Anche su L'Opinione
Nell'intervista al Wall Street Journal che ha innescato l'ennesima polemica il ministro Fornero parlava di job, non di work. Il posto di lavoro (in inglese job, appunto) non è un diritto, ma qualcosa che si conquista. Queste le sue parole, diventate semplicemente «il lavoro (work) non è un diritto» nell'ingenua sintesi del giornalista del quotidiano Usa. Tutto chiarito, dunque? Nient'affatto. Noi italiani ci appassioniamo spesso alle sottigliezze lessicali, andiamo a caccia dell'incidente linguistico a cui inchiodare il nostro avversario politico, ma che si riferisse a job o a work, il concetto espresso dal ministro si scontra con l'ideologia, e la realtà, dominante nel nostro paese che vede nel lavoro, anche nel posto di lavoro, un diritto. Prevalente, per esempio, rispetto ai diritti di proprietà. Chi ne è convinto non farà distinzioni e dal suo punto di vista la polemica è tutt'altro che pretestuosa: d'altronde, in quale altra forma il lavoro (work), che dovrebbe essere tutelato come un diritto, si manifesta concretamente se non nel posto di lavoro (job)? Ovvio che la distinzione lavoro-posto di lavoro possa apparire un sofisma.
La distinzione assolve il ministro dall'accusa di aver contraddetto la Costituzione, almeno nella sua lettera. Non si può certo pensare che il diritto al lavoro riconosciuto dalla Costituzione vada inteso nel senso che lo Stato, o le imprese, debbano garantire un posto di lavoro a tutti. Su questo si è espressa in diverse sentenze (nel 1965 e nel 2006) la Corte costituzionale, chiarendo che «i principi generali di tutela della persona e del lavoro... non si traducono nel diritto al conseguimento ed al mantenimento di un determinato posto di lavoro».
E' però indubbio che il senso attribuito nei decenni al diritto al lavoro dal legislatore e dalla giurisprudenza è stato proprio quello di un diritto al posto di lavoro. La norma che prevede l'intervento del giudice per reintegrare nel posto di lavoro il lavoratore ingiustamente licenziato, o la particolare forma di sussidio ideata, la cassa integrazione, che cristallizza il posto di lavoro in attesa che il lavoratore possa rientrarvi, ne sono le prove inoppugnabili. Insomma, nella legislazione ordinaria, e nell'interpretazione delle norme da parte dei giudici del lavoro, si è avvalorata l'esistenza di un diritto costituzionale al posto di lavoro.
Se ciò è avvenuto, non devono essere così inequivocabili gli articoli della Costituzione in cui si parla di lavoro. In effetti, già l'articolo 1 attribuisce al lavoro una centralità nella nostra Repubblica non riconosciuta nemmeno alla libertà individuale («L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro»). Può apparire ovvio che il «diritto al lavoro» di cui si parla nel primo comma dell'art. 4 s'intenda concretamente come un impegno ad adottare politiche idonee a fornire ai cittadini gli strumenti (ad es. istruzione e formazione) per trovare un posto di lavoro e a creare un contesto economico favorevole alla piena occupazione. Ma alle «condizioni che rendano effettivo questo diritto» fa riferimento la seconda proposizione del comma, mentre la prima sancisce ambiguamente un vero e proprio «diritto al lavoro». E per l'art. 35 «la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni».
In ogni caso, non potrebbe mai esserci condivisione su quali debbano essere le politiche «che rendano effettivo questo diritto». Per alcuni, totale flessibilità in entrata e in uscita, liberalizzazione dei mercati di beni e servizi, sgravio degli oneri fiscali e contributivi a carico dell'impresa, sussidi di disoccupazione non troppo generosi e non assistenziali. Per altri, esattamente il contrario: illicenziabilità, intervento pubblico, elevata contribuzione, reddito minimo garantito. Ad oggi prevalgono queste seconde politiche, e dunque il diritto effettivamente tutelato è al “posto di lavoro”. Insomma, un problema costituzionale esiste eccome.
Altro che «rivoluzione culturale», come qualcuno l'ha inappropriatamente definita, il ministro Fornero come spesso le capita si è lasciata impressionare dalle reazioni e non ha voluto ingaggiare una battaglia culturale sul tema, che non può certo esaurirsi come un banale equivoco lessicale. Qualsiasi significato si attribuisca al diritto costituzionale al lavoro, la sua attuazione concreta oggi si scontra con quei principi basilari che fanno funzionare l'economia e favoriscono, quindi, l'occupazione. Anche se il ministro predica bene sul WSJ, la sua riforma non cambia il paradigma italiano.
Friday, June 29, 2012
Il peggior incubo dei tedeschi
Questa volta pensavo ingenuamente che la Germania potesse infrangere il sortilegio, anzi lo temevo, quasi fino a rammaricarmi che l'Italia avesse passato il turno con gli inglesi. Se bisogna regalare ai tedeschi la storica rivincita, pensavo, allora meglio uscire. Loro con una delle squadre più talentuose che abbiano mai avuto, o almeno così credevano, con 15 (mi pare) vittorie consecutive alle spalle; noi con la pareggite, che non riusciamo proprio a buttarla dentro, con due giorni di riposo in meno e mille acciacchi. E sì, pure gli errori di Prandelli.
Ma ogni partita fa storia a sé, è questa la magia, l'autentica magia che rende il calcio qualcosa di unico rispetto a qualsiasi altro sport.
L'1-2 e l'incantesimo si materializza di nuovo: 1970, 1982, 2006, 2012. Adesso è una certezza: nel calcio i tedeschi hanno un gigantesco, storico complesso d'inferiorità nei nostri confronti. E noi in qualche modo lo percepiamo e ci esaltiamo. Nei primi minuti si sono fatti sotto, hanno creato qualche pericolo, due incertezze di Buffon non da lui sembravano non presagire nulla di buono. Ma erano entrati in campo molli, svagati, assistevano come imbambolati al nostro veloce possesso palla a centrocampo. Dovevano controllare Pirlo e invece lo guardavano palleggiare e lanciare per i compagni. E' bastato un guizzo di Cassano, nelle altre partite contenuto quasi senza problemi dalle difese avversarie, quindi la testata imperiosa di Balotelli, ed emotivamente i tedeschi sono scomparsi dalla partita per quasi un'ora. Il raddoppio un clamoroso regalo (a proposito, ma dov'erano i centrali di difesa sul lancio di Montolivo?). Annichiliti. E' il crollo emotivo. Ci provano da fuori, buttano la palla in mezzo, ma la nostra porta sembra letteralmente stregata (giusto ricordare come fa Buffon che siamo stati fortunati nei rimpalli). E ad ogni assalto respinto scema la convinzione, si insinua l'incubo del 2006. A centrocampo non riescono a recuperare palla nemmeno quando i nostri, nel secondo tempo, sono stremati. Ci mangiamo l'impossibile davanti a Neuer, confermando (stavolta con Marchisio e Di Natale) la troppa sufficienza sotto porta.
Senza nulla togliere al cuore, alla grinta, e alla classe degli azzurri (su tutti Pirlo, De Rossi, Balotelli, Buffon e Bonucci) la chiave della partita è tutta qui: nel complesso d'inferiorità dei tedeschi e in quel "quid" tutto italiano nel giocare al calcio che proprio non riescono ad afferrare. Non c'è niente da fare: contro di noi giocano da perdenti predestinati. Viene in soccorso da non so chi su twitter una citazione di Winston Churchill: «Nessun popolo è più sconvolto dei tedeschi quando i suoi piani falliscono: non sono in grado di improvvisare».
Questa volta pensavano di farcela. Il sogno calcistico dei tedeschi è avere una squadra talentuosa, tecnicamente dotata come l'Italia o la Spagna. Stavolta con Ozil e Muller credevano di avercela, ma la realtà è che il più talentuoso dei loro ancora non vale il secondo più bravo della nona classificata del nostro campionato.
Lo so, si dirà che è la vittoria di Prandelli. Che avevano torto quanti lo criticavano. E giornalisti e commentatori rimasti opportunisticamente sul vago già saltano sul carro del vincitore (addirittura avrebbe inventato un nuovo modo di giocare!). Va bene così: chi vince ha sempre ragione. Gli riconosco di aver lavorato alla grande con questo gruppo, di aver saputo tirar fuori il meglio, smentendo chi diceva che non sapesse infondere carattere alle sue squadre. Mi rendo conto di andare controcorrente ma continuo a ritenere valide le mie critiche: la scelta degli attaccanti (Cassano fuori condizione) e il loro utilizzo in campo (Balotelli non prima punta fissa); il vertice alto del rombo di centrocampo (errore parzialmente corretto con Montolivo, dopo tre partite!); la gestione dei cambi.
Nota particolare per Balotelli: ha doti straordinarie, grande potenza, che sa sfruttare soprattutto quando si aprono ampi spazi (come ieri sera contro la Germania), ma è fatto così, è uno di quegli attaccanti che in attesa che ti faccia una prodezza ti devi sorbire una decina di partite irritanti. Poi magari col tempo maturerà...
La finale è apertissima: vista l'altro ieri la Spagna è involuta, noi in crescita, con un giorno in meno di riposo ma stavolta senza i supplementari sulle gambe. Può succedere davvero di tutto.
Sapevo anche che una vittoria contro la Germania avrebbe avuto un patetico risvolto nelle metafore politiche, nelle battute sceme sulla "culona" eccetera. Siamo stati più bravi dei tedeschi in campo, ma questo non significa affatto che politicamente e moralmente abbiamo ragione noi e torto loro riguardo la crisi dell'Eurozona.
PAGELLE: Buffon 8 Balzaretti 6 Bonucci 8 Barzagli 7 Chiellini 8 Pirlo 8 Marchisio 7 De Rossi 8 Montolivo 7,5 Cassano 7 Balotelli 8; Diamanti 5 Motta 6 Di Natale 5 Prandelli 7
Ma ogni partita fa storia a sé, è questa la magia, l'autentica magia che rende il calcio qualcosa di unico rispetto a qualsiasi altro sport.
L'1-2 e l'incantesimo si materializza di nuovo: 1970, 1982, 2006, 2012. Adesso è una certezza: nel calcio i tedeschi hanno un gigantesco, storico complesso d'inferiorità nei nostri confronti. E noi in qualche modo lo percepiamo e ci esaltiamo. Nei primi minuti si sono fatti sotto, hanno creato qualche pericolo, due incertezze di Buffon non da lui sembravano non presagire nulla di buono. Ma erano entrati in campo molli, svagati, assistevano come imbambolati al nostro veloce possesso palla a centrocampo. Dovevano controllare Pirlo e invece lo guardavano palleggiare e lanciare per i compagni. E' bastato un guizzo di Cassano, nelle altre partite contenuto quasi senza problemi dalle difese avversarie, quindi la testata imperiosa di Balotelli, ed emotivamente i tedeschi sono scomparsi dalla partita per quasi un'ora. Il raddoppio un clamoroso regalo (a proposito, ma dov'erano i centrali di difesa sul lancio di Montolivo?). Annichiliti. E' il crollo emotivo. Ci provano da fuori, buttano la palla in mezzo, ma la nostra porta sembra letteralmente stregata (giusto ricordare come fa Buffon che siamo stati fortunati nei rimpalli). E ad ogni assalto respinto scema la convinzione, si insinua l'incubo del 2006. A centrocampo non riescono a recuperare palla nemmeno quando i nostri, nel secondo tempo, sono stremati. Ci mangiamo l'impossibile davanti a Neuer, confermando (stavolta con Marchisio e Di Natale) la troppa sufficienza sotto porta.
Senza nulla togliere al cuore, alla grinta, e alla classe degli azzurri (su tutti Pirlo, De Rossi, Balotelli, Buffon e Bonucci) la chiave della partita è tutta qui: nel complesso d'inferiorità dei tedeschi e in quel "quid" tutto italiano nel giocare al calcio che proprio non riescono ad afferrare. Non c'è niente da fare: contro di noi giocano da perdenti predestinati. Viene in soccorso da non so chi su twitter una citazione di Winston Churchill: «Nessun popolo è più sconvolto dei tedeschi quando i suoi piani falliscono: non sono in grado di improvvisare».
Questa volta pensavano di farcela. Il sogno calcistico dei tedeschi è avere una squadra talentuosa, tecnicamente dotata come l'Italia o la Spagna. Stavolta con Ozil e Muller credevano di avercela, ma la realtà è che il più talentuoso dei loro ancora non vale il secondo più bravo della nona classificata del nostro campionato.
Lo so, si dirà che è la vittoria di Prandelli. Che avevano torto quanti lo criticavano. E giornalisti e commentatori rimasti opportunisticamente sul vago già saltano sul carro del vincitore (addirittura avrebbe inventato un nuovo modo di giocare!). Va bene così: chi vince ha sempre ragione. Gli riconosco di aver lavorato alla grande con questo gruppo, di aver saputo tirar fuori il meglio, smentendo chi diceva che non sapesse infondere carattere alle sue squadre. Mi rendo conto di andare controcorrente ma continuo a ritenere valide le mie critiche: la scelta degli attaccanti (Cassano fuori condizione) e il loro utilizzo in campo (Balotelli non prima punta fissa); il vertice alto del rombo di centrocampo (errore parzialmente corretto con Montolivo, dopo tre partite!); la gestione dei cambi.
Nota particolare per Balotelli: ha doti straordinarie, grande potenza, che sa sfruttare soprattutto quando si aprono ampi spazi (come ieri sera contro la Germania), ma è fatto così, è uno di quegli attaccanti che in attesa che ti faccia una prodezza ti devi sorbire una decina di partite irritanti. Poi magari col tempo maturerà...
La finale è apertissima: vista l'altro ieri la Spagna è involuta, noi in crescita, con un giorno in meno di riposo ma stavolta senza i supplementari sulle gambe. Può succedere davvero di tutto.
Sapevo anche che una vittoria contro la Germania avrebbe avuto un patetico risvolto nelle metafore politiche, nelle battute sceme sulla "culona" eccetera. Siamo stati più bravi dei tedeschi in campo, ma questo non significa affatto che politicamente e moralmente abbiamo ragione noi e torto loro riguardo la crisi dell'Eurozona.
PAGELLE: Buffon 8 Balzaretti 6 Bonucci 8 Barzagli 7 Chiellini 8 Pirlo 8 Marchisio 7 De Rossi 8 Montolivo 7,5 Cassano 7 Balotelli 8; Diamanti 5 Motta 6 Di Natale 5 Prandelli 7
Thursday, June 28, 2012
L'alibi tedesco per nascondere i nostri fallimenti
Prende il via oggi l''ennesimo Consiglio europeo da cui dovrebbero uscire le risposte alla crisi del debito nell'Eurozona. Arriviamo a questo appuntamento, come governo e come paese, al culmine di un clima antitedesco alimentato dalle forze politiche e dalla stampa (populista ma anche espressione dell'establishment). Ovunque toni bellicosi: minacce, avvisi, ultimatum che il nostro premier sarebbe in procinto di brandire, pugni che dovrebbe sbattere sul tavolo al cospetto della cancelliera Merkel. Va in scena una rappresentazione del vertice come una partita di calcio tra Italia e Germania (che in effetti si giocherà proprio stasera). L'analisi lascia il posto al tifo da stadio che vede contrapposte le due curve. Bisogna battere l'avversario, non mollare finché non riaprono i mercati lunedì mattina. Ma un vertice tra capi di governo è molto diverso da una partita di calcio. I risultati si ottengono se si raggiunge un compromesso, le rotture servono soltanto a scaricare la colpa del fallimento sugli altri, presentandosi con la coscienza a posto agli occhi dei propri connazionali.
L'equivoco sta tutto nella narrazione della crisi da parte di una classe dirigente incapace e parassitaria. L'idea che la soluzione sia a portata di mano, che da essa ci separerebbero solo la miopia, l'egoismo e l'irragionevolezza dei tedeschi, non è solo parziale, ma anche frutto di malafede. È l'alibi fasullo di chi porta per intero la responsabilità di averci guidati fino a questo punto, ma comincia ad esserlo anche di chi doveva tirarci fuori dai guai e invece sta fallendo come i suoi predecessori.
La convinzione diffusa che i tedeschi siano in debito nei nostri confronti, che ci debbano qualcosa per far diminuire il costo del nostro debito, solo perché noi avremmo fatto i nostri "compiti a casa", è paradossale. Né il debito stellare, né i livelli insopportabilmente elevati di spesa pubblica e pressione fiscale – ciò che ci rende così esposti ai mercati – ci sono stati imposti dai tedeschi. E siamo proprio sicuri di aver fatto i nostri "compiti a casa", o piuttosto così ci viene ripetuto da chi avrebbe dovuto farli ma non vuole o non ci riesce?
Anche il premier Monti ha usato toni ultimativi, da tempo ormai pone la questione in termini di concessioni da "strappare" all'irrazionale rigidità teutonica. Cosa è cambiato da quando, solo pochi mesi fa, sembrava il miglior amico della Merkel, si vantava di essere definito da un quotidiano tedesco il «genero ideale»? Forse l'istinto di conservazione tipico dei politici si è impossessato anche dei tecnici. Di fronte ai primi fallimenti interni anche il governo Monti si è precostituito un facile alibi esterno, cominciando a parlare di "compiti a casa" fatti alla prima pagina di quaderno riempita, quando invece, rispetto alla lettera della Bce di quasi un anno fa, poco è stato fatto e male. Sono i tedeschi i cattivi, che non capiscono e non ci aiutano, o forse è il nostro governo tecnico, in teoria più libero di agire, a non aver nemmeno iniziato a tagliare il debito, la spesa corrente e le tasse, e ad aver varato riforme annacquate?
(...)
A parole tutti invocano più Europa per superare la crisi, ma siamo sicuri che l’ostacolo principale sia Berlino, e non qualche altra capitale? Ad insistere sugli Eurobond sono infatti paesi che fino ad oggi non hanno mai mostrato di essere pronti a cedere quote di sovranità sui loro bilanci, in termini di maggiori vincoli e controlli, corrispettivo necessario per qualsiasi forma di condivisione del debito; e che non hanno mai presentato un piano concreto di garanzie reali (riserve auree e attivi patrimoniali) da offrire a fronte dell'emissione di bond comuni. Per questi motivi ai tedeschi il tema degli Eurobond appare strumentale, la pretesa di "pasti gratis", e rischia di irrigidire la loro posizione e far fallire il vertice.
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L'equivoco sta tutto nella narrazione della crisi da parte di una classe dirigente incapace e parassitaria. L'idea che la soluzione sia a portata di mano, che da essa ci separerebbero solo la miopia, l'egoismo e l'irragionevolezza dei tedeschi, non è solo parziale, ma anche frutto di malafede. È l'alibi fasullo di chi porta per intero la responsabilità di averci guidati fino a questo punto, ma comincia ad esserlo anche di chi doveva tirarci fuori dai guai e invece sta fallendo come i suoi predecessori.
La convinzione diffusa che i tedeschi siano in debito nei nostri confronti, che ci debbano qualcosa per far diminuire il costo del nostro debito, solo perché noi avremmo fatto i nostri "compiti a casa", è paradossale. Né il debito stellare, né i livelli insopportabilmente elevati di spesa pubblica e pressione fiscale – ciò che ci rende così esposti ai mercati – ci sono stati imposti dai tedeschi. E siamo proprio sicuri di aver fatto i nostri "compiti a casa", o piuttosto così ci viene ripetuto da chi avrebbe dovuto farli ma non vuole o non ci riesce?
Anche il premier Monti ha usato toni ultimativi, da tempo ormai pone la questione in termini di concessioni da "strappare" all'irrazionale rigidità teutonica. Cosa è cambiato da quando, solo pochi mesi fa, sembrava il miglior amico della Merkel, si vantava di essere definito da un quotidiano tedesco il «genero ideale»? Forse l'istinto di conservazione tipico dei politici si è impossessato anche dei tecnici. Di fronte ai primi fallimenti interni anche il governo Monti si è precostituito un facile alibi esterno, cominciando a parlare di "compiti a casa" fatti alla prima pagina di quaderno riempita, quando invece, rispetto alla lettera della Bce di quasi un anno fa, poco è stato fatto e male. Sono i tedeschi i cattivi, che non capiscono e non ci aiutano, o forse è il nostro governo tecnico, in teoria più libero di agire, a non aver nemmeno iniziato a tagliare il debito, la spesa corrente e le tasse, e ad aver varato riforme annacquate?
(...)
A parole tutti invocano più Europa per superare la crisi, ma siamo sicuri che l’ostacolo principale sia Berlino, e non qualche altra capitale? Ad insistere sugli Eurobond sono infatti paesi che fino ad oggi non hanno mai mostrato di essere pronti a cedere quote di sovranità sui loro bilanci, in termini di maggiori vincoli e controlli, corrispettivo necessario per qualsiasi forma di condivisione del debito; e che non hanno mai presentato un piano concreto di garanzie reali (riserve auree e attivi patrimoniali) da offrire a fronte dell'emissione di bond comuni. Per questi motivi ai tedeschi il tema degli Eurobond appare strumentale, la pretesa di "pasti gratis", e rischia di irrigidire la loro posizione e far fallire il vertice.
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Wednesday, June 27, 2012
La vera equità? Ricalcolare le pensioni d'oro
Com'è noto le pensioni d'oro costituiscono uno scandalo tutto italiano, che ha contribuito non poco al dissesto delle nostre finanze e all'esplosione del debito pubblico. Si tratta di assegni molto cospicui: 90 mila, 150 mila, 200 mila euro lordi l'anno e oltre (senza considerare chi cumula fino a tre trattamenti). Ne usufruiscono, spesso a partire da un'età non molto avanzata (ben prima dei 60 anni, a volte persino prima dei 50), soprattutto gli appartenenti alle varie "caste" statali: manager pubblici, uomini delle istituzioni, magistrati, professori universitari. A tutti gli effetti pensioni d'oro anche quegli assegni più modesti ma percepiti fin da una "tenera" età: le famigerate baby-pensioni ai trenta-quarantenni. Abbiamo smesso da tempo di concederne di nuove, ma un esercito di persone continua a percepirle.
Molto difficile arrivare a guadagnarsi una pensione così dorata con il sistema contributivo. La maggior parte di esse, infatti, sono maturate sotto il regime retributivo o misto.
Il modo più equo per intervenire non è certo imponendo contributi di solidarietà indiscriminati, né "tetti" validi per tutti, ma procedere ad un ricalcolo delle pensioni d'oro sulla base dei contributi effettivamente versati, fissando una soglia di esclusione (per esempio, 3-4.000 euro lordi mensili), al di sotto della quale non si effettua il ricalcolo e, per coloro che la superano, non potrà scendere il nuovo assegno. Il risultato sarebbe quello di debellare l'oscenità delle pensioni d'oro, ma secondo un criterio di merito, per cui avrà comunque di più chi ha versato più contributi.
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Molto difficile arrivare a guadagnarsi una pensione così dorata con il sistema contributivo. La maggior parte di esse, infatti, sono maturate sotto il regime retributivo o misto.
Il modo più equo per intervenire non è certo imponendo contributi di solidarietà indiscriminati, né "tetti" validi per tutti, ma procedere ad un ricalcolo delle pensioni d'oro sulla base dei contributi effettivamente versati, fissando una soglia di esclusione (per esempio, 3-4.000 euro lordi mensili), al di sotto della quale non si effettua il ricalcolo e, per coloro che la superano, non potrà scendere il nuovo assegno. Il risultato sarebbe quello di debellare l'oscenità delle pensioni d'oro, ma secondo un criterio di merito, per cui avrà comunque di più chi ha versato più contributi.
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Monday, June 25, 2012
Basta buttarla in politica, almeno ad Euro2012 risparmiateci banalità antitedesche
Un popolo di santi, poeti, navigatori... e commissari tecnici. Si sa che quando gioca la Nazionale di calcio gli italiani si trasformano tutti in 60 milioni di Bearzot, Lippi o Prandelli. Chi scrive è fra questi e non se ne vergogna. A volte stucchevoli, noi ct da divano, eppure, durante questi Europei abbiamo assistito, soprattutto su Facebook e Twitter, a qualcosa di ancor più stucchevole. Migliaia di post e tweet di gente che approfittando del torneo fra nazioni ci voleva a tutti i costi far sapere la sua idea sulle colpe politiche della crisi. Ecco, dunque, le scontate battute, i doppi sensi, sempre i soliti, sull'"euro" e sul "rigore", ogni volta che scendevano in campo Grecia, Spagna, Italia e Germania. Editorialisti e direttori di prestigiosi quotidiani scatenati su twitter, e con sprezzo del ridicolo sulle loro testate, a tifare Grecia per far dispetto a quella "culona" della Merkel. Era importante che i PIGS, i paesi eurodeboli (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna), si dimostrassero i più bravi a giocare al calcio. Ma ammesso e non concesso che lo siano, che cosa può significare politicamente? Nulla. Battere la Germania in una partita di calcio può in qualche modo voler dire che i tedeschi hanno torto sull'austerity e che il modello greco, o quello spagnolo, o l'italiano sono politicamente vincenti e moralmente superiori? O è solo per ripicca, un'infantile forma di invidia? Calcisticamente la Grecia può anche suscitare una certa simpatia, ma politicamente la merita un paese che per anni ha barato sui conti pubblici, si è indebitato fino alla bancarotta, e ora pretende che gli altri paghino il conto?
Ora che l'Italia è in semifinale, vi prego, risparmiateci le battute in chiave anti-rigore e anti-Merkel sulla sfida con la Germania. Mille altri motivi di rivalità calcistica possono arricchire di fascino e ironia questa partita. E risparmiateci la retorica degli italiani che danno sempre il meglio nelle difficoltà. Forse nel calcio c'è del vero, se si esclude qualche magra figura. Di solito con le grandi vendiamo cara la pelle, subiamo il loro gioco ma spesso riusciamo a piazzare la zampata vincente, grazie ad un quid per loro inspiegabile e misterioso. Nel 2006, in piena "Calciopoli", vincemmo i Mondiali; in queste settimane giocatori come Buffon e Bonucci, sottoposti ad un'ingiusta gogna mediatica, stanno rispondendo da campioni sul campo. Ma in politica è tutt'altro che vero. Attraversiamo una durissima crisi del debito, e una recessione, in gran parte frutti avvelenati dei nostri vizi nazionali. Eppure, né il governo tecnico, né la classe politica, né i media, e temo nemmeno l'opinione pubblica, si sono ancora convinti della necessità di estirpare per sempre quei vizi. Sappiamo solo giocare allo scaricabarile, imputando la colpa delle nostre disgrazie ai cattivi tedeschi e all'euro. Pur con gli sfottò "nazionalisti", che una partita di calcio resti una partita di calcio. Vi prego basta con le metafore politiche, è più divertente sentirsi tutti allenatori per una sera.
Ora che l'Italia è in semifinale, vi prego, risparmiateci le battute in chiave anti-rigore e anti-Merkel sulla sfida con la Germania. Mille altri motivi di rivalità calcistica possono arricchire di fascino e ironia questa partita. E risparmiateci la retorica degli italiani che danno sempre il meglio nelle difficoltà. Forse nel calcio c'è del vero, se si esclude qualche magra figura. Di solito con le grandi vendiamo cara la pelle, subiamo il loro gioco ma spesso riusciamo a piazzare la zampata vincente, grazie ad un quid per loro inspiegabile e misterioso. Nel 2006, in piena "Calciopoli", vincemmo i Mondiali; in queste settimane giocatori come Buffon e Bonucci, sottoposti ad un'ingiusta gogna mediatica, stanno rispondendo da campioni sul campo. Ma in politica è tutt'altro che vero. Attraversiamo una durissima crisi del debito, e una recessione, in gran parte frutti avvelenati dei nostri vizi nazionali. Eppure, né il governo tecnico, né la classe politica, né i media, e temo nemmeno l'opinione pubblica, si sono ancora convinti della necessità di estirpare per sempre quei vizi. Sappiamo solo giocare allo scaricabarile, imputando la colpa delle nostre disgrazie ai cattivi tedeschi e all'euro. Pur con gli sfottò "nazionalisti", che una partita di calcio resti una partita di calcio. Vi prego basta con le metafore politiche, è più divertente sentirsi tutti allenatori per una sera.
Belli con anima ma senza gol
Non c'è dubbio, la miglior partita dell'Italia in questo torneo, inglesi annichiliti. Non ricordo una vittoria ai rigori che fosse così meritata nell'arco dei 120 minuti. Eppure... eppure non l'abbiamo "vinta", eppure non abbiamo segnato nemmeno un gol. Solo sul palo di De Rossi all'inizio c'entra la sfortuna, ma dopo non si ricordano miracoli di Hart o interventi della dea bendata. Mai vista l'Inghilterra così. "All'italiana"? Se proprio vogliamo definirla "all'italiana", è una bruttissima copia. Gioco difensivo, sì, ma anche ripartenze veloci, pericolose, e la zampata finale, inattesa, di rapina, sono le caratteristiche delle nostre nazionali (chiedere ai tedeschi). Niente di simile hanno saputo proporre ieri gli inglesi. In serie A non gioca così male nemmeno una neopromossa in casa della prima in classifica.
Ma l'entusiasmo per il trionfo di ieri (ancor più inebriante perché sofferto) non deve farci scordare che l'Italia arriva in semifinale con un record modesto: tre pareggi e una vittoria (sofferta, contro la squadra tecnicamente più scarsa del torneo). Questo per non dimenticarci dei limiti di questa squadra: limiti di qualità e ossessioni prandelliane. E' una squadra che fa una fatica enorme a far gol: 1 su punizione, due da calcio d'angolo e l'unico su azione di Di Natale, che è anche l'unico che la Spagna abbia subito in tutto il torneo (sarà un caso?). Prandelli ha costruito la squadra in funzione della trasformazione di Balotelli in prima punta. Intorno gli ha fatto il vuoto, non convocando nessuna prima punta che potesse fargli ombra. Se, per esempio, avesse convocato Matri, a quest'ora l'avrebbe dovuto schierare al posto di SuperMario. Ebbene, siamo in semifinale ma l'esperimento non è ancora riuscito, andiamo avanti con questo equivoco: la squadra fa gioco, crea palle gol, ma Balotelli non finalizza, non è uno da gol facili. Inoltre Prandelli si è irrigidito su gerarchie assurde: Di Natale lo vede solo come vice di Balotelli, mentre insieme avrebbero potuto alternarsi a seconda delle azioni nei ruoli di prima e di seconda punta, senza dare punti di riferimento. Anche ieri, Di Natale sarebbe dovuto entrare al posto di Cassano, non Diamanti (e meno male per lui che non ha sbagliato il rigore), e forse avremmo segnato entro i 120 minuti.
Poi c'è l'equivoco Cassano: possibile che nessuno veda che li sente tutti i mesi di inattività per l'operazione al cuore? Non corre senza palla; anche quando ha lo spunto, non ha la velocità d'esecuzione che serve né la precisione, sbaglia un'infinità di palloni. Potrebbe semmai tornare utile negli ultimi trenta minuti della partita, quando i ritmi sono più lenti e le squadre meno compatte.
L'altro equivoco di questa squadra è a centrocampo: abbiamo il centrocampo a 3 più forte d'Europa, eppure Prandelli insiste a giocare a quattro, con una sorta di rombo il cui vertice alto non è qualitativamente all'altezza: ci sono volute tre partite per far fuori Motta, troppo lento e scarso; ma anche Montolivo in quel ruolo non ha mai sfondato e non ci gioca da anni (anche se ieri non ha fatto malissimo).
Dopo tutto, però, se costruisci una decina di palle gol pulite in 120 minuti diventa più difficile prendersela con l'allenatore, anche se i suoi errori restano e complicano non poco la vita. Sfatato invece il pregiudizio secondo cui le squadre di Prandelli non avrebbero la cattiveria e la grinta necessarie. Questa squadra anima e orgoglio ce le ha eccome.
Menzione speciale per Pirlo, che gioca una partita strana. Sbaglia troppi palloni durante i '90 minuti (ma ne gioca un'infinità), se li fa strappare dai piedi, e in una circostanza la combina grossa regalando la palla agli avversari che ripartono in contropiede. Non è brillantissimo in questo Europeo, non è continuo, evidentemente pesa una stagione giocata ad altissimi livelli. Si accende e si spegne, eppure riesce ad essere determinante. Dalla metà del secondo tempo e nei supplementari sale in cattedra (complice un centrocampo inglese meno asfissiante, con Gerrard a metà servizio), illumina il gioco e conclude la gara con quel "cucchiaio". Il calcio non è una scienza, non lo sapremo mai, ma mi piace pensare sia stato decisivo, che abbia provocato i due errori inglesi e infuso sicurezza nei compagni. Un rigore del genere incute nell'avversario il senso di una certa ineluttabilità, taglia le gambe, fa evaporare la convinzione. E' come un grido: "Spostatevi, siamo più forti". Un fenomeno.
Ora il classico dei classici: Italia-Germania. I tedeschi hanno l'occasione di prendersi una storica rivincita. Tutto sembra giocare a loro favore: hanno giocatori di qualità; due centravanti implacabili e in forma; due giorni in più di riposo; mentre all'Italia rischiano di mancare De Rossi ed entrambi i terzini di destra. Ma se la staranno già facendo sotto. Troppe volte li abbiamo beffati, l'ultima non troppo lontana: nel 2006 in casa loro, a Dortmund.
PAGELLE (rigori inclusi): Buffon 7 Abate 6,5 Bonucci 7 Barzagli 6,5 Balzaretti 6 Marchisio 6 Pirlo 8 De Rossi 6,5 Montolivo 6 Cassano 4 Balotelli 5; Maggio 6 Diamanti 6 Nocerino 7; Prandelli 5
Ma l'entusiasmo per il trionfo di ieri (ancor più inebriante perché sofferto) non deve farci scordare che l'Italia arriva in semifinale con un record modesto: tre pareggi e una vittoria (sofferta, contro la squadra tecnicamente più scarsa del torneo). Questo per non dimenticarci dei limiti di questa squadra: limiti di qualità e ossessioni prandelliane. E' una squadra che fa una fatica enorme a far gol: 1 su punizione, due da calcio d'angolo e l'unico su azione di Di Natale, che è anche l'unico che la Spagna abbia subito in tutto il torneo (sarà un caso?). Prandelli ha costruito la squadra in funzione della trasformazione di Balotelli in prima punta. Intorno gli ha fatto il vuoto, non convocando nessuna prima punta che potesse fargli ombra. Se, per esempio, avesse convocato Matri, a quest'ora l'avrebbe dovuto schierare al posto di SuperMario. Ebbene, siamo in semifinale ma l'esperimento non è ancora riuscito, andiamo avanti con questo equivoco: la squadra fa gioco, crea palle gol, ma Balotelli non finalizza, non è uno da gol facili. Inoltre Prandelli si è irrigidito su gerarchie assurde: Di Natale lo vede solo come vice di Balotelli, mentre insieme avrebbero potuto alternarsi a seconda delle azioni nei ruoli di prima e di seconda punta, senza dare punti di riferimento. Anche ieri, Di Natale sarebbe dovuto entrare al posto di Cassano, non Diamanti (e meno male per lui che non ha sbagliato il rigore), e forse avremmo segnato entro i 120 minuti.
Poi c'è l'equivoco Cassano: possibile che nessuno veda che li sente tutti i mesi di inattività per l'operazione al cuore? Non corre senza palla; anche quando ha lo spunto, non ha la velocità d'esecuzione che serve né la precisione, sbaglia un'infinità di palloni. Potrebbe semmai tornare utile negli ultimi trenta minuti della partita, quando i ritmi sono più lenti e le squadre meno compatte.
L'altro equivoco di questa squadra è a centrocampo: abbiamo il centrocampo a 3 più forte d'Europa, eppure Prandelli insiste a giocare a quattro, con una sorta di rombo il cui vertice alto non è qualitativamente all'altezza: ci sono volute tre partite per far fuori Motta, troppo lento e scarso; ma anche Montolivo in quel ruolo non ha mai sfondato e non ci gioca da anni (anche se ieri non ha fatto malissimo).
Dopo tutto, però, se costruisci una decina di palle gol pulite in 120 minuti diventa più difficile prendersela con l'allenatore, anche se i suoi errori restano e complicano non poco la vita. Sfatato invece il pregiudizio secondo cui le squadre di Prandelli non avrebbero la cattiveria e la grinta necessarie. Questa squadra anima e orgoglio ce le ha eccome.
Menzione speciale per Pirlo, che gioca una partita strana. Sbaglia troppi palloni durante i '90 minuti (ma ne gioca un'infinità), se li fa strappare dai piedi, e in una circostanza la combina grossa regalando la palla agli avversari che ripartono in contropiede. Non è brillantissimo in questo Europeo, non è continuo, evidentemente pesa una stagione giocata ad altissimi livelli. Si accende e si spegne, eppure riesce ad essere determinante. Dalla metà del secondo tempo e nei supplementari sale in cattedra (complice un centrocampo inglese meno asfissiante, con Gerrard a metà servizio), illumina il gioco e conclude la gara con quel "cucchiaio". Il calcio non è una scienza, non lo sapremo mai, ma mi piace pensare sia stato decisivo, che abbia provocato i due errori inglesi e infuso sicurezza nei compagni. Un rigore del genere incute nell'avversario il senso di una certa ineluttabilità, taglia le gambe, fa evaporare la convinzione. E' come un grido: "Spostatevi, siamo più forti". Un fenomeno.
Ora il classico dei classici: Italia-Germania. I tedeschi hanno l'occasione di prendersi una storica rivincita. Tutto sembra giocare a loro favore: hanno giocatori di qualità; due centravanti implacabili e in forma; due giorni in più di riposo; mentre all'Italia rischiano di mancare De Rossi ed entrambi i terzini di destra. Ma se la staranno già facendo sotto. Troppe volte li abbiamo beffati, l'ultima non troppo lontana: nel 2006 in casa loro, a Dortmund.
PAGELLE (rigori inclusi): Buffon 7 Abate 6,5 Bonucci 7 Barzagli 6,5 Balzaretti 6 Marchisio 6 Pirlo 8 De Rossi 6,5 Montolivo 6 Cassano 4 Balotelli 5; Maggio 6 Diamanti 6 Nocerino 7; Prandelli 5
L'Italia dei soviet fa fuggire le imprese
Anche su L'Opinione
Prima di commentare una sentenza bisognerebbe leggerla. Ma in questo caso, che i giudici abbiano applicato alla lettera le leggi, oppure si siano lasciati prendere la mano da considerazioni ideologiche, qualche riflessione si può anticipare sulle cause profonde, culturali, di certe distorsioni, in presenza delle quali un’economia semplicemente non può funzionare.
Nei giorni scorsi il Wall Street Journal pubblicava un articolo nel quale con toni sarcastici si dava conto di tutta la selva di oneri fiscali, contributivi e burocratici cui un imprenditore in Italia deve far fronte per "creare" lavoro. Dal che desumeva che la riforma del lavoro, la «boiata» di cui cui però si chiede una rapida approvazione, e il recente decreto sviluppo, di cui va così orgoglioso il ministro Corrado Passera, possono risolvere i problemi dell’economia italiana «solo nel senso che si potrebbe, teoricamente, svuotare il Lago di Como con un mestolo e una cannuccia».
Ebbene, rispetto ai mestoli e alle cannucce del governo Monti la sentenza che condanna la Fiat ad assumere nello stabilimento di Pomigliano 145 lavoratori iscritti alla Fiom rappresenta un diluvio universale. Non c'è riforma, intervista per rassicurare gli "Herr Muller", road show del nostro premier, o curriculum personali che reggano. Una sentenza simile, anche se dovesse essere riformata in appello, spazza via tutto (figuriamoci le timide riforme che sono state fatte). Dimostra al di là di ogni buona intenzione riformatrice che per le imprese l’Italia è sempre più un paese da cui fuggire. Non solo fornisce alla Fiat di Sergio Marchionne ottimi motivi per trasferire tutta la produzione all’estero, ma allontana chiunque, italiano o straniero, volesse investire nel nostro paese.
Si badi bene: non siamo di fronte ad un normale caso di discriminazione, in cui alcuni lavoratori licenziati ingiustamente per la loro affiliazione sindacale vengono reintegrati. In questo caso i giudici obbligano la Fiat ad assumere ex novo 145 lavoratori iscritti alla Fiom. Dunque, non solo costringono l’azienda ad ampliare l’organico della fabbrica, a prescindere da qualsiasi valutazione di economicità, ma scelgono i nuovi assunti sulla base della loro tessera di iscrizione a un sindacato, quindi prescindendo da qualsiasi criterio di merito, competenze o mansioni.
Ma l'aspetto ancora più assurdo della vicenda è che la prova della discriminazione da parte di Fiat consiste in una simulazione statistica: un professore di Birmingham ha infatti calcolato che le possibilità che su 2.093 assunti a Pomigliano nessuno fosse iscritto alla Fiom risultano meno di una su dieci milioni. Ma com'è possibile che un semplice dato statistico sia accettato come prova decisiva? Bisogna ringraziare uno dei capolavori illiberali che ci ha regalato il governo Berlusconi, oltre al "mostro" Equitalia: l'art. 28 del decreto legislativo 150 del 2011 stabilisce, infatti, che i comportamenti discriminatori sul luogo di lavoro possono essere «desunti anche da dati di carattere statistico», e in questo caso «spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione».
La sentenza quindi stabilisce una rigida regola di proporzionalità: nelle assunzioni va mantenuta la percentuale di iscritti tra i vari sindacati, anche se uno di essi (come la Fiom a Pomigliano) non ha sottoscritto il contratto collettivo aziendale, altrimenti c'è discriminazione. Altro che merito, siamo al manuale Cencelli delle tessere sindacali. Ma se di discriminazione si tratta, che dire di quelle di genere, razza, lingua, religione, opinioni politiche e orientamento sessuale, esplicitamente vietate dalla nostra Costituzione? Se il criterio da seguire per non discriminare è statistico, le aziende dovranno rispettare le percentuali di uomini e donne, o di musulmani, omosessuali, o di qualsisi minoranza, censiti nella società. E perché non anche delle diverse fedi calcistiche, o del colore dei capelli? E i non iscritti ad alcun sindacato? Vengono tutelati anch'essi, in modo da essere assunti in proporzione al proprio numero rispetto ai colleghi iscritti?
Evidentemente non può funzionare così. Ma purtroppo chi ha un po' d'esperienza diretta del mondo del lavoro sa che per evitare simili problemi sono gli stessi imprenditori che assumono lavoratori indicati dai rappresentanti sindacali e degli ordini professionali. Esistono veri e propri accordi di "precedenza" nelle assunzioni, che penalizzano i non iscritti, non "leccaculo", anche se magari più meritevoli.
In Italia, dunque, sindacati e magistratura non solo decidono chi le aziende possono o non possono licenziare, ma anche chi devono assumere. Si può anche essere convinti che astratti principi di uguaglianza (ammesso e non concesso che di uguaglianza si tratti) debbano sempre e comunque prevalere su qualsiasi criterio di economicità e di mercato. Basta però essere consapevoli che così l’economia semplicemente non funziona, le aziende fuggono all'estero e si cancellano posti di lavoro anziché crearli.
Ma c’è una causa profonda, culturale, per cui in Italia il legislatore e coloro che sono chiamati ad applicare le leggi aprono le porte a delle forme di vero e proprio collettivismo: c'è un gigantesco equivoco sul concetto di proprietà e una radicata e diffusa ignoranza economica. Un'impresa è di proprietà di chi ci mette i soldi. E' spiacevole rammentarlo ma è così. Si può tirare la corda quanto si vuole con i diritti sociali, finché poi si esagera e costui non ci mette più i soldi, chiude la baracca, i lavoratori sono a spasso e il paese si impoverisce. Questa realtà basilare ce la siamo dimenticata. Non riuscirà a liberare e rilanciare la nostra economica nessun governo, nessuna maggioranza politica, che non ne sia consapevole e che non sia disposta ad ingaggiare una dura battaglia ideologica, di piglio thatcheriano, su questi temi. Anche su questo il governo Monti, con il suo patetico compromesso sull’articolo 18, ha fallito.
Prima di commentare una sentenza bisognerebbe leggerla. Ma in questo caso, che i giudici abbiano applicato alla lettera le leggi, oppure si siano lasciati prendere la mano da considerazioni ideologiche, qualche riflessione si può anticipare sulle cause profonde, culturali, di certe distorsioni, in presenza delle quali un’economia semplicemente non può funzionare.
Nei giorni scorsi il Wall Street Journal pubblicava un articolo nel quale con toni sarcastici si dava conto di tutta la selva di oneri fiscali, contributivi e burocratici cui un imprenditore in Italia deve far fronte per "creare" lavoro. Dal che desumeva che la riforma del lavoro, la «boiata» di cui cui però si chiede una rapida approvazione, e il recente decreto sviluppo, di cui va così orgoglioso il ministro Corrado Passera, possono risolvere i problemi dell’economia italiana «solo nel senso che si potrebbe, teoricamente, svuotare il Lago di Como con un mestolo e una cannuccia».
Ebbene, rispetto ai mestoli e alle cannucce del governo Monti la sentenza che condanna la Fiat ad assumere nello stabilimento di Pomigliano 145 lavoratori iscritti alla Fiom rappresenta un diluvio universale. Non c'è riforma, intervista per rassicurare gli "Herr Muller", road show del nostro premier, o curriculum personali che reggano. Una sentenza simile, anche se dovesse essere riformata in appello, spazza via tutto (figuriamoci le timide riforme che sono state fatte). Dimostra al di là di ogni buona intenzione riformatrice che per le imprese l’Italia è sempre più un paese da cui fuggire. Non solo fornisce alla Fiat di Sergio Marchionne ottimi motivi per trasferire tutta la produzione all’estero, ma allontana chiunque, italiano o straniero, volesse investire nel nostro paese.
Si badi bene: non siamo di fronte ad un normale caso di discriminazione, in cui alcuni lavoratori licenziati ingiustamente per la loro affiliazione sindacale vengono reintegrati. In questo caso i giudici obbligano la Fiat ad assumere ex novo 145 lavoratori iscritti alla Fiom. Dunque, non solo costringono l’azienda ad ampliare l’organico della fabbrica, a prescindere da qualsiasi valutazione di economicità, ma scelgono i nuovi assunti sulla base della loro tessera di iscrizione a un sindacato, quindi prescindendo da qualsiasi criterio di merito, competenze o mansioni.
Ma l'aspetto ancora più assurdo della vicenda è che la prova della discriminazione da parte di Fiat consiste in una simulazione statistica: un professore di Birmingham ha infatti calcolato che le possibilità che su 2.093 assunti a Pomigliano nessuno fosse iscritto alla Fiom risultano meno di una su dieci milioni. Ma com'è possibile che un semplice dato statistico sia accettato come prova decisiva? Bisogna ringraziare uno dei capolavori illiberali che ci ha regalato il governo Berlusconi, oltre al "mostro" Equitalia: l'art. 28 del decreto legislativo 150 del 2011 stabilisce, infatti, che i comportamenti discriminatori sul luogo di lavoro possono essere «desunti anche da dati di carattere statistico», e in questo caso «spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione».
La sentenza quindi stabilisce una rigida regola di proporzionalità: nelle assunzioni va mantenuta la percentuale di iscritti tra i vari sindacati, anche se uno di essi (come la Fiom a Pomigliano) non ha sottoscritto il contratto collettivo aziendale, altrimenti c'è discriminazione. Altro che merito, siamo al manuale Cencelli delle tessere sindacali. Ma se di discriminazione si tratta, che dire di quelle di genere, razza, lingua, religione, opinioni politiche e orientamento sessuale, esplicitamente vietate dalla nostra Costituzione? Se il criterio da seguire per non discriminare è statistico, le aziende dovranno rispettare le percentuali di uomini e donne, o di musulmani, omosessuali, o di qualsisi minoranza, censiti nella società. E perché non anche delle diverse fedi calcistiche, o del colore dei capelli? E i non iscritti ad alcun sindacato? Vengono tutelati anch'essi, in modo da essere assunti in proporzione al proprio numero rispetto ai colleghi iscritti?
Evidentemente non può funzionare così. Ma purtroppo chi ha un po' d'esperienza diretta del mondo del lavoro sa che per evitare simili problemi sono gli stessi imprenditori che assumono lavoratori indicati dai rappresentanti sindacali e degli ordini professionali. Esistono veri e propri accordi di "precedenza" nelle assunzioni, che penalizzano i non iscritti, non "leccaculo", anche se magari più meritevoli.
In Italia, dunque, sindacati e magistratura non solo decidono chi le aziende possono o non possono licenziare, ma anche chi devono assumere. Si può anche essere convinti che astratti principi di uguaglianza (ammesso e non concesso che di uguaglianza si tratti) debbano sempre e comunque prevalere su qualsiasi criterio di economicità e di mercato. Basta però essere consapevoli che così l’economia semplicemente non funziona, le aziende fuggono all'estero e si cancellano posti di lavoro anziché crearli.
Ma c’è una causa profonda, culturale, per cui in Italia il legislatore e coloro che sono chiamati ad applicare le leggi aprono le porte a delle forme di vero e proprio collettivismo: c'è un gigantesco equivoco sul concetto di proprietà e una radicata e diffusa ignoranza economica. Un'impresa è di proprietà di chi ci mette i soldi. E' spiacevole rammentarlo ma è così. Si può tirare la corda quanto si vuole con i diritti sociali, finché poi si esagera e costui non ci mette più i soldi, chiude la baracca, i lavoratori sono a spasso e il paese si impoverisce. Questa realtà basilare ce la siamo dimenticata. Non riuscirà a liberare e rilanciare la nostra economica nessun governo, nessuna maggioranza politica, che non ne sia consapevole e che non sia disposta ad ingaggiare una dura battaglia ideologica, di piglio thatcheriano, su questi temi. Anche su questo il governo Monti, con il suo patetico compromesso sull’articolo 18, ha fallito.
Friday, June 22, 2012
I passi falsi di Monti, ora anche in Europa
Anche su L'Opinione
I passi falsi di Monti sono iniziati con le timide liberalizzazioni fino alla resa a sindacati e Pd sull'articolo 18. Un vero e proprio punto di svolta, da cui mercati e osservatori esteri, che avevano dato ampio credito al professore, hanno cominciato prima a dubitare dell'efficacia del suo sforzo riformista, poi ad esserne apertamente delusi. Ma se fino ad oggi i passi falsi avevano riguardato le riforme interne, è preoccupante che adesso se ne vedano anche in Europa.
Il premier raccoglie in questi giorni il frutto avvelenato dell'errore clamoroso commesso sulla riforma del lavoro: la scelta di procedere con il ddl anziché per decreto. In realtà, l'iter è stato piuttosto veloce rispetto ai tempi del nostro Parlamento, ma con l'intensificarsi della tensione sui bond di Italia e Spagna, e la caduta verticale di credibilità del governo agli occhi degli investitori e dei media, l'appprovazione della riforma è improvvisamente diventata urgente, per dimostrare a Bruxelles e agli osservatori internazionali che non c'è lo «stallo» di cui si parla.
Solo che il governo rischia di pagare a caro prezzo il via libera dei partiti entro il 27 giugno. In termini di ulteriori concessioni sulla riforma, già ritenuta «annacquata», ma soprattutto sul tema "esodati". Allargare la platea dei "salvaguardati" dalla riforma delle pensioni potrebbe costarci carissimo, tanto da vanificarne parte dei positivi effetti finanziari, costati sacrifici ai milioni di lavoratori che la nuova età di pensionamento dovranno rispettarla.
Anche a Bruxelles, avverte il Financial Times, «si sta assottigliando la pazienza nei confronti dell'Italia». Il nostro premier «ha sviluppato una sorta di mitologia attorno a lui, ma l'agenda di riforme è in stallo».
Fa discutere la proposta avanzata da Monti al G20 in Messico: utilizzare i fondi salvastati (Efsf o Esm) per acquistare sul mercato secondario bond i cui tassi di interesse siano insostenibili, nonostante emessi da Paesi "virtuosi", cioè Italia e Spagna. Un «paracetamolo finanziario», l'ha bollata la Commissione Ue. Un'opzione, ha ricordato la cancelliera Merkel, «teoricamente» possibile, anche se «alle condizioni previste» per l'uso dell'Efsf. La possibilità in effetti esiste dall'ottobre 2011, ma solo se i governi i cui bond devono essere acquistati accettano di concordare un programma vincolante. Ma la peculiarità della proposta Monti è che non si tratterebbe di «salvataggi», aiuti condizionati ad un programma, come per la Grecia. «E' un tentativo dell'Italia – denuncia il Ft-Deutschland – di ottenere soldi senza condizioni, senza gli oneri connessi». Il messaggio sottinteso di Monti è chiaro: i compiti a casa li abbiamo fatti, più di così non possiamo. E se il costo del debito resta alto è perché i mercati non capiscono, o speculano.
Il che significa, come osserva Zingales sul Sole24Ore, che Monti si è «convertito alla visione dei mercati della maggior parte dei politici nostrani, per cui i prezzi non sono importanti segnali, ma il prodotto della mancanza di lungimiranza dei perfidi speculatori». Ma la riduzione artificiale del costo del debito favorirebbe almeno il processo di risanamento e di riforme, oppure allentando la pressione politica lo rallenterebbe? Secondo Zingales è un'idea sbagliata, perché «si basa sul presupposto che il costo del nostro debito non abbia alcuna base reale, ma sia solo il frutto della speculazione», e perché agire sul mercato secondario «non riduce direttamente il costo del nostro debito, ma solo indirettamente». Verrebbe interpretato come «un segnale a vendere» e l'unico risultato sarebbe quello di «permettere ai creditori esteri di ridurre la loro esposizione». Meglio usare l'Efsf per «prestiti diretti», ma per questi occorrerebbe sottostare a delle condizioni. Insomma, Monti comincia a dubitare che l'Italia possa farcela da sola, ma è proprio vero che abbiamo fatto i "compiti a casa"?
I passi falsi di Monti sono iniziati con le timide liberalizzazioni fino alla resa a sindacati e Pd sull'articolo 18. Un vero e proprio punto di svolta, da cui mercati e osservatori esteri, che avevano dato ampio credito al professore, hanno cominciato prima a dubitare dell'efficacia del suo sforzo riformista, poi ad esserne apertamente delusi. Ma se fino ad oggi i passi falsi avevano riguardato le riforme interne, è preoccupante che adesso se ne vedano anche in Europa.
Il premier raccoglie in questi giorni il frutto avvelenato dell'errore clamoroso commesso sulla riforma del lavoro: la scelta di procedere con il ddl anziché per decreto. In realtà, l'iter è stato piuttosto veloce rispetto ai tempi del nostro Parlamento, ma con l'intensificarsi della tensione sui bond di Italia e Spagna, e la caduta verticale di credibilità del governo agli occhi degli investitori e dei media, l'appprovazione della riforma è improvvisamente diventata urgente, per dimostrare a Bruxelles e agli osservatori internazionali che non c'è lo «stallo» di cui si parla.
Solo che il governo rischia di pagare a caro prezzo il via libera dei partiti entro il 27 giugno. In termini di ulteriori concessioni sulla riforma, già ritenuta «annacquata», ma soprattutto sul tema "esodati". Allargare la platea dei "salvaguardati" dalla riforma delle pensioni potrebbe costarci carissimo, tanto da vanificarne parte dei positivi effetti finanziari, costati sacrifici ai milioni di lavoratori che la nuova età di pensionamento dovranno rispettarla.
Anche a Bruxelles, avverte il Financial Times, «si sta assottigliando la pazienza nei confronti dell'Italia». Il nostro premier «ha sviluppato una sorta di mitologia attorno a lui, ma l'agenda di riforme è in stallo».
Fa discutere la proposta avanzata da Monti al G20 in Messico: utilizzare i fondi salvastati (Efsf o Esm) per acquistare sul mercato secondario bond i cui tassi di interesse siano insostenibili, nonostante emessi da Paesi "virtuosi", cioè Italia e Spagna. Un «paracetamolo finanziario», l'ha bollata la Commissione Ue. Un'opzione, ha ricordato la cancelliera Merkel, «teoricamente» possibile, anche se «alle condizioni previste» per l'uso dell'Efsf. La possibilità in effetti esiste dall'ottobre 2011, ma solo se i governi i cui bond devono essere acquistati accettano di concordare un programma vincolante. Ma la peculiarità della proposta Monti è che non si tratterebbe di «salvataggi», aiuti condizionati ad un programma, come per la Grecia. «E' un tentativo dell'Italia – denuncia il Ft-Deutschland – di ottenere soldi senza condizioni, senza gli oneri connessi». Il messaggio sottinteso di Monti è chiaro: i compiti a casa li abbiamo fatti, più di così non possiamo. E se il costo del debito resta alto è perché i mercati non capiscono, o speculano.
Il che significa, come osserva Zingales sul Sole24Ore, che Monti si è «convertito alla visione dei mercati della maggior parte dei politici nostrani, per cui i prezzi non sono importanti segnali, ma il prodotto della mancanza di lungimiranza dei perfidi speculatori». Ma la riduzione artificiale del costo del debito favorirebbe almeno il processo di risanamento e di riforme, oppure allentando la pressione politica lo rallenterebbe? Secondo Zingales è un'idea sbagliata, perché «si basa sul presupposto che il costo del nostro debito non abbia alcuna base reale, ma sia solo il frutto della speculazione», e perché agire sul mercato secondario «non riduce direttamente il costo del nostro debito, ma solo indirettamente». Verrebbe interpretato come «un segnale a vendere» e l'unico risultato sarebbe quello di «permettere ai creditori esteri di ridurre la loro esposizione». Meglio usare l'Efsf per «prestiti diretti», ma per questi occorrerebbe sottostare a delle condizioni. Insomma, Monti comincia a dubitare che l'Italia possa farcela da sola, ma è proprio vero che abbiamo fatto i "compiti a casa"?
Wednesday, June 20, 2012
Sviluppo o gioco delle tre carte?
Misure reali, incisive, da subito operative, oppure solo annunci, bluff, rinvii e personalismi? Dopo uno studio più approfondito, il pacchetto sviluppo varato dal governo venerdì scorso sembra appartenere più alla categoria degli annunci e delle promesse che non dei fatti. E quel che è peggio è che ciò che luccica – incentivi e dismissioni – non è oro. All'indomani della conferenza stampa di presentazione del provvedimento i grandi giornali hanno accolto l'ultimo sforzo dell'esecutivo Monti con una generosità che non avrebbero riservato ai governi precedenti, titolando in prima pagina, enfaticamente, sui presunti 80 miliardi che starebbero per inondare l'economia reale, nonostante fosse già evidente ad una lettura superficiale del decreto quanto in realtà si trattasse di risorse più virtuali che reali. Innanzitutto, per rendere pienamente operativi i 61 articoli che compongono il pacchetto bisognerà aspettare ben 45 provvedimenti tra decreti e atti ministeriali, molti senza scadenza o con termini che vanno dai 60 giorni a fine 2013. Ed è nei dettagli che si nasconde il diavolo. In particolare, però, la delusione è sugli incentivi e sulle dismissioni, dove il governo mostra di fare il gioco delle tre carte.
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Tuesday, June 19, 2012
Esodati, il vero scandalo è l'assalto alla diligenza
Sulla vicenda "esodati" un parere controcorrente. Si può spezzare una lancia in difesa della Fornero? Ha fatto confusione e ormai è intimidita, ma il vero problema è che non può dire la verità: non è uno scandalo mandare in pensione anticipata migliaia di cinquantenni in deroga alla riforma che vale per milioni di italiani? Non è una truffa che la previdenza funzioni come ammortizzatore sociale? E non sono aiuti di Stato, le aziende che usufruiscono del cosiddetto "scivolo" (guarda caso quelle partecipate dallo Stato, Poste, banche e grandi gruppi industriali)? L'unica colpa della Fornero è non avere il coraggio di denunciare il privilegio: gli esodati sono privilegiati o aspiranti tali, non vittime. La toppa è di buon senso se vale solo per quelli già usciti o prossimi all'uscita concordata dal lavoro, purché davvero vicini alla pensione. Tutti gli altri "esodandi" possono rinegoziare l'accordo con l'azienda, mentre per i disoccupati vicini alla pensione secondo i vecchi requisiti è un problema di welfare, non di previdenza.
Complici i media, i sindacati sono riusciti a far passare gli esodati come vittime cui viene improvvisamente negato un diritto acquisito, e a far passare per "esodati" anche gli aspiranti tali e chi non lo è. Hanno strumentalizzato il problema per sabotare la riforma delle pensioni. A ciò equivarebbe infatti, conti alla mano, allargare la "salvaguardia" ai 400 mila di cui si parla. Insomma, quello in corso è un vero e proprio assalto alla diligenza, cioè alle casse dello Stato.
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Complici i media, i sindacati sono riusciti a far passare gli esodati come vittime cui viene improvvisamente negato un diritto acquisito, e a far passare per "esodati" anche gli aspiranti tali e chi non lo è. Hanno strumentalizzato il problema per sabotare la riforma delle pensioni. A ciò equivarebbe infatti, conti alla mano, allargare la "salvaguardia" ai 400 mila di cui si parla. Insomma, quello in corso è un vero e proprio assalto alla diligenza, cioè alle casse dello Stato.
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Capacità di soffrire e fattore C: basteranno?
La capacità di soffrire, solo quella ci è rimasta e solo quella, e un pizzico di fortuna (la sportività degli avversari, di cui abbiamo sospettato), ci hanno permesso di qualificarci. E' l'Italia dei paradossi, quella che gioca la partita più brutta delle tre del girone eppure è l'unica che riesce a vincere. Complice l'avversario, l'Irlanda di Trapattoni: davvero modesta, la squadra tecnicamente più scarsa dell'intero torneo. Non una diga in difesa, tanto da prendere gol dopo soli 3 minuti sia dalla Croazia che dalla Spagna (noi ce ne mettiamo mi pare 38 di minuti), e da subirne 9 in tre partite; senza speranze in attacco, non ha dato mai veramente la sensazione di poter pareggiare, anche se sotto pressione lo svarione azzurro, come con la Croazia, ci poteva stare.
Nonostante le novità tattiche è stata una partita-fotocopia di quella con la Croazia, ma giocata leggermente peggio. Primo tempo noi a fare il gioco, anche se bloccati dall'ansia, e loro a ripartire; produciamo meno palle gol ma passiamo in vantaggio verso la fine con Cassano (colpo di testa! E questo la dice lunga sulla difesa irlandese); poi nel secondo tempo tiriamo i remi in barca, come avevamo fatto giovedì scorso (forse segno di cattiva condizione fisica?), e ci facciamo schiacciare nella nostra metà campo dall'Irlanda. Attacchi sterili, vero, buttano la palla lunga in mezzo, ma la squadra peggiore del torneo ci schiaccia e ci fa passare brutti tre quarti d'ora, quasi incapaci di reagire.
Un altro paradosso è che per come era schierata in campo stavolta la squadra sembrava più razionale, anche se le due punte hanno avuto poco supporto, i centrocampisti sono stati avidi di inserimenti e di assist. Stavolta terzini di ruolo che sanno cosa fare (Balzaretti molto meglio di Abate, comunque sufficiente), De Rossi mastino in copertura supplisce alla scarsa vena di un Pirlo spento (si fa sentire la fatica di un campionato giocato alla grande?), Marchisio stantuffo avanti-dietro, Motta troppo lento per essere vero, pare una statua. Davanti Cassano combina pochissimo, meno delle altre partite, ma fa gol, di testa, probabilmente colto anche lui di sorpresa; meglio Di Natale che però non viene quasi mai innescato da chi era deputato a farlo (Pirlo e Cassano).
Ci dice bene: l'Irlanda è davvero troppo scarsa, a noi servirebbero tre gol per stare tranquilli, almeno rispetto all'1-1 di Spagna e Croazia, ma non è aria. Per fortuna c'è la sportività dei nostri avversari che per oltre 80 minuti restano inchiodati all'unico risultanto - lo 0-0 - che penalizza entrambi. Alla fine è la Spagna a segnare, ma non emana odore di biscotto, infatti nessun pareggio regalato nei minuti finali ai croati, che sono fuori. Attenzione, perché non altre squadre, ma l'Italia con la capacità di soffrire e il fattore C è capace di arrivare in finale. A questo punto non si può escludere, speriamo solo di meritarcelo così da non doverci vergognare ad esultare.
Commento a parte la meritano la zampata di Balotelli, che ci porta sul 2-0 nei minuti finali, ma anche il suo comportamento. Appena entrato rischia di farsi buttare fuori tentando di rifilare una gomitata gratuita ad un avversario, per fortuna senza colpirlo. Fa un bel gol ma si ritiene evidentemente troppo offeso per regalare ai suoi compagni, al suo mister, e ai suoi connazionali, un cenno d'esultanza. No, lui deve mandare affanculo tutti, ditino alzato, non si capisce bene se solo il pubblico che l'ha fischiato al suo ingresso in campo o anche Prandelli che l'aveva sostituito nelle precedenti partite e non l'ha fatto partire titolare ieri. Non lo sapremo mai, perché Bonucci accorre a bloccarlo e a tappargli la bocca. Bel gol, ma Balotelli è quel tipo di giocatore che devi aspettare dieci partite irritanti per un gol del genere, inoltre rischiando ogni minuto che si faccia buttare fuori. Gioca e sembra che ti fa un favore; segna e fa l'offeso perché è partito dalla panchina (avendo giocato male le altre due gare). No, preferisco un giocatore più scarso ma con più voglia di indossare la maglia azzurra. A prescindere dalle qualità tecniche, non è una buona scelta affidarsi a lui in un torneo di sole 3-4, al massimo 6 partite in un mese. Il guaio è che a Balotelli se ne fanno passare troppe, e sappiamo perché: perché è bravo, è di colore, e nessuno vuole correre il rischio di passare per razzista. Ma così non si fa certo il suo bene.
PAGELLE: Buffon 7 Abate 6 Barzagli 6 Chiellini 6 Balzaretti 7 Marchisio 6,5 Pirlo 5 De Rossi 6,5 Motta 5 Cassano 6,5 Di Natale 6,5; Bonucci 6 Diamanti 6 Balotelli 6 (-1 per il comportamento); Prandelli 6
Nonostante le novità tattiche è stata una partita-fotocopia di quella con la Croazia, ma giocata leggermente peggio. Primo tempo noi a fare il gioco, anche se bloccati dall'ansia, e loro a ripartire; produciamo meno palle gol ma passiamo in vantaggio verso la fine con Cassano (colpo di testa! E questo la dice lunga sulla difesa irlandese); poi nel secondo tempo tiriamo i remi in barca, come avevamo fatto giovedì scorso (forse segno di cattiva condizione fisica?), e ci facciamo schiacciare nella nostra metà campo dall'Irlanda. Attacchi sterili, vero, buttano la palla lunga in mezzo, ma la squadra peggiore del torneo ci schiaccia e ci fa passare brutti tre quarti d'ora, quasi incapaci di reagire.
Un altro paradosso è che per come era schierata in campo stavolta la squadra sembrava più razionale, anche se le due punte hanno avuto poco supporto, i centrocampisti sono stati avidi di inserimenti e di assist. Stavolta terzini di ruolo che sanno cosa fare (Balzaretti molto meglio di Abate, comunque sufficiente), De Rossi mastino in copertura supplisce alla scarsa vena di un Pirlo spento (si fa sentire la fatica di un campionato giocato alla grande?), Marchisio stantuffo avanti-dietro, Motta troppo lento per essere vero, pare una statua. Davanti Cassano combina pochissimo, meno delle altre partite, ma fa gol, di testa, probabilmente colto anche lui di sorpresa; meglio Di Natale che però non viene quasi mai innescato da chi era deputato a farlo (Pirlo e Cassano).
Ci dice bene: l'Irlanda è davvero troppo scarsa, a noi servirebbero tre gol per stare tranquilli, almeno rispetto all'1-1 di Spagna e Croazia, ma non è aria. Per fortuna c'è la sportività dei nostri avversari che per oltre 80 minuti restano inchiodati all'unico risultanto - lo 0-0 - che penalizza entrambi. Alla fine è la Spagna a segnare, ma non emana odore di biscotto, infatti nessun pareggio regalato nei minuti finali ai croati, che sono fuori. Attenzione, perché non altre squadre, ma l'Italia con la capacità di soffrire e il fattore C è capace di arrivare in finale. A questo punto non si può escludere, speriamo solo di meritarcelo così da non doverci vergognare ad esultare.
Commento a parte la meritano la zampata di Balotelli, che ci porta sul 2-0 nei minuti finali, ma anche il suo comportamento. Appena entrato rischia di farsi buttare fuori tentando di rifilare una gomitata gratuita ad un avversario, per fortuna senza colpirlo. Fa un bel gol ma si ritiene evidentemente troppo offeso per regalare ai suoi compagni, al suo mister, e ai suoi connazionali, un cenno d'esultanza. No, lui deve mandare affanculo tutti, ditino alzato, non si capisce bene se solo il pubblico che l'ha fischiato al suo ingresso in campo o anche Prandelli che l'aveva sostituito nelle precedenti partite e non l'ha fatto partire titolare ieri. Non lo sapremo mai, perché Bonucci accorre a bloccarlo e a tappargli la bocca. Bel gol, ma Balotelli è quel tipo di giocatore che devi aspettare dieci partite irritanti per un gol del genere, inoltre rischiando ogni minuto che si faccia buttare fuori. Gioca e sembra che ti fa un favore; segna e fa l'offeso perché è partito dalla panchina (avendo giocato male le altre due gare). No, preferisco un giocatore più scarso ma con più voglia di indossare la maglia azzurra. A prescindere dalle qualità tecniche, non è una buona scelta affidarsi a lui in un torneo di sole 3-4, al massimo 6 partite in un mese. Il guaio è che a Balotelli se ne fanno passare troppe, e sappiamo perché: perché è bravo, è di colore, e nessuno vuole correre il rischio di passare per razzista. Ma così non si fa certo il suo bene.
PAGELLE: Buffon 7 Abate 6 Barzagli 6 Chiellini 6 Balzaretti 7 Marchisio 6,5 Pirlo 5 De Rossi 6,5 Motta 5 Cassano 6,5 Di Natale 6,5; Bonucci 6 Diamanti 6 Balotelli 6 (-1 per il comportamento); Prandelli 6
Friday, June 15, 2012
Dialogo tra sordi. Perché hanno ragione i tedeschi
Sottovalutazione, errori, miopia, interessi di corto respiro, hanno contraddistinto la prima fallimentare risposta europea alla crisi del debito. E non c'è dubbio che Germania e Francia portino il peso delle responsabilità maggiori: delle risposte inadeguate, non della crisi. Ma adesso le questioni sono più chiaramente sul tavolo. E c'è da sperare - anche se non m'illudo - che dopo l'intervento del presidente della Bundesbank Weidmann, oggi sul Corriere, e gli interventi ormai quotidiani della Merkel, sapremo aprire gli occhi e abbandonare questo demagogico coro anti-tedesco che domina il nostro dibattito sulla crisi. Weidmann indica un bivio:
La Germania ha una visione politica-istituzionale, nel senso di una maggiore integrazione, come soluzione - certo di lungo termine, e ovviamente più difficile e faticosa - della crisi. Mentre altri, come la Francia (e in misura minore anche l'Italia), hanno pronti piani anti-crisi di "paccate" di miliardi, velleitari perché nulla indica che nel frattempo verrebbero risolti i problemi delle economie nazionali. Parlano di Eurobond e Bce come la Fed, ma tacciono quando i tedeschi rispondono - giustamente - che se si vogliono "federalizzare" i debiti e condividere i rischi, allora ci devono essere più controlli, più vincoli economici e politici, insomma una ulteriore cessione di sovranità e una vera unione fiscale, politiche di bilancio comuni. Altrimenti, si sta semplicemente chiedendo ai contribuenti tedeschi di garantire i debiti altrui.
Chiedono gli Eurobond, i "federalisti" del debito, ma sulla cessione di sovranità e l'unione fiscale e politica che dovrebbero accompagnarli, anzi precederli, fanno orecchie da mercanti. I tedeschi vogliono più Europa, gli altri solo più soldi per evitare dolorose riforme. A Berlino bluffano perché sanno che i francesi non cederanno mai altra sovranità? Può darsi, ma chi vuole "mutualizzare" i debiti, se non è in malafede, non può non andare a vedere le carte. Si può essere d'accordo o meno con una maggiore integrazione, con maggiori vincoli - io, per esempio, la temo - ma se si è contro non si possono certo pretendere Eurobond e altre forme di condivisione dei rischi dietro garanzia tedesca.
«... rientrare nel quadro normativo di Maastricht, basato sulla responsabilità individuale di ogni Paese per la politica fiscale nazionale. Oppure compiere un "balzo in avanti" riguardo a una maggiore integrazione. Perché non possiamo dire, da un lato, che ci fondiamo sulle politiche fiscali nazionali, e, dall'altro lato, mettere progressivamente in comune i rischi senza controllo, minando con questo il quadro legale esistente. Alla fine è sempre una questione di equilibrio fra il debito comune e il controllo».Poi un paradosso indicativo: il 58% dei tedeschi si dichiara favorevole ad un'integrazione politica maggiore, mentre più negative sono le opinioni pubbliche di quei Paesi «che richiedono con maggiore forza una mutualizzazione dei rischi e del debito, come Francia, Italia, o Spagna».
«Secondo me bisogna essere realistici riguardo alle soluzioni. E distoglie l'attenzione se si parla soltanto di Eurobond senza parlare anche di un controllo centralizzato. Il governo tedesco sta spingendo per un'unione fiscale, un sistema comune di politiche di bilancio, cercando di trovare una soluzione. E apprezzerei molto se il presidente Hollande aprisse il dibattito e discutesse sia del debito comune, sia di cessioni di sovranità e della via comune verso questa nuova unione politica. Ma chiedere soltanto gli Eurobond non ci porta da nessuna parte».
La Germania ha una visione politica-istituzionale, nel senso di una maggiore integrazione, come soluzione - certo di lungo termine, e ovviamente più difficile e faticosa - della crisi. Mentre altri, come la Francia (e in misura minore anche l'Italia), hanno pronti piani anti-crisi di "paccate" di miliardi, velleitari perché nulla indica che nel frattempo verrebbero risolti i problemi delle economie nazionali. Parlano di Eurobond e Bce come la Fed, ma tacciono quando i tedeschi rispondono - giustamente - che se si vogliono "federalizzare" i debiti e condividere i rischi, allora ci devono essere più controlli, più vincoli economici e politici, insomma una ulteriore cessione di sovranità e una vera unione fiscale, politiche di bilancio comuni. Altrimenti, si sta semplicemente chiedendo ai contribuenti tedeschi di garantire i debiti altrui.
Chiedono gli Eurobond, i "federalisti" del debito, ma sulla cessione di sovranità e l'unione fiscale e politica che dovrebbero accompagnarli, anzi precederli, fanno orecchie da mercanti. I tedeschi vogliono più Europa, gli altri solo più soldi per evitare dolorose riforme. A Berlino bluffano perché sanno che i francesi non cederanno mai altra sovranità? Può darsi, ma chi vuole "mutualizzare" i debiti, se non è in malafede, non può non andare a vedere le carte. Si può essere d'accordo o meno con una maggiore integrazione, con maggiori vincoli - io, per esempio, la temo - ma se si è contro non si possono certo pretendere Eurobond e altre forme di condivisione dei rischi dietro garanzia tedesca.
Prandelli persevera negli errori e il "biscotto" torna ad essere scandaloso
Continuare testardamente a sbagliare coppia d'attacco è la maledizione di ogni ct azzurro e Prandelli non sfugge alla regola. E così può capitare che una vittoria tranquillamente a portata, viste le comiche della difesa croata nel primo tempo (con i difensori che svirgolano i rinvii e si scontrano tra di loro), possa sfuggire. Non bisogna farsi illusioni, la nostra squadra è piuttosto scarsa. Solo il centrocampo, quando De Rossi è schierato con Marchisio e Pirlo, è sul livello delle nazionali più forti. Come ha dimostrato il colossale errore di Chiellini ieri, in teoria il nostro miglior difensore, e la leggerezza, direi l'evanescenza, degli attaccanti, gli altri reparti sono molto modesti.
Per questo bisognava per lo meno adottare qualche furbizia in più. Ripeto: Balotelli non ha la testa, talmente pieno di sé che gioca con sufficienza e continua ad addormentarsi su palle decisive. Cassano ha lo spunto ma non ha nelle gambe (e non può averla) la brillantezza che servirebbe a questi livelli. Ormai sono due partite che gioca solo mezz'ora, poi scompare, eppure Prandelli lo toglie solo all'80esimo. Semmai, bisognerebbe sfruttare la sua mezz'ora a fine partita, non dall'inizio. Per non parlare di Giaccherini, generoso ma fuori ruolo, quindi sempre in affanno in difesa e quasi nullo in attacco; e di Motta, cui in quella posizione andrebbe preferito Nocerino.
Con attaccanti più incisivi in campo avremmo probabilmente chiuso la pratica nel primo tempo, quando abbiamo espresso un buon gioco, esercitato pressione, e mandato in bambola la difesa croata. Forse sarebbe stato sufficiente inserire Di Natale a inizio ripresa, per sfruttare il contropiede. Invece Prandelli ha aspettato troppo e un minuto dopo il suo ingresso i croati hanno pareggiato e la partita si è complicata.
Adesso invece di ripensare agli errori, parleremo di "biscotto" per una settimana, facendo l'errore di considerare già vinta, una pura formalità, la partita con l'Irlanda (attenzione all'orgoglio ferito). Con incredibile faccia tosta Buffon si è già "switchato" in modalità indignato preventivo. Solo un paio di settimane fa diceva che in fondo non c'è niente di male che due squadre si facciano i loro conti, se a entrambe conviene il pareggio. Oggi torna ad essere scandaloso, un 2-2 sarebbe «etichetta di antisportività», da far «ridere l'Europa e il mondo». Complimenti per la coerenza.
Comunque per farsi un'idea delle probabilità di "biscotto" (o "galleta"?) tra Spagna e Croazia bisognerà tener d'occhio le quote dei bookmakers su pareggio, over 3,5, e risultato esatto 2:2. Al momento in cui scriviamo in effetti il pareggio è bassino: 2,50-2,60, considerando che la vittoria della Croazia è data tra 7 e 8. Non si vede poi perché se sospettiamo di spagnoli e croati, loro non dovrebbero sospettare della "rassegnazione" irlandese contro di noi, non avendo più nulla da perdere né da vincere, ed essendoci in panchina un allenatore italiano.
In serata Del Bosque, che stavolta schiera dall'inizio una punta di ruolo, e Torres, che ritrova improvvisamente gol e cinismo davanti alla porta, dovrebbero farci capire quanto siamo stati fortunati contro la Spagna: un punto regalato.
Ultima nota sempre sulla Rai: ancora un attorucolo a commentare nell'intervallo; ancora un'intervista in ginocchio ad Abete; telecronaca infantile. Non se ne può davvero più. Chiudetela.
PAGELLE: Buffon 6 Bonucci 6 DeRossi 6,5 Chiellini 5 Maggio 5 Marchisio 6,5 Pirlo 6,5 Motta 5 Giaccherini 5,5 Cassano 5 Balotelli 5,5; Di Natale ng Giovinco ng Montolivo 6; Prandelli 4
Per questo bisognava per lo meno adottare qualche furbizia in più. Ripeto: Balotelli non ha la testa, talmente pieno di sé che gioca con sufficienza e continua ad addormentarsi su palle decisive. Cassano ha lo spunto ma non ha nelle gambe (e non può averla) la brillantezza che servirebbe a questi livelli. Ormai sono due partite che gioca solo mezz'ora, poi scompare, eppure Prandelli lo toglie solo all'80esimo. Semmai, bisognerebbe sfruttare la sua mezz'ora a fine partita, non dall'inizio. Per non parlare di Giaccherini, generoso ma fuori ruolo, quindi sempre in affanno in difesa e quasi nullo in attacco; e di Motta, cui in quella posizione andrebbe preferito Nocerino.
Con attaccanti più incisivi in campo avremmo probabilmente chiuso la pratica nel primo tempo, quando abbiamo espresso un buon gioco, esercitato pressione, e mandato in bambola la difesa croata. Forse sarebbe stato sufficiente inserire Di Natale a inizio ripresa, per sfruttare il contropiede. Invece Prandelli ha aspettato troppo e un minuto dopo il suo ingresso i croati hanno pareggiato e la partita si è complicata.
Adesso invece di ripensare agli errori, parleremo di "biscotto" per una settimana, facendo l'errore di considerare già vinta, una pura formalità, la partita con l'Irlanda (attenzione all'orgoglio ferito). Con incredibile faccia tosta Buffon si è già "switchato" in modalità indignato preventivo. Solo un paio di settimane fa diceva che in fondo non c'è niente di male che due squadre si facciano i loro conti, se a entrambe conviene il pareggio. Oggi torna ad essere scandaloso, un 2-2 sarebbe «etichetta di antisportività», da far «ridere l'Europa e il mondo». Complimenti per la coerenza.
Comunque per farsi un'idea delle probabilità di "biscotto" (o "galleta"?) tra Spagna e Croazia bisognerà tener d'occhio le quote dei bookmakers su pareggio, over 3,5, e risultato esatto 2:2. Al momento in cui scriviamo in effetti il pareggio è bassino: 2,50-2,60, considerando che la vittoria della Croazia è data tra 7 e 8. Non si vede poi perché se sospettiamo di spagnoli e croati, loro non dovrebbero sospettare della "rassegnazione" irlandese contro di noi, non avendo più nulla da perdere né da vincere, ed essendoci in panchina un allenatore italiano.
In serata Del Bosque, che stavolta schiera dall'inizio una punta di ruolo, e Torres, che ritrova improvvisamente gol e cinismo davanti alla porta, dovrebbero farci capire quanto siamo stati fortunati contro la Spagna: un punto regalato.
Ultima nota sempre sulla Rai: ancora un attorucolo a commentare nell'intervallo; ancora un'intervista in ginocchio ad Abete; telecronaca infantile. Non se ne può davvero più. Chiudetela.
PAGELLE: Buffon 6 Bonucci 6 DeRossi 6,5 Chiellini 5 Maggio 5 Marchisio 6,5 Pirlo 6,5 Motta 5 Giaccherini 5,5 Cassano 5 Balotelli 5,5; Di Natale ng Giovinco ng Montolivo 6; Prandelli 4
Thursday, June 14, 2012
Riforme in stallo, Monti spera nell'Europa
Il Wall Street Journal continua a picchiare duro su Monti: «Italy's Reform Stall», in Italia riforme «in stallo», è il titolo di uno degli editoriali di oggi, che non manca di sarcasmo: «Monti ha detto al Parlamento italiano che la crescita è "la nostra principale preoccupazione". Bello sentirlo, ma la domanda è se Monti abbia un'idea di cosa fare».
Si ricorda come il gettito Iva sia calato su base annua, «sebbene, o piuttosto bisognerebbe dire perché l'anno scorso l'aliquota è aumentata al 21%». «Non aumentare ancora l'Iva al 23% sarebbe un buon inizio - osserva il quotidiano - ma è dura definirla un'agenda per la crescita».
Il WSJ indica nella pressione fiscale troppo elevata la causa dell'«incredibile» quota di Pil sottratta al fisco. In parte si tratta di «attività criminale», ma «per lo più si tratta al contrario di attività economiche oneste che cercano di evitare il fisco. Eppure, Monti non parla mai di abbassare queste aliquote».
Ha cercato di cambiare l'articolo 18, ricorda il WSJ, ma «poi Monti si è ritirato di fronte all'opposizione parlamentare» (in realtà di fronte ai sindacati, ancor prima che la riforma arrivasse in Parlamento).
Ma soprattutto si rimprovera a Monti di concentrarsi su una soluzione europea invece di affrontare la sfida delle riforme in Italia: «Il primo ministro sta riponendo le sue speranze nel prossimo Consiglio europeo alla fine del mese. Ma i problemi dell'Italia non saranno risolti da nessun tanto atteso blowout keynesiano, ammesso e non concesso che i tedeschi possano permetterselo, e vogliano finanziarlo... Le soluzioni ai problemi dell'Italia - tagliare le tasse e riformare il mercato del lavoro su tutte - non sono affatto un mistero. Se c'è un politico in Italia in grado di raccogliere il consenso per attuarle è un'altra questione», conclude il quotidiano.
Insomma, il messagio mi sembra molto chiaro: i mercati sono preoccupati nel vedere Monti, e l'intera classe dirigente italiana (partiti e media), impegnati a cercare alibi e scappatoie europee (e keynesiane) piuttosto che ad affrontare la sfida delle riforme in Italia. Euro o non euro l'Italia deve cambiare al suo interno, non ci sono scorciatoie.
Si ricorda come il gettito Iva sia calato su base annua, «sebbene, o piuttosto bisognerebbe dire perché l'anno scorso l'aliquota è aumentata al 21%». «Non aumentare ancora l'Iva al 23% sarebbe un buon inizio - osserva il quotidiano - ma è dura definirla un'agenda per la crescita».
Il WSJ indica nella pressione fiscale troppo elevata la causa dell'«incredibile» quota di Pil sottratta al fisco. In parte si tratta di «attività criminale», ma «per lo più si tratta al contrario di attività economiche oneste che cercano di evitare il fisco. Eppure, Monti non parla mai di abbassare queste aliquote».
Ha cercato di cambiare l'articolo 18, ricorda il WSJ, ma «poi Monti si è ritirato di fronte all'opposizione parlamentare» (in realtà di fronte ai sindacati, ancor prima che la riforma arrivasse in Parlamento).
Ma soprattutto si rimprovera a Monti di concentrarsi su una soluzione europea invece di affrontare la sfida delle riforme in Italia: «Il primo ministro sta riponendo le sue speranze nel prossimo Consiglio europeo alla fine del mese. Ma i problemi dell'Italia non saranno risolti da nessun tanto atteso blowout keynesiano, ammesso e non concesso che i tedeschi possano permetterselo, e vogliano finanziarlo... Le soluzioni ai problemi dell'Italia - tagliare le tasse e riformare il mercato del lavoro su tutte - non sono affatto un mistero. Se c'è un politico in Italia in grado di raccogliere il consenso per attuarle è un'altra questione», conclude il quotidiano.
Insomma, il messagio mi sembra molto chiaro: i mercati sono preoccupati nel vedere Monti, e l'intera classe dirigente italiana (partiti e media), impegnati a cercare alibi e scappatoie europee (e keynesiane) piuttosto che ad affrontare la sfida delle riforme in Italia. Euro o non euro l'Italia deve cambiare al suo interno, non ci sono scorciatoie.
Svanito l'effetto-Monti, di nuovo rischio paralisi
Dalle comunicazioni del premier Monti alla Camera è emerso chiaramente che pur con tutti i mal di pancia i partiti sono ancora disposti a digerire di tutto. Il governo ha avuto finora, ma ha e avrà ancora, sulle politiche anti-crisi, la massima libertà di manovra. Peccato che si dimostri incapace di usarla. A ben vedere, infatti, a dispetto di facili luoghi comuni, piuttosto che scontrarsi con le lungaggini parlamentari e le resistenze di partiti e lobby, i provvedimenti e le riforme chiave sono usciti in ritardo e annacquati non già dal Parlamento, ma dal Consiglio dei ministri (liberalizzazioni e riforma del lavoro), o peggio non ne sono usciti affatto (dismissioni e tagli alla spesa). Insomma, il virus della paralisi è interno all'esecutivo tecnico così come era interno ai suoi predecessori.
Sia pure sobriamente e garbatamente il presidente del Consiglio ci ha provato a scaricare le colpe sui partiti, sulla lentezza del Parlamento, ma il segretario del Pdl Alfano gli ha ben risposto: assicurandolo che il sostegno dei partiti - con più o meno entusiasmo e convinzione, com'è ovvio, a seconda del singolo provvedimento - c'è stato, c'è, e ci sarà, ma facendo anche notare che «la macchina l'ha guidata Lei». La lentezza dell'iter parlamentare della riforma del lavoro, notoriamente decisiva per il giudizio dei mercati, si deve alla scelta del governo di non procedere per decreto (un favore al Pd). Monti ha usato tutti gli argomenti e gli alibi dell'odiato governo Berlusconi: l'Italia ha deficit, debito privato e tasso di disoccupazione più bassi degli altri paesi, e un sistema bancario più solido; il governo ha già fatto molto per la crescita (ma ci vuole tempo per i risultati), e bisogna mostrarsi uniti per non offrire il fianco ad osservatori esteri tutt'altro che ben disposti verso il nostro Paese.
Nelle parole del premier anche la conferma di una strategia tutta rivolta verso Bruxelles e rinunciataria sul fronte interno. Monti ha mostrato di sapere benissimo cosa chiedere all'Europa (e alla Merkel) - investimenti pubblici, Eurobond - ma di non avere le idee chiare su cosa fare in Italia. Nessuna indicazione precisa, infatti, sull'agenda dei prossimi mesi, ma solo la preghiera ai partiti di accelerare l'approvazione dei provvedimenti pendenti.
Niente alibi per Monti, dunque, il suo è ancora un mandato pieno. E' ancora saldamente al timone e pienamente responsabile della rotta. Ne sono consapevoli i più autorevoli osservatori esteri, anch'essi preoccupati nel vedere il professor Monti impegnato a cercare una scappatoia nella politica europea piuttosto che ad affrontare la sfida del cambiamento in Italia.
LEGGI TUTTO su L'Opinione
Sia pure sobriamente e garbatamente il presidente del Consiglio ci ha provato a scaricare le colpe sui partiti, sulla lentezza del Parlamento, ma il segretario del Pdl Alfano gli ha ben risposto: assicurandolo che il sostegno dei partiti - con più o meno entusiasmo e convinzione, com'è ovvio, a seconda del singolo provvedimento - c'è stato, c'è, e ci sarà, ma facendo anche notare che «la macchina l'ha guidata Lei». La lentezza dell'iter parlamentare della riforma del lavoro, notoriamente decisiva per il giudizio dei mercati, si deve alla scelta del governo di non procedere per decreto (un favore al Pd). Monti ha usato tutti gli argomenti e gli alibi dell'odiato governo Berlusconi: l'Italia ha deficit, debito privato e tasso di disoccupazione più bassi degli altri paesi, e un sistema bancario più solido; il governo ha già fatto molto per la crescita (ma ci vuole tempo per i risultati), e bisogna mostrarsi uniti per non offrire il fianco ad osservatori esteri tutt'altro che ben disposti verso il nostro Paese.
Nelle parole del premier anche la conferma di una strategia tutta rivolta verso Bruxelles e rinunciataria sul fronte interno. Monti ha mostrato di sapere benissimo cosa chiedere all'Europa (e alla Merkel) - investimenti pubblici, Eurobond - ma di non avere le idee chiare su cosa fare in Italia. Nessuna indicazione precisa, infatti, sull'agenda dei prossimi mesi, ma solo la preghiera ai partiti di accelerare l'approvazione dei provvedimenti pendenti.
Niente alibi per Monti, dunque, il suo è ancora un mandato pieno. E' ancora saldamente al timone e pienamente responsabile della rotta. Ne sono consapevoli i più autorevoli osservatori esteri, anch'essi preoccupati nel vedere il professor Monti impegnato a cercare una scappatoia nella politica europea piuttosto che ad affrontare la sfida del cambiamento in Italia.
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Wednesday, June 13, 2012
La giornata: Monti prova a mettere in riga i partiti ma Wsj e Ft mettono in riga lui
Mentre non si placano le tensioni sui mercati, con il rendimento del Btp a 10 anni ben al di sopra del 6%, ieri sera incontrando ABC e stamattina alla Camera Monti ha cercato di mettere in riga i partiti, ma nel frattempo Wall Street Journal e Financial Times all'unisono mettevano in riga lui.
Tre cose sono emerse chiaramente dal dibattito in aula.
1) Con tutti i mal di pancia del caso i partiti sono ancora disposti a digerire di tutto. Sulle politiche anti-crisi il governo ha avuto, ed ha, la massima libertà di manovra, ma non l'ha usata né la sta usando per cambiare radicalmente le politiche di finanza pubblica rispetto ai suoi predecessori, né per imporre riforme strutturali incisive. E nonostante Monti ci abbia provato, sobriamente e garbatamente, a scaricare le colpe sui partiti e sulla lentezza del Parlamento, la realtà è ben diversa: i provvedimenti e le riforme chiave sono usciti in ritardo e annacquati non dal Parlamento, ma già dal Consiglio dei ministri (liberalizzazioni e riforma del lavoro), o peggio non ne sono usciti affatto (dismissioni e tagli alla spesa). Insomma, il virus della paralisi è interno al governo. Non è stato forse il governo, per fare un favore al Pd, a optare per il ddl anziché per il decreto come veicolo della riforma del lavoro, pur sapendo quanto fosse decisiva per il giudizio dei mercati?
2) Gli argomenti e gli alibi cui ha fatto ricorso Monti stamattina per difenderci dall'attacco dei mercati sono identici a quelli dell'odiato duo Berlusconi-Tremonti: l'Italia ha deficit, debito privato e tasso di disoccupazione più bassi degli altri Paesi, e un sistema bancario più solido; il governo ha già fatto molto per la crescita (ma ci vuole tempo per i risultati), e bisogna mostrarsi uniti per non offrire il fianco ad osservatori esteri tutt'altro che ben disposti verso il nostro Paese.
3) Confermata la strategia tutta rivolta verso Bruxelles (e Berlino) e rinunciataria sul fronte interno. Monti ha mostrato di sapere benissimo cosa chiedere all'Europa (e alla Merkel) – investimenti pubblici, Eurobond – ma di non avere le idee chiare su cosa fare in Italia.
Peccato che gli osservatori più qualificati siano invece più interessati al processo di riforme interne, dal quale sono letteralmente scoraggiati, siano preoccupati di vedere che Monti cerca la soluzione europea piuttosto che affrontare la malattia italiana, e abbiano ben chiaro che il nuovo rischio paralisi risiede all'interno dell'esecutivo. Ecco perché sono così duri con Monti sia il Wall Street Jornal che il Financial Times, gli stessi che pochi mesi fa lo avevano o paragonato alla Thatcher o acclamato come il salvatore dell'Europa, quindi non sospettabili di pregiudizi negativi nei suoi confronti. [Anche se in un'altra perla delle sue, dopo lo "Schnell Frau Merkel", il Sole 24 Ore ci vede un complotto Usa contro gli Stati Uniti d'Europa].
«L'aura di Monti svanisce mentre l'Italia combatte la crisi», titola in prima pagina il Wsj-Europe. «La luna di miele è finita. Il ritorno dell'Italia nel mirino della crisi - è l'incipit dell'articolo - ha accresciuto la pressione su Monti per accelerare la sua svolta nella moribonda economia del Paese. Lo sforzo, però, si sta scontrando con una crescente ondata di malcontento interno». Le prime misure dello scorso novembre – riforma delle pensioni e tassa immobiliare – avevano suscitato «l'ampio apprezzamento degli investitori e dei leader mondiali», ricorda il quotidiano. Poi «l'aura che circondava Monti è sbiadita», a causa delle questioni rimaste incompiute: riforma del mercato del lavoro, tagli alla spesa e modernizzazione della giustizia.
La resa di Monti ai sindacati e al Pd sulla riforma del lavoro e l'inazione sul fronte dei tagli alla spesa - l'avevamo segnalato per tempo - si confermano sempre più come il vero spartiacque per gli osservatori internazionali. «Monti ha dovuto annacquare la riforma», reintroducendo il controllo giudiziale anche sui licenziamenti per motivi economici, osserva il Wsj lasciando intendere che ciò sia avvenuto durante l'iter al Senato, mentre si è verificato ancor prima che il testo arrivasse in Parlamento. La riforma, quindi, non servirà ad affrontare le rigidità che affliggono l'economia italiana da generazioni. Il rigore è troppo basato sulle tasse piuttosto che sui tagli alla spesa pubblica. E la «tentacolare burocrazia» italiana sta resistendo apertamente ai tentativi di ridimensionare il bilancio pubblico, rileva il Wsj.
Ha citato il Financial Times il premier stamattina per ricordare i punti di forza dell'Italia, censurando guarda caso il duro editoriale in cui al governo viene rimproverato di avere perso lo slancio riformista. «Mamma mia, ci risiamo», Roma è di nuovo «nell'occhio del ciclone». Per fattori esterni, certo, ammette il quotidiano della City, ma anche per colpe sue. I partiti «devono smetterla di tirarla per le lunghe», i ministri che nutrono ambizioni politiche devono «metterle da parte», ma se «lo spirito riformista dei primi 100 giorni si è pian piano esaurito», osserva il Ft, è «a causa di un eccesso di prudenza ministeriale, che ora rischia di degenerare in completa inerzia». Preferibile il ritorno del governo al suo «zelo riformista», ma tale è la sensazione di inazione, che il quotidiano britannico arriva ad evocare le urne come soluzione migliore rispetto ad un «prolungato periodo di stasi». Anche per il Ft le cose da fare sono le solite: tagliare la spesa per tagliare le tasse su impresa e lavoro; riformare il sistema giudiziario, che «ha tempi da lumaca, ostacolo pesante agli investimenti».
ANTI-CORRUZIONE INUTILE - Proprio quello che non stanno facendo governo e Parlamento, occupati a inasprire le pene per corruzione e a introdurre nuove e sempre più confuse fattispecie di reato. Ma non è quello che si aspettano i mercati e gli osservatori internazionali: per attirare investimenti occorrono interventi per velocizzare la giustizia civile e garantire il rispetto dei contratti.
Tre cose sono emerse chiaramente dal dibattito in aula.
1) Con tutti i mal di pancia del caso i partiti sono ancora disposti a digerire di tutto. Sulle politiche anti-crisi il governo ha avuto, ed ha, la massima libertà di manovra, ma non l'ha usata né la sta usando per cambiare radicalmente le politiche di finanza pubblica rispetto ai suoi predecessori, né per imporre riforme strutturali incisive. E nonostante Monti ci abbia provato, sobriamente e garbatamente, a scaricare le colpe sui partiti e sulla lentezza del Parlamento, la realtà è ben diversa: i provvedimenti e le riforme chiave sono usciti in ritardo e annacquati non dal Parlamento, ma già dal Consiglio dei ministri (liberalizzazioni e riforma del lavoro), o peggio non ne sono usciti affatto (dismissioni e tagli alla spesa). Insomma, il virus della paralisi è interno al governo. Non è stato forse il governo, per fare un favore al Pd, a optare per il ddl anziché per il decreto come veicolo della riforma del lavoro, pur sapendo quanto fosse decisiva per il giudizio dei mercati?
2) Gli argomenti e gli alibi cui ha fatto ricorso Monti stamattina per difenderci dall'attacco dei mercati sono identici a quelli dell'odiato duo Berlusconi-Tremonti: l'Italia ha deficit, debito privato e tasso di disoccupazione più bassi degli altri Paesi, e un sistema bancario più solido; il governo ha già fatto molto per la crescita (ma ci vuole tempo per i risultati), e bisogna mostrarsi uniti per non offrire il fianco ad osservatori esteri tutt'altro che ben disposti verso il nostro Paese.
3) Confermata la strategia tutta rivolta verso Bruxelles (e Berlino) e rinunciataria sul fronte interno. Monti ha mostrato di sapere benissimo cosa chiedere all'Europa (e alla Merkel) – investimenti pubblici, Eurobond – ma di non avere le idee chiare su cosa fare in Italia.
Peccato che gli osservatori più qualificati siano invece più interessati al processo di riforme interne, dal quale sono letteralmente scoraggiati, siano preoccupati di vedere che Monti cerca la soluzione europea piuttosto che affrontare la malattia italiana, e abbiano ben chiaro che il nuovo rischio paralisi risiede all'interno dell'esecutivo. Ecco perché sono così duri con Monti sia il Wall Street Jornal che il Financial Times, gli stessi che pochi mesi fa lo avevano o paragonato alla Thatcher o acclamato come il salvatore dell'Europa, quindi non sospettabili di pregiudizi negativi nei suoi confronti. [Anche se in un'altra perla delle sue, dopo lo "Schnell Frau Merkel", il Sole 24 Ore ci vede un complotto Usa contro gli Stati Uniti d'Europa].
«L'aura di Monti svanisce mentre l'Italia combatte la crisi», titola in prima pagina il Wsj-Europe. «La luna di miele è finita. Il ritorno dell'Italia nel mirino della crisi - è l'incipit dell'articolo - ha accresciuto la pressione su Monti per accelerare la sua svolta nella moribonda economia del Paese. Lo sforzo, però, si sta scontrando con una crescente ondata di malcontento interno». Le prime misure dello scorso novembre – riforma delle pensioni e tassa immobiliare – avevano suscitato «l'ampio apprezzamento degli investitori e dei leader mondiali», ricorda il quotidiano. Poi «l'aura che circondava Monti è sbiadita», a causa delle questioni rimaste incompiute: riforma del mercato del lavoro, tagli alla spesa e modernizzazione della giustizia.
La resa di Monti ai sindacati e al Pd sulla riforma del lavoro e l'inazione sul fronte dei tagli alla spesa - l'avevamo segnalato per tempo - si confermano sempre più come il vero spartiacque per gli osservatori internazionali. «Monti ha dovuto annacquare la riforma», reintroducendo il controllo giudiziale anche sui licenziamenti per motivi economici, osserva il Wsj lasciando intendere che ciò sia avvenuto durante l'iter al Senato, mentre si è verificato ancor prima che il testo arrivasse in Parlamento. La riforma, quindi, non servirà ad affrontare le rigidità che affliggono l'economia italiana da generazioni. Il rigore è troppo basato sulle tasse piuttosto che sui tagli alla spesa pubblica. E la «tentacolare burocrazia» italiana sta resistendo apertamente ai tentativi di ridimensionare il bilancio pubblico, rileva il Wsj.
Ha citato il Financial Times il premier stamattina per ricordare i punti di forza dell'Italia, censurando guarda caso il duro editoriale in cui al governo viene rimproverato di avere perso lo slancio riformista. «Mamma mia, ci risiamo», Roma è di nuovo «nell'occhio del ciclone». Per fattori esterni, certo, ammette il quotidiano della City, ma anche per colpe sue. I partiti «devono smetterla di tirarla per le lunghe», i ministri che nutrono ambizioni politiche devono «metterle da parte», ma se «lo spirito riformista dei primi 100 giorni si è pian piano esaurito», osserva il Ft, è «a causa di un eccesso di prudenza ministeriale, che ora rischia di degenerare in completa inerzia». Preferibile il ritorno del governo al suo «zelo riformista», ma tale è la sensazione di inazione, che il quotidiano britannico arriva ad evocare le urne come soluzione migliore rispetto ad un «prolungato periodo di stasi». Anche per il Ft le cose da fare sono le solite: tagliare la spesa per tagliare le tasse su impresa e lavoro; riformare il sistema giudiziario, che «ha tempi da lumaca, ostacolo pesante agli investimenti».
ANTI-CORRUZIONE INUTILE - Proprio quello che non stanno facendo governo e Parlamento, occupati a inasprire le pene per corruzione e a introdurre nuove e sempre più confuse fattispecie di reato. Ma non è quello che si aspettano i mercati e gli osservatori internazionali: per attirare investimenti occorrono interventi per velocizzare la giustizia civile e garantire il rispetto dei contratti.
Italia nel mirino anche perché Monti ha deluso mercati
Il governo sembra aver sottovalutato gli effetti recessivi degli aumenti delle tasse, probabilmente nella speranza che nel frattempo un'attenuazione della pressione dei mercati sul debito pubblico, per effetto delle azioni intraprese in sede europea, favorisse un alleggerimento della stretta creditizia, così da far respirare l'economia reale. Fatto sta che lo spread viaggia ancora abbondantemente al di sopra dei 400 punti, quota nel medio-lungo termine insostenibile, perché richiederebbe sforzi immani, e ulteriormente recessivi, per proseguire nel consolidamento di bilancio.
(...)
I dati Istat del Pil nel I trimestre 2012 (-0,8% rispetto al trimestre precedente e -1,4% su base annua) spostano le stime governative contenute nel Def (calo del Pil dell'1,2% nel 2012 e +0,5% nel 2013) nel campo dell'ottimismo. Le previsioni di Citigroup sono ancora peggiori: -2,4% nel 2012 e -2% nel 2013 (in teoria l'anno della ripresina).
(...)
Affrontata l'emergenza di novembre-dicembre aumentando le tasse, nei mesi successivi il governo non è stato in grado, o non ha voluto, avviare un piano pluriennale per l'inversione di rotta, non solo il mero contenimento, della finanza pubblica, né ha messo in cantiere riforme strutturali incisive. Ancora niente tagli alla spesa (l'obiettivo di risparmio della spending review è molto modesto: non più di 4-5 miliardi, lo 0,57% della spesa corrente); nessun programma di dismissioni (anche Snam, separata da Eni, verrà venduta ad un altro ente dello stato, la Cdp); riforme parziali e insufficienti. I mercati e i media di riferimento del business internazionale se ne sono accorti e la delusione rispetto alle enormi, esagerate aspettative generate dalla nomina di Monti si sta rapidamente diffondendo.
Dopo il Financial Times, anche il Wall Street Journal si è accorto che il premier non è in grado di portare avanti le riforme promesse. «La nomina di Monti aveva aiutato a restaurare la fiducia nell'Italia. Ma ora il paese è in profonda recessione e lo slancio riformatore sta svanendo. Riformare l'Italia potrebbe semplicemente essere troppo per un solo uomo, anche se questo uomo si chiama Monti». Il Wsj ricorda come la ricetta per curare la cronica scarsa crescita italiana l'aveva indicata un anno fa Mario Draghi: tagliare la spesa pubblica, così come le tasse sul lavoro e l'impresa. E migliorare la produttività riformando la giustizia civile, il sistema educativo e il mercato dei servizi, mentre la riforma del mercato del lavoro doveva servire a favorire l'occupazione e la crescita dimensionale delle imprese. Dopo un anno (di cui 7 mesi di governo tecnico), poco o nulla è stato fatto. Il Wsj si sofferma sulla riforma del lavoro, un «passo chiave», che però è stata «annacquata»: in alcuni casi i giudici hanno ancora l'ultima parola sui licenziamenti per motivi economici. E molto ancora potrebbe essere fatto, come osserva il Fmi, decentrando più di quanto fatto finora la contrattazione collettiva.
Il risanamento, osserva ancora il Wsj, si è basato sull'aumento delle tasse più che sui tagli alla spesa e «una profonda recessione - avverte - riaccenderà i timori per la sostenibilità del debito». «Monti - conclude il quotidiano - deve usare il suo restante capitale politico per rinvigorire immediatamente il suo programma di riforme, piuttosto che aspettare che la sua mano sia forzata da un'altra crisi». Insomma, il bluff dell'Italia è definitivamente smascherato. Il premier che se la prende con i "poteri forti" di cui aveva persino negato l'esistenza, i decreti che non escono, l'ostruzionismo della Ragioneria dello stato, lo scontro nell'esecutivo tra chi vorrebbe qualche euro in più per la crescita e chi si erge a custode del rigore, il ministro Fornero intimidito sulla questione "esodati". Un film già visto, quello della progressiva paralisi del governo Berlusconi, che ha contribuito non poco alla sfiducia dei mercati finanziari.
Ma quel che è peggio è che non si può dire che l'opera riformatrice di Monti si sia scontrata più di tanto con le resistenze dei partiti. Il premier non ci ha nemmeno provato, non ha forzato la mano neanche quando avrebbe avuto la forza politica per imporre i tagli e le riforme più radicali. Tutto è stato smontato e annacquato ancor prima di arrivare in Parlamento. Semplicemente perché la sua strategia era, ed è, un'altra: salvare l'apparato statale più o meno così com'è, correggendo il minimo indispensabile con la riforma delle pensioni e la patrimoniale immobiliare e poi risolvendo la crisi in Europa, con la stessa operazione di Ciampi-Prodi, cioè convincendo i tedeschi a fidarsi.
LEGGI TUTTO su L'Opinione
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I dati Istat del Pil nel I trimestre 2012 (-0,8% rispetto al trimestre precedente e -1,4% su base annua) spostano le stime governative contenute nel Def (calo del Pil dell'1,2% nel 2012 e +0,5% nel 2013) nel campo dell'ottimismo. Le previsioni di Citigroup sono ancora peggiori: -2,4% nel 2012 e -2% nel 2013 (in teoria l'anno della ripresina).
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Affrontata l'emergenza di novembre-dicembre aumentando le tasse, nei mesi successivi il governo non è stato in grado, o non ha voluto, avviare un piano pluriennale per l'inversione di rotta, non solo il mero contenimento, della finanza pubblica, né ha messo in cantiere riforme strutturali incisive. Ancora niente tagli alla spesa (l'obiettivo di risparmio della spending review è molto modesto: non più di 4-5 miliardi, lo 0,57% della spesa corrente); nessun programma di dismissioni (anche Snam, separata da Eni, verrà venduta ad un altro ente dello stato, la Cdp); riforme parziali e insufficienti. I mercati e i media di riferimento del business internazionale se ne sono accorti e la delusione rispetto alle enormi, esagerate aspettative generate dalla nomina di Monti si sta rapidamente diffondendo.
Dopo il Financial Times, anche il Wall Street Journal si è accorto che il premier non è in grado di portare avanti le riforme promesse. «La nomina di Monti aveva aiutato a restaurare la fiducia nell'Italia. Ma ora il paese è in profonda recessione e lo slancio riformatore sta svanendo. Riformare l'Italia potrebbe semplicemente essere troppo per un solo uomo, anche se questo uomo si chiama Monti». Il Wsj ricorda come la ricetta per curare la cronica scarsa crescita italiana l'aveva indicata un anno fa Mario Draghi: tagliare la spesa pubblica, così come le tasse sul lavoro e l'impresa. E migliorare la produttività riformando la giustizia civile, il sistema educativo e il mercato dei servizi, mentre la riforma del mercato del lavoro doveva servire a favorire l'occupazione e la crescita dimensionale delle imprese. Dopo un anno (di cui 7 mesi di governo tecnico), poco o nulla è stato fatto. Il Wsj si sofferma sulla riforma del lavoro, un «passo chiave», che però è stata «annacquata»: in alcuni casi i giudici hanno ancora l'ultima parola sui licenziamenti per motivi economici. E molto ancora potrebbe essere fatto, come osserva il Fmi, decentrando più di quanto fatto finora la contrattazione collettiva.
Il risanamento, osserva ancora il Wsj, si è basato sull'aumento delle tasse più che sui tagli alla spesa e «una profonda recessione - avverte - riaccenderà i timori per la sostenibilità del debito». «Monti - conclude il quotidiano - deve usare il suo restante capitale politico per rinvigorire immediatamente il suo programma di riforme, piuttosto che aspettare che la sua mano sia forzata da un'altra crisi». Insomma, il bluff dell'Italia è definitivamente smascherato. Il premier che se la prende con i "poteri forti" di cui aveva persino negato l'esistenza, i decreti che non escono, l'ostruzionismo della Ragioneria dello stato, lo scontro nell'esecutivo tra chi vorrebbe qualche euro in più per la crescita e chi si erge a custode del rigore, il ministro Fornero intimidito sulla questione "esodati". Un film già visto, quello della progressiva paralisi del governo Berlusconi, che ha contribuito non poco alla sfiducia dei mercati finanziari.
Ma quel che è peggio è che non si può dire che l'opera riformatrice di Monti si sia scontrata più di tanto con le resistenze dei partiti. Il premier non ci ha nemmeno provato, non ha forzato la mano neanche quando avrebbe avuto la forza politica per imporre i tagli e le riforme più radicali. Tutto è stato smontato e annacquato ancor prima di arrivare in Parlamento. Semplicemente perché la sua strategia era, ed è, un'altra: salvare l'apparato statale più o meno così com'è, correggendo il minimo indispensabile con la riforma delle pensioni e la patrimoniale immobiliare e poi risolvendo la crisi in Europa, con la stessa operazione di Ciampi-Prodi, cioè convincendo i tedeschi a fidarsi.
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Tuesday, June 12, 2012
La giornata: ordinaria paura sui mercati, ordinario scaricabarile in Italia
Giorno di ordinaria paura sui mercati. Alla fine perdite in Borsa contenute, ma declassamenti per 18 banche iberiche, minacciate le triple-A d'Europa e spread ai massimi (quello italiano che torna in prossimità dei 500 punti). Con la Bce che rileva il rischio dell'aggravarsi della crisi dei debiti sovrani dell'Eurozona.
Monti risponde per le rime al ministro delle Finanze austriaco che aveva accennato all'eventualità di aiuti anche all'Italia (smentita arrivata dall'Eurogruppo). Per il momento il direttore di Fitch rassicura: «Improbabile», l'Italia non ha gli stessi problemi della Spagna. Però un problema ce l'ha: l'eccessivo debito pubblico, che senza crescita non si ripaga, ed è quindi complicato rifinanziare a questi tassi. In serata il premier ha convocato Alfano, Bersani e Casini per un vertice sulla crisi. Ma non sembrano i partiti il problema, non in questa fase, quanto il governo stesso, incapace di produrre alcun rilevante cambiamento di politica fiscale.
E intanto riparte lo sport nazionale preferito, scaricare sugli altri le colpe della situazione: sugli avidi speculatori (c'è addirittura qualcuno che vede negli articoli di Wall Street Journal e New York Times «le impronte digitali di un delitto in pieno svolgimento»: complotto!); e ovviamente sui tedeschi, colpevoli di non voler accollarsi i debiti contratti per varie ragioni da altri Paesi. Ma non ci hanno ordinato loro di avere spesa pubblica record, pressione fiscale record e record di intrusione normativa nell'attività economica.
Scade nello scaricabarile nazionale e, senza accorgersene, nell'autoparodia persino il Sole24Ore, che titola "Schnell Frau Merkel" (versione tedesca del "Fate presto", tra l'altro non più reiterato nei confronti del governo tecnico). Una sorta di "piove, governo ladro". Insomma, roba che può scalare la classifica degli argomenti "trendy" di twitter, ma non esattamente una fine analisi, non degna del Sole24Ore. Niente, invece, per "Monsieur Hollande", che vuole abbassare l'età di pensionamento.
La cancelliera Merkel però non cede e continua a rilanciare sia sull'unione fiscale (la discussione sugli Eurobond «ci porta assolutamente fuori strada»), sia sull'unione bancaria, e a ritenere «sbagliato rispondere alla crisi con il semplice indebitamento». Magari sull'unione fiscale i tedeschi bluffano, ma chi è in buona fede dovrebbe andare a vedere le carte, mentre chi chiede di condividere il debito senza prima una vera unione fiscale è palesemente in malafede. Certo che abbassare l'età di pensionamento a 60 anni, come si accinge a fare Hollande, è una politica manifestamente incompatibile, opposta all'unione fiscale. Come si fa a pretendere di condividere il debito se poi si procede autonomamente a concedere ai propri cittadini privilegi di spesa sociale che altri nell'Eurozona non hanno mai avuto o hanno di recente abbandonato?
Monti risponde per le rime al ministro delle Finanze austriaco che aveva accennato all'eventualità di aiuti anche all'Italia (smentita arrivata dall'Eurogruppo). Per il momento il direttore di Fitch rassicura: «Improbabile», l'Italia non ha gli stessi problemi della Spagna. Però un problema ce l'ha: l'eccessivo debito pubblico, che senza crescita non si ripaga, ed è quindi complicato rifinanziare a questi tassi. In serata il premier ha convocato Alfano, Bersani e Casini per un vertice sulla crisi. Ma non sembrano i partiti il problema, non in questa fase, quanto il governo stesso, incapace di produrre alcun rilevante cambiamento di politica fiscale.
E intanto riparte lo sport nazionale preferito, scaricare sugli altri le colpe della situazione: sugli avidi speculatori (c'è addirittura qualcuno che vede negli articoli di Wall Street Journal e New York Times «le impronte digitali di un delitto in pieno svolgimento»: complotto!); e ovviamente sui tedeschi, colpevoli di non voler accollarsi i debiti contratti per varie ragioni da altri Paesi. Ma non ci hanno ordinato loro di avere spesa pubblica record, pressione fiscale record e record di intrusione normativa nell'attività economica.
Scade nello scaricabarile nazionale e, senza accorgersene, nell'autoparodia persino il Sole24Ore, che titola "Schnell Frau Merkel" (versione tedesca del "Fate presto", tra l'altro non più reiterato nei confronti del governo tecnico). Una sorta di "piove, governo ladro". Insomma, roba che può scalare la classifica degli argomenti "trendy" di twitter, ma non esattamente una fine analisi, non degna del Sole24Ore. Niente, invece, per "Monsieur Hollande", che vuole abbassare l'età di pensionamento.
La cancelliera Merkel però non cede e continua a rilanciare sia sull'unione fiscale (la discussione sugli Eurobond «ci porta assolutamente fuori strada»), sia sull'unione bancaria, e a ritenere «sbagliato rispondere alla crisi con il semplice indebitamento». Magari sull'unione fiscale i tedeschi bluffano, ma chi è in buona fede dovrebbe andare a vedere le carte, mentre chi chiede di condividere il debito senza prima una vera unione fiscale è palesemente in malafede. Certo che abbassare l'età di pensionamento a 60 anni, come si accinge a fare Hollande, è una politica manifestamente incompatibile, opposta all'unione fiscale. Come si fa a pretendere di condividere il debito se poi si procede autonomamente a concedere ai propri cittadini privilegi di spesa sociale che altri nell'Eurozona non hanno mai avuto o hanno di recente abbandonato?
Monday, June 11, 2012
Italia, c'è poco da entusiasmarsi
Ieri con la Spagna avremmo potuto assistere a due tipi di partita: gli spagnoli avrebbero potuto dilagare contro l'Italia mediocre e distratta vista contro la Russia; oppure incepparsi al cospetto della diga azzurra, ricadendo nel loro antico difetto: possesso palla sì, ma inconcludente. E così è stato.
Se ci siamo salvati facendo nel complesso una discreta figura (rischiando di perdere sul finale ma anche di vincere) lo dobbiamo sostanzialmente al killer-instinct di Di Natale (che dura da quanti mesi?), subentrato ad un irritante Balotelli, e a Del Bosque, che nel primo tempo manda in campo una squadra senza punte, e nel secondo, quando i suoi sembravano aver recuperato l'incisività dei giorni migliori, pensava bene di togliere l'autore del pareggio Fabregas e affidare i frutti del ritrovato bel gioco ai piedi di Torres, in grado di sprecare malamente tre limpide occasioni solo davanti a Buffon.
L'Italia ha avuto il merito di giocarsela con le motivazioni e la concentrazione di una finale (saranno le stesse contro Croazia e Irlanda?), schierando tutti i suoi uomini nel proprio centrocampo in fase di possesso palla degli spagnoli e rispondendo colpo su colpo in contropiede, ma questo non assolve Prandelli dai suoi errori e non deve farci illudere sulle qualità di fondo dei nostri.
Prandelli sbaglia l'attacco titolare, rimedia solo quando non può farne proprio a meno, dopo l'ennesimo scempio di Balotelli, ma lasciando comunque per troppo tempo in campo Cassano; sbaglia Giaccherini sulla fascia sinistra, il tipo di partita a cui è stato costretto (generoso, ma nullo in fase offensiva e quasi disastroso dietro) dimostra che da quelle parti erano più adatti Ogbonna o Balzaretti; sbaglia Motta (che non meritava nemmeno la convocazione, ma questo è un altro discorso). Balotelli non ha la testa per giocare una competizione simile. Le qualità del ragazzo si riescono a sfruttare a mala pena nell'arco di un campionato, figuriamoci in un torneo dove sono decisive 3 partite in 10 giorni. Presuntuoso, nervoso, irritante. Cassano ha giocato una mezz'ora di troppo rispetto ai minuti che ha nelle gambe. La lunga inattività si sente e pesa. Sarebbe più furbo sfruttare la sua capacità di incidere partendo dalla panchina, l'ultima mezz'ora quando gli avversari sono più stanchi. Di Natale e Giovinco (o Borini) - questi sono quelli a disposizione, inutile ormai discutere le convocazioni - sono gli attaccanti più indicati da schierare dall'inizio, con Cassano e Balotelli pronti a subentrare. Ma penso che Prandelli persevererà nell'errore, confermando Cassano-Balotelli dall'inizio anche con la Croazia.
Fase difensiva. Non deve ingannare la buona prestazione di De Rossi centrale. Come in Roma-Juventus di quest'anno (l'1-1 all'Olimpico, ovviamente), formidabile diga quando la squadra è compatta, quando difende con tutti gli uomini nella propria metà campo in fase di possesso degli avversari. Appena le squadre si cominciano ad allungare, mostra tutti i suoi limiti - di posizione e tempismo. Abbiamo concesso praterie agli inserimenti spagnoli e rischiato moltissimo. Mi chiedo: anche contro Croazia e Irlanda potremo permetterci di rintanarci nella nostra metà campo e ripartire in contropiede come abbiamo fatto ieri con i campioni del possesso palla? Probabile che lo schema delle partite con Croazia e Irlanda sarà diverso: saranno loro ad aspettare noi, più simile quindi alla disastrosa amichevole contro la Russia. Allora De Rossi non basterà a salvarci, come dimostrano le sue prestazioni da centrale nella Roma di quest'anno, deludenti tranne solo la prima. De Rossi centrale di difesa oscura Pirlo? Non direi che la prova piuttosto opaca di Pirlo, tranne lo splendido assist, si spieghi in questo modo. Pirlo non si discute, ma secondo me non era in giornata: dall'inizio ha sbagliato qualche pallone di troppo e non è certo stato facilitato dalla concitazione della fase difensiva e dalla velocità degli scambi degli spagnoli.
Ultima nota sulla Rai, penosa come sempre: Massimo Ghini e il ministro Gnudi commentatori nell'intervallo; intervista in ginocchio ad Abete; telecronista che sbaglia i nomi degli spagnoli; intervista muta di Prandelli. Girato canale appena finita la partita. Rai non da privatizzare, da chiudere proprio.
PAGELLE: Buffon 7 Bonucci 5,5, De Rossi 6 Chiellini 6 Maggio 5,5 Motta 5 Pirlo 6 Marchisio 6 Giaccherini 5 Cassano 5 Balotelli 4; Di Natale 7 Giovinco 6,5 Nocerino ng; Prandelli 5
Se ci siamo salvati facendo nel complesso una discreta figura (rischiando di perdere sul finale ma anche di vincere) lo dobbiamo sostanzialmente al killer-instinct di Di Natale (che dura da quanti mesi?), subentrato ad un irritante Balotelli, e a Del Bosque, che nel primo tempo manda in campo una squadra senza punte, e nel secondo, quando i suoi sembravano aver recuperato l'incisività dei giorni migliori, pensava bene di togliere l'autore del pareggio Fabregas e affidare i frutti del ritrovato bel gioco ai piedi di Torres, in grado di sprecare malamente tre limpide occasioni solo davanti a Buffon.
L'Italia ha avuto il merito di giocarsela con le motivazioni e la concentrazione di una finale (saranno le stesse contro Croazia e Irlanda?), schierando tutti i suoi uomini nel proprio centrocampo in fase di possesso palla degli spagnoli e rispondendo colpo su colpo in contropiede, ma questo non assolve Prandelli dai suoi errori e non deve farci illudere sulle qualità di fondo dei nostri.
Prandelli sbaglia l'attacco titolare, rimedia solo quando non può farne proprio a meno, dopo l'ennesimo scempio di Balotelli, ma lasciando comunque per troppo tempo in campo Cassano; sbaglia Giaccherini sulla fascia sinistra, il tipo di partita a cui è stato costretto (generoso, ma nullo in fase offensiva e quasi disastroso dietro) dimostra che da quelle parti erano più adatti Ogbonna o Balzaretti; sbaglia Motta (che non meritava nemmeno la convocazione, ma questo è un altro discorso). Balotelli non ha la testa per giocare una competizione simile. Le qualità del ragazzo si riescono a sfruttare a mala pena nell'arco di un campionato, figuriamoci in un torneo dove sono decisive 3 partite in 10 giorni. Presuntuoso, nervoso, irritante. Cassano ha giocato una mezz'ora di troppo rispetto ai minuti che ha nelle gambe. La lunga inattività si sente e pesa. Sarebbe più furbo sfruttare la sua capacità di incidere partendo dalla panchina, l'ultima mezz'ora quando gli avversari sono più stanchi. Di Natale e Giovinco (o Borini) - questi sono quelli a disposizione, inutile ormai discutere le convocazioni - sono gli attaccanti più indicati da schierare dall'inizio, con Cassano e Balotelli pronti a subentrare. Ma penso che Prandelli persevererà nell'errore, confermando Cassano-Balotelli dall'inizio anche con la Croazia.
Fase difensiva. Non deve ingannare la buona prestazione di De Rossi centrale. Come in Roma-Juventus di quest'anno (l'1-1 all'Olimpico, ovviamente), formidabile diga quando la squadra è compatta, quando difende con tutti gli uomini nella propria metà campo in fase di possesso degli avversari. Appena le squadre si cominciano ad allungare, mostra tutti i suoi limiti - di posizione e tempismo. Abbiamo concesso praterie agli inserimenti spagnoli e rischiato moltissimo. Mi chiedo: anche contro Croazia e Irlanda potremo permetterci di rintanarci nella nostra metà campo e ripartire in contropiede come abbiamo fatto ieri con i campioni del possesso palla? Probabile che lo schema delle partite con Croazia e Irlanda sarà diverso: saranno loro ad aspettare noi, più simile quindi alla disastrosa amichevole contro la Russia. Allora De Rossi non basterà a salvarci, come dimostrano le sue prestazioni da centrale nella Roma di quest'anno, deludenti tranne solo la prima. De Rossi centrale di difesa oscura Pirlo? Non direi che la prova piuttosto opaca di Pirlo, tranne lo splendido assist, si spieghi in questo modo. Pirlo non si discute, ma secondo me non era in giornata: dall'inizio ha sbagliato qualche pallone di troppo e non è certo stato facilitato dalla concitazione della fase difensiva e dalla velocità degli scambi degli spagnoli.
Ultima nota sulla Rai, penosa come sempre: Massimo Ghini e il ministro Gnudi commentatori nell'intervallo; intervista in ginocchio ad Abete; telecronista che sbaglia i nomi degli spagnoli; intervista muta di Prandelli. Girato canale appena finita la partita. Rai non da privatizzare, da chiudere proprio.
PAGELLE: Buffon 7 Bonucci 5,5, De Rossi 6 Chiellini 6 Maggio 5,5 Motta 5 Pirlo 6 Marchisio 6 Giaccherini 5 Cassano 5 Balotelli 4; Di Natale 7 Giovinco 6,5 Nocerino ng; Prandelli 5
Friday, June 08, 2012
Il programma liberale c'è, ma le gambe "politiche"?
«Un programma per i prossimi 50 anni», è l'ambizioso sottotitolo di "Sudditi", il nuovo libro dell'Istituto Bruno Leoni presentato mercoledì a Roma. Ma chissà che non ne nasca un programma di governo per i prossimi 5 anni, quelli della legislatura 2013-2018. Scritto a più mani e curato da Nicola Rossi, economista e presidente del think tank liberale, è una serie di saggi brevi con un unico comune denominatore: il rapporto tra Stato e cittadini.
(...)
Un vero e proprio manifesto liberale, dunque, che non aspetta altro che essere "adottato", di trovare gambe "politiche" su cui camminare. E basta scorrere i nomi degli autori, o dei presenti all'evento, per ricavarne l'immagine di una squadra di governo pronta a rivoltare lo Stato come un calzino. A cominciare da Nicola Rossi, senatore (ex Pd) e membro del comitato direttivo di "Italia Futura", e da Oscar Giannino, che da mesi, dai microfoni di Radio24, sottolinea la necessità di una nuova offerta politica di stampo liberale. C'è un pezzo d'Italia, quella illusa e delusa dal berlusconismo del '94, che ci spera.
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Un vero e proprio manifesto liberale, dunque, che non aspetta altro che essere "adottato", di trovare gambe "politiche" su cui camminare. E basta scorrere i nomi degli autori, o dei presenti all'evento, per ricavarne l'immagine di una squadra di governo pronta a rivoltare lo Stato come un calzino. A cominciare da Nicola Rossi, senatore (ex Pd) e membro del comitato direttivo di "Italia Futura", e da Oscar Giannino, che da mesi, dai microfoni di Radio24, sottolinea la necessità di una nuova offerta politica di stampo liberale. C'è un pezzo d'Italia, quella illusa e delusa dal berlusconismo del '94, che ci spera.
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Thursday, June 07, 2012
La giornata: Monti non ha perso solo i poteri forti e Merkel sfida i federalisti del debito
«Il mio governo e io abbiamo sicuramente perso in questi ultimi tempi l'appoggio, che gli osservatori ci attribuivano, dei poteri forti. Non incontriamo, infatti, favori in questo momento di un grande quotidiano che è espressione autorevole di poteri forti, e presso Confindustria».Riferimenti chiari quelli del premier Monti. Ma se ora si lamenta di non averne l'appoggio, perché quando veniva accusato di esserne addirittura l'espressione ha negato persino l'esistenza dei cosiddetti "poteri forti"? Esistono solo quando fanno comodo come alibi, quando si può dire di averceli contro?
Ha perso l'appoggio dei "poteri forti"? E allora? Dovrebbe proccuparsi più di aver perso la fiducia dei mercati, degli investitori, che degli editoriali di Alesina e Giavazzi sul Corriere.
Dopo l'entusiastica apertura di credito da parte del mondo del business internazionale e dei relativi media, arrivati ad indicarlo come l'uomo che poteva salvare l'Europa, qualcosa è andato storto. Alle enormi - forse troppo - aspettative, non sono seguiti i fatti. Dopo la riforma delle pensioni, il nulla o quasi. Riforme parziali, insufficienti, pasticciate. Su tutte quella del lavoro, a fine marzo. Lì è stato chiaro che Monti subiva i diktat dei sindacati e della sinistra e che la lettera di agosto della Bce era destinata a rimanere per lo più lettera morta.
Ora Monti si lamenta dei "poteri forti", i decreti subiscono continui rinvii (oggi quello per lo sviluppo, non ci sarebbero risorse per le compensazioni Iva e vari bonus), sembra di essere tornati all'immobilismo dell'ultimo anno del governo Berlusconi.
Intanto, la cancelliera Merkel messa alle strette rilancia: a quelli che vogliono federalizzare il debito propone l'unione politica. Perché, c'è qualcuno che pensa forse che si possa condividere il debito senza una politica di bilancio comune, senza unione fiscale e politica? Apparentemente sì: chiedere Eurobond subito, senza prima unione fiscale, vuol dire esattamente pretendere che i tedeschi paghino i debiti altrui, e con assegno in bianco. Ma questo evidentemente non è vero federalismo, è paraculismo. Per fare un esempio, se vogliamo un'Europa che emette Eurobond, non può esserci un Hollande che abbassa l'età di pensionamento dei francesi a 60 anni, perché così non regge.
Il dibattito ovviamente non appassiona Obama, che è interessato unicamente alla sua rielezione e quindi è preoccupato solo che qualcuno (la Germania) ci metta i soldi, perché nella sua ottica è solo così che si può salvare l'euro e stimolare la crescita europea, senza la quale peggiorano anche le prospettive economiche Usa, e con esse quelle della sua rielezione. Insomma, in poche parole Obama pretende che sia l'Europa a finanziare la sua campagna elettorale.
Il governatore della Fed Bernanke oggi al Congresso ha rilanciato le accuse velate di Obama: «La crisi in Europa ha danneggiato l'economia degli Stati Uniti comprimendo le nostre esportazioni, influenzando negativamente la fiducia delle imprese e dei consumatori e mettendo sotto pressione i mercati e le istituzioni finanziarie». Una risposta indiretta a Draghi, che aveva chiamato in causa le responsabilità extra-europee della crisi. A proposito, che ruolo ha l'esponenziale crescita del debito pubblico americano nel disinvestimento dai debiti sovrani di quasi tutti gli stati europei?
Scoperto il bluff-Italia di Monti
I magistrati della Corte dei Conti avevano appena finito di parlare degli «impulsi recessivi» trasmessi all'economia reale con gli aumenti delle tasse, di metterci in guardia dal «pericolo di un avvitamento», cioè del rischio «che un ulteriore rallentamento dell'economia allontani il conseguimento degli obiettivi di gettito», ed ecco materializzarsi i primi segni di avvitamento: obiettivi di gettito mancati, almeno nei primi quattro mesi dell'anno. Mancano all'appello 3,4 miliardi di entrate fiscali rispetto alle previsioni contenute nel Def. O meglio, le entrate in effetti aumentano rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, grazie agli aumenti delle tasse della seconda metà del 2011, ma non nella misura che il governo si aspettava. Un buco che rischia di mangiarsi i risparmi previsti dalla spending review e che potrebbe rendere necessario far scattare gli aumenti Iva già previsti per ottobre. Una dura lezione di economia reale con cui i professori dovrebbero fare i conti.
La politica fiscale non funziona come un bancomat. Non basta prelevare più tasse per ottenere più entrate, perché oltre una certa soglia di pressione fiscale complessiva (che in Italia abbiamo da tempo superato) si deprimono i consumi, si riducono le attività economiche, e si finisce per ottenerne di meno. Il ricorso alle maggiori entrate poteva essere giustificabile nel pieno dell'emergenza, lo scorso dicembre, quando il governo appena entrato in carica aveva poche settimane, se non giorni, per salvare il paese dal baratro. Ma ormai sono trascorsi sette mesi e l'approccio non è ancora mutato. Proprio ieri il governatore della Bce Mario Draghi ha ammonito per l'ennesima volta che «il consolidamento fiscale nel medio termine non può, e non deve, essere basato su aumenti delle tasse» ma su tagli alla spesa corrente. Il problema italiano è la sua politica fiscale. Non è l'euro né la Merkel, non sono gli speculatori, né gli evasori, che di volta in volta vengono chiamati in causa dai politici e dai tecnici come alibi.
Che la direzione intrapresa dal governo Monti sia sbagliata, che i suoi sforzi per le riforme abbiano prodotto risultati parziali e insufficienti, e che ormai la sua debolezza politica sia tale da non permettergli di riprendere slancio, è qualcosa di cui stanno assumendo sempre maggiore consapevolezza gli investitori e i media internazionali, che avevano accolto Monti con una entusiastica apertura di credito.
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La politica fiscale non funziona come un bancomat. Non basta prelevare più tasse per ottenere più entrate, perché oltre una certa soglia di pressione fiscale complessiva (che in Italia abbiamo da tempo superato) si deprimono i consumi, si riducono le attività economiche, e si finisce per ottenerne di meno. Il ricorso alle maggiori entrate poteva essere giustificabile nel pieno dell'emergenza, lo scorso dicembre, quando il governo appena entrato in carica aveva poche settimane, se non giorni, per salvare il paese dal baratro. Ma ormai sono trascorsi sette mesi e l'approccio non è ancora mutato. Proprio ieri il governatore della Bce Mario Draghi ha ammonito per l'ennesima volta che «il consolidamento fiscale nel medio termine non può, e non deve, essere basato su aumenti delle tasse» ma su tagli alla spesa corrente. Il problema italiano è la sua politica fiscale. Non è l'euro né la Merkel, non sono gli speculatori, né gli evasori, che di volta in volta vengono chiamati in causa dai politici e dai tecnici come alibi.
Che la direzione intrapresa dal governo Monti sia sbagliata, che i suoi sforzi per le riforme abbiano prodotto risultati parziali e insufficienti, e che ormai la sua debolezza politica sia tale da non permettergli di riprendere slancio, è qualcosa di cui stanno assumendo sempre maggiore consapevolezza gli investitori e i media internazionali, che avevano accolto Monti con una entusiastica apertura di credito.
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Wednesday, June 06, 2012
La Corte dei Conti: tagliare spesa e tasse di 50 miliardi
Nel rapporto 2012 sul coordinamento della finanza pubblica, presentato ieri in Parlamento, la Corte dei Conti, come fa da anni in ogni sede, è tornata a denunciare gli squilibri recessivi delle politiche fiscali in cui i nostri governi perseverano, pur riconoscendo l'efficacia del contenimento della spesa - tra 2008 e 2011 una vera e propria inversione di rotta rispetto alla spesa allegra degli anni precedenti. Ma la notizia è la pressoché totale continuità, nel male ma anche nel bene, che la Corte ravvisa tra il governo Berlusconi e l'attuale.
La critica fondamentale riguarda il consolidamento fiscale, troppo sbilanciato sul lato delle entrate, da cui vengono reperiti «oltre i due terzi delle maggiori risorse di bilancio». Anche gli interventi correttivi decisi dal nuovo governo nel dicembre scorso confermano «il ricorso prevalente alla leva tributaria per l'intero orizzonte programmatico». Una scelta che ha però una pesante «controindicazione» negli «impulsi recessivi» trasmessi all'economia reale, con il rischio «che un ulteriore rallentamento dell'economia allontani il conseguimento degli obiettivi di gettito», quindi di bilancio, e che ciò richieda nuove e ancor più recessive correzioni. La Corte mette dunque in guardia dal «pericolo di un avvitamento» ed invita a «disinnescare il circolo vizioso». Per reperire il «gettito mancante», avvertono in sostanza i magistrati contabili, non si può più agire sul lato delle entrate, né volontarie né tributarie, essendo la pressione fiscale ormai ad un livello insopportabile, ma bisogna ampliare la base imponibile, incidendo sui fattori che bloccano la crescita.
E uno dei fattori che blocca la crescita è il nostro sistema fiscale, ancora lontanissimo dal «benchmark europeo». Non c'è stato, infatti, lo spostamento del carico fiscale "dalle persone alle cose" che era stato promesso sia dal governo Berlusconi che da Monti: «L'aumento impositivo che ha investito consumi e patrimoni - registra la Corte - si è tradotto in una riduzione molto limitata del prelievo sui redditi da lavoro e d'impresa».
(...)
Servirebbero, per alleggerire il carico fiscale su lavoro e impresa avvicinandolo alla media europea, 50 miliardi di euro. Ma con gli aumenti recenti, e quelli già previsti, delle aliquote Iva (tra l'altro «gravidi di controindicazioni sul piano economico e sociale») sono esauriti anche i margini del prelievo sui consumi. Dove reperirli, dunque?
Secondo la Corte «l'opzione di fondo da perseguire non può non essere quella di una consistente riduzione della spesa corrente - sia primaria che per interessi sul debito». In poche parole la Corte dei Conti suggerisce di tagliare la spesa corrente di 50 miliardi - altro che i 4-5 previsti dalla spending review! - e di usarli per tagliare le tasse su lavoro e impresa. Insiste, inoltre, per «un abbattimento significativo del debito, attraverso la dismissione di quote importanti del patrimonio mobiliare ed immobiliare in mano pubblica», ricordando di aver più volte sottolineato le carenze, sul fronte dismissioni, «nell'identificare dimensioni, condizioni e responsabilità realizzative».
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La critica fondamentale riguarda il consolidamento fiscale, troppo sbilanciato sul lato delle entrate, da cui vengono reperiti «oltre i due terzi delle maggiori risorse di bilancio». Anche gli interventi correttivi decisi dal nuovo governo nel dicembre scorso confermano «il ricorso prevalente alla leva tributaria per l'intero orizzonte programmatico». Una scelta che ha però una pesante «controindicazione» negli «impulsi recessivi» trasmessi all'economia reale, con il rischio «che un ulteriore rallentamento dell'economia allontani il conseguimento degli obiettivi di gettito», quindi di bilancio, e che ciò richieda nuove e ancor più recessive correzioni. La Corte mette dunque in guardia dal «pericolo di un avvitamento» ed invita a «disinnescare il circolo vizioso». Per reperire il «gettito mancante», avvertono in sostanza i magistrati contabili, non si può più agire sul lato delle entrate, né volontarie né tributarie, essendo la pressione fiscale ormai ad un livello insopportabile, ma bisogna ampliare la base imponibile, incidendo sui fattori che bloccano la crescita.
E uno dei fattori che blocca la crescita è il nostro sistema fiscale, ancora lontanissimo dal «benchmark europeo». Non c'è stato, infatti, lo spostamento del carico fiscale "dalle persone alle cose" che era stato promesso sia dal governo Berlusconi che da Monti: «L'aumento impositivo che ha investito consumi e patrimoni - registra la Corte - si è tradotto in una riduzione molto limitata del prelievo sui redditi da lavoro e d'impresa».
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Servirebbero, per alleggerire il carico fiscale su lavoro e impresa avvicinandolo alla media europea, 50 miliardi di euro. Ma con gli aumenti recenti, e quelli già previsti, delle aliquote Iva (tra l'altro «gravidi di controindicazioni sul piano economico e sociale») sono esauriti anche i margini del prelievo sui consumi. Dove reperirli, dunque?
Secondo la Corte «l'opzione di fondo da perseguire non può non essere quella di una consistente riduzione della spesa corrente - sia primaria che per interessi sul debito». In poche parole la Corte dei Conti suggerisce di tagliare la spesa corrente di 50 miliardi - altro che i 4-5 previsti dalla spending review! - e di usarli per tagliare le tasse su lavoro e impresa. Insiste, inoltre, per «un abbattimento significativo del debito, attraverso la dismissione di quote importanti del patrimonio mobiliare ed immobiliare in mano pubblica», ricordando di aver più volte sottolineato le carenze, sul fronte dismissioni, «nell'identificare dimensioni, condizioni e responsabilità realizzative».
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Tuesday, June 05, 2012
La giornata: più tasse meno entrate, la dura lezione dell'economia reale ai professori
Questa mattina la Corte dei Conti ha presentato il suo rapporto 2012 sulla finanza pubblica ed è tornata a denunciare, come fa da anni, gli squilibri recessivi delle politiche fiscali perseguite pressoché da tutti i governi in carica. Il consolidamento fiscale è basato per oltre 2/3 su nuove entrate, e laddove la spesa è stata contenuta, lo si è fatto male, contraendo la spesa per investimenti piuttosto che quella primaria. Al forte aumento delle tasse su consumi e patrimoni, poi, non è corrisposto un alleggerimento del carico su lavoro e imprese. Esauriti i margini per agire sul lato delle entrate, perché la pressione fiscale è ormai ad un livello insopportabile, bisogna ampliare la base imponibile incidendo sui fattori che bloccano la crescita. E per crescere la Corte suggerisce di tagliare spesa e tasse di 50 miliardi, non escludendo dalla revisione alcun settore della spesa pubblica, nemmeno la sanità.
La «controindicazione» della scelta di puntare sulle tasse anziché sui tagli alla spesa è stata pesante, in termini di «impulsi recessivi» trasmessi all'economia reale. E' concreto il «pericolo di un avvitamento», cioè «che un ulteriore rallentamento dell'economia allontani il conseguimento degli obiettivi di gettito», quindi di bilancio, e che ciò richieda nuove e ancor più recessive correzioni.
Tempismo perfetto quello della Corte. L'incubo infatti sembra diventare realtà quando in serata il dipartimento delle finanze del Ministero dell'Economia certifica esattamente il mancato raggiungimento degli «obiettivi di gettito», almeno nei primi quattro mesi dell'anno. Mancherebbero all'appello 3,4 miliardi di entrate fiscali rispetto alle previsioni contenute nel Def. O meglio, le entrate in effetti aumentano rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, grazie agli aumenti delle tasse della seconda metà del 2011, ma non nella misura che ci si aspettava. Un buco che rischia di mangiarsi i risparmi previsti dalla spending review e che potrebbe rendere necessario far scattare gli aumenti di Iva già previsti a ottobre.
Una dura lezione di economia reale quella con cui devono fare i conti in queste ore i professori al governo: avranno imparato che l'economia vera è molto diversa da una lezione universitaria e che il fisco non funziona come un bancomat? Puoi chiedere 100, ma ottenere solo 90. Aumenti le tasse per avere più entrate, ma deprimi i consumi, riduci le attività economiche, e finisci per prenderne di meno.
Miracolo dei tecnici, che chiamati a scontrarsi con caste e corporazioni per riformare l'Italia subiscono invece i diktat di sindacati e sinistra sul lavoro (accettando una controriforma che irrigidisce il mercato in entrata e complica l'uscita), sulla scuola (scusandosi per aver osato solo pensare di favorire il merito) e gli statali (per i quali non possono valere le nuove norme sul lavoro).
Mentre in Italia si parla di stampare moneta, di bizzarre e improbabili liste civiche e di quando andare a votare, la crisi dell'Eurozona sembra entrare in una fase decisiva. Diventa sempre più evidente che per una mutualizzazione dei debiti (i famosi Eurobond) ci vuole una vera unione fiscale (ben oltre il fiscal compact) e nel fine settimana il premier spagnolo Rajoy si è fatto coraggiosamente avanti. Non si può chiedere ai cittadini tedeschi di utilizzare le loro tasse per garantire politiche di bilancio, quindi debiti, su cui non hanno alcun controllo (no taxation without...). Proprio su questo, sulla volontà di procedere verso una vera unione fiscale, per rendere possibili quegli Eurobond che si ritengono indispensabili, si scopriranno i bluff, si vedrà chi fa il furbo, se la Germania o qualcun altro (la Francia?). E' legittimo un sospetto: chi invoca gli Eurobond vuole solo che i tedeschi paghino il conto, ma non ha alcuna intenzione di cedere quote di sovranità sul proprio bilancio nazionale. E' qui che i "federalisti" della spesa getteranno la maschera.
La «controindicazione» della scelta di puntare sulle tasse anziché sui tagli alla spesa è stata pesante, in termini di «impulsi recessivi» trasmessi all'economia reale. E' concreto il «pericolo di un avvitamento», cioè «che un ulteriore rallentamento dell'economia allontani il conseguimento degli obiettivi di gettito», quindi di bilancio, e che ciò richieda nuove e ancor più recessive correzioni.
Tempismo perfetto quello della Corte. L'incubo infatti sembra diventare realtà quando in serata il dipartimento delle finanze del Ministero dell'Economia certifica esattamente il mancato raggiungimento degli «obiettivi di gettito», almeno nei primi quattro mesi dell'anno. Mancherebbero all'appello 3,4 miliardi di entrate fiscali rispetto alle previsioni contenute nel Def. O meglio, le entrate in effetti aumentano rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, grazie agli aumenti delle tasse della seconda metà del 2011, ma non nella misura che ci si aspettava. Un buco che rischia di mangiarsi i risparmi previsti dalla spending review e che potrebbe rendere necessario far scattare gli aumenti di Iva già previsti a ottobre.
Una dura lezione di economia reale quella con cui devono fare i conti in queste ore i professori al governo: avranno imparato che l'economia vera è molto diversa da una lezione universitaria e che il fisco non funziona come un bancomat? Puoi chiedere 100, ma ottenere solo 90. Aumenti le tasse per avere più entrate, ma deprimi i consumi, riduci le attività economiche, e finisci per prenderne di meno.
Miracolo dei tecnici, che chiamati a scontrarsi con caste e corporazioni per riformare l'Italia subiscono invece i diktat di sindacati e sinistra sul lavoro (accettando una controriforma che irrigidisce il mercato in entrata e complica l'uscita), sulla scuola (scusandosi per aver osato solo pensare di favorire il merito) e gli statali (per i quali non possono valere le nuove norme sul lavoro).
Mentre in Italia si parla di stampare moneta, di bizzarre e improbabili liste civiche e di quando andare a votare, la crisi dell'Eurozona sembra entrare in una fase decisiva. Diventa sempre più evidente che per una mutualizzazione dei debiti (i famosi Eurobond) ci vuole una vera unione fiscale (ben oltre il fiscal compact) e nel fine settimana il premier spagnolo Rajoy si è fatto coraggiosamente avanti. Non si può chiedere ai cittadini tedeschi di utilizzare le loro tasse per garantire politiche di bilancio, quindi debiti, su cui non hanno alcun controllo (no taxation without...). Proprio su questo, sulla volontà di procedere verso una vera unione fiscale, per rendere possibili quegli Eurobond che si ritengono indispensabili, si scopriranno i bluff, si vedrà chi fa il furbo, se la Germania o qualcun altro (la Francia?). E' legittimo un sospetto: chi invoca gli Eurobond vuole solo che i tedeschi paghino il conto, ma non ha alcuna intenzione di cedere quote di sovranità sul proprio bilancio nazionale. E' qui che i "federalisti" della spesa getteranno la maschera.
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