Il paradosso di Obama è che il presidente del "change" non vede cambiamento possibile a Teheran. Un cambiamento non certo da vedere nella figura di Mousavi, ambigua e compromessa con le peggiori atrocità del regime khomeinista, ma nelle folle oceaniche che mai dal 1979 (cioè proprio dall'ultima rivoluzione in Iran) avevano riempito le strade di Teheran e di altre importanti città iraniane per gridare il loro disprezzo nei confronti del governo. Davvero nulla di nuovo sta accadendo in Iran? Oppure, Obama non vede questa novità perché il suo sguardo è concentrato su Mousavi e non sul movimento, grande assente nelle analisi della Casa Bianca, che pur con tutte le contraddizioni al suo interno rappresenta comunque forti istanze di cambiamento e di libertà, ed esprime una critica, radicale o riformista che sia, al sistema?
E' qui l'errore d'analisi, tipica di tutti gli approcci realisti, dell'amministrazione Usa. Non considerare affatto il popolo iraniano come un potenziale attore politico (attore non equivale a vincitore), ma limitare il campo degli attori politici ai personaggi di spicco dell'establishment, come Mousavi, Ahmadinejad e Khamenei. Mousavi e Ahmadinejad «non sono poi tanto diversi», per l'amministrazione, consapevole che con qualunque presidente, la politica estera continuerebbe a farla la Guida Suprema, Khamenei, ed è con lui che bisognerà in ogni caso fare i conti.
C'è del vero ma anche una sottovalutazione degli eventi in corso, in questa analisi, perché fondata su un equilibrio tra i poteri della Repubblica islamica che comunque andrà a finire non sarà mai più lo stesso. Al punto in cui sono arrivate le cose in Iran, infatti, se dovesse cadere Ahmadinejad, è probabile che in breve tempo seguirebbe la caduta, o comunque il ridimensionamento, di Khamenei; ma anche se Ahmadinejad prevalesse, il potere di Khamenei non sarebbe più lo stesso. Dipenderebbe sempre più dalle armi dei pasdaran e delle milizie, cui dovrebbe concedere un peso maggiore nel governo del paese.
Quindi a Washington sbagliano i calcoli, sottovalutano il diverso equilibrio di potere che comunque uscirà dalla crisi. E' falso che in ogni caso è solo con Khamenei che bisognerebbe parlare. E' quasi vero il contrario, e cioè che comunque andrà a finire, Khamenei ne uscirà con un potere un po' meno assoluto. Insomma, Obama punta sulla continuità del potere di Khamenei, l'unico che comunque vada ne uscirà meno forte, mentre chi vincerà tra Ahmadinejad e Mousavi vedrà accrescere il suo potere relativo nei confronti della Guida Suprema.
Più che «schierato» dalla parte del regime, come le rimprovera Robert Kagan, l'amministrazione Obama ha puntato sul regime. Ha cioè scommesso che da questa crisi post-elettorale, in un modo o nell'altro, usciranno al comando Ahmadinejad e Khamenei. E' improbabile, ma se da qui ad alcuni mesi gli sviluppi della crisi dovessero togliere di scena prima Ahmadinejad e poi Khamenei, che ne rimarrebbe della presidenza di Obama? Quale credibilità rimarrebbe al presidente, se proprio nel momento di massimo sforzo diplomatico per legittimare il regime iraniano vedesse quella legittimità negata al regime dallo stesso popolo iraniano che ha scelto di non sostenere? Stiamo fantasticando naturalmente, ma le probabilità di successo dell'iniziativa di dialogo con Ahmadinejad e Khamenei sul nucleare sono davvero molte di più di quelle che hanno gli iraniani di rovesciare il regime? Tante di più da suggerire di non metterle a repentaglio, non tanto per appoggiare Mousavi o Rafsanjani, ma per lo meno la mobilitazione popolare?
Nel suo ultimo post Michael Ledeen scrive una cosa giusta: «E' sbagliato pensare che le chance di accordarti con il tuo nemico aumentano con l'appeasement. Reagan ha fatto molti affari con l'Unione sovietica, sebbene la denunciasse quasi ogni giorno». Ledeen non ha dubbi che «a Obama è stato detto dai servizi segreti che il regime vincerà, che i disordini non sono seri e che dovrà trattare con Ahmadinejad per i prossimi quattro anni, e che quindi farebbe meglio a stare attento a non urtarlo. Ogni servizio di intelligence dice sempre così in queste situazioni».
Ma secondo Ledeen molti opinionisti sbagliano a continuare a considerare l'Iran per quello che era cinque giorni fa, e non per il «calderone che ribolle» che è oggi. Lo stesso errore per Ledeen si commette pensando, come ha detto anche il presidente Obama, che «Mousavi, dopo tutto, è uno di loro, un membro della generazione fondativa della Repubblica islamica, e quindi non ci si può aspettare alcun reale cambiamento da lui». Ledeen pensa che sia sbagliato, perché «a questo punto Mousavi o fa cadere la Repubblica islamica, o viene impiccato. Se vince, e la Repubblica islamica viene giù, può darsi che vedremo cambiare il mondo intero», non solo «la fine di un regime fascista-teocratico», ma anche «il taglio dei soldi, delle armi, della tecnologia, dei campi di addestramento e dell'intelligence alle principali organizzazioni terroristiche e, sì, persino la fine del programma di armamenti nucleari».
Ledeen ritiene ciò possibile «a prescindere da cosa e chi fosse cinque anni fa Mousavi, perché lui adesso è il leader di un movimento di massa che chiede un Iran libero e riappacificato con il mondo occidentale. Certo, la ruota può girare di nuovo, e questa rivoluzione essere di nuovo tradita, tutti i tipi di sorpresa aspettano il popolo iraniano. Ma oggi c'è un'occasione spettacolare...».
1 comment:
Il punto importante secondo me è che quelli nelle strade hanno una leadeship con agganci nel regime che puo negoziare e giocare sulle divisioni interne alla teocrazia e hanno una richiesta semplice e praticabile: nuove elezioni.
Il punto è che ci sono altri possibili risultati oltre al palazzo presidenziale in fiamme o a una nuova Tienanmen.
Io li do cinquanta a cinquanta
carlo
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