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Monday, February 02, 2009

Primo atto di Obamanomics, ma un'opposizione c'è ancora

Dal primo, fondamentale, atto legislativo della presidenza Obama impareremo qualcosa di più dell'obamanomics che da tutti i dibattiti e i discorsi del lungo anno elettorale alle nostre spalle. Il pacchetto anti-crisi sembra arrivare all'esame del Congresso in un clima di generale unanimismo. L'entusiasmo che circonda il nuovo presidente e l'urgenza di rimedi, quali essi siano, contro la recessione, contribuiscono ad alimentare una forte pressione sui legislatori, chiamati "vox populi" ad una rapida approvazione del piano, anche a scapito di un dibattito aperto.

Ma sotto questa apparente coltre di conformismo, un'opposizione c'è ancora. Quella dei repubblicani alla Camera, compatta come poche volte nonostante le sirene bipartisan di Obama. E quella di pochi e autorevoli think tank. La scorsa settimana il Cato Institute ha fatto pubblicare sulle pagine dei principali quotidiani d'America un manifesto, sottoscritto da centinaia di economisti, per smentire l'azzardata affermazione presidenziale secondo cui gli economisti di ogni scuola di pensiero sosterrebbero la necessità di un aumento della spesa pubblica per stimolare l'economia: «Presidente, con tutto il dovuto rispetto, non è vero. Noi dissentiamo».

Sul Wall Street Journal, Alan Reynolds ha colto alcune contraddizioni del piano: «Stranamente la maggior parte della spesa è indirizzata a settori dell'economia dove la disoccupazione è più bassa». Reynolds ha calcolato che se anche il piano funzionasse, ciascuno dei posti di lavoro salvato o creato costerebbe 275 mila dollari, addirittura 646 mila per ciascun posto nel pubblico impiego. Inoltre, 290 degli 825 miliardi di dollari stanziati non saranno spesi prima del 2011, quando persino per le più pessimistiche previsioni l'economia si starà riprendendo.

In uno studio sugli effetti dello «shock fiscale», Andrew Mountford, della University of London, e Harald Uhlig, dell'università di Chicago, sostengono che «la migliore politica fiscale per stimolare l'economia sarebbe un taglio fiscale finanziato in deficit», e che «i costi di lungo termine dell'espansione della spesa pubblica sono probabilmente maggiori dei benefici nel breve termine».

Lawrence B. Lindsey, dell'American Enterprise Institute, osserva che con la stessa somma di denaro il governo avrebbe potuto mettere 1.500 dollari direttamente nelle tasche di un lavoratore medio e una somma simile in quelle del suo datore di lavoro. «Un errore da 800 miliardi», è il giudizio di Martin Feldstein, che contesta non l'entità della somma, ma l'inefficacia delle misure. L'esperienza dimostra che i soldi in più che entrano nelle tasche dei cittadini da tagli alle tasse temporanei e forfettari vengono per lo più risparmiati o usati per ripianare debiti già contratti. Per incentivare famiglie e imprese ad accrescere consumi, investimenti e quindi occupazione, i tagli fiscali dovrebbero essere permanenti.

E' questo il cuore del piano alternativo elaborato da J. D. Foster e William Beach, della Heritage Foundation, e sostenuto con forza dal senatore repubblicano della Carolina del Sud Jim DeMint, che attacca il piano del presidente: «E' il peggiore pezzo di legislazione economica negli ultimi 100 anni... E' basato sulla speranza, non sulla realtà». Degli 825 miliardi, denuncia, una minima parte è destinata alle infrastrutture ai tagli fiscali per le imprese. Degli 825 miliardi, denuncia, una minima parte è destinata alle infrastrutture e ai tagli fiscali per le imprese. A beneficiare del pacchetto saranno in realtà la base elettorale e le clientele dei Democratici. Altro che un'economia più simile a quelle europee, i Democratici «vogliono legare un razzo alla nostra economia e lanciarla direttamente a Bruxelles!»

Solo l'"Opzione americana", mettere più di mille miliardi nelle mani di lavoratori e imprese, «può salvare la nostra economia da una inesorabile deriva verso una socialdemocrazia di tipo europeo».
«Invece di espandere il governo, dove gli sprechi e la corruzione imperano, espandiamo il settore privato, dove fiorisce l'innovazione. Invece di dare il potere e il controllo della nostra economia ai politici e ai burocrati, diamo agli americani e alle piccole imprese la libertà di spendere e investire i loro soldi».
Sebbene con un diverso approccio, diversi argomenti e, soprattutto, diversi toni, anche alla clintoniana Brookings Institution si rendono conto dei rischi derivanti da un aumento incontrollato della spesa pubblica. Se stabilizzare i mercati finanziari per assicurare un'ampia e accessibile offerta di credito e attenuare la recessione sono gli obiettivi del momento, il presidente Obama non può scordarsi che la sfida decisiva nel lungo termine è assicurare al paese una crescita economica duratura e un bilancio sostenibile nel tempo, controllando la crescita dei costi sanitari e previdenziali e riformando il sistema fiscale. Le soluzioni ai problemi di breve termine non dovranno rendere più difficile centrare gli obiettivi di lungo termine.

Lo scenario negativo paventato dagli economisti della Brookings è interessante anche in chiave italiana, perché descrive esattamente ciò che tiene il nostro paese al palo. La spesa necessaria per stabilizzare i mercati finanziari e rilanciare l'economia, avvertono, provocherà «un grande aumento del nostro debito pubblico».
«Dovremo prendere in prestito soldi dai mercati di capitali interni ed esteri per finanziare questo debito. Ma senza un serio impegno alla moderazione della spesa, alla fine i prestatori dubiteranno della credibilità dei nostri conti e reagiranno riducendo il credito o applicando tassi di interesse più alti. Se non viene affrontato il problema del bilancio nel lungo termine, gli interessi assorbiranno una quota crescente delle nostre risorse e, insieme ai costi crescenti della sanità e della previdenza sociale, ci impediranno di spendere nei programmi per i poveri, i giovani, e per migliorare le infrastrutture. La nostra dipendenza dai creditori esteri e la risultante ipoteca sulle future entrate diminuiranno gli standard di vita delle generazioni future».
Gli economisti della Brookings chiedono a Obama di «non perdere di vista queste scomode verità».

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