Abbiamo dato la pagella a governo e opposizione sulla base della lettera di agosto della Bce, pubblicata ieri dal Corriere. Oggi proviamo a dare i voti al documento di Confindustria, che appare innanzitutto costruttivo nel metodo, dunque nessuna invasione di campo ma un contributo trasparente, limpido, seppur tardivo. Finalmente Confindustria si espone e dice chiaramente come la pensa, le misure che vorrebbe venissero varate dal governo. Nel merito è in larga parte condivisibile, diciamo all'80%. Bene i punti 1, 3, 4 e in parte 5. Mentre nel punto 2, quello sulla riforma fiscale, mi pare di aver capito che in sostanza si propone una tassa patrimoniale per pagare crediti d'imposta et similia. Ma vediamo le proposte nel dettaglio.
Alcuni dei dati riportati sono emblematici, soprattutto dovrebbero far riflettere chi si lamenta dei «tagli» e i cittadini che magari si convincono che si sta facendo «macelleria sociale». Dimostrano come la spesa pubblica sia aumentata esponenzialmente nell'ultimo decennio (2000-2010), ben oltre crescita del Pil e inflazione. In particolare, la spesa sanitaria è cresciuta «da 67,5 miliardi a 113,5 miliardi». Eppure non si ricordano terribili pestilenze. Possibile che dieci anni fa il sistema funzionasse in modo più o meno identico ma con il 40% delle risorse in meno? La spesa per acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione è salita «da 87,4 a 137 miliardi» (aumento del 56,8% in termini nominali e del 45,7% in termini reali). E sulle pensioni, fa letteralmente rabbrividire che stando agli ultimi dati disponibili, relativi al 2008, paghiamo ben 55 miliardi l'anno a persone con meno di 64 anni di età, e di questi ben 17 miliardi sono erogati a persone fra i 40 e i 59 anni!
Sotto la voce riforma delle pensioni, Confindustria propone di «eliminare rapidamente le pensioni di anzianità», «accelerare l'aumento dell'età di pensionamento di vecchiaia», «equiparare l'età di pensionamento delle donne a quella degli uomini anche nel settore privato», e «abrogare tutti i regimi speciali». Voto: 10.
Riguardo la riforma fiscale, chiede nuove deduzioni Irap, crediti di imposta per gli investimenti in ricerca e innovazione delle imprese, decontribuzione dei premi produttività e l'«avvio della revisione dell'Irpef». Interventi che costerebbero 6 miliardi, calcola Confindustria, da finanziare interamente con una tassa patrimoniale ordinaria: un prelievo annuale sul patrimonio delle persone fisiche ad aliquota contenuta (1,5 per mille) e con una soglia di esenzione (1,5 milioni di euro). In pratica, la proposta Abete. Per combattere l'evasione fiscale le associazioni delle imprese propongono di abbassare a 500 euro il limite per l'utilizzo del contante e di ricorrere a misure di contrasto di interessi, cioè altre detrazioni, come quelle del 36% per gli interventi in edilizia e del 55% per l'efficienza energetica. Voto: 4.
Al punto 3) del documento Confindustria suggerisce privatizzazioni immobiliari e dei servizi pubblici locali. Voto: 10. Al punto 4) la liberalizzazione delle professioni e semplificazioni normative e amministrative. Voto: 10. Infine, il punto 5) è dedicato alle «grandi priorità infrastrutturali» e agli incentivi alle fonti di energia rinnovabili e alle tecnologie per l'efficienza energetica. Voto: 6.
La parte fiscale è quella meno convincente. Se reperire da una vera riforma delle pensioni le risorse per ridurre la pressione fiscale su lavoro e impresa è la cosa giusta da fare, del tutto superflua invece, anzi pericolosa, è una patrimoniale di 6 miliardi che finanziarebbe solo per 1/3 l'«avvio della revisione dell'Irpef» (costo previsto 2 miliardi) e per 2/3 nuovi sgravi Irpef e Irap. E' pur sempre vero che si tratterebbe di finanziare meno tasse su famiglie e imprese, ma sarebbe in realtà una mera redistribuzione del carico fiscale, non una sua riduzione netta. Trovo che anche quei 6 miliardi di nuovi sgravi dovrebbero venire da tagli alla spesa. Considerato l'elevatissimo livello generale di pressione fiscale, soprattutto dopo le ultime due manovre, non un euro in più dovrebbe arrivare da nuove entrate. Anche perché il rischio, con questo Stato rapace, è che una volta introdotta la patrimoniale alla prima occasione se ne faccia un altro uso.
Vista la resistenza tetragona dei sindacati, della Lega e degli altri partiti di opposizione sulle pensioni, e quella degli enti locali e delle corporazioni sulle liberalizzazioni, il punto del documento che rischia di conquistarsi l'attenzione della politica e dei commentatori nei prossimi giorni, anche perché l'unica novità di rilievo nelle posizioni di Confindustria, è l'apertura degli industriali alla tassa patrimoniale. Il ruolo politico che rischia quindi di giocare questo documento - al di là delle intenzioni dei promotori ovviamente - è quello di cavallo di Troia per la patrimoniale e basta. Nonostante ciò, al governo converrebbe comunque farsi forte sia della lettera della Bce, sia del documento di Confindustria, per riproporre riforma delle pensioni e liberalizzazioni. Può prendere atto dei due interventi con fastidio, oppure aggrapparsi ad essi per non lasciarsi sfuggire forse l'ultima occasione per cambiare il Paese.
Friday, September 30, 2011
Thursday, September 29, 2011
Qualcuno è disposto a metterci la faccia?
Dunque ecco la lettera più ricercata dell'estate. La lettera del 5 agosto, a firma Trichet-Draghi, con la quale la Bce suggeriva al governo italiano le misure da prendere - e da far approvare dal Parlamento «entro la fine di settembre 2011» - per la crescita economica e la stabilità finanziaria. Pochi giorni dopo, mentre cresceva la sfiducia dei mercati sui nostri titoli di Stato, e si allargava paurosamente lo spread con quelli tedeschi, la Bce iniziava gli acquisti dei nostri titoli sul mercato secondario per allentare la pressione e tenere lo spread sotto quota 400. Nella seconda manovra estiva, quella ferragostana, e nelle settimane successive fino ad oggi (fine settembre), il nostro governo ha dato seguito alle preziose indicazioni contenute nella lettera della Bce? La risposta è senza alcun dubbio no.
E non si può certo sostenere che la Bce abbia chiesto la luna, oppure indicato ricette stravaganti. Si tratta in gran parte delle misure, di cui si discute da anni, che tutti sanno essere inevitabili ma che nessuno riesce ad adottare perché vanno a toccare privilegi corporativi e previdenziali, sacche di assistenzialismo, monopoli e caste. Davvero nulla di nuovo per chi legge abitualmente questo blog, dove si parla fino alla nausea di argomenti come liberalizzazioni e pensioni. Fin dalla presentazione della prima manovra, quella di luglio, qui indicati come i settori in cui si doveva intervenire invece di insistere con tasse e balzelli di ogni genere. Ma vediamo nel dettaglio le riforme indicate e tentiamo di dare un voto sia all'impegno profuso dal governo per realizzarle, sia all'opposizione, valutando la sua credibilità in merito, cioè quanto sia credibile che sappia fare di meglio.
Nella sua lettera la Bce divide le misure in tre capitoli. Il primo riguarda la crescita. Chiede la «piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali», e riguardo i primi «attraverso privatizzazioni su larga scala».
Voto al governo: 4. All'opposizione: 4.
Chiede di «riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione», riconoscendo tuttavia che l'accordo del 28 giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali «si muove in questa direzione».
Voto al governo: 6-. All'opposizione: 4.
Chiede infine la «revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi». In pratica, licenziamenti più "facili", a fronte dei quali predisporre un sistema di welfare moderno che sostituisca la cassa integrazione.
Voto al governo: 4. All'opposizione: 4.
Il secondo capitolo di interventi riguarda la finanza pubblica. La Bce chiede «il bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa», nello specifico intervenendo «ulteriormente sul sistema pensionistico» (pensioni d'anzianità, età di ritiro delle donne nel settore privato) e con una «riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi».
Voto al governo: 4. All'opposizione: 4--.
Chiede inoltre una «clausola di riduzione automatica del deficit», con «tagli orizzontali sulle spese discrezionali», e una «riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio».
Voto al governo: 6-. All'opposizione: 6-.
Terzo e ultimo capitolo dedicato alla PA. La Bce chiede «una revisione dell'amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l'efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese» e che diventi «sistematico l'uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione)».
Voto al governo: 6--. All'opposizione: 4.
Infine, «un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province).
Voto al governo: 5. All'opposizione: 6-.
Se nel complesso il governo ha disatteso, almeno fino ad oggi, i suggerimenti della Bce (media voto: 5-), il guaio del nostro Paese è che appare ancor meno credibile che sia l'opposizione a far proprie quelle politiche (media voto: 4,5). Non sorprende, visto che il vero e proprio programma di governo che la Bce ci ha consegnato sembra adattarsi meglio ad un centrodestra liberale. Per questo avrebbe dovuto rappresentare un invito a nozze per l'attuale esecutivo, che invece si mostra timido, nella migliore delle ipotesi, quando non riluttante ad attuarlo.
Sarebbe però interessante (e deprimente, purtroppo) chiedere a quanti criticano il governo (e mi riferisco non solo ai partiti di opposizione, ma anche ai sindacati, a Confindustria, agli stessi cittadini) se sono d'accordo o no con ciascuna delle misure indicate dalla Bce, e se fossero disposti a metterci la faccia. Proprio in concomitanza con la pubblicazione della lettera dei banchieri centrali, usciva su la Repubblica la lettera di Susanna Camusso, leader della Cgil, che ovviamente va nella direzione completamente opposta. E non è difficile immaginare che anche i sindacati più riformisti avrebbero parecchio da ridire su molti di quei punti. Personalmente non metterei la mano sul fuoco neanche per Confindustria.
Dalle parti del Pd, il principale partito di opposizione, si registra la solita dissociazione mentale. Per il responsabile economico del partito, Stefano Fassina, «soltanto parte delle raccomandazioni della Bce sono utili», perché è «negativa l'insistenza ideologica sulla flessibilità del lavoro e sul superamento del contratto nazionale, la completa disattenzione alla domanda aggregata e l'affidamento esclusivo alle misure supply side». Mentre per il vicesegretario Enrico Letta «i contenuti della lettera di Draghi e Trichet rappresentano la base su cui impostare politiche per far uscire l'Italia dalla crisi» e «qualunque governo» succederà a Berlusconi «dovrà ripartire dai contenuti di quella lettera». Peccato che il Pd dei "fatti" sia quello del referendum sull'acqua, dell'abolizione dello "scalone" Maroni, della difesa a oltranza dell'articolo 18 e degli statali, quello che scende in piazza con la Cgil e in cui le proposte di Pietro Ichino sul diritto del lavoro, la contrattazione e la pubblica amministrazione restano un'ammirevole eccezione. Per non parlare dell'alleato ingombrante che siederà alla sua sinistra: Nichi Vendola. No, non si sono sentiti cori di entusiastica adesione alle ricette della Bce. Vedremo già nelle prossime settimane se il governo saprà migliorare con i fatti il proprio "rating" rispetto ad esse.
E non si può certo sostenere che la Bce abbia chiesto la luna, oppure indicato ricette stravaganti. Si tratta in gran parte delle misure, di cui si discute da anni, che tutti sanno essere inevitabili ma che nessuno riesce ad adottare perché vanno a toccare privilegi corporativi e previdenziali, sacche di assistenzialismo, monopoli e caste. Davvero nulla di nuovo per chi legge abitualmente questo blog, dove si parla fino alla nausea di argomenti come liberalizzazioni e pensioni. Fin dalla presentazione della prima manovra, quella di luglio, qui indicati come i settori in cui si doveva intervenire invece di insistere con tasse e balzelli di ogni genere. Ma vediamo nel dettaglio le riforme indicate e tentiamo di dare un voto sia all'impegno profuso dal governo per realizzarle, sia all'opposizione, valutando la sua credibilità in merito, cioè quanto sia credibile che sappia fare di meglio.
Nella sua lettera la Bce divide le misure in tre capitoli. Il primo riguarda la crescita. Chiede la «piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali», e riguardo i primi «attraverso privatizzazioni su larga scala».
Voto al governo: 4. All'opposizione: 4.
Chiede di «riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione», riconoscendo tuttavia che l'accordo del 28 giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali «si muove in questa direzione».
Voto al governo: 6-. All'opposizione: 4.
Chiede infine la «revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi». In pratica, licenziamenti più "facili", a fronte dei quali predisporre un sistema di welfare moderno che sostituisca la cassa integrazione.
Voto al governo: 4. All'opposizione: 4.
Il secondo capitolo di interventi riguarda la finanza pubblica. La Bce chiede «il bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa», nello specifico intervenendo «ulteriormente sul sistema pensionistico» (pensioni d'anzianità, età di ritiro delle donne nel settore privato) e con una «riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi».
Voto al governo: 4. All'opposizione: 4--.
Chiede inoltre una «clausola di riduzione automatica del deficit», con «tagli orizzontali sulle spese discrezionali», e una «riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio».
Voto al governo: 6-. All'opposizione: 6-.
Terzo e ultimo capitolo dedicato alla PA. La Bce chiede «una revisione dell'amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l'efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese» e che diventi «sistematico l'uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione)».
Voto al governo: 6--. All'opposizione: 4.
Infine, «un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province).
Voto al governo: 5. All'opposizione: 6-.
Se nel complesso il governo ha disatteso, almeno fino ad oggi, i suggerimenti della Bce (media voto: 5-), il guaio del nostro Paese è che appare ancor meno credibile che sia l'opposizione a far proprie quelle politiche (media voto: 4,5). Non sorprende, visto che il vero e proprio programma di governo che la Bce ci ha consegnato sembra adattarsi meglio ad un centrodestra liberale. Per questo avrebbe dovuto rappresentare un invito a nozze per l'attuale esecutivo, che invece si mostra timido, nella migliore delle ipotesi, quando non riluttante ad attuarlo.
Sarebbe però interessante (e deprimente, purtroppo) chiedere a quanti criticano il governo (e mi riferisco non solo ai partiti di opposizione, ma anche ai sindacati, a Confindustria, agli stessi cittadini) se sono d'accordo o no con ciascuna delle misure indicate dalla Bce, e se fossero disposti a metterci la faccia. Proprio in concomitanza con la pubblicazione della lettera dei banchieri centrali, usciva su la Repubblica la lettera di Susanna Camusso, leader della Cgil, che ovviamente va nella direzione completamente opposta. E non è difficile immaginare che anche i sindacati più riformisti avrebbero parecchio da ridire su molti di quei punti. Personalmente non metterei la mano sul fuoco neanche per Confindustria.
Dalle parti del Pd, il principale partito di opposizione, si registra la solita dissociazione mentale. Per il responsabile economico del partito, Stefano Fassina, «soltanto parte delle raccomandazioni della Bce sono utili», perché è «negativa l'insistenza ideologica sulla flessibilità del lavoro e sul superamento del contratto nazionale, la completa disattenzione alla domanda aggregata e l'affidamento esclusivo alle misure supply side». Mentre per il vicesegretario Enrico Letta «i contenuti della lettera di Draghi e Trichet rappresentano la base su cui impostare politiche per far uscire l'Italia dalla crisi» e «qualunque governo» succederà a Berlusconi «dovrà ripartire dai contenuti di quella lettera». Peccato che il Pd dei "fatti" sia quello del referendum sull'acqua, dell'abolizione dello "scalone" Maroni, della difesa a oltranza dell'articolo 18 e degli statali, quello che scende in piazza con la Cgil e in cui le proposte di Pietro Ichino sul diritto del lavoro, la contrattazione e la pubblica amministrazione restano un'ammirevole eccezione. Per non parlare dell'alleato ingombrante che siederà alla sua sinistra: Nichi Vendola. No, non si sono sentiti cori di entusiastica adesione alle ricette della Bce. Vedremo già nelle prossime settimane se il governo saprà migliorare con i fatti il proprio "rating" rispetto ad esse.
Wednesday, September 28, 2011
Blog, rettifica non è censura
Anche su notapolitica.it e taccuinopolitico.it
Da titolare di un blog politico da quasi dieci anni, praticamente dall'alba della "generazione blogger", questa rivolta dell'immaginario "popolo del web", questo gridare alla censura per quella norma del ddl intercettazioni all'esame della Camera che obbligherebbe i siti internet, blog compresi, alla rettifica, non mi convince affatto. Alle mie orecchie suona come il tipico riflesso conformista internettiano. "Bavaglio", "ammazza-blog", attentato alla "libbbertà della Rete" (doverosamente con la maiuscola). Siccome gli assoluti mi insospettiscono, ci ho ragionato un po' su. Premetto che qui non s'intende difendere l'emendamento in questione, che può, e quindi deve, essere migliorato per corrispondere in modo equo alle diverse situazioni e responsabilità in campo, bensì il principio. Coloro che respingono in linea di principio l'idea che persino un blog debba garantire il diritto alla rettifica non conoscono la rete, non hanno ben compreso le sue enormi potenzialità – anche se in suo nome e in ragione di esse pretendono di alzare la voce – oppure le hanno comprese ma fanno i furbi.
L'obbligo di rettifica non può valere anche per i siti internet, si obietta, perché «esiste una differenza abissale tra un blog, magari gestito da un ragazzo, un giornale e una televisione». «Differenza abissale»? Ma come? Non cerchiamo quotidianamente, noi blogger, di dimostrare che la grande rivoluzione di internet è proprio quella di aver annullato, almeno potenzialmente, questa differenza? Non crediamo più a questa rivoluzione? Grazie a internet anche l'autore più anonimo può essere letto potenzialmente da milioni di persone in tutto il pianeta; twitter può essere più potente di un'agenzia di stampa; il blog più inutile e sconosciuto può diventare in un paio d'ore una star mediatica, un imprescindibile "opinion leader", passando da una decina di lettori a decine di migliaia di contatti. E' già capitato, capita ogni giorno, è storia. E allora, se queste sono le enormi potenzialità di internet, un luogo virtuale dove un piccolo blogger può davvero competere con i mainstream media, fino a condizionare il dibattito pubblico, perché negare che ad esse corrispondano delle responsabilità? Così facendo non rischiamo forse di negare noi stessi le potenzialità della rete?
Non si può, a mio avviso, pretendere di sfruttare tali potenzialità senza riconoscere le responsabilità che implicano. E una delle responsabilità, quando si trasmette, si comunica qualcosa ad un'agorà mediatica potenzialmente illimitata, è legata al rispetto degli altri. Sostenere che solo le testate regolarmente registrate dovrebbero rispondere di ciò che scrivono e dicono, che siti e blog non dovrebbero essere soggetti a tale responsabilità solo perché compilati a livello amatoriale, perché non fanno parte della corporazione dei giornalisti, significa piegarsi ad una logica, corporativa appunto, che contraddice tutto ciò che internet rappresenta nel mondo di oggi. E sorprende che persino alcuni blogger liberali siano scivolati su questo terreno. Preferite forse l'obbligo di registrazione presso i tribunali, con tanto di ordini, contratti e sindacati? All'obbligo di rettifica dovrebbe attenersi chiunque comunichi ad un pubblico vasto, a prescindere dal media utilizzato e dalla sua inquadratura professionale.
La differenza tra un blogger – magari ragazzino – e un giornalista, una redazione, o un editore, è «abissale» nelle modalità operative (forse), non nelle responsabilità legate all'atto comunicativo. Nel momento in cui apro un blog e comincio a scrivere non sto scambiando quattro chiacchiere in salotto o al bar con i miei amici, sto esercitando la mia legittima fetta di "quarto potere", indipendentemente dall'ordine professionale cui sono iscritto. Ed è un potere che va esercitato responsabilmente, perché ha a che fare con le vite delle persone. Di più. Se le sorti professionali e imprenditoriali di giornalisti ed editori di professione dipendono dalla loro autorevolezza, quindi hanno – in teoria – tutto l'interesse a non divulgare notizie false, un blogger amatoriale può infischiarsene, causare lo stesso danno ma per lui a costo zero.
Per numero di contatti un sito internet può ormai competere con le tirature di un quotidiano. Una diffamazione via web si diffonde in modo molto più virale rispetto agli altri media, non è stampata sull'edizione di un solo giorno, né scorre via nel flusso radiotelevisivo, ma ad ogni ricerca su Google riaffiora, come un marchio potenzialmente indelebile. L'esempio ce l'abbiamo sotto gli occhi: il blog che la settimana scorsa ha pubblicato un'arbitraria lista di politici omofobi epppure omosessuali. Ebbene, l'insulto sta ovviamente nell'essere indicati come omofobi, non come omosessuali, ma perché ai diretti interessati non dovrebbe essere riconosciuto il diritto ad una rettifica, visto che del loro orientamento sessuale si parla?
La rete non è un mondo totalmente avulso dalla realtà. Internet è uno strumento di libertà, di informazione dal basso, ma è un luogo – chiunque lo frequenti lo sa benissimo – che pullula di diffamatori di professione, di odiatori seriali e persino di istigatori alla violenza, che spesso approfittano dell'anonimato. Non stiamo parlando di censure preventive, registrazioni, iscrizioni ad albi, ma di una semplice rettifica. Ed è chiaro che la rettifica non si riferisce ad un'opinione espressa, quindi non introduce una sorta di obbligo a dare spazio sul proprio sito al o ai punti di vista che si vogliono criticare, ma ad una notizia riportata o ad un giudizio su una persona. E' vero che il singolo blogger probabilmente non ha risorse e competenze giuridiche tali da potersi opporre a richieste di rettifica infondate, avanzate solo come forma di intimidazione, ma è pur vero che minore è il seguito del blog, minori saranno le probabilità di subire pressioni. E' vero che esistono già strumenti per punire eventuali illeciti – come la querela – ma richiedono la via giudiziaria e tempi lunghi, quando molto spesso chi si sente diffamato o danneggiato ha solo interesse a poter replicare sullo stesso media in tempi brevi. Tra l'altro, gli attuali strumenti di tutela sono già utilizzati nei confronti dei blog come forme di intimidazione, e ben più pesanti di un'ammenda di 12 mila euro. E' già capitato ad alcuni di vedersi recapitare minacce di denunce, alcune delle quali hanno addirittura avuto un seguito in tribunale (si veda il caso Morini-Moncalvo, conclusosi con l'assoluzione del blogger). Certo, ai siti amatoriali si potrebbero applicare norme meno stringenti. Ragionevoli in proposito le modifiche suggerite dal deputato Pdl Roberto Cassinelli, per esempio allungare i termini entro cui la rettifica dev'essere pubblicata e ridurre le sanzioni.
Da titolare di un blog politico da quasi dieci anni, praticamente dall'alba della "generazione blogger", questa rivolta dell'immaginario "popolo del web", questo gridare alla censura per quella norma del ddl intercettazioni all'esame della Camera che obbligherebbe i siti internet, blog compresi, alla rettifica, non mi convince affatto. Alle mie orecchie suona come il tipico riflesso conformista internettiano. "Bavaglio", "ammazza-blog", attentato alla "libbbertà della Rete" (doverosamente con la maiuscola). Siccome gli assoluti mi insospettiscono, ci ho ragionato un po' su. Premetto che qui non s'intende difendere l'emendamento in questione, che può, e quindi deve, essere migliorato per corrispondere in modo equo alle diverse situazioni e responsabilità in campo, bensì il principio. Coloro che respingono in linea di principio l'idea che persino un blog debba garantire il diritto alla rettifica non conoscono la rete, non hanno ben compreso le sue enormi potenzialità – anche se in suo nome e in ragione di esse pretendono di alzare la voce – oppure le hanno comprese ma fanno i furbi.
L'obbligo di rettifica non può valere anche per i siti internet, si obietta, perché «esiste una differenza abissale tra un blog, magari gestito da un ragazzo, un giornale e una televisione». «Differenza abissale»? Ma come? Non cerchiamo quotidianamente, noi blogger, di dimostrare che la grande rivoluzione di internet è proprio quella di aver annullato, almeno potenzialmente, questa differenza? Non crediamo più a questa rivoluzione? Grazie a internet anche l'autore più anonimo può essere letto potenzialmente da milioni di persone in tutto il pianeta; twitter può essere più potente di un'agenzia di stampa; il blog più inutile e sconosciuto può diventare in un paio d'ore una star mediatica, un imprescindibile "opinion leader", passando da una decina di lettori a decine di migliaia di contatti. E' già capitato, capita ogni giorno, è storia. E allora, se queste sono le enormi potenzialità di internet, un luogo virtuale dove un piccolo blogger può davvero competere con i mainstream media, fino a condizionare il dibattito pubblico, perché negare che ad esse corrispondano delle responsabilità? Così facendo non rischiamo forse di negare noi stessi le potenzialità della rete?
Non si può, a mio avviso, pretendere di sfruttare tali potenzialità senza riconoscere le responsabilità che implicano. E una delle responsabilità, quando si trasmette, si comunica qualcosa ad un'agorà mediatica potenzialmente illimitata, è legata al rispetto degli altri. Sostenere che solo le testate regolarmente registrate dovrebbero rispondere di ciò che scrivono e dicono, che siti e blog non dovrebbero essere soggetti a tale responsabilità solo perché compilati a livello amatoriale, perché non fanno parte della corporazione dei giornalisti, significa piegarsi ad una logica, corporativa appunto, che contraddice tutto ciò che internet rappresenta nel mondo di oggi. E sorprende che persino alcuni blogger liberali siano scivolati su questo terreno. Preferite forse l'obbligo di registrazione presso i tribunali, con tanto di ordini, contratti e sindacati? All'obbligo di rettifica dovrebbe attenersi chiunque comunichi ad un pubblico vasto, a prescindere dal media utilizzato e dalla sua inquadratura professionale.
La differenza tra un blogger – magari ragazzino – e un giornalista, una redazione, o un editore, è «abissale» nelle modalità operative (forse), non nelle responsabilità legate all'atto comunicativo. Nel momento in cui apro un blog e comincio a scrivere non sto scambiando quattro chiacchiere in salotto o al bar con i miei amici, sto esercitando la mia legittima fetta di "quarto potere", indipendentemente dall'ordine professionale cui sono iscritto. Ed è un potere che va esercitato responsabilmente, perché ha a che fare con le vite delle persone. Di più. Se le sorti professionali e imprenditoriali di giornalisti ed editori di professione dipendono dalla loro autorevolezza, quindi hanno – in teoria – tutto l'interesse a non divulgare notizie false, un blogger amatoriale può infischiarsene, causare lo stesso danno ma per lui a costo zero.
Per numero di contatti un sito internet può ormai competere con le tirature di un quotidiano. Una diffamazione via web si diffonde in modo molto più virale rispetto agli altri media, non è stampata sull'edizione di un solo giorno, né scorre via nel flusso radiotelevisivo, ma ad ogni ricerca su Google riaffiora, come un marchio potenzialmente indelebile. L'esempio ce l'abbiamo sotto gli occhi: il blog che la settimana scorsa ha pubblicato un'arbitraria lista di politici omofobi epppure omosessuali. Ebbene, l'insulto sta ovviamente nell'essere indicati come omofobi, non come omosessuali, ma perché ai diretti interessati non dovrebbe essere riconosciuto il diritto ad una rettifica, visto che del loro orientamento sessuale si parla?
La rete non è un mondo totalmente avulso dalla realtà. Internet è uno strumento di libertà, di informazione dal basso, ma è un luogo – chiunque lo frequenti lo sa benissimo – che pullula di diffamatori di professione, di odiatori seriali e persino di istigatori alla violenza, che spesso approfittano dell'anonimato. Non stiamo parlando di censure preventive, registrazioni, iscrizioni ad albi, ma di una semplice rettifica. Ed è chiaro che la rettifica non si riferisce ad un'opinione espressa, quindi non introduce una sorta di obbligo a dare spazio sul proprio sito al o ai punti di vista che si vogliono criticare, ma ad una notizia riportata o ad un giudizio su una persona. E' vero che il singolo blogger probabilmente non ha risorse e competenze giuridiche tali da potersi opporre a richieste di rettifica infondate, avanzate solo come forma di intimidazione, ma è pur vero che minore è il seguito del blog, minori saranno le probabilità di subire pressioni. E' vero che esistono già strumenti per punire eventuali illeciti – come la querela – ma richiedono la via giudiziaria e tempi lunghi, quando molto spesso chi si sente diffamato o danneggiato ha solo interesse a poter replicare sullo stesso media in tempi brevi. Tra l'altro, gli attuali strumenti di tutela sono già utilizzati nei confronti dei blog come forme di intimidazione, e ben più pesanti di un'ammenda di 12 mila euro. E' già capitato ad alcuni di vedersi recapitare minacce di denunce, alcune delle quali hanno addirittura avuto un seguito in tribunale (si veda il caso Morini-Moncalvo, conclusosi con l'assoluzione del blogger). Certo, ai siti amatoriali si potrebbero applicare norme meno stringenti. Ragionevoli in proposito le modifiche suggerite dal deputato Pdl Roberto Cassinelli, per esempio allungare i termini entro cui la rettifica dev'essere pubblicata e ridurre le sanzioni.
Tuesday, September 27, 2011
Almeno su questo non ci piove: era una trappola
Col senno di poi, avevano o no ragione i legali del premier nel ritenere una «trappola» la richiesta, da parte dei magistrati di Napoli, di ascoltarlo in veste di «persona informata dei fatti», quindi di testimone? Sì, avevano visto giusto. I pm volevano interrogarlo da testimone, quindi in assenza dei suoi avvocati, ma già avevano in mente di indagarlo. Appena dichiarata dal gip la non competenza della procura partenopea sul caso, e una volta chiaro che Berlusconi non si sarebbe presentato spontaneamente, i pm napoletani che solo un minuto prima parlavano di Berlusconi come «parte lesa» nella loro inchiesta hanno gettato la maschera preannunciando di volerlo indagare: se non c'è stata estorsione, come lui stesso afferma, allora la "ex vittima" deve aver indotto Tarantini, imputato a Bari, a rendere false dichiarazioni.
La decisione del tribunale del riesame di Napoli di scarcerare i coniugi Tarantini, facendo cadere l'accusa di estorsione nei loro confronti, accoglie supinamente questa tesi ma sposta la competenza a Bari. A questo punto, almeno su questo non ci piove: era una «trappola». Il comportamento dei pm napoletani è stato quanto meno scorretto dal punto di vista della deontologia professionale: hanno tentato di interrogare una persona senza i suoi avvocati con l'inganno, facendole credere che non la volessero indagare mentre era vero il contrario, tendendole di fatto una «trappola».
Adesso rischiano di essere ben tre le procure a litigarsi un'inchiesta nella quale in pochi giorni il premier è passato da presunta vittima a potenziale indagato: Napoli, Bari e Roma, la quale ha ricevuto le carte dal gip di Napoli solo la scorsa settimana. E il colmo sarebbe se si finisse per tenere in piedi entrambe le accuse, per far contente un po' tutte le procure (o per continuare a tenere sotto pressione i Tarantini?): che si indaghi cioè sia per estorsione, sia per l'induzione alla falsa testimonianza. Ma essendo ormai chiaro che anche in questa inchiesta il premier ci è entrato da indagato, perché questo era l'obiettivo ultimo dell'autorità giudiziaria com'è emerso dai passi degli ultimi giorni, ancora di più appaiono come illegali e non utilizzabili tutte le intercettazioni "indirette" che lo riguardano.
La decisione del tribunale del riesame di Napoli di scarcerare i coniugi Tarantini, facendo cadere l'accusa di estorsione nei loro confronti, accoglie supinamente questa tesi ma sposta la competenza a Bari. A questo punto, almeno su questo non ci piove: era una «trappola». Il comportamento dei pm napoletani è stato quanto meno scorretto dal punto di vista della deontologia professionale: hanno tentato di interrogare una persona senza i suoi avvocati con l'inganno, facendole credere che non la volessero indagare mentre era vero il contrario, tendendole di fatto una «trappola».
Adesso rischiano di essere ben tre le procure a litigarsi un'inchiesta nella quale in pochi giorni il premier è passato da presunta vittima a potenziale indagato: Napoli, Bari e Roma, la quale ha ricevuto le carte dal gip di Napoli solo la scorsa settimana. E il colmo sarebbe se si finisse per tenere in piedi entrambe le accuse, per far contente un po' tutte le procure (o per continuare a tenere sotto pressione i Tarantini?): che si indaghi cioè sia per estorsione, sia per l'induzione alla falsa testimonianza. Ma essendo ormai chiaro che anche in questa inchiesta il premier ci è entrato da indagato, perché questo era l'obiettivo ultimo dell'autorità giudiziaria com'è emerso dai passi degli ultimi giorni, ancora di più appaiono come illegali e non utilizzabili tutte le intercettazioni "indirette" che lo riguardano.
Thursday, September 22, 2011
Una missione per Alfano: blindare il bipolarismo
... invece di inseguire l'Udc
Anche su notapolitica.it
Lo zig-zag sulle primarie; l'incerto e inadeguato procedere dell'azione di governo nella crisi del debito; il tema della successione a Berlusconi. Sono i fronti su cui abbiamo visto impegnato Angelino Alfano nei suoi primi passi da segretario del Pdl. Ma se sul piano dei contenuti l'ex Guardasigilli dovrebbe avviare nel partito una profonda riflessione su quale debba essere la visione economica di fondo, dopo che la "rivoluzione liberale", e lo spirito del '94, in cui tanti elettori hanno creduto, sono stati traditi per la seconda legislatura, c'è un altro ambito in cui dovrebbe giocare una partita altrettanto decisiva per la sopravvivenza del Pdl all'imminente uscita di scena del suo fondatore.
La partita da giocare è quella per la difesa del bipolarismo, e con esso del principio che il governo sia scelto dagli elettori nelle urne, che rappresentano al momento l'unica eredità positiva, l'unica riforma politica del berlusconismo. Uno dei pochi osservatori con sguardo sereno, non pregiudizialmente ostile a Berlusconi e al centrodestra, Angelo Panebianco, ha scritto per ben due volte negli ultimi mesi, sul Corriere della Sera, che la sopravvivenza del Pdl passa per la «messa in sicurezza» del bipolarismo, che solo una legge elettorale maggioritaria può garantire. Ci sentiamo di condividere.
Al di là del giudizio che ciascuno può aver elaborato sull'attuale legge, sembra chiaro che sia arrivata al capolinea. Complice un diffuso clima di antipolitica, è ormai invisa all'opinione pubblica, che la associa ai privilegi e all'intoccabilità della "casta". Che decida di puntare su un sistema uninominale puro (l'opzione più lineare e preferibile), o sul ritorno al Mattarellum, o su un sistema proporzionale "alla spagnola", dagli effetti fortemente maggioritari, l'unica cosa che il Pdl non può permettersi di fare è non assumere l'iniziativa, in Parlamento e fuori, sia per anticipare pur remote possibilità che sul tema si costituiscano maggioranze diverse, sia per non rimanere spiazzato in caso di referendum. Favorita come nel '92-'93 da un diffuso sentimento di biasimo nei confronti dei partiti, e sullo slogan "scegli il tuo parlamentare", la campagna referendaria per il ritorno al Mattarellum sembra avere buone possibilità di riuscita. Al momento per il quesito si è mobilitata soltanto la sinistra, o una parte di essa. L'assenza di iniziativa da parte del Pdl lo farebbe apparire come il difensore del sistema dei "nominati" e il referendum diventerebbe facilmente una clava "anti-casta" e "anti-Pdl".
Purtroppo, Alfano sta dilapidando il piccolo capitale politico rappresentato dalla novità della sua nomina infognandosi, esattamente come i vertici del Pd in questi anni, nel gioco delle alleanze. Corteggiare l'Udc sembra la sua priorità, ma è una scelta doppiamente miope, soprattutto da una posizione di debolezza. Innanzitutto, perché una forza di governo, il partito che ambisce a rappresentare la maggioranza relativa nel Paese, deve conquistare gli elettori di "centro" - comunque si vogliano definire, "moderati" o "indipendenti" - nelle urne, con la forza e la credibilità dei propri programmi e dei propri leader, e non credendo di poter appaltare a un partitino il compito di intercettarli, secondo i logori schemi della vecchia politica, che tra l'altro raramente hanno successo. Altro che novità politica, inseguire Casini è una minestra riscaldata. Se poi sul piatto dell'accordo i centristi chiedessero e ottenessero il ritorno al proporzionale, senza premi di maggioranza e magari pure con le preferenze, allora per il Pdl il suicidio sarebbe servito.
Aprire un confronto serio sulla legge elettorale con Lega e Pd, i partiti più interessati alla tenuta del bipolarismo, dovrebbe quindi diventare una priorità per la segreteria Alfano, senza escludere a priori il ritorno al Mattarellum, per via parlamentare o referendaria. Il Pd avrebbe tutti i motivi per collaborare, visto il suo sostanziale sostegno al referendum su cui si stanno raccogliendo le firme. E va ricordato che con il Mattarellum sia il centrodestra che il centrosinistra sono riusciti a vincere le elezioni e a governare cinque anni. E' vero: non garantisce appieno la governabilità, come d'altra parte nemmeno il sistema attuale, ma gli svantaggi della quota proporzionale possono essere per lo meno limitati con soglie di sbarramento e modifiche ai regolamenti parlamentari.
Nonostante la grave crisi di consenso in cui versano le forze della maggioranza, il Mattarellum renderebbe il centrodestra competitivo alle prossime elezioni, e in caso di sconfitta garantirebbe almeno un vantaggio: sarebbe l'unica opposizione in Parlamento, la più consistente, con margini minimi per terzi poli. Con l'attuale legge Pdl e Lega soffrirebbero probabilmente un più forte ridimensionamento in termini di seggi, offrendo lo spazio per un Terzo polo ago della bilancia nel post-elezioni. O ancora peggio, il ritorno al proporzionale puro: oltre a non convenire al Pdl, che andrebbe incontro a sicura disgregazione (è questo, in fondo, l'obiettivo ultimo di Casini), di tutta evidenza non conviene al nostro Paese, che sprofonderebbe di nuovo nelle sabbie mobili della Prima Repubblica.
Anche su notapolitica.it
Lo zig-zag sulle primarie; l'incerto e inadeguato procedere dell'azione di governo nella crisi del debito; il tema della successione a Berlusconi. Sono i fronti su cui abbiamo visto impegnato Angelino Alfano nei suoi primi passi da segretario del Pdl. Ma se sul piano dei contenuti l'ex Guardasigilli dovrebbe avviare nel partito una profonda riflessione su quale debba essere la visione economica di fondo, dopo che la "rivoluzione liberale", e lo spirito del '94, in cui tanti elettori hanno creduto, sono stati traditi per la seconda legislatura, c'è un altro ambito in cui dovrebbe giocare una partita altrettanto decisiva per la sopravvivenza del Pdl all'imminente uscita di scena del suo fondatore.
La partita da giocare è quella per la difesa del bipolarismo, e con esso del principio che il governo sia scelto dagli elettori nelle urne, che rappresentano al momento l'unica eredità positiva, l'unica riforma politica del berlusconismo. Uno dei pochi osservatori con sguardo sereno, non pregiudizialmente ostile a Berlusconi e al centrodestra, Angelo Panebianco, ha scritto per ben due volte negli ultimi mesi, sul Corriere della Sera, che la sopravvivenza del Pdl passa per la «messa in sicurezza» del bipolarismo, che solo una legge elettorale maggioritaria può garantire. Ci sentiamo di condividere.
Al di là del giudizio che ciascuno può aver elaborato sull'attuale legge, sembra chiaro che sia arrivata al capolinea. Complice un diffuso clima di antipolitica, è ormai invisa all'opinione pubblica, che la associa ai privilegi e all'intoccabilità della "casta". Che decida di puntare su un sistema uninominale puro (l'opzione più lineare e preferibile), o sul ritorno al Mattarellum, o su un sistema proporzionale "alla spagnola", dagli effetti fortemente maggioritari, l'unica cosa che il Pdl non può permettersi di fare è non assumere l'iniziativa, in Parlamento e fuori, sia per anticipare pur remote possibilità che sul tema si costituiscano maggioranze diverse, sia per non rimanere spiazzato in caso di referendum. Favorita come nel '92-'93 da un diffuso sentimento di biasimo nei confronti dei partiti, e sullo slogan "scegli il tuo parlamentare", la campagna referendaria per il ritorno al Mattarellum sembra avere buone possibilità di riuscita. Al momento per il quesito si è mobilitata soltanto la sinistra, o una parte di essa. L'assenza di iniziativa da parte del Pdl lo farebbe apparire come il difensore del sistema dei "nominati" e il referendum diventerebbe facilmente una clava "anti-casta" e "anti-Pdl".
Purtroppo, Alfano sta dilapidando il piccolo capitale politico rappresentato dalla novità della sua nomina infognandosi, esattamente come i vertici del Pd in questi anni, nel gioco delle alleanze. Corteggiare l'Udc sembra la sua priorità, ma è una scelta doppiamente miope, soprattutto da una posizione di debolezza. Innanzitutto, perché una forza di governo, il partito che ambisce a rappresentare la maggioranza relativa nel Paese, deve conquistare gli elettori di "centro" - comunque si vogliano definire, "moderati" o "indipendenti" - nelle urne, con la forza e la credibilità dei propri programmi e dei propri leader, e non credendo di poter appaltare a un partitino il compito di intercettarli, secondo i logori schemi della vecchia politica, che tra l'altro raramente hanno successo. Altro che novità politica, inseguire Casini è una minestra riscaldata. Se poi sul piatto dell'accordo i centristi chiedessero e ottenessero il ritorno al proporzionale, senza premi di maggioranza e magari pure con le preferenze, allora per il Pdl il suicidio sarebbe servito.
Aprire un confronto serio sulla legge elettorale con Lega e Pd, i partiti più interessati alla tenuta del bipolarismo, dovrebbe quindi diventare una priorità per la segreteria Alfano, senza escludere a priori il ritorno al Mattarellum, per via parlamentare o referendaria. Il Pd avrebbe tutti i motivi per collaborare, visto il suo sostanziale sostegno al referendum su cui si stanno raccogliendo le firme. E va ricordato che con il Mattarellum sia il centrodestra che il centrosinistra sono riusciti a vincere le elezioni e a governare cinque anni. E' vero: non garantisce appieno la governabilità, come d'altra parte nemmeno il sistema attuale, ma gli svantaggi della quota proporzionale possono essere per lo meno limitati con soglie di sbarramento e modifiche ai regolamenti parlamentari.
Nonostante la grave crisi di consenso in cui versano le forze della maggioranza, il Mattarellum renderebbe il centrodestra competitivo alle prossime elezioni, e in caso di sconfitta garantirebbe almeno un vantaggio: sarebbe l'unica opposizione in Parlamento, la più consistente, con margini minimi per terzi poli. Con l'attuale legge Pdl e Lega soffrirebbero probabilmente un più forte ridimensionamento in termini di seggi, offrendo lo spazio per un Terzo polo ago della bilancia nel post-elezioni. O ancora peggio, il ritorno al proporzionale puro: oltre a non convenire al Pdl, che andrebbe incontro a sicura disgregazione (è questo, in fondo, l'obiettivo ultimo di Casini), di tutta evidenza non conviene al nostro Paese, che sprofonderebbe di nuovo nelle sabbie mobili della Prima Repubblica.
Tuesday, September 20, 2011
Downgrade politico
Le decisioni di Standard & Poor's sono sì «viziate da considerazioni politiche», come lamenta la nota di Palazzo Chigi, ma non per un pregiudizio negativo nei confronti di Berlusconi, come vorrebbe la Repubblica. Lo sono nel senso che si basano giustamente anche su un'analisi della situazione politica del nostro Paese. Non potrebbe essere diversamente, visto che la solidità del nostro debito sovrano dipende strettamente dalle decisioni che prende il potere politico.
La lettura tutta sulla difensiva che con la nota di stamattina ne dà il governo è un incredibile autogol. Le agenzie di rating sono imperfette e possono sbagliare, ma certo non fondano le loro valutazioni sui «retroscena dei quotidiani». E' stupido quindi rispondere come se ci si trovasse di fronte alla segreteria politica dell'Udc. Chi l'ha suggerita non è certo un genio della comunicazione: reagendo in quel modo si fa passare il downgrade come una mera bocciatura dell'esecutivo in carica, finendo involontariamente per rafforzare le richieste di dimissioni reiterate dalle opposizioni, e per oscurare «considerazioni politiche» dell'agenzia di rating altrettanto rilevanti, che guardano molto oltre l'orizzonte del governo in carica. Se, infatti, il giudizio di S&P, soprattutto sulle ultime due manovre, è fortemente critico, nelle motivazioni c'è molto altro, e un governo che fosse ancora lucido avrebbe tutto l'interesse di sottolinearle per girarle a proprio vantaggio.
Basta leggere il report: tra i fattori di «debolezza» Standard & Poor's rileva «impedimenti politici significativi alle riforme pro-crescita» e un «limitato impegno ai tagli di spesa nell'attuale politica fiscale di medio termine». «Quasi due terzi dei risparmi attesi dalla manovra nel periodo cruciale 2011-2014 dipendono da nuove entrate, in un Paese che sopporta già un'elevata pressione fiscale». Non hanno contribuito al downgrade, invece, altri parametri («economic structure, external, and monetary»).
S&P punta l'indice sulla «fragilità della compagine di governo», ma anche sulle «differenze politiche all'interno del Parlamento», e soprattutto sottolinea che «pur sotto pressione, le istituzioni politiche italiane, gli ex monopolisti, i lavoratori del settore pubblico, i sindacati del settore pubblico e privato, impediscono al governo di affrontare efficacemente le difficili condizioni economiche», citando tra gli esempi «la resistenza in Parlamento che a luglio ha portato il governo ad accantonare dalla sua agenda legislativa le proposte di liberalizzazione delle professioni».
Insomma, la sfiducia nel debito sovrano italiano va oltre i fondamentali economici, è sì politica, ma nei confronti dell'intero sistema politico: non si vedono all'orizzonte alternative di governo e forze sociali che vogliano davvero impegnarsi in «growth-enhancing reforms» ed «expenditure cuts». Invece di piagnucolare, il governo potrebbe far leva su questi rilievi per denunciare il conservatorismo sociale dei sindacati e delle corporazioni e rilanciare, dunque, le riforme.
UPDATE ore 17:08
Che la sfiducia sia essenzialmente nel sistema, lo confermano le parole del managing director, Moritz Kraemer: «La nostra valutazione su istituzioni e politica» italiane è che «queste rendono più duro per l'Italia agire e rispondere agli shock esterni». Architettura istituzionale e comportamento delle forze politiche, dunque. Berlusconi avrebbe potuto persino concordare, rivendicando di sostenerlo da anni.
La lettura tutta sulla difensiva che con la nota di stamattina ne dà il governo è un incredibile autogol. Le agenzie di rating sono imperfette e possono sbagliare, ma certo non fondano le loro valutazioni sui «retroscena dei quotidiani». E' stupido quindi rispondere come se ci si trovasse di fronte alla segreteria politica dell'Udc. Chi l'ha suggerita non è certo un genio della comunicazione: reagendo in quel modo si fa passare il downgrade come una mera bocciatura dell'esecutivo in carica, finendo involontariamente per rafforzare le richieste di dimissioni reiterate dalle opposizioni, e per oscurare «considerazioni politiche» dell'agenzia di rating altrettanto rilevanti, che guardano molto oltre l'orizzonte del governo in carica. Se, infatti, il giudizio di S&P, soprattutto sulle ultime due manovre, è fortemente critico, nelle motivazioni c'è molto altro, e un governo che fosse ancora lucido avrebbe tutto l'interesse di sottolinearle per girarle a proprio vantaggio.
Basta leggere il report: tra i fattori di «debolezza» Standard & Poor's rileva «impedimenti politici significativi alle riforme pro-crescita» e un «limitato impegno ai tagli di spesa nell'attuale politica fiscale di medio termine». «Quasi due terzi dei risparmi attesi dalla manovra nel periodo cruciale 2011-2014 dipendono da nuove entrate, in un Paese che sopporta già un'elevata pressione fiscale». Non hanno contribuito al downgrade, invece, altri parametri («economic structure, external, and monetary»).
S&P punta l'indice sulla «fragilità della compagine di governo», ma anche sulle «differenze politiche all'interno del Parlamento», e soprattutto sottolinea che «pur sotto pressione, le istituzioni politiche italiane, gli ex monopolisti, i lavoratori del settore pubblico, i sindacati del settore pubblico e privato, impediscono al governo di affrontare efficacemente le difficili condizioni economiche», citando tra gli esempi «la resistenza in Parlamento che a luglio ha portato il governo ad accantonare dalla sua agenda legislativa le proposte di liberalizzazione delle professioni».
Insomma, la sfiducia nel debito sovrano italiano va oltre i fondamentali economici, è sì politica, ma nei confronti dell'intero sistema politico: non si vedono all'orizzonte alternative di governo e forze sociali che vogliano davvero impegnarsi in «growth-enhancing reforms» ed «expenditure cuts». Invece di piagnucolare, il governo potrebbe far leva su questi rilievi per denunciare il conservatorismo sociale dei sindacati e delle corporazioni e rilanciare, dunque, le riforme.
UPDATE ore 17:08
Che la sfiducia sia essenzialmente nel sistema, lo confermano le parole del managing director, Moritz Kraemer: «La nostra valutazione su istituzioni e politica» italiane è che «queste rendono più duro per l'Italia agire e rispondere agli shock esterni». Architettura istituzionale e comportamento delle forze politiche, dunque. Berlusconi avrebbe potuto persino concordare, rivendicando di sostenerlo da anni.
Monday, September 19, 2011
Perché quelle intercettazioni sono illegali
Anche su notapolitica.it e taccuinopolitico.it
Come ho già scritto nei precedenti post, la credibilità politica di Berlusconi presso i suoi stessi elettori è in caduta libera, soprattutto per le due manovre che contraddicono 17 anni di promesse e impegni, e la stessa ragion d'essere della sua discesa in campo. E la sua condotta, anche privata, può e deve essere giudicata politicamente, dagli elettori. Tuttavia, che si tratti di un'inchiesta giornalistica o di un atto di indagine giudiziaria, i metodi (prevalentemente intercettazioni telefoniche) con i quali questa condotta viene resa nota all'opinione pubblica devono essere legali. Leggi e sentenze della Corte costituzionale alla mano, c'è il sospetto più che fondato che, invece, non lo siano. Sotto un duplice profilo.
La rilevanza penale di molte delle telefonate che leggiamo sui giornali è più che dubbia. La legge impone che quelle non penalmente rilevanti vengano distrutte. Sta alla discrezione del gip decidere se le intercettazioni incluse agli atti dalla pubblica accusa abbiano o meno rilevanza penale, ma stentiamo davvero a rintracciarla, nei confronti del premier o di altri indagati, in telefonate come quella tra Berlusconi e Belen, o come quella da cui si apprende che i due non hanno fatto sesso perché lei era fidanzata con Borriello, all'epoca calciatore del Milan. Per fare solo due esempi.
Ancor meno appare lecito l'utilizzo delle intercettazioni che riguardano il premier da parte della procura di Milano per il caso Ruby, e nelle inchieste delle procure di Napoli e Bari, dove Berlusconi non è neppure indagato. Trattandosi di intercettazioni "indirette", cioè di utenze telefoniche non appartenenti al presidente del Consiglio, i pm non ritengono che occorresse l'autorizzazione della Camera prima di eseguirle ed utilizzarle.
La legge n. 140 del 2003, di attuazione dell'art. 68 della Costituzione, individua due tipologie di autorizzazione all'ascolto delle conversazioni di un parlamentare: una in via preventiva, quando occorre eseguire un'intercettazione diretta nei confronti di un parlamentare; e una in via successiva, per poter utilizzare intercettazioni eseguite nei confronti di terzi e in cui solo "casualmente" (o "indirettamente") siano state intercettate le conversazioni anche di un parlamentare. Nella sentenza n. 390 del 2007 la Corte costituzionale fornisce però un'interpretazione restrittiva delle intercettazioni "indirette". I giudici della Consulta osservano che l'autorizzazione prevista dall'art. 68 Cost. è solo preventiva, non un controllo parlamentare a posteriori, ma non affermano che l'autorizzazione successiva sia incostituzionale.
In quella sentenza la Corte stabilisce che non è necessaria l'autorizzazione del Parlamento se le intercettazioni in questione devono essere utilizzate solo nei confronti di terzi; se invece devono essere utilizzate nei confronti sia di terzi che del parlamentare intercettato, allora l'autorizzazione è necessaria, ma l'eventuale diniego da parte della Camera di appartenenza non comporta l'inutilizzo della documentazione nei confronti di terzi. E' in questo spiraglio che si inseriscono i pm delle procure di Milano, Napoli e Bari.
Tuttavia, già nella sentenza del 2007 la Corte si pone eccome, in termini molto concreti e superando ogni formalismo, il problema della «surrettizia elusione», da parte dell'autorità giudiziaria, della «garanzia dell'autorizzazione preventiva». Osserva la Corte:
Nel decidere, dunque, se l'autorizzazione delle Camere è necessaria o meno nei casi di intercettazioni "indirette", ciò che importa è il loro carattere imprevisto e del tutto occasionale. Alla terza o quarta volta che il parlamentare è intercettato in conversazione con il titolare dell'utenza, e ancor più nel caso in cui sia anch'egli indagato, o che emergano indizi di reato a suo carico, i due caratteri vengono meno e torna l'esigenza di autorizzazione da parte della Camera di competenza. Ciò che emerge è che sembra non interessare neanche più a certe procure mettere sotto inchiesta Berlusconi, il che richiederebbe di chiedere l'autorizzazione del Parlamento per l'utilizzo delle intercettazioni che lo riguardano, ma solo poter divulgare le sue conversazioni più scabrose. E per far questo è sufficiente mettere sotto controllo le utenze delle persone a lui vicine.
Come ho già scritto nei precedenti post, la credibilità politica di Berlusconi presso i suoi stessi elettori è in caduta libera, soprattutto per le due manovre che contraddicono 17 anni di promesse e impegni, e la stessa ragion d'essere della sua discesa in campo. E la sua condotta, anche privata, può e deve essere giudicata politicamente, dagli elettori. Tuttavia, che si tratti di un'inchiesta giornalistica o di un atto di indagine giudiziaria, i metodi (prevalentemente intercettazioni telefoniche) con i quali questa condotta viene resa nota all'opinione pubblica devono essere legali. Leggi e sentenze della Corte costituzionale alla mano, c'è il sospetto più che fondato che, invece, non lo siano. Sotto un duplice profilo.
La rilevanza penale di molte delle telefonate che leggiamo sui giornali è più che dubbia. La legge impone che quelle non penalmente rilevanti vengano distrutte. Sta alla discrezione del gip decidere se le intercettazioni incluse agli atti dalla pubblica accusa abbiano o meno rilevanza penale, ma stentiamo davvero a rintracciarla, nei confronti del premier o di altri indagati, in telefonate come quella tra Berlusconi e Belen, o come quella da cui si apprende che i due non hanno fatto sesso perché lei era fidanzata con Borriello, all'epoca calciatore del Milan. Per fare solo due esempi.
Ancor meno appare lecito l'utilizzo delle intercettazioni che riguardano il premier da parte della procura di Milano per il caso Ruby, e nelle inchieste delle procure di Napoli e Bari, dove Berlusconi non è neppure indagato. Trattandosi di intercettazioni "indirette", cioè di utenze telefoniche non appartenenti al presidente del Consiglio, i pm non ritengono che occorresse l'autorizzazione della Camera prima di eseguirle ed utilizzarle.
La legge n. 140 del 2003, di attuazione dell'art. 68 della Costituzione, individua due tipologie di autorizzazione all'ascolto delle conversazioni di un parlamentare: una in via preventiva, quando occorre eseguire un'intercettazione diretta nei confronti di un parlamentare; e una in via successiva, per poter utilizzare intercettazioni eseguite nei confronti di terzi e in cui solo "casualmente" (o "indirettamente") siano state intercettate le conversazioni anche di un parlamentare. Nella sentenza n. 390 del 2007 la Corte costituzionale fornisce però un'interpretazione restrittiva delle intercettazioni "indirette". I giudici della Consulta osservano che l'autorizzazione prevista dall'art. 68 Cost. è solo preventiva, non un controllo parlamentare a posteriori, ma non affermano che l'autorizzazione successiva sia incostituzionale.
In quella sentenza la Corte stabilisce che non è necessaria l'autorizzazione del Parlamento se le intercettazioni in questione devono essere utilizzate solo nei confronti di terzi; se invece devono essere utilizzate nei confronti sia di terzi che del parlamentare intercettato, allora l'autorizzazione è necessaria, ma l'eventuale diniego da parte della Camera di appartenenza non comporta l'inutilizzo della documentazione nei confronti di terzi. E' in questo spiraglio che si inseriscono i pm delle procure di Milano, Napoli e Bari.
Tuttavia, già nella sentenza del 2007 la Corte si pone eccome, in termini molto concreti e superando ogni formalismo, il problema della «surrettizia elusione», da parte dell'autorità giudiziaria, della «garanzia dell'autorizzazione preventiva». Osserva la Corte:
«Elusione che si realizzerebbe allorché, attraverso la sottoposizione ad intercettazione di utenze telefoniche o luoghi appartenenti formalmente a terzi – ma che possono presumersi frequentati dal parlamentare – si intendano captare, in realtà, le comunicazioni di quest'ultimo. Al riguardo, va infatti osservato che la norma costituzionale vieta di sottoporre ad intercettazione, senza autorizzazione, non le utenze del parlamentare, ma le sue comunicazioni: quello che conta – ai fini dell'operatività del regime dell'autorizzazione preventiva stabilito dall'art. 68, terzo comma, Cost. – non è la titolarità o la disponibilità dell'utenza captata, ma la direzione dell'atto d'indagine. Se quest'ultimo è volto, in concreto, ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare, l'intercettazione non autorizzata è illegittima, a prescindere dal fatto che il procedimento riguardi terzi o che le utenze sottoposte a controllo appartengano a terzi... Dall'ambito della garanzia prevista dall'art. 68, terzo comma, Cost. non esulano, dunque, le intercettazioni "indirette", intese come captazioni delle conversazioni del membro del Parlamento effettuate ponendo sotto controllo le utenze dei suoi interlocutori abituali; ma, più propriamente, le intercettazioni "casuali" o "fortuite", rispetto alle quali – proprio per il carattere imprevisto dell'interlocuzione del parlamentare – l'autorità giudiziaria non potrebbe, neanche volendo, munirsi preventivamente del placet della Camera di appartenenza... La disciplina dell'autorizzazione preventiva, dettata dall'art. 4, deve ritenersi destinata, cioè, a trovare applicazione tutte le volte in cui il parlamentare sia individuato in anticipo quale destinatario dell'attività di captazione, ancorché questa abbia luogo monitorando utenze di diversi soggetti».La Corte sembra riconoscere, nella sostanza, un pericolo di «elusione surrettizia» della garanzia costituzionale, nel caso di intercettazioni che solo formalmente si presentano come "indirette". Il fatto stesso che siano sotto controllo un gran numero di utenze appartenenti a persone "vicine" al parlamentare esclude la "casualità", che non richiederebbe autorizzazioni a procedere, e prefigura anzi l'intenzione di tendere una vera e propria rete nella quale farlo cadere. Nella sentenza n. 113 del 2010, la Corte, basandosi sulla decisione n. 390 del 2007, precisa i termini della possibile «elusione»:
«Ove, nel corso dell'attività di intercettazione emergano, non soltanto rapporti di interlocuzione abituale tra il soggetto intercettato e il parlamentare, ma anche indizi di reità nei confronti di quest'ultimo, non si può trascurare l'eventualità che intervenga, nell'autorità giudiziaria, un mutamento di obbiettivi: nel senso che – in ragione anche dell'obbligo di perseguire gli autori dei reati – le ulteriori intercettazioni potrebbero risultare finalizzate, nelle strategie investigative dell'organo inquirente, a captare non più (soltanto) le comunicazioni del terzo titolare dell'utenza, ma (anche) quelle del suo interlocutore parlamentare, per accertarne le responsabilità penali. Quando ciò accadesse, ogni "casualità" verrebbe evidentemente meno: le successive captazioni delle comunicazioni del membro del Parlamento, lungi dal restare fortuite, diventerebbero "mirate" (e, con ciò, "indirette"), esigendo quindi l'autorizzazione preventiva della Camera, ai sensi dell'art. 4».Certo, il concetto di «interlocutore abituale» non è univoco, ma nel caso Ruby è di un'evidenza clamorosa che tutte le utenze intercettate - da Emilio Fede a Lele Mora, dalla Minetti a tutte le ragazze invitate alle feste di Arcore - e persino le celle telefoniche monitorate, ricadano in quella fattispecie. E per di più Berlusconi risulta anche indagato, ragione per cui cade del tutto qualsiasi elemento di casualità e accidentalità dell'intercettazione del parlamentare. Non importa che le procure di Napoli e Bari abbiano fatto, e facciano, di tutto per non inserire anche Berlusconi nel registro degli indagati, così da non dover chiedere l'autorizzazione del Parlamento per usare le loro intercettazioni. Che Tarantini e Lavitola siano anch'essi «interlocutori abituali» del premier, e che dalle telefonate affiorino sia pure flebili indizi di reità nei suoi confronti, è innegabile, icto oculi, emerge dalle intercettazioni stesse, e dunque per usarle ci vuole eccome l'autorizzazione del Parlamento.
Nel decidere, dunque, se l'autorizzazione delle Camere è necessaria o meno nei casi di intercettazioni "indirette", ciò che importa è il loro carattere imprevisto e del tutto occasionale. Alla terza o quarta volta che il parlamentare è intercettato in conversazione con il titolare dell'utenza, e ancor più nel caso in cui sia anch'egli indagato, o che emergano indizi di reato a suo carico, i due caratteri vengono meno e torna l'esigenza di autorizzazione da parte della Camera di competenza. Ciò che emerge è che sembra non interessare neanche più a certe procure mettere sotto inchiesta Berlusconi, il che richiederebbe di chiedere l'autorizzazione del Parlamento per l'utilizzo delle intercettazioni che lo riguardano, ma solo poter divulgare le sue conversazioni più scabrose. E per far questo è sufficiente mettere sotto controllo le utenze delle persone a lui vicine.
Thursday, September 15, 2011
Un circo grottesco e pericoloso
Anche su notapolitica.it e taccuinopolitico.it
La credibilità di Berlusconi presso i suoi elettori è in caduta libera, soprattutto per le due manovre che contraddicono 17 anni di promesse e impegni, la stessa ragion d'essere della sua discesa in campo. Ma ciò non può farci chiudere gli occhi su un circuito mediatico-giudiziario che ha ormai oltrepassato qualsiasi soglia di decenza, persino il senso del ridicolo, ma quel che è più grave ha calpestato i più elementari principi di uno stato di diritto, nell'indifferenza degli organi di controllo e di garanzia, dal Quirinale al Csm.
C'è solo l'imbarazzo della scelta, a partire dall'ultimo scoop firmato Espresso: quel «vi scagionerò tutti» con il quale il premier rassicura Lavitola al telefono. I giornali nei loro titoli la riportano come fosse la prova regina, mentre in realtà proprio quella intercettazione fa crollare l'ipotesi accusatoria nei confronti dei Tarantini e dell'editore dell'Avanti. Basta leggerla: quella dell'estorsione è un'accusa che la presunta vittima ritiene ridicola e chi meglio della presunta vittima (se ci trovassimo in un Paese normale) può «scagionare» gli imputati? Certo, si può ipotizzare che i due sapessero, o immaginassero, di essere intercettati, e quindi abbiano preparato un copione perfetto per smentire le tesi dell'accusa, ma delle due l'una: o il dialogo è sincero, e allora il senso non può essere travisato: non c'è stata alcuna estorsione; oppure Berlusconi è complice dell'estorsione ai suoi danni, quindi imputabile di favoreggiamento.
Oltre al danno, la beffa: stavolta infatti Berlusconi è la presunta vittima, eppure anche questa inchiesta, guarda un po', sembra orchestrata apposta per danneggiare la sua immagine più che per tutelarlo da chissà cosa e da chissà chi. I pm ammettono che forse la loro procura non è territorialmente competente, ma vogliono interrogarlo lo stesso. Però come testimone, persona informata dei fatti, quindi non potrà nemmeno esercitare i diritti che si riconoscono agli imputati - come la presenza del proprio avvocato. Che la trappola sia pronta a scattare è ipotesi tutt'altro che infondata. In alcune ore di interrogatorio, sottoposti a decine di domande, non è poi così difficile ritrovarsi accusati di falsa testimonianza rispetto a qualsiasi cosa i pm ritengano di avere in mano.
Fa sempre una certa impressione, inoltre, un sistema giudiziario in cui di fronte alla richiesta di archiviazione da parte della pubblica accusa è il gip, cioè un giudice, che improvvisamente sveste i panni dell'arbitro e veste quelli di pubblico accusatore. Nel caso dell'intercettazione della famigerata frase di Fassino «abbiamo una banca» è molto probabile che ci sia stata una violazione del segreto d'indagine. Ma non può non scatenare sospetti e illazioni il fatto che proprio Berlusconi venga ora rinviato a giudizio solo per aver ascoltato una sola intercettazione riguardante un suo avversario politico, nonostante non risulti dalle indagini che ne abbia in qualche modo istigato o favorito la rivelazione, o che abbia dato indicazioni perché fosse utilizzata a suo vantaggio.
Mentre nessuno si azzarda nemmeno a ipotizzare illeciti per le decine e centinaia di file che lo massacrano da anni, intercettazioni quasi mai lecite e quasi sempre pubblicate in modo illegale. Nonostante i giornali siano ogni settimana pieni zeppi di sue conversazioni telefoniche, non un solo pm indaga su una violazione di segreto ai suoi danni, o sul perché le intercettazioni che riguardano il premier non vengano immediatamente distrutte, come impone la legge vigente, in quanto parlamentare (per utilizzarle ci vuole l'autorizzazione della Camera di appartenenza). Così come ci sono intere redazioni di giornali in servizio permanente effettivo come buca delle lettere delle procure, eppure l'unico giornalista indagato è il direttore di Libero Belpietro. E dove sono finiti tutti quelli che invocavano la libertà di stampa contro la legge sulle intercettazioni fatta naufragare la scorsa estate?
Va detto che ormai i magistrati hanno elevato a sistema il trucco con il quale aggirano le restrizioni di legge sulla pubblicazione delle intercettazioni, facilitando la vita ai giornalisti compiacenti: basta farle avere alla difesa, o inserire le intercettazioni sputtananti, anche se non penalmente rilevanti, nelle richieste al gip, che poi le copia-incolla nelle sue ordinanze, e click... da quel momento sono pubbliche. Il gioco è fatto. Di fronte a tali trucchi non c'è legge presente o futura che possa tenere, l'unico rimedio sarebbe l'azione disciplinare del Csm, che ovviamente però si gira dall'altra parte.
Le nuove inchieste che coinvolgono Berlusconi hanno questo in comune: da Ruby a Lavitola-Tarantini, non ci sono vittime, non ci sono danneggiati. L'amara realtà è che non ci troviamo più di fronte semplicemente ad un abuso delle intercettazioni telefoniche. E' sempre più evidente che le inchieste più improbabili vengono avviate unicamente allo scopo di dare in pasto ai media le intercettazioni più sputtananti per il premier, persino quando non indagato, e pazienza se nel tritacarne finiscono persone del tutto estranee. Solo per l'inchiesta "escort" di Bari sono state effettuate centomila intercettazioni. C'è davvero da chiedersi cosa sarebbe delle mafie in Italia se la magistratura impiegasse contro di esse le stesse risorse.
La condotta di Berlusconi, anche privata (se resa nota all'opinione pubblica con mezzi leciti), può e dev'essere giudicata politicamente, dagli elettori, ma queste storie non hanno davvero nulla di cui la magistratura debba occuparsi. La sensazione è che se ne occupi solo perché dispone dei mezzi di sputtanamento, di character assassination, che i nemici politici del premier non hanno: intercettare ad libitum.
La credibilità di Berlusconi presso i suoi elettori è in caduta libera, soprattutto per le due manovre che contraddicono 17 anni di promesse e impegni, la stessa ragion d'essere della sua discesa in campo. Ma ciò non può farci chiudere gli occhi su un circuito mediatico-giudiziario che ha ormai oltrepassato qualsiasi soglia di decenza, persino il senso del ridicolo, ma quel che è più grave ha calpestato i più elementari principi di uno stato di diritto, nell'indifferenza degli organi di controllo e di garanzia, dal Quirinale al Csm.
C'è solo l'imbarazzo della scelta, a partire dall'ultimo scoop firmato Espresso: quel «vi scagionerò tutti» con il quale il premier rassicura Lavitola al telefono. I giornali nei loro titoli la riportano come fosse la prova regina, mentre in realtà proprio quella intercettazione fa crollare l'ipotesi accusatoria nei confronti dei Tarantini e dell'editore dell'Avanti. Basta leggerla: quella dell'estorsione è un'accusa che la presunta vittima ritiene ridicola e chi meglio della presunta vittima (se ci trovassimo in un Paese normale) può «scagionare» gli imputati? Certo, si può ipotizzare che i due sapessero, o immaginassero, di essere intercettati, e quindi abbiano preparato un copione perfetto per smentire le tesi dell'accusa, ma delle due l'una: o il dialogo è sincero, e allora il senso non può essere travisato: non c'è stata alcuna estorsione; oppure Berlusconi è complice dell'estorsione ai suoi danni, quindi imputabile di favoreggiamento.
Oltre al danno, la beffa: stavolta infatti Berlusconi è la presunta vittima, eppure anche questa inchiesta, guarda un po', sembra orchestrata apposta per danneggiare la sua immagine più che per tutelarlo da chissà cosa e da chissà chi. I pm ammettono che forse la loro procura non è territorialmente competente, ma vogliono interrogarlo lo stesso. Però come testimone, persona informata dei fatti, quindi non potrà nemmeno esercitare i diritti che si riconoscono agli imputati - come la presenza del proprio avvocato. Che la trappola sia pronta a scattare è ipotesi tutt'altro che infondata. In alcune ore di interrogatorio, sottoposti a decine di domande, non è poi così difficile ritrovarsi accusati di falsa testimonianza rispetto a qualsiasi cosa i pm ritengano di avere in mano.
Fa sempre una certa impressione, inoltre, un sistema giudiziario in cui di fronte alla richiesta di archiviazione da parte della pubblica accusa è il gip, cioè un giudice, che improvvisamente sveste i panni dell'arbitro e veste quelli di pubblico accusatore. Nel caso dell'intercettazione della famigerata frase di Fassino «abbiamo una banca» è molto probabile che ci sia stata una violazione del segreto d'indagine. Ma non può non scatenare sospetti e illazioni il fatto che proprio Berlusconi venga ora rinviato a giudizio solo per aver ascoltato una sola intercettazione riguardante un suo avversario politico, nonostante non risulti dalle indagini che ne abbia in qualche modo istigato o favorito la rivelazione, o che abbia dato indicazioni perché fosse utilizzata a suo vantaggio.
Mentre nessuno si azzarda nemmeno a ipotizzare illeciti per le decine e centinaia di file che lo massacrano da anni, intercettazioni quasi mai lecite e quasi sempre pubblicate in modo illegale. Nonostante i giornali siano ogni settimana pieni zeppi di sue conversazioni telefoniche, non un solo pm indaga su una violazione di segreto ai suoi danni, o sul perché le intercettazioni che riguardano il premier non vengano immediatamente distrutte, come impone la legge vigente, in quanto parlamentare (per utilizzarle ci vuole l'autorizzazione della Camera di appartenenza). Così come ci sono intere redazioni di giornali in servizio permanente effettivo come buca delle lettere delle procure, eppure l'unico giornalista indagato è il direttore di Libero Belpietro. E dove sono finiti tutti quelli che invocavano la libertà di stampa contro la legge sulle intercettazioni fatta naufragare la scorsa estate?
Va detto che ormai i magistrati hanno elevato a sistema il trucco con il quale aggirano le restrizioni di legge sulla pubblicazione delle intercettazioni, facilitando la vita ai giornalisti compiacenti: basta farle avere alla difesa, o inserire le intercettazioni sputtananti, anche se non penalmente rilevanti, nelle richieste al gip, che poi le copia-incolla nelle sue ordinanze, e click... da quel momento sono pubbliche. Il gioco è fatto. Di fronte a tali trucchi non c'è legge presente o futura che possa tenere, l'unico rimedio sarebbe l'azione disciplinare del Csm, che ovviamente però si gira dall'altra parte.
Le nuove inchieste che coinvolgono Berlusconi hanno questo in comune: da Ruby a Lavitola-Tarantini, non ci sono vittime, non ci sono danneggiati. L'amara realtà è che non ci troviamo più di fronte semplicemente ad un abuso delle intercettazioni telefoniche. E' sempre più evidente che le inchieste più improbabili vengono avviate unicamente allo scopo di dare in pasto ai media le intercettazioni più sputtananti per il premier, persino quando non indagato, e pazienza se nel tritacarne finiscono persone del tutto estranee. Solo per l'inchiesta "escort" di Bari sono state effettuate centomila intercettazioni. C'è davvero da chiedersi cosa sarebbe delle mafie in Italia se la magistratura impiegasse contro di esse le stesse risorse.
La condotta di Berlusconi, anche privata (se resa nota all'opinione pubblica con mezzi leciti), può e dev'essere giudicata politicamente, dagli elettori, ma queste storie non hanno davvero nulla di cui la magistratura debba occuparsi. La sensazione è che se ne occupi solo perché dispone dei mezzi di sputtanamento, di character assassination, che i nemici politici del premier non hanno: intercettare ad libitum.
Wednesday, September 14, 2011
Basta piagnistei
Come ogni anno il rapporto dell'Ocse fa piazza pulita dei soliti luoghi comuni sulla scuola. Qualcuno è disposto ad aprire gli occhi?
Anche su notapolitica.it e taccuinopolitico.it
Come ogni anno, nel riportare i risultati del rapporto Ocse Education at Glance i mainstream media danno sfogo ai soliti luoghi comuni di origine statalista: investiamo poco, gli insegnanti sono pagati male, anzi sempre peggio, e così via. Solo Il Messaggero, nella sua versione on line, sembra distinguersi, puntando l'indice sull'inefficienza di un sistema che produce sempre meno diplomati, spesso con una preparazione mediocre, e pochi laureati; il tutto nella quasi totale assenza di ispezioni e valutazioni. In realtà, ogni anno i dati di quel rapporto s'incaricano di smentire proprio i piagnistei, le grida di dolore e le recriminazioni dei sindacati della scuola e dei manifestanti in servizio permanente effettivo.
Il problema non è la nostra spesa collettiva in istruzione. O meglio, è sì la spesa, ma non la quantità, bensì la sua qualità ed efficienza. Non è vero che spendiamo poco rispetto ai Paesi europei più simili al nostro. Piuttosto, la nostra spesa è troppo squilibrata: da un lato a favore di scuole primarie e secondarie inferiori, mentre soffrono licei e università, dall'altro sulla spesa corrente (monte salari) a danno degli investimenti (edilizia e strumenti). Le differenze con le medie Ocse e Ue, e con gli altri Paesi europei, si assottigliano quando si considera non la spesa complessiva ma la spesa pubblica. Sono le fonti private di spesa, infatti, che partecipano troppo poco al nostro sistema educativo. Le famiglie fanno la loro parte, ma è quasi trascurabile il contributo degli enti privati, che non sono incentivati ad investire nell'istruzione né da vantaggi fiscali, né da una governance aperta e trasparente delle istituzioni.
Ma scendiamo nel dettaglio. Gli insegnanti italiani, lamentano i sindacati, sono tra i peggio pagati d'Europa e dell'area Ocse. Vero, i dati lo confermano. Ma verrebbe la tentazione di rispondere con un motto pseudo-solidaristico che si sente spesso ripetere: "Lavorare meno per lavorare tutti". In Italia è proprio così: risulta essere impiegato un insegnante ogni 10,7 alunni nella scuola primaria (media Ocse uno ogni 16) e uno ogni 11 alunni nelle secondarie (media Ocse uno ogni 13,5). Il numero di giorni di scuola (172) è inferiore alla media Ocse (185), così come il tempo netto d'insegnamento per ciascun insegnante a tempo pieno: alle elementari 757 ore contro 779 della media Ocse; alle medie 619 ore contro 701; al liceo 619 contro 656. Più imbarazzante ancora il divario con le ore d'insegnamento in Francia e Germania. Sembra quasi che il sistema sia studiato più come una forma di welfare per gli insegnanti che per l'istruzione degli studenti.
Quanto alla spesa destinata all'istruzione, si lamenta che nel 2008 in Italia sia stata pari al 4,8% del Pil, 1,1 punti percentuali sotto la media Ocse (5,9%) e la media Ue (5,5%), e che tra il 2000 e il 2008 la spesa sia cresciuta "solo" del 7,6% contro una media Ocse del 32,3%. Ma se la Francia investe il 6% del suo Pil, la Germania spende il 4,8, cioè esattamente come noi. E va osservato che in entrambi i Paesi l'aumento della spesa in istruzione tra il 2000 e il 2008 è stato inferiore all'aumento del Pil (rispettivamente 7,3 contro 13,9% e 8,3 contro 10,4%), mentre da noi in Italia la spesa cresceva più di quanto crescesse il Pil (7,6 contro 6,8%), ossia più di quanto ci saremmo potuti permettere. E infatti la spesa in percentuale al Pil in Italia passa dal 4,5% del 2000 al 4,82% del 2008, mentre in Francia dal 6,4 scende al 5,98% e in Germania dal 4,9 al 4,8% del Pil. Insomma, siamo lì.
Tutti questi dati si riferiscono non alla spesa pubblica, ma alla spesa complessiva, cioè a quanto l'intera collettività - Stato e privati - ha speso per l'istruzione. E gran parte della differenza tra la nostra spesa e quella degli altri è dovuta non alla spesa dello Stato, ma al diverso peso che ha sul totale la spesa privata, da noi molto inferiore alla media Ocse, alla media Ue e ai valori di Francia e Germania. Se scorporiamo gli investimenti privati, infatti, si vede che la spesa pubblica per l'istruzione in Italia è pari al 4,5% del Pil (-0,3 del totale). Tolti i privati, la media Ocse scende dal 5,9 al 5%, la media Ue dal 5,5 al 4,8%, la spesa francese dal 6 al 5,5% e quella tedesca al 4,1%, addirittura inferiore a quella italiana.
Da noi solo l'8,6% della spesa totale in istruzione è stata fornita da fonti private, la metà rispetto alla media Ocse (16,5%), molto meno anche rispetto alla media Ue (10,9%), e a Francia (10%) e Germania (14,6%). Un contributo, quello privato, che scende al 2,9% se si considera la scuola secondaria. E per fonti private in Italia si devono intendere per lo più le famiglie. Famiglie ed enti privati insieme contribuiscono alla spesa scolastica (scuole primarie e secondarie) per il 7,7% in Francia e per il 12,9% in Germania, mentre da noi le famiglie per il 2,9%, zero gli enti privati. In Italia i fondi privati contano molto più nell'istruzione terziaria: rappresentano il 29,3% della spesa, contro il 31,1 della media Ocse, il 21,8 della media Ue, il 18,3% della spesa in Francia e il 14,6% in Germania. Tuttavia, anche qui si tratta di fondi che provengono per lo più dalle famiglie (21,5%), le quali in Francia, per esempio, contribuiscono solo per il 9,6% all'istruzione terziaria.
Ma l'indicatore più adeguato è la spesa per studente, a cui anche l'Ocse dà precedenza nel suo rapporto. Ciascuno studente nel suo percorso formativo dalla prima elementare alla maturità costa in Italia 117.807 dollari, contro una media Ocse di 101 mila e Ue di 103 mila. Nella media, dunque, la spesa di Francia (circa 103 mila dollari) e Germania (100 mila). I rapporti cambiano quando si osserva la spesa per l'istruzione terziaria. In Italia spendiamo 43.194 dollari a studente, in Francia se ne spendono circa 71 mila e in Germania più di 88 mila. Uno squilibrio che si riflette anche nella spesa annuale per studente attraverso l'intero ciclo di studi. In Italia è superiore alla media Ocse e dell'Ue, e persino alla spesa che sostengono Francia e Germania, per le scuole primarie e secondarie inferiori, mentre drammaticamente inferiore alle medie e a quella francese e tedesca è la spesa per l'istruzione secondaria superiore e terziaria. Elementari: Italia 8.671, Francia 6.267, Germania 5.929, media Ocse 7.153, media Ue 7.257; Medie: Italia 9.616, Francia 8.816, Germania 7.509, media Ocse 8.498, media Ue 8.950; Superiori: Italia 9.121, Francia 12.087, Germania 10.597, media Ocse 9.396, media Ue 9.283; Università: Italia 9.553, Francia 14.079, Germania 15.390, media Ocse 13.717, media Ue 12.958. La spesa sostenuta in Italia ogni anno per ciascuno studente considerando tutti i livelli di istruzione supera i 9 mila dollari, cifra di poco superiore alle medie Ocse e Ue, praticamente uguale a quella tedesca e leggermente inferiore a quella francese, anche se come abbiamo visto è troppo concentrata su elementari e medie a danno di licei e università.
Ma per un Paese dal Pil pro-capite decisamente inferiore a quello di francesi e tedeschi, spendere per studente più o meno quanto spendono loro significa in realtà un maggiore sforzo per l'istruzione. In Italia, infatti, sempre secondo il rapporto, la spesa annuale per studente in rapporto al Pil pro-capite è identica alla media Ocse, di un punto percentuale sopra la media Ue, di due sopra la Germania e di uno sotto la Francia. Anche qui la spesa risulta squilibrata in favore delle scuole primarie e secondarie, mentre è di oltre 10 punti sotto Francia e Germania se si prende in esame l'istruzione terziaria. A fronte di livelli di spesa nella media, o comunque paragonabili ai Paesi europei più simili al nostro, otteniamo risultati ampiamente peggiori. I laureati sono solo il 14% della popolazione adulta (25-64 anni), meglio solo della Turchia, contro una media Ocse del 21 e Ue e del 19%. Nella fascia di età 25-34 anni sono il 20%, contro il 37% della media Ocse e il 34 della media Ue. Nel 2009 si è diplomato l'81% dei giovani, contro l'84% nel 2008, mentre la media Ocse è dell'82% e Ue dell'86. E i test PISA indicano che la preparazione dei nostri 15enni è sotto la media Ocse.
Anche su notapolitica.it e taccuinopolitico.it
Come ogni anno, nel riportare i risultati del rapporto Ocse Education at Glance i mainstream media danno sfogo ai soliti luoghi comuni di origine statalista: investiamo poco, gli insegnanti sono pagati male, anzi sempre peggio, e così via. Solo Il Messaggero, nella sua versione on line, sembra distinguersi, puntando l'indice sull'inefficienza di un sistema che produce sempre meno diplomati, spesso con una preparazione mediocre, e pochi laureati; il tutto nella quasi totale assenza di ispezioni e valutazioni. In realtà, ogni anno i dati di quel rapporto s'incaricano di smentire proprio i piagnistei, le grida di dolore e le recriminazioni dei sindacati della scuola e dei manifestanti in servizio permanente effettivo.
Il problema non è la nostra spesa collettiva in istruzione. O meglio, è sì la spesa, ma non la quantità, bensì la sua qualità ed efficienza. Non è vero che spendiamo poco rispetto ai Paesi europei più simili al nostro. Piuttosto, la nostra spesa è troppo squilibrata: da un lato a favore di scuole primarie e secondarie inferiori, mentre soffrono licei e università, dall'altro sulla spesa corrente (monte salari) a danno degli investimenti (edilizia e strumenti). Le differenze con le medie Ocse e Ue, e con gli altri Paesi europei, si assottigliano quando si considera non la spesa complessiva ma la spesa pubblica. Sono le fonti private di spesa, infatti, che partecipano troppo poco al nostro sistema educativo. Le famiglie fanno la loro parte, ma è quasi trascurabile il contributo degli enti privati, che non sono incentivati ad investire nell'istruzione né da vantaggi fiscali, né da una governance aperta e trasparente delle istituzioni.
Ma scendiamo nel dettaglio. Gli insegnanti italiani, lamentano i sindacati, sono tra i peggio pagati d'Europa e dell'area Ocse. Vero, i dati lo confermano. Ma verrebbe la tentazione di rispondere con un motto pseudo-solidaristico che si sente spesso ripetere: "Lavorare meno per lavorare tutti". In Italia è proprio così: risulta essere impiegato un insegnante ogni 10,7 alunni nella scuola primaria (media Ocse uno ogni 16) e uno ogni 11 alunni nelle secondarie (media Ocse uno ogni 13,5). Il numero di giorni di scuola (172) è inferiore alla media Ocse (185), così come il tempo netto d'insegnamento per ciascun insegnante a tempo pieno: alle elementari 757 ore contro 779 della media Ocse; alle medie 619 ore contro 701; al liceo 619 contro 656. Più imbarazzante ancora il divario con le ore d'insegnamento in Francia e Germania. Sembra quasi che il sistema sia studiato più come una forma di welfare per gli insegnanti che per l'istruzione degli studenti.
Quanto alla spesa destinata all'istruzione, si lamenta che nel 2008 in Italia sia stata pari al 4,8% del Pil, 1,1 punti percentuali sotto la media Ocse (5,9%) e la media Ue (5,5%), e che tra il 2000 e il 2008 la spesa sia cresciuta "solo" del 7,6% contro una media Ocse del 32,3%. Ma se la Francia investe il 6% del suo Pil, la Germania spende il 4,8, cioè esattamente come noi. E va osservato che in entrambi i Paesi l'aumento della spesa in istruzione tra il 2000 e il 2008 è stato inferiore all'aumento del Pil (rispettivamente 7,3 contro 13,9% e 8,3 contro 10,4%), mentre da noi in Italia la spesa cresceva più di quanto crescesse il Pil (7,6 contro 6,8%), ossia più di quanto ci saremmo potuti permettere. E infatti la spesa in percentuale al Pil in Italia passa dal 4,5% del 2000 al 4,82% del 2008, mentre in Francia dal 6,4 scende al 5,98% e in Germania dal 4,9 al 4,8% del Pil. Insomma, siamo lì.
Tutti questi dati si riferiscono non alla spesa pubblica, ma alla spesa complessiva, cioè a quanto l'intera collettività - Stato e privati - ha speso per l'istruzione. E gran parte della differenza tra la nostra spesa e quella degli altri è dovuta non alla spesa dello Stato, ma al diverso peso che ha sul totale la spesa privata, da noi molto inferiore alla media Ocse, alla media Ue e ai valori di Francia e Germania. Se scorporiamo gli investimenti privati, infatti, si vede che la spesa pubblica per l'istruzione in Italia è pari al 4,5% del Pil (-0,3 del totale). Tolti i privati, la media Ocse scende dal 5,9 al 5%, la media Ue dal 5,5 al 4,8%, la spesa francese dal 6 al 5,5% e quella tedesca al 4,1%, addirittura inferiore a quella italiana.
Da noi solo l'8,6% della spesa totale in istruzione è stata fornita da fonti private, la metà rispetto alla media Ocse (16,5%), molto meno anche rispetto alla media Ue (10,9%), e a Francia (10%) e Germania (14,6%). Un contributo, quello privato, che scende al 2,9% se si considera la scuola secondaria. E per fonti private in Italia si devono intendere per lo più le famiglie. Famiglie ed enti privati insieme contribuiscono alla spesa scolastica (scuole primarie e secondarie) per il 7,7% in Francia e per il 12,9% in Germania, mentre da noi le famiglie per il 2,9%, zero gli enti privati. In Italia i fondi privati contano molto più nell'istruzione terziaria: rappresentano il 29,3% della spesa, contro il 31,1 della media Ocse, il 21,8 della media Ue, il 18,3% della spesa in Francia e il 14,6% in Germania. Tuttavia, anche qui si tratta di fondi che provengono per lo più dalle famiglie (21,5%), le quali in Francia, per esempio, contribuiscono solo per il 9,6% all'istruzione terziaria.
Ma l'indicatore più adeguato è la spesa per studente, a cui anche l'Ocse dà precedenza nel suo rapporto. Ciascuno studente nel suo percorso formativo dalla prima elementare alla maturità costa in Italia 117.807 dollari, contro una media Ocse di 101 mila e Ue di 103 mila. Nella media, dunque, la spesa di Francia (circa 103 mila dollari) e Germania (100 mila). I rapporti cambiano quando si osserva la spesa per l'istruzione terziaria. In Italia spendiamo 43.194 dollari a studente, in Francia se ne spendono circa 71 mila e in Germania più di 88 mila. Uno squilibrio che si riflette anche nella spesa annuale per studente attraverso l'intero ciclo di studi. In Italia è superiore alla media Ocse e dell'Ue, e persino alla spesa che sostengono Francia e Germania, per le scuole primarie e secondarie inferiori, mentre drammaticamente inferiore alle medie e a quella francese e tedesca è la spesa per l'istruzione secondaria superiore e terziaria. Elementari: Italia 8.671, Francia 6.267, Germania 5.929, media Ocse 7.153, media Ue 7.257; Medie: Italia 9.616, Francia 8.816, Germania 7.509, media Ocse 8.498, media Ue 8.950; Superiori: Italia 9.121, Francia 12.087, Germania 10.597, media Ocse 9.396, media Ue 9.283; Università: Italia 9.553, Francia 14.079, Germania 15.390, media Ocse 13.717, media Ue 12.958. La spesa sostenuta in Italia ogni anno per ciascuno studente considerando tutti i livelli di istruzione supera i 9 mila dollari, cifra di poco superiore alle medie Ocse e Ue, praticamente uguale a quella tedesca e leggermente inferiore a quella francese, anche se come abbiamo visto è troppo concentrata su elementari e medie a danno di licei e università.
Ma per un Paese dal Pil pro-capite decisamente inferiore a quello di francesi e tedeschi, spendere per studente più o meno quanto spendono loro significa in realtà un maggiore sforzo per l'istruzione. In Italia, infatti, sempre secondo il rapporto, la spesa annuale per studente in rapporto al Pil pro-capite è identica alla media Ocse, di un punto percentuale sopra la media Ue, di due sopra la Germania e di uno sotto la Francia. Anche qui la spesa risulta squilibrata in favore delle scuole primarie e secondarie, mentre è di oltre 10 punti sotto Francia e Germania se si prende in esame l'istruzione terziaria. A fronte di livelli di spesa nella media, o comunque paragonabili ai Paesi europei più simili al nostro, otteniamo risultati ampiamente peggiori. I laureati sono solo il 14% della popolazione adulta (25-64 anni), meglio solo della Turchia, contro una media Ocse del 21 e Ue e del 19%. Nella fascia di età 25-34 anni sono il 20%, contro il 37% della media Ocse e il 34 della media Ue. Nel 2009 si è diplomato l'81% dei giovani, contro l'84% nel 2008, mentre la media Ocse è dell'82% e Ue dell'86. E i test PISA indicano che la preparazione dei nostri 15enni è sotto la media Ocse.
Sunday, September 11, 2011
10 anni dopo, l'Occidente al bivio
«In quel momento di assoluta nitidezza, possiamo cogliere con l'occhio della mente il profondo significato di un evento. Col passare del tempo, non è che il ricordo sbiadisca; ma la sua luce si attenua, perde forza, e la nostra attenzione si sposta altrove. Ricordiamo l'evento, ma non come ci sentivamo in quel momento. L'impatto emotivo è rimpiazzato da un sentimento che, essendo più pacato, ci sembra più razionale. Eppure, paradossalmente, può esserlo di meno, perché la calma non è il risultato di una ulteriore analisi, ma del semplice trascorrere del tempo».
Tony BlairOggi sono trascorsi dieci anni esatti. C'è una generazione 11 settembre che conserva con assoluta nitidezza la comprensione emotiva di quell'evento, ma nella gran parte della gente e degli uomini di potere è subentrata la «calma» di cui parla Blair nelle sue memorie, che non sempre è il risultato di analisi più razionali. Sapevamo fin dall'inizio che non si sarebbe trattato di una guerra convenzionale, con stati ed eserciti schierati l'uno contro l'altro. Non basta uccidere Hitler, devastare la Germania e il Giappone, per porre fine alle ostilità. Bin Laden è stato ucciso, al Qaeda indebolita, ma la lotta tra l'aspirazione alla libertà e la tirannia del fondamentalismo islamico è ancora in corso, perché è una guerra prima di tutto ideologica, che si combatte, certo, anche nelle nostre società (ed è vitale non abbassare la guardia e riaffermare i nostri valori), ma il cui esito dipenderà dall'evoluzione delle società islamiche. E' in corso in modo decisivo in Medio Oriente, dove i moti di questo 2011 sono stati generati da quell'aspirazione, ma rischiano di essere travolti dall'estremismo. Ne abbiamo avuta vivida dimostrazione l'altro ieri al Cairo.
I successi sul campo sono indubbi. Due dittature sanguinarie non ci sono più (in Afghanistan e in Iraq), esperimenti e primi vagiti democratici sono in corso, anche se non ancora irreversibili. Il fallimento di Bin Laden è sotto gli occhi almeno dei musulmani non del tutto accecati dal fanatismo: la presenza militare americana nei Paesi islamici è aumentata e le masse arabe si sono ribellate non agli Usa, non ai loro governanti "riformisti", ma ai loro tiranni, anche laddove tutto sembrava calmo e piatto: in Egitto, in Libia, persino in Siria e in Iran. Anche un presidente "realista" come Barack Obama si è dovuto piegare all'evidenza della storia, con tutti i limiti che comporta doversi piegare a convinzioni che non si sentono proprie. Come ha ricordato Christian Rocca in questi giorni, Obama non ha smantellato né in patria né all'estero l'architettura della guerra al terrorismo messa in piedi dal suo predecessore, nonostante avesse promesso di farlo in campagna elettorale, e in Medio Oriente è dovuto venire a patti con l'unica strategia che resta valida, quella elaborata all'indomani dell'11 settembre dagli odiati Bush e Blair: «Sostituire lo status quo con la promozione della democrazia». Si possono affinare i metodi e calibrare i tempi, ma quella è.
Dopo dieci anni dall'11 settembre, l'Occidente non se la passa bene, afflitto da una crisi economica e politica forse senza precedenti, ma le società che si ispirano ai principi islamici appaiono in una crisi profonda (l'unica area del mondo non occidentale a non aver agganciato il tumultuoso sviluppo di Cina, India e Brasile), e l'islamizzazione è una risposta che non sembra convincere le masse, anche se la partita è ancora aperta.
C'è la tendenza a spiegare il momento di crisi degli Stati Uniti e dell'Occidente con la reazione eccessiva e troppo costosa, militarmente ed economicamente, all'11 settembre, ma Charles Krauthammer ha brillantemente respinto queste teorie:
«Our current difficulties and gloom are almost entirely economic in origin, the bitter fruit of misguided fiscal, regulatory and monetary policies that had nothing to do with 9/11. America's current demoralization is not a result of the war on terror. On the contrary. The denigration of the war on terror is the result of our current demoralization, of retroactively reading today's malaise into the real - and successful - history of our 9/11 response».L'unico motivo di pessimismo in questo decimo anniversario è proprio lo stato di torpore e sfiducia in se stesso in cui sembra essere piombato l'Occidente. Che non sembra più credere nei valori che lo hanno reso grande, dominante, e che si riassumono nelle sei killer application descritte da Niall Ferguson nel suo "Civilization". E' dentro di noi in quanto individui e in quanto società ciò che può farci perdere la guerra al fondamentalismo islamico e che può condannarci al declino dinanzi all'ascesa dei giganti asiatici. Abbiamo ingabbiato noi stessi la vitalità dei nostri sistemi politici ed economici, cedendo alle lusinghe dello statalismo, alle false sicurezze «dalla culla alla tomba». Chi più chi meno, in Europa e negli Stati Uniti, tutti condividiamo le stesse storture: spesa pubblica eccessiva, debiti insostenibili, politica monetaria facile, rigidità dei mercati, politici incapaci di prendere decisioni. Ciò significa un'allocazione inefficiente e distorta delle risorse umane e materiali, corruzione e sprechi, immobilismo. In questo modo non riusciamo più a sfruttare al meglio le killer apps che noi stessi abbiamo inventato.
Dieci anni dopo l'11 settembre, l'Occidente è al bivio, ma non sotto i colpi dei terroristi. O si lascia alle spalle il Novecento e riesce ad autoriformarsi, ritrovando se stesso, o è perduto.
Concludo quindi questo post-anniversario con un pensiero alle vittime, ai loro famigliari, e a tutti coloro che in questi dieci anni hanno dedicato e talvolta sacrificato le loro vite nella guerra al terrorismo, e ancora con le parole di uno di loro, Tony Blair:
«... credo che all'estero dovremo proiettare un senso di forza e determinazione, non di debolezza o esitazione; ritengo che sia arrivato il momento di attuare più riforme governative, non meno... siamo diventati troppo umili, troppo fiacchi, troppo inibiti, attanagliati da troppi dubbi, e ci mancano obiettivi chiari. Il nostro stile di vita, i valori, che ci hanno resi grandi, rimangono per noi in quanto nazioni non solo come testamento, ma come messaggeri del progresso umano; non sono i ruderi di una politica un tempo gloriosa, bensì lo spirito vitale di una visione ottimista della storia umana. Non ci resta che tornare ad applicarli alle circostanze in mutamento anziché accantonarli considerandoli ormai inutili».
Thursday, September 08, 2011
Un Paese in-credibile
Stamattina nella trasmissione di Giannino su Radio24 ci si chiedeva se una "soluzione spagnola", cioè dimissioni del governo ed elezioni anticipate a novembre, non fosse aupicabile anche per l'Italia. In Spagna le dimissioni di Zapatero e il voto fissato a breve hanno accelerato l'approvazione delle riforme costituzionali e in una certa misura calmierato i mercati, che stanno concedendo una tregua a Madrid. Oscar Giannino ritiene che una simile soluzione possa produrre gli stessi benefici anche nel nostro Paese. A me pare, invece, che a prescindere dal giudizio su Berlusconi e sulle manovre, il paragone con la situazione politica spagnola non regga. Si può auspicare o meno che Berlusconi faccia un passo indietro, chiaro, ma difficilmente gli esiti sarebbero gli stessi dei cugini iberici.
In Spagna il sistema politico è molto più lineare e questo di per sé trasmette ottimismo (relativamente parlando, s'intende) ai mercati: dopo Zapatero la prospettiva più probabile è quella di un governo monocolore dei popolari di Rajoy. Da noi invece si tratterebbe di sicuro di un governo di coalizione, e l'opposizione è attualmente divisa, sulla leadership ma prima di tutto programmaticamente. E i principali partiti - Pd, Idv e Sel - erano in piazza con la Cgil, la forza sociale più conservativa e antimercato del Paese. I mercati si sentirebbero tranquillizzati da questa prospettiva come si sono sentiti in parte per le dimissioni di Zapatero? C'è quanto meno da dubitarne.
L'amara realtà è che Berlusconi è sì debolissimo oggi, il consenso in calo drammatico, incalzato dalle inchieste giudiziarie e dalle autorità di controllo e di garanzia (Quirinale, Bce, Banca d'Italia), ma anche che fa comodo un po' a tutti che sia lui in questo momento a metterci la faccia. Anche perché è vero, come quasi tutti predicano, che si potrebbero assumere decisioni di governo più lungimiranti e strutturali, ma sarebbero comunque altamente impopolari. Una vera riforma delle pensioni scontenterebbe cinquanta e sessantenni, e se non difesa con gli argomenti giusti anche le fasce d'età più giovani, e vere liberalizzazioni avrebbero contro tutte le corporazioni del Paese. Per non parlare della patrimoniale, che per essere efficace non potrà certo essere riservata ai "ricchissimi".
Non scordiamoci che votare entro la fine dell'anno significherebbe per il Pd dover assumere la guida del nuovo governo e dunque il fardello di altre misure impopolari, forse più di quelle assunte fino ad oggi, quando nel 2013 potrebbe trovarsi a vincere le elezioni a pareggio di bilancio centrato ma coi sacrifici tutti imputabili al centrodestra.
Anche l'ipotesi di un governo tecnico che duri almeno fino alla prossima primavera è difficilmente percorribile, perché escludendo Lega e Idv, che si tirerebbero fuori per lucrare consenso elettorale, dovrebbero essere Pdl e Pd ad accordarsi per garantirgli la maggioranza. Il che per entrambi i partiti significherebbe assumersi la responsabilità di scelte forse più utili al Paese di quelle attuali ma comunque impopolari. Impopolarità che il Pdl sta già pagando sulla sua pelle, quindi non ha nessun interesse nel continuare a pagarla però perdendo Palazzo Chigi; e che il Pd non ha interesse a condividere, rischiando di compromettere il vantaggio acquisito sugli avversari. L'impressione, dunque, è che l'agonia berlusconiana possa durare almeno finché le acque non si saranno calmate, se si calmeranno.
Insomma, la "soluzione spagnola" potrebbe funzionare anche in Italia se il problema di credibilità fosse limitato al governo. Invece soffriamo di un deficit di credibilità che non solo va oltre il governo in carica, travalica persino il mondo politico, riguarda l'intero sistema Paese. Basta guardare i presidenti di regione e i sindaci in rivolta per i tagli; i sindacati in piazza; il primo quotidiano italiano, espressione dell'alta borghesia, che si fa ricattare dalla Camusso; le corporazioni capaci di bloccare qualsiasi virgola; gli stessi cittadini che votano per l'«acqua pubblica», cioè in mano ai partiti.
Ecco, a me pare che un governo di centrodestra che non riesce a fare riforme di centrodestra (meno Stato, quindi meno tasse, e più mercato) sia doppiamente non-credibile, e doppiamente deprimente, agli occhi dei mercati. I quali disperano pure che quelle riforme possa farle un governo di sinistra come quello che si prospetta.
Non bastano più manovre "contabili". Oggi finalmente il Cdm ha varato una riforma strutturale (l'abolizione delle province) e una di principio (il vincolo costituzionale al pareggio di bilancio). Ora dipenderà dal Parlamento approvarle in tempi rapidi visto che tutti a parole si dichiarano favorevoli. Ma la natura stessa dei provvedimenti inseriti nelle due manovre dimostra che il governo non ha afferrato le tre lezioni fondamentali della crisi, di cui parla oggi Alesina sul Corriere: «Primo: aggiustamenti dal lato della spesa strutturale (cioè non tagli una tantum) sono gli unici che consentono una stabilizzazione e riduzioni durature del rapporto tra debito e Pil. Aumenti di imposte, invece, non fanno che rincorrere la spesa con i suoi incrementi automatici. Secondo: gli effetti recessivi di tagli alla spesa sono inferiori a quelli di aumenti di imposte. Terzo: le conseguenze negative sull'economia di riduzioni di spesa si possono contenere o persino evitare quasi del tutto con politiche strutturali di stimolo», come le liberalizzazioni.
Come filosofia di fondo le due manovre approvate vanno nella direzione esattamente opposta: più aumenti di entrate che tagli; nessuna vera riforma strutturale su voci di spesa come pensioni e sanità; privatizzazioni non pervenute; quasi impercettibili le riforme a costo zero per la crescita. E il guaio è che anche la stragrande maggioranza dell'opposizione - politica e sociale - alle manovre del governo è di segno opposto a quelle tre lezioni: no ai tagli (a rischio i servizi!); no all'articolo 8; sì alla patrimoniale; fare i vaghi sulle liberalizzazioni.
Trovo purtroppo altamente probabile la previsione di Alesina: chiunque sarà al governo (destra, sinistra o "tecnici") il prossimo passo sarà una patrimoniale, ma nel frattempo la spesa «continuerà a viaggiare sempre più verso la metà del Pil», la crescita si avvicinerà allo zero piuttosto che all'1%, e fra 4 o 5 anni, se va bene, «saremo da capo»: debito ben oltre il 100% del Pil, quindi un altro «contributo di solidarietà», un rinnovato impegno di «lotta all'evasione», un aumento di Iva o magari, perché no, una seconda patrimoniale. «E il ciclo ricomincia».
In Spagna il sistema politico è molto più lineare e questo di per sé trasmette ottimismo (relativamente parlando, s'intende) ai mercati: dopo Zapatero la prospettiva più probabile è quella di un governo monocolore dei popolari di Rajoy. Da noi invece si tratterebbe di sicuro di un governo di coalizione, e l'opposizione è attualmente divisa, sulla leadership ma prima di tutto programmaticamente. E i principali partiti - Pd, Idv e Sel - erano in piazza con la Cgil, la forza sociale più conservativa e antimercato del Paese. I mercati si sentirebbero tranquillizzati da questa prospettiva come si sono sentiti in parte per le dimissioni di Zapatero? C'è quanto meno da dubitarne.
L'amara realtà è che Berlusconi è sì debolissimo oggi, il consenso in calo drammatico, incalzato dalle inchieste giudiziarie e dalle autorità di controllo e di garanzia (Quirinale, Bce, Banca d'Italia), ma anche che fa comodo un po' a tutti che sia lui in questo momento a metterci la faccia. Anche perché è vero, come quasi tutti predicano, che si potrebbero assumere decisioni di governo più lungimiranti e strutturali, ma sarebbero comunque altamente impopolari. Una vera riforma delle pensioni scontenterebbe cinquanta e sessantenni, e se non difesa con gli argomenti giusti anche le fasce d'età più giovani, e vere liberalizzazioni avrebbero contro tutte le corporazioni del Paese. Per non parlare della patrimoniale, che per essere efficace non potrà certo essere riservata ai "ricchissimi".
Non scordiamoci che votare entro la fine dell'anno significherebbe per il Pd dover assumere la guida del nuovo governo e dunque il fardello di altre misure impopolari, forse più di quelle assunte fino ad oggi, quando nel 2013 potrebbe trovarsi a vincere le elezioni a pareggio di bilancio centrato ma coi sacrifici tutti imputabili al centrodestra.
Anche l'ipotesi di un governo tecnico che duri almeno fino alla prossima primavera è difficilmente percorribile, perché escludendo Lega e Idv, che si tirerebbero fuori per lucrare consenso elettorale, dovrebbero essere Pdl e Pd ad accordarsi per garantirgli la maggioranza. Il che per entrambi i partiti significherebbe assumersi la responsabilità di scelte forse più utili al Paese di quelle attuali ma comunque impopolari. Impopolarità che il Pdl sta già pagando sulla sua pelle, quindi non ha nessun interesse nel continuare a pagarla però perdendo Palazzo Chigi; e che il Pd non ha interesse a condividere, rischiando di compromettere il vantaggio acquisito sugli avversari. L'impressione, dunque, è che l'agonia berlusconiana possa durare almeno finché le acque non si saranno calmate, se si calmeranno.
Insomma, la "soluzione spagnola" potrebbe funzionare anche in Italia se il problema di credibilità fosse limitato al governo. Invece soffriamo di un deficit di credibilità che non solo va oltre il governo in carica, travalica persino il mondo politico, riguarda l'intero sistema Paese. Basta guardare i presidenti di regione e i sindaci in rivolta per i tagli; i sindacati in piazza; il primo quotidiano italiano, espressione dell'alta borghesia, che si fa ricattare dalla Camusso; le corporazioni capaci di bloccare qualsiasi virgola; gli stessi cittadini che votano per l'«acqua pubblica», cioè in mano ai partiti.
Ecco, a me pare che un governo di centrodestra che non riesce a fare riforme di centrodestra (meno Stato, quindi meno tasse, e più mercato) sia doppiamente non-credibile, e doppiamente deprimente, agli occhi dei mercati. I quali disperano pure che quelle riforme possa farle un governo di sinistra come quello che si prospetta.
Non bastano più manovre "contabili". Oggi finalmente il Cdm ha varato una riforma strutturale (l'abolizione delle province) e una di principio (il vincolo costituzionale al pareggio di bilancio). Ora dipenderà dal Parlamento approvarle in tempi rapidi visto che tutti a parole si dichiarano favorevoli. Ma la natura stessa dei provvedimenti inseriti nelle due manovre dimostra che il governo non ha afferrato le tre lezioni fondamentali della crisi, di cui parla oggi Alesina sul Corriere: «Primo: aggiustamenti dal lato della spesa strutturale (cioè non tagli una tantum) sono gli unici che consentono una stabilizzazione e riduzioni durature del rapporto tra debito e Pil. Aumenti di imposte, invece, non fanno che rincorrere la spesa con i suoi incrementi automatici. Secondo: gli effetti recessivi di tagli alla spesa sono inferiori a quelli di aumenti di imposte. Terzo: le conseguenze negative sull'economia di riduzioni di spesa si possono contenere o persino evitare quasi del tutto con politiche strutturali di stimolo», come le liberalizzazioni.
Come filosofia di fondo le due manovre approvate vanno nella direzione esattamente opposta: più aumenti di entrate che tagli; nessuna vera riforma strutturale su voci di spesa come pensioni e sanità; privatizzazioni non pervenute; quasi impercettibili le riforme a costo zero per la crescita. E il guaio è che anche la stragrande maggioranza dell'opposizione - politica e sociale - alle manovre del governo è di segno opposto a quelle tre lezioni: no ai tagli (a rischio i servizi!); no all'articolo 8; sì alla patrimoniale; fare i vaghi sulle liberalizzazioni.
Trovo purtroppo altamente probabile la previsione di Alesina: chiunque sarà al governo (destra, sinistra o "tecnici") il prossimo passo sarà una patrimoniale, ma nel frattempo la spesa «continuerà a viaggiare sempre più verso la metà del Pil», la crescita si avvicinerà allo zero piuttosto che all'1%, e fra 4 o 5 anni, se va bene, «saremo da capo»: debito ben oltre il 100% del Pil, quindi un altro «contributo di solidarietà», un rinnovato impegno di «lotta all'evasione», un aumento di Iva o magari, perché no, una seconda patrimoniale. «E il ciclo ricomincia».
Tuesday, September 06, 2011
Ballando sul baratro
Ennesima assurda giravolta del governo che reintroduce la super aliquota Irpef (il 3% sopra i 500 mila euro) e ci ripensa sull'Iva, aumentandola dal 20 al 21%, ma con pervicacia si ostina a non adeguare fin da subito a 65 anni l'età di pensionamento delle donne nel settore privato. Un processo di adeguamento ridicolmente spalmato nel tempo, che ai mercati deve suonare come una presa per i fondelli: secondo la prima manovra, quella di luglio, sarebbe dovuto partire addirittura nel 2020 per concludersi nel 2038. Anticipata al 2016 nella manovra ferragostana, ora la partenza viene ulteriormente anticipata al 2014. Ma l'unica cosa ragionevole sarebbe far scattare fin da subito l'adeguamento, già dal primo gennaio 2012, per concluderlo in cinque anni. Ma piuttosto che anticipare una piccola, seria riforma, preferiscono mettere le mani nelle tasche degli italiani e rischiare una nuova recessione.
L'aumento dell'1% dell'Iva è impercettibile sulla carta, ma avrà un percettibilissimo effetto inflazionistico perché legittimerà aumenti di prezzi e tariffe. Si comprerà meno non credo, ma si evaderà di più e la spinta inflazionistica rischia di farci pagare molto più dell'1%. Un'autentica follia. Sul fronte dell'Irpef il danno è già stato fatto. Dopo tutte le ipotesi di queste settimane e con l'incertezza che permane temo che i commercialisti siano stati già allertati a dovere e che si sia perso già più gettito di quello che si pensa di ottenere.
Purtroppo queste nuove misure vanno nella direzione esattamente opposta a quella indicata dalla Bce, dalla Banca d'Italia e dal semplice buon senso, perché accentuano il peso già preponderante delle nuove entrate rispetto ai tagli di spesa, il che aggrava l'effetto depressivo delle due manovre sulla crescita economica, che invece per raggiungere il pareggio di bilancio dovrebbe essere rilanciata. Tasse, tasse, e ancora tasse, pur di evitare poche, semplici riforme strutturali che tutti sanno essere necessarie: innalzamento dell'età pensionabile, privatizzazioni, e perché non una moratoria totale della spesa per cinque anni?
L'aumento dell'1% dell'Iva è impercettibile sulla carta, ma avrà un percettibilissimo effetto inflazionistico perché legittimerà aumenti di prezzi e tariffe. Si comprerà meno non credo, ma si evaderà di più e la spinta inflazionistica rischia di farci pagare molto più dell'1%. Un'autentica follia. Sul fronte dell'Irpef il danno è già stato fatto. Dopo tutte le ipotesi di queste settimane e con l'incertezza che permane temo che i commercialisti siano stati già allertati a dovere e che si sia perso già più gettito di quello che si pensa di ottenere.
Purtroppo queste nuove misure vanno nella direzione esattamente opposta a quella indicata dalla Bce, dalla Banca d'Italia e dal semplice buon senso, perché accentuano il peso già preponderante delle nuove entrate rispetto ai tagli di spesa, il che aggrava l'effetto depressivo delle due manovre sulla crescita economica, che invece per raggiungere il pareggio di bilancio dovrebbe essere rilanciata. Tasse, tasse, e ancora tasse, pur di evitare poche, semplici riforme strutturali che tutti sanno essere necessarie: innalzamento dell'età pensionabile, privatizzazioni, e perché non una moratoria totale della spesa per cinque anni?
Una moratoria della spesa
Proprio non ce la fanno le manovre varate dal governo nell'arco di neanche due mesi a risultare credibili agli occhi degli investitori. Ieri lo spread sui titoli decennali ha ripreso a correre, riavvicinandosi a quota 400. Il fatto che in estate abbia superato quello spagnolo, e che anche ieri sia salito circa il doppio, dimostra quanto gli assennati sanno e dicono già dal 2008, e cioè che c'è una specifica crisi italiana nella crisi europea e globale, e che non sarebbe bastato quindi ammainare le vele aspettando il passaggio della tempesta.
Non è servito a nulla il divieto di vendite allo scoperto, né sono risolutivi gli acquisti di titoli da parte della Bce, che anzi rischiano di avvalorare agli occhi degli investitori la fragilità della nostra situazione. Ciò che la nostra classe politica sembra ostinarsi a non capire è che la speculazione anticipa la corrente, ma non la genera. Ci sono ragioni oggettive - dati di finanza pubblica alla mano - ma soprattutto una generale mancanza di credibilità (non solo del governo e non solo della politica, purtroppo, ma dell'intero sistema) che pongono l'Italia tra i Paesi a rischio, e anzi oggi, per le sue dimensioni, come quello più a rischio di tutti.
Finché non verranno introdotte vere, profonde riforme strutturali in grado di sgombrare ogni residuo dubbio sulla volontà italiana, più che sulla capacità, di raggiungere il pareggio di bilancio e di superare le rigidità che opprimono la crescita, la sfiducia dei mercati continuerà a far schizzare in alto i rendimenti sui nostri titoli. Abbiamo fatto piuttosto il contrario: come osserva oggi il Financial Times, «il governo ha evitato, ancora una volta, qualsiasi riforma strutturale...». E si sono inventati proprio di tutto pur di non farle.
Ci sono poi degli autentici autogol che fanno precipitare sotto zero la credibilità di una manovra e uno di questi è affidarsi al recupero dell'evasione fiscale. La retorica della lotta all'evasione in cui il governo, assecondato con una certa morbosità dai media, ha indugiato per tutta la scorsa settimana si è rivelata suicida, perché è stata giustamente letta dai mercati come la cartina di tornasole della scarsa volontà italiana di affrontare i veri nodi, quelli della spesa e della crescita. Il problema della manovra quindi non è apportare qualche aggiustamento qua e là, né è di «equità», ma è la sua stessa filosofia, è l'impostazione complessiva. Non solo l'inasprimento della lotta all'evasione non può garantire un gettito certo, ma sommato al peso preponderante che le nuove entrate hanno nelle due manovre, ne accresce gli effetti depressivi e peggiora, non migliora, le prospettive di crescita. E se la crescita si avvicina allo zero più che all'1%, nonostante il rigore l'obiettivo del pareggio di bilancio non si avvicina, si allontana. Per questa ragione i mercati ancora non credono che ce la possiamo fare.
Può aver alimentato i sermoni dei demagoghi e fatto esultare gli ingenui cresciuti a pane e statalismo, ma è fallita l'opera di mistificazione tramite cui si volevano scaricare sull'evasione fiscale i danni che vanno invece imputati alla spesa pubblica, e di cui bisogna chiedere conto a chi ha continuato e continua ad alimentarla. I mercati non se la sono bevuta che il problema è l'evasione fiscale e che si può risolvere con la repressione.
Servono vere riforme strutturali sul fronte della spesa e della crescita, per convincere i mercati che facciamo sul serio. Un innalzamento dell'età pensionabile per tutti che non sia spalmato nell'arco di mezzo secolo, ma che si concluda in cinque anni; privatizzazioni immobiliari per abbattere il debito; e tagli veri, non sulla spesa tendenziale. Per esempio, una moratoria della spesa pubblica: per cinque anni le amministrazioni pubbliche - tutte - si impegnano a non spendere un solo euro in più del 2011.
Non è servito a nulla il divieto di vendite allo scoperto, né sono risolutivi gli acquisti di titoli da parte della Bce, che anzi rischiano di avvalorare agli occhi degli investitori la fragilità della nostra situazione. Ciò che la nostra classe politica sembra ostinarsi a non capire è che la speculazione anticipa la corrente, ma non la genera. Ci sono ragioni oggettive - dati di finanza pubblica alla mano - ma soprattutto una generale mancanza di credibilità (non solo del governo e non solo della politica, purtroppo, ma dell'intero sistema) che pongono l'Italia tra i Paesi a rischio, e anzi oggi, per le sue dimensioni, come quello più a rischio di tutti.
Finché non verranno introdotte vere, profonde riforme strutturali in grado di sgombrare ogni residuo dubbio sulla volontà italiana, più che sulla capacità, di raggiungere il pareggio di bilancio e di superare le rigidità che opprimono la crescita, la sfiducia dei mercati continuerà a far schizzare in alto i rendimenti sui nostri titoli. Abbiamo fatto piuttosto il contrario: come osserva oggi il Financial Times, «il governo ha evitato, ancora una volta, qualsiasi riforma strutturale...». E si sono inventati proprio di tutto pur di non farle.
Ci sono poi degli autentici autogol che fanno precipitare sotto zero la credibilità di una manovra e uno di questi è affidarsi al recupero dell'evasione fiscale. La retorica della lotta all'evasione in cui il governo, assecondato con una certa morbosità dai media, ha indugiato per tutta la scorsa settimana si è rivelata suicida, perché è stata giustamente letta dai mercati come la cartina di tornasole della scarsa volontà italiana di affrontare i veri nodi, quelli della spesa e della crescita. Il problema della manovra quindi non è apportare qualche aggiustamento qua e là, né è di «equità», ma è la sua stessa filosofia, è l'impostazione complessiva. Non solo l'inasprimento della lotta all'evasione non può garantire un gettito certo, ma sommato al peso preponderante che le nuove entrate hanno nelle due manovre, ne accresce gli effetti depressivi e peggiora, non migliora, le prospettive di crescita. E se la crescita si avvicina allo zero più che all'1%, nonostante il rigore l'obiettivo del pareggio di bilancio non si avvicina, si allontana. Per questa ragione i mercati ancora non credono che ce la possiamo fare.
Può aver alimentato i sermoni dei demagoghi e fatto esultare gli ingenui cresciuti a pane e statalismo, ma è fallita l'opera di mistificazione tramite cui si volevano scaricare sull'evasione fiscale i danni che vanno invece imputati alla spesa pubblica, e di cui bisogna chiedere conto a chi ha continuato e continua ad alimentarla. I mercati non se la sono bevuta che il problema è l'evasione fiscale e che si può risolvere con la repressione.
Servono vere riforme strutturali sul fronte della spesa e della crescita, per convincere i mercati che facciamo sul serio. Un innalzamento dell'età pensionabile per tutti che non sia spalmato nell'arco di mezzo secolo, ma che si concluda in cinque anni; privatizzazioni immobiliari per abbattere il debito; e tagli veri, non sulla spesa tendenziale. Per esempio, una moratoria della spesa pubblica: per cinque anni le amministrazioni pubbliche - tutte - si impegnano a non spendere un solo euro in più del 2011.
Monday, September 05, 2011
De Brontoli
Grande mobilitazione facebookiana per la libertà di stampa, contro il «bavaglio» imposto dalla Cgil al solo Corriere della Sera, punito personalmente dalla segretaria generale Camusso per la sua linea nei confronti del grande sindacato. Solo ai poligrafici che stampano il Corriere infatti la Camusso non avrebbe concesso la deroga. Così almeno la racconta il direttore de Bortoli. Nessuna simpatia per lo sciopero della Cgil, ma mi riesce difficile credere che de Bortoli non abbia i mezzi per fare uscire ugualmente, in qualche modo, il giornale, almeno qualche copia simbolica. Magari, se proprio non si riesce con le maestranze presenti (che non saranno mica tutte della Cgil!), solo in pdf, come suggerisce il mio amico Salvio, scaricabile a tutti dal sito internet e sugli smartphone.
No, la sensazione è che de Bortoli non abbia gli attributi, che non abbia alcuna intenzione di ingaggiare una battaglia per la libertà che rivendica, né di inimicarsi il sindacato. Che preferisca quindi elemosinare un po' di solidarietà a buon mercato in nome della libertà di stampa. Diciamo che questi scioperi in cui gli "scioperati" (più che gli scioperanti) pretendono di impedire di lavorare anche a chi vorrebbe farlo, sono un tantino illiberali, ma che la libertà bisogna anche avere le palle per difenderla. Ma cosa volete, il caro de Bortoli se ne intende di terzismo, non di liberalismo.
No, la sensazione è che de Bortoli non abbia gli attributi, che non abbia alcuna intenzione di ingaggiare una battaglia per la libertà che rivendica, né di inimicarsi il sindacato. Che preferisca quindi elemosinare un po' di solidarietà a buon mercato in nome della libertà di stampa. Diciamo che questi scioperi in cui gli "scioperati" (più che gli scioperanti) pretendono di impedire di lavorare anche a chi vorrebbe farlo, sono un tantino illiberali, ma che la libertà bisogna anche avere le palle per difenderla. Ma cosa volete, il caro de Bortoli se ne intende di terzismo, non di liberalismo.
Friday, September 02, 2011
Expansion pack: Vampirismo fiscale
Al governo per cambiare lo Stato, lo Stato ha cambiato il centrodestra
Non c'eravamo illusi dopo il ritiro dell'intervento sull'Irpef dalla manovra. Era chiaro infatti che nubi ancor più minacciose si stavano addensando sul fronte della repressione fiscale. L'incubo dello stato di polizia tributaria si sta materializzando proprio ad opera di quel centrodestra che l'aveva agitato per infiammare l'opinione pubblica contro Prodi, Padoa-Schioppa e Visco. La peggior nemesi che si potesse immaginare.
Con la possibilità data ai Comuni di pubblicare le dichiarazioni dei redditi on line (in realtà l'emendamento rinvia ad un decreto specifico ancora da scrivere, che rende percorribile quindi una marcia indietro) e con l'obbligo di indicare nelle dichiarazioni i propri conti corrente, Tremonti ha superato Visco in vampirismo fiscale. Ma oggi nel far filtrare tutta la sua irritazione il premier ridicolizza se stesso. Che altro poteva aspettarsi da Tremonti e Befera? Possibile che in un momento così delicato per la maggioranza, dopo tutte le accuse al ministro di agire troppo di testa sua, e dopo il gravissimo precedente della riscossione forzata dopo soli 60 giorni dall'avviso di accertamento, lo si lasci a scrivere in completa solitudine gli emendamenti sulla lotta all'evasione? Anche l'idea di "scorta" di aumentare di due punti percentuali l'Iva per soli tre mesi rivela un dilettantismo sconcertante o un rincoglionimento senile, dato che posticipare le fatture di tre mesi sarebbe un gioco da ragazzi.
Ma ciò che mi fa più impazzire di rabbia è che sono riusciti a spostare il dibattito pubblico e l'attenzione dei media e dei cittadini dal vero problema, e cioè l'insostenibilità per lo Stato e per i cittadini di questi livelli di debito e di spesa pubblica, a quella che in realtà è solo una delle tante distorsioni che ne conseguono. Sono riusciti cioè a far passare per la causa, o per una delle cause principali, una delle conseguenze - l'evasione fiscale - dell'enorme spesa pubblica e degli insostenibili livelli di tassazione che richiede.
Tra un piagnisteo e l'altro nessuno dice che a fronte dell'ennesima spremitura dei contribuenti la spesa pubblica continuerà a crescere nei prossimi anni fino a sfiorare i 900 miliardi, perché nessuno dice che i «tagli» riguardano l'aumento tendenziale della spesa e non gli euro sonanti che vengono effettivamente spesi ogni anno.
Non si stanno accorgendo, o fingono di non accorgersene, che il Paese è fiscalmente stremato, che nuovi aumenti di tasse, o l'inasprimento dei controlli, sono misure criminogene, faranno scattare presso i contribuenti ulteriori meccanismi di autodifesa, indurranno molti ad evadere, quindi non produrranno il gettito atteso, oltre a deprimere ulteriormente un'economia già asfittica.
Evasione ed elusione in Italia sono così estese e capillari, così sistemiche, che non può trattarsi di un problema "antropologico" (il nostro scarso senso civico), ma di un problema squisitamente economico. Al netto di furbi e delinquenti, sono forme di autodifesa dalla voracità predatoria dello Stato. Se improvvisamente la cosiddetta "lotta all'evasione" dovesse avere successo, vedremmo precipitare la nostra economia, chiudere migliaia di aziende e la perdita di milioni di posti di lavoro, regolari o in nero che siano. Sì, a livello sistemico l'evasione è l'anticorpo che sviluppa il corpo sociale per rendere ancora possibili, convenienti, le attività produttive, e il sommerso non è che una forma di welfare contro la disoccupazione a cui ci condannerebbe la rigidità del mercato del lavoro legale.
Per descrivere l'avvitamento su stessa della coalizione di governo si presta benissimo la critica che indirizzò McCain al suo partito nel 2008: "Al governo per cambiare lo Stato, lo Stato ha cambiato il centrodestra". E' questo che è accaduto negli anni e credo che ormai la situazione sia irrecuperabile. Tra l'altro, il nuovo amore del centrodestra per le tasse e per lo stato di polizia tributaria avrà l'effetto di dare la stura ai più bassi istinti statalisti della sinistra, provocando uno slittamento complessivo dello spettro politico verso lo statalismo. Arriveremo al punto in cui la patrimoniale apparirà come la misura più liberale a disposizione.
Non c'eravamo illusi dopo il ritiro dell'intervento sull'Irpef dalla manovra. Era chiaro infatti che nubi ancor più minacciose si stavano addensando sul fronte della repressione fiscale. L'incubo dello stato di polizia tributaria si sta materializzando proprio ad opera di quel centrodestra che l'aveva agitato per infiammare l'opinione pubblica contro Prodi, Padoa-Schioppa e Visco. La peggior nemesi che si potesse immaginare.
Con la possibilità data ai Comuni di pubblicare le dichiarazioni dei redditi on line (in realtà l'emendamento rinvia ad un decreto specifico ancora da scrivere, che rende percorribile quindi una marcia indietro) e con l'obbligo di indicare nelle dichiarazioni i propri conti corrente, Tremonti ha superato Visco in vampirismo fiscale. Ma oggi nel far filtrare tutta la sua irritazione il premier ridicolizza se stesso. Che altro poteva aspettarsi da Tremonti e Befera? Possibile che in un momento così delicato per la maggioranza, dopo tutte le accuse al ministro di agire troppo di testa sua, e dopo il gravissimo precedente della riscossione forzata dopo soli 60 giorni dall'avviso di accertamento, lo si lasci a scrivere in completa solitudine gli emendamenti sulla lotta all'evasione? Anche l'idea di "scorta" di aumentare di due punti percentuali l'Iva per soli tre mesi rivela un dilettantismo sconcertante o un rincoglionimento senile, dato che posticipare le fatture di tre mesi sarebbe un gioco da ragazzi.
Ma ciò che mi fa più impazzire di rabbia è che sono riusciti a spostare il dibattito pubblico e l'attenzione dei media e dei cittadini dal vero problema, e cioè l'insostenibilità per lo Stato e per i cittadini di questi livelli di debito e di spesa pubblica, a quella che in realtà è solo una delle tante distorsioni che ne conseguono. Sono riusciti cioè a far passare per la causa, o per una delle cause principali, una delle conseguenze - l'evasione fiscale - dell'enorme spesa pubblica e degli insostenibili livelli di tassazione che richiede.
Tra un piagnisteo e l'altro nessuno dice che a fronte dell'ennesima spremitura dei contribuenti la spesa pubblica continuerà a crescere nei prossimi anni fino a sfiorare i 900 miliardi, perché nessuno dice che i «tagli» riguardano l'aumento tendenziale della spesa e non gli euro sonanti che vengono effettivamente spesi ogni anno.
Non si stanno accorgendo, o fingono di non accorgersene, che il Paese è fiscalmente stremato, che nuovi aumenti di tasse, o l'inasprimento dei controlli, sono misure criminogene, faranno scattare presso i contribuenti ulteriori meccanismi di autodifesa, indurranno molti ad evadere, quindi non produrranno il gettito atteso, oltre a deprimere ulteriormente un'economia già asfittica.
Evasione ed elusione in Italia sono così estese e capillari, così sistemiche, che non può trattarsi di un problema "antropologico" (il nostro scarso senso civico), ma di un problema squisitamente economico. Al netto di furbi e delinquenti, sono forme di autodifesa dalla voracità predatoria dello Stato. Se improvvisamente la cosiddetta "lotta all'evasione" dovesse avere successo, vedremmo precipitare la nostra economia, chiudere migliaia di aziende e la perdita di milioni di posti di lavoro, regolari o in nero che siano. Sì, a livello sistemico l'evasione è l'anticorpo che sviluppa il corpo sociale per rendere ancora possibili, convenienti, le attività produttive, e il sommerso non è che una forma di welfare contro la disoccupazione a cui ci condannerebbe la rigidità del mercato del lavoro legale.
Per descrivere l'avvitamento su stessa della coalizione di governo si presta benissimo la critica che indirizzò McCain al suo partito nel 2008: "Al governo per cambiare lo Stato, lo Stato ha cambiato il centrodestra". E' questo che è accaduto negli anni e credo che ormai la situazione sia irrecuperabile. Tra l'altro, il nuovo amore del centrodestra per le tasse e per lo stato di polizia tributaria avrà l'effetto di dare la stura ai più bassi istinti statalisti della sinistra, provocando uno slittamento complessivo dello spettro politico verso lo statalismo. Arriveremo al punto in cui la patrimoniale apparirà come la misura più liberale a disposizione.
Thursday, September 01, 2011
La rapina perfetta
Come facilmente prevedibile, con il dietrofront sull'Irpef è stato tolto dalla manovra l'aspetto più scabroso e solo quello più vistosamente sputtanante per il Pdl, ma le nostre tasche sono tutt'altro che al sicuro. Per far quadrare i conti, infatti, s'inasprirà la lotta all'evasione fiscale. Al che, detta in termini così generici, non avrei nulla in contrario. Bisogna vedere però come le intenzioni si declinano nella realtà. «Non siamo per lo stato di polizia tributaria», ripete Berlusconi, ma è esattamente questo lo spirito che ha animato negli scorsi mesi l'operato del ministro Tremonti e dell'Agenzia delle Entrate. Emblematico il colpo di mano con il quale si è passati alla riscossione forzata, senza alcun ulteriore preavviso, dopo soli 60 giorni (termine poi emendato a 180 giorni) dall'avviso di accertamento, a prescindere dall'esito di un eventuale ricorso. In pratica, l'atto di accertamento assume valenza di titolo esecutivo, e in caso di ricorso il contribuente dovrà comunque pagare a titolo provvisorio il 50% del dovuto (dovuto secondo il Fisco).
Stanti tali precedenti, sapere che il ministro dell'Economia e il direttore Befera «stanno scrivendo i provvedimenti» non ci fa dormire sonni tranquilli. Lo stesso premier, inoltre, ricorda di avere «sempre in canna» il colpo dell'aumento dell'Iva. La sensazione quindi è che dobbiamo aspettarci nuovi odiosi strumenti di polizia tributaria. Ma ancor più grave è che sia ripartito persino il dibattito sulla pubblicazione delle dichiarazioni dei redditi, la barbarie di cui si rese promotore il viceministro Visco nel 2008.
Va bene la stretta sulle società di comodo alle quali molto spesso vengono intestati immobili e beni di lusso per non pagare le tasse e per avvantaggiarsi nelle graduatorie d'accesso ai servizi pubblici gratuiti. Va bene affinare gli strumenti d'incrocio dei dati sui redditi dichiarati e i beni posseduti. Vanno bene persino le «manette» nei confronti dei grandi evasori. Ci sono però dei principi dai quali non si può derogare: nessuna misura esecutiva - né la confisca, tanto meno l'arresto - può scattare senza che in caso di contenzioso si sia espresso un giudice terzo. Bisogna quindi eliminare la riscossione dei tributi quando si è in pendenza di giudizio, almeno fino al primo grado. Non può pagare il cittadino i ritardi dello Stato. E inoltre no al ricorso, in alcuna forma, alla delazione fiscale o alle gogne mediatiche, strumenti degni della Stasi della Germania Est.
Purtroppo, l'operazione di propaganda che rischia di riuscire agli statalisti di ogni colore politico, di destra e di sinistra, è di spostare l'attenzione dell'opinione pubblica dalle responsabilità dello Stato, dei governi passati e presenti, ad una demagogica caccia all'evasore. Si vuol far passare l'idea che dell'enorme debito pubblico accumulato negli ultimi decenni, e quindi della situazione di crisi in cui siamo, i colpevoli siano gli evasori della porta accanto e non, invece, i nostri amministratori, la nostra classe politica, che attraverso la spesa pubblica "compra" il consenso elettorale. A dispetto dei piagnistei per i «tagli», nei prossimi anni la spesa pubblica, se calcolata in euro veri, sonanti, aumenterà fino a quasi 900 miliardi di euro. Dobbiamo mettercelo bene in testa una volta per tutte: non esiste "lo Stato", né è possibile individuare un interesse che sia davvero "generale" (al massimo esiste un interesse "dei più"), ma una cerchia relativamente ristretta di uomini e donne che fanno gli interessi loro e, nella migliore delle ipotesi, di chi li ha eletti. L'evasore viola la legge, certo, ma non si può sostenere che rubi agli altri, perché fino a prova contraria si tratta sempre di soldi che si è guadagnato con attività lecite. E' chi amministra lo Stato, piuttosto, che effettua una "rapina" legalizzata.
E' grave quindi il solo ipotizzare la pubblicazione delle dichiarazioni dei redditi. Sarebbe un atto incivile e criminale: lo Stato che non si fa scrupolo di incitare all'invidia sociale, alla lotta di classe tra i suoi cittadini, pur di reperire ulteriori quattrini da sperperare mentre riesce ad allontanare da sé lo sguardo sospettoso dell'opinione pubblica. Se passa, sarà la rapina perfetta, quella in cui i rapinati nemmeno si accorgono di esserlo e si mettono ad accusarsi tra loro.
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