrui è sempre sterco del diavolo, il proprio un diritto inalienabile. La raccomandazione per i figli degli altri una indecorosa parentopoli, per il proprio figlio spazio al merito. Questi siamo e questi resteremo.
Sotto le varie ondate di indignazione per qualsiasi scandalo, dalle lottizzazioni nella sanità alle parentopoli nelle università, su questo blog sono stato sempre chiaro: bando agli sterili moralismi, la scelta, per tutti i servizi pubblici (istruzione, sanità, energia o acqua) è affidarsi allo Stato (quindi ai politici) o al mercato (nel quale possono benissimo operare anche società a controllo prevalentemente pubblico). Una terza via non c'è: se si sceglie lo Stato, bisogna accettare che responsabili dei servizi siano i politici e non lamentarsi troppo di lottizzazioni, parentopoli e clientelismi, che fanno parte del pacchetto. Né bisogna commettere l'errore di pensare che tutto sia gratis, perché o il servizio è scadente, o le tasse sono elevate e il debito pubblico galoppante. Più spesso entrambe le cose. Vorrà dire che mano alla pistola la metterò io quando sentirò il prossimo che se ne lamenta!
Friday, June 10, 2011
Come e perché difendersi dai referendum-truffa
(Nella foto: militanti di Greenpeace si arrampicano sul Colosseo per srotolare il loro striscione, ma nessuna voce stavolta si leverà per la tutela dei monumenti, scommettiamo?)
Se difendersi dal processo oltre che nel processo è un diritto dell'imputato, figuriamoci se non lo è difendersi dalla truffa piuttosto che nella truffa. Il meccanismo del quorum lo consente: di fatto con l'astensione, ostacolando il raggiungimento del quorum, si esprime contrarietà ai quesiti. E' già accaduto in passato. Ovvio che però, all'indomani del voto, all'astensione consapevole, "politica", non si possa sommare quel 30-40% di astensionismo fisiologico, per mero disinteresse. Non si potrebbe insomma parlare di una vera e propria bocciatura dei quesiti, la consultazione sarebbe semplicemente nulla.
Ma l'unico modo per difendersi, quando oltre agli avversari hai contro gli arbitri e i media, è far fallire questi referendum-truffa. Chi domenica e lunedì prossimi pensa di recarsi a votare "No", dovrà farlo consapevole che la partita è truccata e il risultato scritto: perché fare un simile favore ai bari? Chi si presterà, lo farà o per ingenuità, incurante di servire da utile idiota la causa dei "Sì"; o in malafede, perché magari avendo sempre sostenuto il nucleare o l'apertura al mercato dei servizi pubblici non può fare altrimenti, ma sotto sotto è poco interessato al merito dei quesiti quanto piuttosto al loro valore politico: la "spallata" al governo Berlusconi.
Ma perché referendum-truffa? Si tratta di una truffa sotto molteplici aspetti: sono una truffa i quesiti in sé; è stata truffaldina la campagna referendaria dei comitati per il "Sì", fiancheggiati dalla grande stampa e dai soliti talk show politici che li hanno supportati in un'incessante e incontenibile opera di mistificazione; è insopportabilmente truffaldina, infine, la strumentalizzazione dei referendum da parte del Pd. Fino a ieri anche Bersani riteneva auspicabile l'ingresso dei privati nei servizi pubblici locali e, anzi, criticava il decreto Ronchi perché troppo blando, attento a salvaguardare gli interessi delle giunte leghiste. Tra l'altro, nel 2005, quando si votò sulla fecondazione assistita, non ricordo una simile mobilitazione della sinistra che si dice progressista e laica. Perché? Eppure, anche allora era possibile dare una "spallata" a Berlusconi ad un solo anno dalle elezioni. Ma allora si trattava di fare un dispiacere al Vaticano e la sinistra codarda fece pocchissimo per aiutare i radicali.
NUCLEARE - Ma veniamo alle "prove" della truffa, che abbondano. Del quesito sul nucleare ho già scritto. Di fronte forse all'unico caso della storia del nostro Paese in cui per evitare un referendum il Parlamento ha accolto pienamente il quesito, abrogando per davvero tutte le norme di cui si chiedeva l'abrogazione, la Cassazione e la Consulta hanno deciso di far votare ugualmente, ma su norme diverse da quelle su cui erano state raccolte le firme. Semplicemente non c'era più alcun nucleare da abrogare. Sostenere, come fanno la Cassazione e la Consulta, che bisogna votare perché il ricorso al nucleare non è «espressamente escluso» in via definitiva, secula seculorum, non ha senso, perché allora si sarebbe dovuto votare dal 1987 in poi ogni 5 anni, preventivamente, nel timore che qualche governo lo reintroducesse.
Così facendo si è trasformato l'istituto referendario da abrogativo a consultivo, un voto sulle intenzioni del legislatore piuttosto che su una legge in vigore, al solo scopo di favorire il raggiungimento del quorum e, dunque, le condizioni per una nuova batosta elettorale al governo. Sull'assurdità della decisione della Cassazione, e la contraddittorietà dell'esito giuridico del voto (si abroga anche la norma che prevede di "non procedere" con il nucleare), si sono espressi anche autorevoli costituzionalisti come Augusto Barbera e Giovanni Guzzetta, entrambi ben distanti dall'area di governo.
LEGITTIMO IMPEDIMENTO - Una truffa anche il quesito sul legittimo impedimento, poco più che simbolico. Se prevarranno i sì, infatti, Berlusconi e i suoi ministri, così come qualsiasi altro imputato, potranno continuare a sollevare il legittimo impedimento a comparire in udienza. Una facoltà riconosciuta dalla legge a tutti gli imputati, e rafforzata per le alte cariche dello Stato dalla stessa Corte costituzionale, a prescindere dalle norme di cui si chiede l'abrogazione. La novità scabrosa che mirava ad introdurre la controversa legge approvata dal governo era di rendere automatico e continuativo nel tempo il legittimo impedimento del presidente del Consiglio e dei ministri, ma le norme che lo prevedevano sono state già cassate dalla Corte costituzionale. Dunque, a prescindere dall'esito del referendum, spetterà al giudice, a sua discrezione, riconoscere o meno di volta in volta all'imputato il legittimo impedimento. Com'è sempre stato anche prima dell'odiata legge "ad personam" così continuerà ad essere anche dopo il referendum.
ACQUA - Più complicato smascherare la truffa nei referendum sull'acqua (che in realtà riguardano tutti i servizi pubblici locali), perché non è nei quesiti, ma nella campagna. Se è in una certa misura comprensibile, ma pur sempre scorretto, che la mistificazione sia opera dei comitati per il "Sì", è invece inaccettabile e incivile che sia addirittura opera dei mezzi di informazione, cui si richiede non l'imparzialità, ma almeno correttezza e obiettività. Schierarsi va bene, ma truccare i dati no; presentare i quesiti in modo falso neanche; deridere chi sostiene il "No" men che meno. Ed è esattamente ciò che si avverte aprendo i giornali o assistendo ai soliti talk show televisivi, da Annozero a Ballarò.
Non c'è alcuna «privatizzazione» dell'acqua. Nella legge sottoposta a referendum si dice espressamente che resta un bene pubblico, così come le infrastrutture e le reti. Se l'acqua è di tutti, non è però che l'acqua arrivi da sola limpida e depurata nelle nostre case. Questo è un servizio che costa e che qualcuno deve gestire. E' falso che la legge in questione obblighi i comuni a dare in concessione ai privati questo servizio. La legge li obbliga, in ottemperanza alle leggi comunitarie, ad affidare il servizio «in via ordinaria» tramite una gara ad evidenza pubblica. Che può essere vinta sia da società interamente private, che da società a controllo pubblico, con una partecipazione mista pubblica e privata in cui però la quota del socio privato (scelto sempre tramite gara ad evidenza pubblica) non sia inferiore al 40%. Questo per garantire una gestione più attenta dei bilanci e investimenti adeguati, che realisticamente possono arrivare solo dal settore privato.
La legge però contempla delle eccezioni alla regola, per salvaguardare i casi virtuosi (molto pochi) di gestione interamente pubblica: in deroga alle modalità ordinarie, infatti, «a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale», l'affidamento può avvenire (senza gara pubblica) a favore di società a capitale interamente pubblico, "in house", come succede adesso nella stragrande maggioranza dei casi. Ma a certe condizioni: il comune deve dimostrare all'Antitrust che la società affidataria a) ha chiuso il bilancio in attivo; b) applica una tariffa inferiore alla media del settore; c) è in grado di reinvestire nel servizio almeno l'80% degli utili. Insomma, ammesso che sia davvero un caso di gestione virtuosa.
Fermo restando che attualmente il servizio è gestito per il 97% da operatori "in house", cioè da società partecipate interamente dai comuni, o a controllo prevalente pubblico - e quindi la responsabilità di disservizi, tariffe, inquinamenti, spreco d'acqua (47 litri su 100, calcola l'Istat) è al 97% responsabilità del pubblico - la legge non stabilisce affatto che debba passare ai privati. L'obbligo della gara è una garanzia irrinunciabile per i cittadini che sanno a quali condizioni il loro comune concede la gestione del servizio e, quindi, quali condizioni deve rispettare l'operatore.
Se vinceranno i "Sì", nel migliore dei casi - poiché quello di aprire i servizi pubblici locali al mercato, tramite gare ad evidenza pubblica, è ormai un orientamento imposto dall'Unione europea - bisognerà rifare una legge che prevederà più o meno le stesse cose per recepire le normative comunitarie, quindi perderemo del tempo prezioso; nel peggiore dei casi, si permetterà alla tanto odiata - solo a parole - "casta" di continuare a gestire le società di servizi "in house" per "sistemare" politici trombati, amici di amici e parenti, senza dover rendere conto di bilanci e disservizi, che continueranno a gravare sulla fiscalità generale. La truffa, in pratica, è proprio questa: chi domenica e lunedì andrà a votare "Sì" ai quesiti sull'acqua abboccando allo slogan "l'acqua è di tutti", probabilmente non si rende che di fatto consegnerà il "bene comune" alla "casta", che continuerà ad ingrassarsi a scapito delle nostre tasche.
Se difendersi dal processo oltre che nel processo è un diritto dell'imputato, figuriamoci se non lo è difendersi dalla truffa piuttosto che nella truffa. Il meccanismo del quorum lo consente: di fatto con l'astensione, ostacolando il raggiungimento del quorum, si esprime contrarietà ai quesiti. E' già accaduto in passato. Ovvio che però, all'indomani del voto, all'astensione consapevole, "politica", non si possa sommare quel 30-40% di astensionismo fisiologico, per mero disinteresse. Non si potrebbe insomma parlare di una vera e propria bocciatura dei quesiti, la consultazione sarebbe semplicemente nulla.
Ma l'unico modo per difendersi, quando oltre agli avversari hai contro gli arbitri e i media, è far fallire questi referendum-truffa. Chi domenica e lunedì prossimi pensa di recarsi a votare "No", dovrà farlo consapevole che la partita è truccata e il risultato scritto: perché fare un simile favore ai bari? Chi si presterà, lo farà o per ingenuità, incurante di servire da utile idiota la causa dei "Sì"; o in malafede, perché magari avendo sempre sostenuto il nucleare o l'apertura al mercato dei servizi pubblici non può fare altrimenti, ma sotto sotto è poco interessato al merito dei quesiti quanto piuttosto al loro valore politico: la "spallata" al governo Berlusconi.
Ma perché referendum-truffa? Si tratta di una truffa sotto molteplici aspetti: sono una truffa i quesiti in sé; è stata truffaldina la campagna referendaria dei comitati per il "Sì", fiancheggiati dalla grande stampa e dai soliti talk show politici che li hanno supportati in un'incessante e incontenibile opera di mistificazione; è insopportabilmente truffaldina, infine, la strumentalizzazione dei referendum da parte del Pd. Fino a ieri anche Bersani riteneva auspicabile l'ingresso dei privati nei servizi pubblici locali e, anzi, criticava il decreto Ronchi perché troppo blando, attento a salvaguardare gli interessi delle giunte leghiste. Tra l'altro, nel 2005, quando si votò sulla fecondazione assistita, non ricordo una simile mobilitazione della sinistra che si dice progressista e laica. Perché? Eppure, anche allora era possibile dare una "spallata" a Berlusconi ad un solo anno dalle elezioni. Ma allora si trattava di fare un dispiacere al Vaticano e la sinistra codarda fece pocchissimo per aiutare i radicali.
NUCLEARE - Ma veniamo alle "prove" della truffa, che abbondano. Del quesito sul nucleare ho già scritto. Di fronte forse all'unico caso della storia del nostro Paese in cui per evitare un referendum il Parlamento ha accolto pienamente il quesito, abrogando per davvero tutte le norme di cui si chiedeva l'abrogazione, la Cassazione e la Consulta hanno deciso di far votare ugualmente, ma su norme diverse da quelle su cui erano state raccolte le firme. Semplicemente non c'era più alcun nucleare da abrogare. Sostenere, come fanno la Cassazione e la Consulta, che bisogna votare perché il ricorso al nucleare non è «espressamente escluso» in via definitiva, secula seculorum, non ha senso, perché allora si sarebbe dovuto votare dal 1987 in poi ogni 5 anni, preventivamente, nel timore che qualche governo lo reintroducesse.
Così facendo si è trasformato l'istituto referendario da abrogativo a consultivo, un voto sulle intenzioni del legislatore piuttosto che su una legge in vigore, al solo scopo di favorire il raggiungimento del quorum e, dunque, le condizioni per una nuova batosta elettorale al governo. Sull'assurdità della decisione della Cassazione, e la contraddittorietà dell'esito giuridico del voto (si abroga anche la norma che prevede di "non procedere" con il nucleare), si sono espressi anche autorevoli costituzionalisti come Augusto Barbera e Giovanni Guzzetta, entrambi ben distanti dall'area di governo.
LEGITTIMO IMPEDIMENTO - Una truffa anche il quesito sul legittimo impedimento, poco più che simbolico. Se prevarranno i sì, infatti, Berlusconi e i suoi ministri, così come qualsiasi altro imputato, potranno continuare a sollevare il legittimo impedimento a comparire in udienza. Una facoltà riconosciuta dalla legge a tutti gli imputati, e rafforzata per le alte cariche dello Stato dalla stessa Corte costituzionale, a prescindere dalle norme di cui si chiede l'abrogazione. La novità scabrosa che mirava ad introdurre la controversa legge approvata dal governo era di rendere automatico e continuativo nel tempo il legittimo impedimento del presidente del Consiglio e dei ministri, ma le norme che lo prevedevano sono state già cassate dalla Corte costituzionale. Dunque, a prescindere dall'esito del referendum, spetterà al giudice, a sua discrezione, riconoscere o meno di volta in volta all'imputato il legittimo impedimento. Com'è sempre stato anche prima dell'odiata legge "ad personam" così continuerà ad essere anche dopo il referendum.
ACQUA - Più complicato smascherare la truffa nei referendum sull'acqua (che in realtà riguardano tutti i servizi pubblici locali), perché non è nei quesiti, ma nella campagna. Se è in una certa misura comprensibile, ma pur sempre scorretto, che la mistificazione sia opera dei comitati per il "Sì", è invece inaccettabile e incivile che sia addirittura opera dei mezzi di informazione, cui si richiede non l'imparzialità, ma almeno correttezza e obiettività. Schierarsi va bene, ma truccare i dati no; presentare i quesiti in modo falso neanche; deridere chi sostiene il "No" men che meno. Ed è esattamente ciò che si avverte aprendo i giornali o assistendo ai soliti talk show televisivi, da Annozero a Ballarò.
Non c'è alcuna «privatizzazione» dell'acqua. Nella legge sottoposta a referendum si dice espressamente che resta un bene pubblico, così come le infrastrutture e le reti. Se l'acqua è di tutti, non è però che l'acqua arrivi da sola limpida e depurata nelle nostre case. Questo è un servizio che costa e che qualcuno deve gestire. E' falso che la legge in questione obblighi i comuni a dare in concessione ai privati questo servizio. La legge li obbliga, in ottemperanza alle leggi comunitarie, ad affidare il servizio «in via ordinaria» tramite una gara ad evidenza pubblica. Che può essere vinta sia da società interamente private, che da società a controllo pubblico, con una partecipazione mista pubblica e privata in cui però la quota del socio privato (scelto sempre tramite gara ad evidenza pubblica) non sia inferiore al 40%. Questo per garantire una gestione più attenta dei bilanci e investimenti adeguati, che realisticamente possono arrivare solo dal settore privato.
La legge però contempla delle eccezioni alla regola, per salvaguardare i casi virtuosi (molto pochi) di gestione interamente pubblica: in deroga alle modalità ordinarie, infatti, «a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale», l'affidamento può avvenire (senza gara pubblica) a favore di società a capitale interamente pubblico, "in house", come succede adesso nella stragrande maggioranza dei casi. Ma a certe condizioni: il comune deve dimostrare all'Antitrust che la società affidataria a) ha chiuso il bilancio in attivo; b) applica una tariffa inferiore alla media del settore; c) è in grado di reinvestire nel servizio almeno l'80% degli utili. Insomma, ammesso che sia davvero un caso di gestione virtuosa.
Fermo restando che attualmente il servizio è gestito per il 97% da operatori "in house", cioè da società partecipate interamente dai comuni, o a controllo prevalente pubblico - e quindi la responsabilità di disservizi, tariffe, inquinamenti, spreco d'acqua (47 litri su 100, calcola l'Istat) è al 97% responsabilità del pubblico - la legge non stabilisce affatto che debba passare ai privati. L'obbligo della gara è una garanzia irrinunciabile per i cittadini che sanno a quali condizioni il loro comune concede la gestione del servizio e, quindi, quali condizioni deve rispettare l'operatore.
Se vinceranno i "Sì", nel migliore dei casi - poiché quello di aprire i servizi pubblici locali al mercato, tramite gare ad evidenza pubblica, è ormai un orientamento imposto dall'Unione europea - bisognerà rifare una legge che prevederà più o meno le stesse cose per recepire le normative comunitarie, quindi perderemo del tempo prezioso; nel peggiore dei casi, si permetterà alla tanto odiata - solo a parole - "casta" di continuare a gestire le società di servizi "in house" per "sistemare" politici trombati, amici di amici e parenti, senza dover rendere conto di bilanci e disservizi, che continueranno a gravare sulla fiscalità generale. La truffa, in pratica, è proprio questa: chi domenica e lunedì andrà a votare "Sì" ai quesiti sull'acqua abboccando allo slogan "l'acqua è di tutti", probabilmente non si rende che di fatto consegnerà il "bene comune" alla "casta", che continuerà ad ingrassarsi a scapito delle nostre tasche.
Laici, dove siete?
Strano: questa volta non mi risulta che qualcuno abbia denunciato "ingerenze" da parte della Chiesa nella campagna referendaria. Eppure, la mobilitazione delle gerarchie ecclesiastiche a tutti i livelli, non solo delle singole diocesi, è senza precedenti, persino maggiore di quella in difesa della legge 40 nel 2005. Ogni giorno una dichiarazione, si sono espressi preti, vescovi di importanti province, cardinali, i parroci non si contano, bandiere sugli altari. Persino il Papa in persona. Eppure, dove sono finiti i laici "indignados" che nel 2005 chiedevano persino l'arresto dei preti?
A fare campagna non è solo il folcloristico padre Zanotelli, o lo sconosciuto De Capitani, parroco a Monte di Rovagnate, in provincia di Lecco, secondo cui addirittura «chi decide che l'acqua sia messa sul mercato, non è un cristiano, è un indegno, va buttato fuori dalla Chiesa». Come nel 2005 le parrocchie sono invase di volantini, ma contrariamente al 2005 la Cei ha invitato ad andare a votare, così come Avvenire e L'Osservatore Romano (organo del Vaticano). Si sono espressi esplicitamente monsignor Crociata, segretario generale della Cei; i vescovi di Reggio Emilia, Chieti, Locri, Nola e diversi altri; il cardinale vicario della diocesi del Papa, Agostino Vallini; oggi il cardinale Turkson, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, quindi un ministro dello Stato Città del Vaticano, formalmente uno Stato estero. Ma chissà perché i sedicenti "laici" non si scandalizzano più... ma potete ancora guardarvi allo specchio senza sputarvi in faccia?
A fare campagna non è solo il folcloristico padre Zanotelli, o lo sconosciuto De Capitani, parroco a Monte di Rovagnate, in provincia di Lecco, secondo cui addirittura «chi decide che l'acqua sia messa sul mercato, non è un cristiano, è un indegno, va buttato fuori dalla Chiesa». Come nel 2005 le parrocchie sono invase di volantini, ma contrariamente al 2005 la Cei ha invitato ad andare a votare, così come Avvenire e L'Osservatore Romano (organo del Vaticano). Si sono espressi esplicitamente monsignor Crociata, segretario generale della Cei; i vescovi di Reggio Emilia, Chieti, Locri, Nola e diversi altri; il cardinale vicario della diocesi del Papa, Agostino Vallini; oggi il cardinale Turkson, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, quindi un ministro dello Stato Città del Vaticano, formalmente uno Stato estero. Ma chissà perché i sedicenti "laici" non si scandalizzano più... ma potete ancora guardarvi allo specchio senza sputarvi in faccia?
Wednesday, June 08, 2011
Barbarie e ipocrisia
E' una barbarie, non colpisce solo Berlusconi, ed è la prova che mettere mano alle norme sulle intercettazioni è un imperativo di civiltà. I giornali mettono alla gogna società di calcio e calciatori che non solo non sono indagati. Ma di cui chiacchierano, solo per sentito dire, gli indagati quelli veri nelle telefonate intercettate. E tutti possiamo immaginare che interesse abbiano costoro, oggi, a sparare in alto, e quale spinta ci fosse nel giro delle scommesse a millantare con i propri interlocutori telefonici chissà quali "informazioni". I pm sono i primi ad avvertire che mancano riscontri, che si tratta di voci «indirette». «Il sospetto è che possa trattarsi di una millanteria», ammette persino la giornalista, gran sacerdotessa di intercettazioni telefoniche al Corriere. E viene fuori che così scarso è il valore che a quelle chiacchiere attribuiscono gli inquirenti, che le telefonate in questione non sono nemmeno state trascritte, ma riportate in "brogliacci" di polizia. Eppure i giornali non si fanno scrupoli: nomi e cognomi (prima De Rossi, adesso Totti) in prima pagina, tanto per sputtanare, infangare, vendere qualche copia in più calpestando la dignità delle persone. Una vergogna. Una vergogna che ormai quello d'indagine sia un segreto di Pulcinella; una vergogna la totale mancanza di deontologia professionale nei giornalisti.
Detto questo, qualche considerazione sull'inchiesta in corso si può azzardare. Che la cricca pizzicata con le mani nella marmellata fosse in grado con quegli spiccioli di condizionare gare di serie A è altamente improbabile e gli inquirenti se ne stanno convincendo. Riuscivano a combinare gare delle serie inferiori e per la A a venire in possesso di notizie, vere o presunte, che circolavano nell'ambiente. Che però, molte partite di A siano sospette di "combine" tra le società di calcio, non per le scommesse, ma per reciproche convenienze di classifica, è più che un sospetto. Non solo per gli inquirenti - consapevoli, pare, che questo filone travalichi l'inchiesta penale in corso, anche perché si entra nel campo dell'indimostrabile - ma per chiunque segua il calcio domenica dopo domenica. Di partite che "puzzano" se ne sono viste tante anche in questa stagione: pareggiotti di convenienza; l'improvvisa caduta in casa della provinciale che stava andando forte; ma soprattutto, quante squadre che si sciolgono come neve al sole davanti alle "grandi"? Ci sono grandi squadre del nord che contro alcune provinciali sembrano abbonate alla vittoria facile. Nell'ambiente, anche del giornalismo sportivo, se ne parla con disinvoltura, magari con ironia, ma guai a porre pubblicamente qualche domanda.
D'altra parte, dopo Lazio-Inter dello scorso anno, a poche giornate dalla fine del campionato, resta da chiedersi a che cosa bisogna assistere prima che la giustizia, quella sportiva, si attivi; che soglia di indecenza bisogna superare prima di far scattare le sanzioni previste per la violazione dell'art. 1 sulla lealtà sportiva.
UPDATE ORE 13:06
«Nessun riferimento alla Roma e quindi a Francesco Totti. È possibile che si parlasse semplicemente di una squadra delle serie minori». «Per quanto riguarda la serie A, Erodiani ha già escluso nel corso dell'interrogatorio di garanzia ogni collegamento». Così uno dei legali di Erodiani. Complimenti ancora una volta al Corriere della Sera e a La Repubblica per il loro rigoroso "giornalismo". Rigorosamente fango.
Detto questo, qualche considerazione sull'inchiesta in corso si può azzardare. Che la cricca pizzicata con le mani nella marmellata fosse in grado con quegli spiccioli di condizionare gare di serie A è altamente improbabile e gli inquirenti se ne stanno convincendo. Riuscivano a combinare gare delle serie inferiori e per la A a venire in possesso di notizie, vere o presunte, che circolavano nell'ambiente. Che però, molte partite di A siano sospette di "combine" tra le società di calcio, non per le scommesse, ma per reciproche convenienze di classifica, è più che un sospetto. Non solo per gli inquirenti - consapevoli, pare, che questo filone travalichi l'inchiesta penale in corso, anche perché si entra nel campo dell'indimostrabile - ma per chiunque segua il calcio domenica dopo domenica. Di partite che "puzzano" se ne sono viste tante anche in questa stagione: pareggiotti di convenienza; l'improvvisa caduta in casa della provinciale che stava andando forte; ma soprattutto, quante squadre che si sciolgono come neve al sole davanti alle "grandi"? Ci sono grandi squadre del nord che contro alcune provinciali sembrano abbonate alla vittoria facile. Nell'ambiente, anche del giornalismo sportivo, se ne parla con disinvoltura, magari con ironia, ma guai a porre pubblicamente qualche domanda.
D'altra parte, dopo Lazio-Inter dello scorso anno, a poche giornate dalla fine del campionato, resta da chiedersi a che cosa bisogna assistere prima che la giustizia, quella sportiva, si attivi; che soglia di indecenza bisogna superare prima di far scattare le sanzioni previste per la violazione dell'art. 1 sulla lealtà sportiva.
UPDATE ORE 13:06
«Nessun riferimento alla Roma e quindi a Francesco Totti. È possibile che si parlasse semplicemente di una squadra delle serie minori». «Per quanto riguarda la serie A, Erodiani ha già escluso nel corso dell'interrogatorio di garanzia ogni collegamento». Così uno dei legali di Erodiani. Complimenti ancora una volta al Corriere della Sera e a La Repubblica per il loro rigoroso "giornalismo". Rigorosamente fango.
Tuesday, June 07, 2011
Primarie specchietto per le allodole?
Anche su taccuinopolitico.it
Solo l'uninominale assicura la vera "contendibilità": delle istituzioni e, quindi, dei partiti
Primarie, primarie, primarie. Tutti pazzi per le primarie in queste ore e giorni tra i commentatori e i militanti di centrodestra. Ci mancherebbe essere contrari alle primarie. Il sottoscritto è favorevole a qualsiasi riforma politica che abbia come modello le democrazie anglosassoni. Le primarie sono uno strumento ormai insostituibile, imprescindibile, di selezione "aperta" ed efficiente dei candidati e delle leadership, in modo da limitare, sottoporre a verifica le scelte delle oligarchie di partito. Come osservano in molti - da Ferrara su Il Foglio a Sechi su Il Tempo - il Pdl dovrebbe subito adottare le primarie, se non altro perché nessun altro metodo offre le stesse garanzie per la scelta del leader post-Berlusconi. Utile e innovativosarebbe tra l'altro coinvolgere non solo gli iscritti in “primarie di programma”, come le ha definite Daniele Capezzone, tra alcune scelte di governo alternative riguardanti temi quali fisco, lavoro, liberalizzazioni, infrastrutture, servizi pubblici.
Detto questo, però, attenzione a due cose. Primo, le primarie non riguardano le cariche interne ad un partito, mentre è ad esse che si riferiscono molti di quelli che le reclamano. Che il segretario, i vertici, e i coordinatori territoriali debbano essere eletti (dagli iscritti) dovrebbe essere il minimo sindacale in un'organizzazione politica che voglia apparire (perché per esserlo serve anche altro) democratica. Con le primarie (aperte anche ai "sostenitori" non iscritti) si scelgono i candidati del partito alle cariche "esterne": i candidati al governo (nazionale o degli enti locali), o a rappresentare i cittadini in Parlamento.
E qui veniamo al secondo punto. Non ha alcun senso parlare di primarie se non ci si riferisce ai candidati e ha poco senso parlarne al di fuori di un contesto bipolare e maggioritario. Hanno senso, quindi, se c'è da scegliere il candidato sindaco o il candidato governatore di una regione, elezioni in cui ormai il sistema maggioritario si è consolidato. Prima di quanto crediamo potrebbero non avere più alcun senso, invece, per il candidato premier, se non si salva - e, anzi, non si consolida - il bipolarismo dai progetti neo-proporzionalisti che incombono in vista dell'uscita di scena di Berlusconi.
Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera, sostiene, a mio avviso in modo convincente, che il destino del Pdl nel dopo-Berlusconi sia inevitabilmente legato alla tenuta e anzi al consolidamento del bipolarismo. E il tema della legge elettorale sarà anche noioso, ma resta fondamentale. Perché un ritorno al proporzionale «spalancherebbe le porte alla fine del bipolarismo», alla «rinascita del trasformismo parlamentare», al «trionfo di un notabilato politico impegnato a fare e disfare alleanze parlamentari». Una legge elettorale che spostasse il momento della formazione delle alleanze di governo da prima a dopo il voto, non solo accrescerebbe l'instabilità e l'ingovernabilità di questo Paese, già a livelli allarmanti, ma decreterebbe molto probabilmente la dissoluzione del Pdl.
Più che delle primarie, dunque, dovremmo preoccuparci della legge elettorale. E convincerci una volta per tutte che la vera "contendibilità", la contendibilità che cerchiamo di ottenere con le primarie, la garantisce solo il sistema uninominale. E' con l'uninominale che chi perde, perde davvero ed è costretto a cambiare mestiere. Solo con l'uninominale gli elettori possono pensionare un big della politica che ha fatto il suo tempo. Ed è questo sistema, come dimostra l'esempio americano, che si porta con sé le primarie: i partiti infatti sono indotti ad affidarsi alle primarie come mezzo più efficiente per selezionare i candidati che hanno maggiori chance di vittoria. Ma senza uninominale - o per lo meno un sistema maggioritario che rafforzi il bipolarismo, per esempio un collegio plurinominale ma piccolissimo, di 5-7 seggi - le primarie non hanno senso. Ai cittadini non interessa chi sia il coordinatore di questa o quella regione, ma sapere prima del voto chi viene indicato dal partito per rappresentarli a Roma o per governarli.
Non riduciamo, dunque, la questione del rilancio, del Pdl e del centrodestra, ad un dibattito primarie sì-primarie sì ma dopo. Per comprendere il calo di consenso sofferto dal centrodestra, e in particolare dal Pdl, alle ultime amministrative, è piuttosto al governo che bisogna guardare prima che al partito. E' un problema squisitamente politico, di sostanza e non di forma, per così dire. Ha pesato, certo, la scelta dei candidati. Si poteva, e si doveva, scegliere meglio (fermo restando che Letizia Moratti era sindaco uscente), e le primarie aiutano senz'altro. Ma hanno pesato soprattutto la stanchezza e il disgusto degli elettori meno politicizzati ma vicini al centrodestra per lo spettacolo indecoroso e l'inconcludenza politica degli ultimi dodici mesi, mentre dopo tre anni di governo le riforme promesse da quasi vent'anni di "berlusconismo" (fisco, sburocratizzazione, giustizia) non si vedono comparire all'orizzonte nemmeno di questa legislatura. Ragazzi, vanno bene le primarie, ma non sono la madre di tutte le soluzioni: il nodo politico da sciogliere è al governo. Il partito, semmai, servirà a raccogliere le macerie.
Solo l'uninominale assicura la vera "contendibilità": delle istituzioni e, quindi, dei partiti
Primarie, primarie, primarie. Tutti pazzi per le primarie in queste ore e giorni tra i commentatori e i militanti di centrodestra. Ci mancherebbe essere contrari alle primarie. Il sottoscritto è favorevole a qualsiasi riforma politica che abbia come modello le democrazie anglosassoni. Le primarie sono uno strumento ormai insostituibile, imprescindibile, di selezione "aperta" ed efficiente dei candidati e delle leadership, in modo da limitare, sottoporre a verifica le scelte delle oligarchie di partito. Come osservano in molti - da Ferrara su Il Foglio a Sechi su Il Tempo - il Pdl dovrebbe subito adottare le primarie, se non altro perché nessun altro metodo offre le stesse garanzie per la scelta del leader post-Berlusconi. Utile e innovativosarebbe tra l'altro coinvolgere non solo gli iscritti in “primarie di programma”, come le ha definite Daniele Capezzone, tra alcune scelte di governo alternative riguardanti temi quali fisco, lavoro, liberalizzazioni, infrastrutture, servizi pubblici.
Detto questo, però, attenzione a due cose. Primo, le primarie non riguardano le cariche interne ad un partito, mentre è ad esse che si riferiscono molti di quelli che le reclamano. Che il segretario, i vertici, e i coordinatori territoriali debbano essere eletti (dagli iscritti) dovrebbe essere il minimo sindacale in un'organizzazione politica che voglia apparire (perché per esserlo serve anche altro) democratica. Con le primarie (aperte anche ai "sostenitori" non iscritti) si scelgono i candidati del partito alle cariche "esterne": i candidati al governo (nazionale o degli enti locali), o a rappresentare i cittadini in Parlamento.
E qui veniamo al secondo punto. Non ha alcun senso parlare di primarie se non ci si riferisce ai candidati e ha poco senso parlarne al di fuori di un contesto bipolare e maggioritario. Hanno senso, quindi, se c'è da scegliere il candidato sindaco o il candidato governatore di una regione, elezioni in cui ormai il sistema maggioritario si è consolidato. Prima di quanto crediamo potrebbero non avere più alcun senso, invece, per il candidato premier, se non si salva - e, anzi, non si consolida - il bipolarismo dai progetti neo-proporzionalisti che incombono in vista dell'uscita di scena di Berlusconi.
Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera, sostiene, a mio avviso in modo convincente, che il destino del Pdl nel dopo-Berlusconi sia inevitabilmente legato alla tenuta e anzi al consolidamento del bipolarismo. E il tema della legge elettorale sarà anche noioso, ma resta fondamentale. Perché un ritorno al proporzionale «spalancherebbe le porte alla fine del bipolarismo», alla «rinascita del trasformismo parlamentare», al «trionfo di un notabilato politico impegnato a fare e disfare alleanze parlamentari». Una legge elettorale che spostasse il momento della formazione delle alleanze di governo da prima a dopo il voto, non solo accrescerebbe l'instabilità e l'ingovernabilità di questo Paese, già a livelli allarmanti, ma decreterebbe molto probabilmente la dissoluzione del Pdl.
Più che delle primarie, dunque, dovremmo preoccuparci della legge elettorale. E convincerci una volta per tutte che la vera "contendibilità", la contendibilità che cerchiamo di ottenere con le primarie, la garantisce solo il sistema uninominale. E' con l'uninominale che chi perde, perde davvero ed è costretto a cambiare mestiere. Solo con l'uninominale gli elettori possono pensionare un big della politica che ha fatto il suo tempo. Ed è questo sistema, come dimostra l'esempio americano, che si porta con sé le primarie: i partiti infatti sono indotti ad affidarsi alle primarie come mezzo più efficiente per selezionare i candidati che hanno maggiori chance di vittoria. Ma senza uninominale - o per lo meno un sistema maggioritario che rafforzi il bipolarismo, per esempio un collegio plurinominale ma piccolissimo, di 5-7 seggi - le primarie non hanno senso. Ai cittadini non interessa chi sia il coordinatore di questa o quella regione, ma sapere prima del voto chi viene indicato dal partito per rappresentarli a Roma o per governarli.
Non riduciamo, dunque, la questione del rilancio, del Pdl e del centrodestra, ad un dibattito primarie sì-primarie sì ma dopo. Per comprendere il calo di consenso sofferto dal centrodestra, e in particolare dal Pdl, alle ultime amministrative, è piuttosto al governo che bisogna guardare prima che al partito. E' un problema squisitamente politico, di sostanza e non di forma, per così dire. Ha pesato, certo, la scelta dei candidati. Si poteva, e si doveva, scegliere meglio (fermo restando che Letizia Moratti era sindaco uscente), e le primarie aiutano senz'altro. Ma hanno pesato soprattutto la stanchezza e il disgusto degli elettori meno politicizzati ma vicini al centrodestra per lo spettacolo indecoroso e l'inconcludenza politica degli ultimi dodici mesi, mentre dopo tre anni di governo le riforme promesse da quasi vent'anni di "berlusconismo" (fisco, sburocratizzazione, giustizia) non si vedono comparire all'orizzonte nemmeno di questa legislatura. Ragazzi, vanno bene le primarie, ma non sono la madre di tutte le soluzioni: il nodo politico da sciogliere è al governo. Il partito, semmai, servirà a raccogliere le macerie.
Monday, June 06, 2011
Eppure non sta in piedi
Come volevasi dimostrare mercoledì scorso, il quesito sul nucleare così come riformulato dall'Ufficio referendum della Cassazione, semplicemente «non sta in piedi». Domani deciderà la Corte costituzionale, ma è quanto sostiene anche un costituzionalista di sinistra (parlamentare del Pci e del Pds dal 1976 al 1994 e ministro del governo Ciampi) tra i più autorevoli, e il più citato a sinistra (quando fa comodo), Augusto Barbera, in un'intervista ad Avvenire: «Non sta in piedi».
Culturalmente e politicamente lontanissimo dal governo in carica, e nel merito contrario al nucleare, eppure Barbera spiega che giuridicamente quel quesito non avrebbe più ragione d'essere:
Culturalmente e politicamente lontanissimo dal governo in carica, e nel merito contrario al nucleare, eppure Barbera spiega che giuridicamente quel quesito non avrebbe più ragione d'essere:
«Perché tutte le norme che prevedevano procedure e tempi per l'installazione di centrali nucleari sono state abrogate. Ora si andrà a votare su due commi, il numero 1 e il numero 8 dell'articolo 5 della legge di conversione del decreto omnibus. Il primo si limita a impegnare il governo a partecipare a studi, a livello europeo, sull'impiego dell'energia nucleare: ebbene, lì non c'è alcuna decisione, si dice che "studierà" ma poi, al termine di questi studi, potrebbe anche decidere di non procedere... Il comma 8, poi, prevede l'approntamento di un piano energetico nazionale, che non riguarda l'energia nucleare, ma qualsiasi tipo di approvvigionamento energetico, incluse le fonti alternative e quelle rinnovabili... Ipotizzo che la Cassazione si sia basata sulle intenzioni del governo. Però in questi casi si procede in base alle norme scritte e approvate dalle Camere, non in base a dichiarazioni d'intenti. Tra l'altro, nel comunicato diffuso dopo la decisione, è specificato che l'Ufficio centrale ha deliberato "a maggioranza". Che io ricordi, è la prima volta che lo dice ufficialmente. Non lo fanno nemmeno i Consigli comunali».Così lo stesso Barbera in un'intervista di venerdì scorso a Radio Radicale:
«Bisognerebbe votare sulle carte, non sulle intenzioni. E le carte sono chiarissime: tutte le norme sul nucleare sottoposte al quesito referendario sono state abrogate, non ci sono più. Quello che avrebbero dovuto fare i cittadini, l'aveva già fatto il legislatore... Il quesito viene trasferito su norme che non c'entrano nulla con il nucleare».A parte il fatto che la legge su cui si voterà non è la stessa su cui si sono raccolte le firme, a conferma del fatto che non siamo di fronte semplicemente ad una modifica "truffaldina" da parte del governo, ma ad una vera e propria abrogazione, evidentemente riconosciuta anche dalla Cassazione, il senso del quesito è demenziale. In sostanza si chiede agli elettori: "Volete voi che il governo NON possa «non procedere» con il programma nucleare"; "volete voi che il governo NON possa adottare una strategia energetica nazionale?". Su questo, e su nient'altro, siamo chiamati a votare domenica e lunedì prossimi.
Wednesday, June 01, 2011
Quel pasticciaccio brutto della Cassazione
Siamo alla pura barbarie logica e giuridica, com'è verosimile che sia, oppure ci manca qualche tassello? Non vorremmo credere a quello che leggiamo, ma l'Ansa cita un comunicato della Corte di Cassazione, nel quale si rende noto che il testo del nuovo quesito referendario sul nucleare sarebbe il seguente: «Volete che siano abrogati i commi 1 e 8 dell'articolo 5 del dl 31/03/2011 n.34 convertito con modificazioni dalla legge 26/05/2011 n.75?».
Non ci posso credere, perché significherebbe che ora chi non vuole il nucleare in Italia dovrebbe votare No. Votando Sì, infatti, si abrogherebbero le norme citate dal quesito, cioè quelle approvate dal governo dopo Fukushima, e non quelle su cui sono state raccolte le firme dei cittadini. In sostanza, il nuovo quesito uscito dalla Cassazione propone l'abrogazione delle norme che abrogano il nucleare. A mio avviso il nuovo quesito non si presta a interpretazioni: se vincono i Sì, dal giorno dopo si può ripartire subito con il nucleare. Si tornerebbe, di fatto, alla situazione ante-Fukushima. Cari lettori, è delirante, ma milioni di persone il 12 e il 13 giugno andranno a votare Sì, ignare che così facendo voteranno di fatto per e non contro il nucleare.
Con l'evidente intento di creare i presupposti per una nuova batosta elettorale per il governo, l'Ufficio referendum della Cassazione crea un mostro logico-giuridico, che fa a pugni non solo con il diritto, l'istituto referendario così come sancito nella Costituzione, ma persino con la più banale logica.
La realtà è che se uno si va a leggere la nuova legge approvata dal governo dopo Fukushima scopre che è così dettagliata nell'abrogare il programma nucleare che non lascia adito a dubbi: non siamo di fronte a qualche ritocchino, come in passato è stato fatto per evitare scomodi referendum, senza che la Cassazione battesse ciglio; stavolta il quesito referendario viene accolto pienamente. Che poi non ci si fidi del governo Berlusconi, e si rimanga convinti che sotto sotto sia favorevole al nucleare e sia pronto a ripresentarlo appena possibile, questo è tutt'altro discorso. Perché il referendum è abrogativo: non si vota sulle intenzioni di questo o quel soggetto politico, ma su leggi vigenti. E il nucleare ad oggi non vige. Se però vincono i Sì, restano tutte le abrogazioni degli altri commi, quelle dei dettagli tecnici, ma cade la norma principale, cade il «non si procede» con il programma nucleare.
Il comma 1, infatti, recita che:
Nel comma 8, infatti, l'altro che verrebbe abrogato da una vittoria dei Sì, la parola «nucleare» non è nemmeno menzionata, ma si fa riferimento ad una «strategia energetica nazionale» da adottare entro 12 mesi, cosa di totale buon senso:
Non ci posso credere, perché significherebbe che ora chi non vuole il nucleare in Italia dovrebbe votare No. Votando Sì, infatti, si abrogherebbero le norme citate dal quesito, cioè quelle approvate dal governo dopo Fukushima, e non quelle su cui sono state raccolte le firme dei cittadini. In sostanza, il nuovo quesito uscito dalla Cassazione propone l'abrogazione delle norme che abrogano il nucleare. A mio avviso il nuovo quesito non si presta a interpretazioni: se vincono i Sì, dal giorno dopo si può ripartire subito con il nucleare. Si tornerebbe, di fatto, alla situazione ante-Fukushima. Cari lettori, è delirante, ma milioni di persone il 12 e il 13 giugno andranno a votare Sì, ignare che così facendo voteranno di fatto per e non contro il nucleare.
Con l'evidente intento di creare i presupposti per una nuova batosta elettorale per il governo, l'Ufficio referendum della Cassazione crea un mostro logico-giuridico, che fa a pugni non solo con il diritto, l'istituto referendario così come sancito nella Costituzione, ma persino con la più banale logica.
La realtà è che se uno si va a leggere la nuova legge approvata dal governo dopo Fukushima scopre che è così dettagliata nell'abrogare il programma nucleare che non lascia adito a dubbi: non siamo di fronte a qualche ritocchino, come in passato è stato fatto per evitare scomodi referendum, senza che la Cassazione battesse ciglio; stavolta il quesito referendario viene accolto pienamente. Che poi non ci si fidi del governo Berlusconi, e si rimanga convinti che sotto sotto sia favorevole al nucleare e sia pronto a ripresentarlo appena possibile, questo è tutt'altro discorso. Perché il referendum è abrogativo: non si vota sulle intenzioni di questo o quel soggetto politico, ma su leggi vigenti. E il nucleare ad oggi non vige. Se però vincono i Sì, restano tutte le abrogazioni degli altri commi, quelle dei dettagli tecnici, ma cade la norma principale, cade il «non si procede» con il programma nucleare.
Il comma 1, infatti, recita che:
«al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche, mediante il supporto dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza nucleare, tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea, non si procede alla definizione e attuazione del programma di localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare».Ed è del tutto evidente che se si abroga il «non si procede», allora si sta dicendo «si proceda», o quanto meno che si può procedere. Dunque, paradossalmente, il governo potrebbe procedere con il nucleare, ma non potrebbe adottare alcuna «strategia energetica nazionale», il che è un risultato semplicemente demenziale.
Nel comma 8, infatti, l'altro che verrebbe abrogato da una vittoria dei Sì, la parola «nucleare» non è nemmeno menzionata, ma si fa riferimento ad una «strategia energetica nazionale» da adottare entro 12 mesi, cosa di totale buon senso:
«Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dello sviluppo economico e del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e acquisito il parere delle competenti Commissioni parlamentari, adotta la Strategia energetica nazionale, che individua le priorità e le misure necessarie al fine di garantire la sicurezza nella produzione di energia, la diversificazione delle fonti energetiche e delle aree geografiche di approvvigionamento, il miglioramento della competitività del sistema energetico nazionale e lo sviluppo delle infrastrutture nella prospettiva del mercato interno europeo, l'incremento degli investimenti in ricerca e sviluppo nel settore energetico e la partecipazione ad accordi internazionali di cooperazione tecnologica, la sostenibilità ambientale nella produzione e negli usi dell'energia, anche ai fini della riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, la valorizzazione e lo sviluppo di filiere industriali nazionali. Nelladefinizione della Strategia, il Consiglio dei Ministri tiene conto delle valutazioni effettuate a livello di Unione europea e a livello internazionale sulla sicurezza delle tecnologie disponibili, degli obiettivi fissati a livello di Unione europea e a livello internazionale in materia di cambiamenti climatici, delle indicazioni dell'Unione europea e degli organismi internazionali in materia di scenari energetici e ambientali».
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