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Ortisei, Piazza S. Antonio
«A questo punto, occorrerà che qualcuno dotato di autorità assuma qualche provvedimento. Non è infatti ammissibile che vi siano consulenti tecnici che si spendano sull'efficacia probatoria di determinate impronte di Dna, e che vengano clamorosamente smentiti da altri periti. Non è ammissibile che si discetti per mesi sulle mancate impronte ritrovate sulle scarpe dell'imputato, e che poi emerga che, forse, la spiegazione poteva essere reperita nella particolare composizione chimica delle suole. Non è, soprattutto, ammissibile che si continui a rifiutare, per mesi, che l'imputato possa essersi trattenuto al computer l'intera mattinata in cui si è consumato l'omicidio, per scoprire poi che egli aveva, effettivamente, lavorato dalle 9.36 alle 12.20 e che le tracce di questi passaggi erano state improvvidamente cancellate. Ne va, diciamolo chiaramente, della stessa credibilità degli uffici pubblici investigativi e peritali ai quali i magistrati della accusa si sono affidati nel corso delle indagini. Ne va, è doveroso soggiungere, della stessa credibilità degli uffici giudiziari interessati».Chi dovrebbe intervenire?
«Un'operazione che implica sia la resa dei conti con il "dipietrismo interno" al Partito democratico sia una ricalibrazione dei rapporti con le forze esterne (certi magistrati, certi giornali, eccetera), che sul dipietrismo interno al Pd hanno sempre fatto leva per condizionarne la politica. Opporsi alla persona di Berlusconi o opporsi alle politiche del governo? La risposta rivela la concezione della lotta politica, nonché il giudizio sullo stato della nostra democrazia, di ciascun singolo oppositore. Da quando c’è Berlusconi le due anime hanno convissuto e, quasi sempre, quella antiberlusconiana pura ha prevalso, essendo stato fin qui l'antiberlusconismo il vero ancoraggio identitario della sinistra».Secondo Panebianco, Bersani «ambirebbe a portare il Pd fuori dall'orbita del massimalismo antiberlusconiano» e a dare al partito «un chiaro profilo riformista», ma si preoccupa anche di «non perdere consensi».
«Poiché il massimalismo antiberlusconiano è ben presente nell'elettorato e fra i militanti del Pd un'operazione che separi nettamente i destini politici degli estremisti da quelli dei riformisti appare, sulla carta, assai rischiosa».Non potrebbe essere spiegato meglio. Ma è qui, conclude Panebianco, che «entra in gioco la questione della leadership». O per lo meno dovrebbe.
«Di Pietro non è un alleato ma un avversario da isolare e i dipietristi interni al partito sappiano che non sarà più tollerato chi tiene il piede in due staffe. A loro volta, le forze esterne che pretendono di condizionarmi sappiano che la linea politica del Pd la detto solo io a nome della maggioranza congressuale che mi ha espresso. Se vogliono opporsi a me e logorarmi si accomodino ma sia chiaro che, così facendo, favoriranno il centrodestra».Sono queste le parole che Panebianco vorrebbe sentir pronunciare da Bersani, ma confesso di nutrire ben poche speranze in proposito. Ha ragione Gianni De Michelis, quando al Corriere dice che «l'unico modo per salvare questo Paese è isolare Di Pietro», suggerendo che se «l'hanno fatto in Francia con Le Pen, che aveva molti più voti, devono farlo anche con lui che non è un soggetto compatibile con lo stato di diritto». Intanto, stiamo per entrare nella campagna per le regionali, quindi dubito che il rasserenamento reggerà dopo la fine delle festività natalizie. Il vero banco di prova sarà dopo le elezioni regionali. A quel punto, se dovesse trovarsi di fronte all'ennesima debàcle, il Pd potrebbe trovare la forza per dialogare sulle riforme e/o per rompere con Di Pietro, ma non c'è da illudersi troppo.
«Dobbiamo iniziare col riconoscere la dura verità: non estirperemo la piaga dei conflitti nell'arco della nostra vita. Ci saranno momenti in cui le nazioni, agendo individualmente o di concerto, riterranno che l'utilizzo della forza non è solo necessario, ma anche moralmente giustificato... So che non c'è nulla di debole, nulla di passivo, nulla di naive, nel credo e nella vita di Gandhi e di King. Ma come capo di stato, avendo giurato di proteggere e difendere la mia nazione, non posso farmi guidare solo dal loro esempio. Devo affrontare il mondo così com'è, e non posso stare immobile davanti a tutto quanto minaccia il popolo americano. Perché non dobbiamo illuderci: il male nel mondo esiste. Un movimento non violento non avrebbe potuto fermare le armi di Hitler. I negoziati non possono convincere i capi di al Qaida a deporre le armi. Dire che la forza a volte può essere necessaria non significa essere cinici; significa comprendere la storia, le imperfezioni dell'uomo e i limiti della ragione...»Forse per la prima volta, così esplicitamente, Obama si è detto «fiero dell'eredità» ideale e morale del suo Paese e delle sue scelte, anche delle guerre che ha combattuto, e ha rigettato il «sospetto» che grava sull'America:
«Il mondo deve ricordare che non sono stati le sole istituzioni internazionali, i trattati e le dichiarazioni a portare stabilità nel mondo dopo la Seconda guerra mondiale. Nonostante tutti gli errori commessi, i fatti, puri e semplici, sono questi: gli Stati Uniti d'America da oltre sessant'anni contribuiscono a sostenere la sicurezza mondiale con il sangue dei loro cittadini e la forza delle loro armi. Lo spirito di servizio e di sacrificio dei nostri uomini e delle nostre donne in uniforme ha promosso la pace e la prosperità dalla Germania alla Corea e ha permesso che la democrazia prendesse piede in luoghi come i Balcani. Ci siamo accollati quest'onere non perché vogliamo imporre la nostra volontà. L'abbiamo fatto in nome di un nostro interesse illuminato, perché desideriamo un futuro migliore per i nostri figli e nipoti, e perché crediamo che le loro vite saranno migliori se i figli e i nipoti degli altri potranno vivere in libertà e prosperità. E allora sì, gli strumenti della guerra hanno un loro ruolo nel mantenere la pace.Nel tentativo di superare l'antitesi realisti vs. idealisti, Obama sembra da una parte tendere verso l'idealismo...
(...)
Parte della nostra sfida quindi è conciliare queste due verità apparentemente inconciliabili: che la guerra è talvolta necessaria e che la guerra è, a un qualche livello, espressione della follia umana. Concretamente, dobbiamo dirigere i nostri sforzi a compiere quanto ci chiese tempo fa il presidente Kennedy. "Concentriamoci su di una pace più pratica, più raggiungibile, fondata non su un'improvvisa rivoluzione della natura umana, ma su un'evoluzione graduale delle istituzioni umane".
(...)
Capisco che la guerra non è popolare, ma so anche questo; la convinzione che la pace è desiderabile raramente basta a raggiungerla. La pace richiede responsabilità. La pace chiede sacrifici. Ecco perché la Nato continua a essere indispensabile.
(...)
La pace non è solo l'assenza di un conflitto visibile. Solo una pace giusta, basata sui diritti innati e la dignità per ogni individuo, può essere veramente duratura».
«Ritengo che la pace sia instabile ovunque sia negato ai cittadini il diritto di esprimersi liberamente o pregare come credono, di scegliere i propri leader o di riunirsi senza timore... L'America non ha mai combattuto una guerra contro una democrazia, e i nostri alleati più vicini sono quei governi che tutelano i diritti dei loro cittadini».... ma poi arriva il colpo alla botte:
«Lasciatemi anche dire che la promozione dei diritti umani non si può limitare alle sole esortazioni. A volte deve procedere a fianco di una diplomazia laboriosa. So che dialogare con regimi repressivi equivale a fare a meno della purezza appagante dell'indignazione. Ma so anche che le sanzioni senza l'offerta di dialogo - la condanna senza la discussione - possono riportare soltanto a un rovinoso status quo. Nessun regime repressivo può imboccare una strada differente a meno che non abbia la possibilità di scegliere una porta che gli si apre davanti».