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Friday, December 03, 2004

Wind of Change in Medio Oriente

Iraqi pro-democracy party«Le uniche e prime elezioni libere del mondo arabo si tengono soltanto nei paesi "occupati"»

Il Foglio decide di uscire allo scoperto e dichiara, con una "prima paginona" zeppa di notizie e opinioni, che è lecito essere ottimisti per il futuro democratico dell'Iraq. Così il direttore Giuliano Ferrara spiega la scelta:
«I norvegesi definiscono "bel tempo coperto" una situazione in cui il cielo è pieno di nuvole ma l'aria è diventata respirabile, ogni furia di freddo e di pioggia e di neve è passata o rinviata a domani. L'Iraq, questo paese fatale ai nostri tempi, sembra essere entrato in questa condizione a nemmeno due anni dalla sua liberazione armata per mano degli americani e degli inglesi. Quelli che parlano a vanvera e biascicano ideologismi non se ne sono ancora accorti, ma quelli che esprimono opinioni serie e informate, compreso l'inviato di Repubblica, un esotico pentito dell'apocalissi, registrano la novità e mettono le mani avanti... Si vede meglio quel che maturava già prima, un processo politico forse irresistibile che porterà cattive notizie democratiche per gli alauiti di Siria e gli ayatollah iraniani, per bin Laden e per al Jazeera...»
«Opinioni serie». Alla fine di gennaio si terrà in Iraq «la quarta elezione», come l'ha definita William Safire sul New York Times. Dopo Karzai in Afghanistan, Howard in Australia, Bush in America, i «bad guys» ce l'hanno fatta. In Iraq «the vote must go on», perché «una democrazia rimandata è una democrazia negata». A gennaio tocca anche ai palestinesi e a maggio a Blair. Tra le «opinioni serie», accanto a quelle «a vanvera» (nulla potrà mai rovinare la festa a Lilli), c'è anche quella di Anne Applebaum sul WP, che già vi avevo segnalato: non ci voleva credere, ma si è dovuta convincere che quella del complotto americano mondiale è la dietrologia «più popolare che circola su internet, la più cliccata, la più accredita» e che «molti tra quelli che rifiutano di condannare un dittatore antiamericano non riescono ad ammirare democrazie che sostengono, o almeno non odiano, gli Stati Uniti». Max Boot, sul Los Angeles Times, giudica positivamente l'azione militare a Fallujah, non per quello che è successo, bensì per quello che «non è successo»: nessuna crisi d'immagine, il governo Allawi non è caduto, nessuna sollevazione popolare.

Opinioni arabe. I commentatori arabi più avveduti (Fonte: Memri), come su Al Hayat, si sono accorti che «le uniche e prime elezioni libere del mondo arabo si tengono soltanto nei paesi "occupati": dagli americani, in Iraq, e dagli israeliani, in Palestina. E' «patetico e triste» che ci si preoccupi dell'"occupazione" e non del fatto che nei cosiddetti "indipendenti, liberi e sovrani" paesi arabi i cittadini non possano far sentire la loro voce.
La questione sunnita va trovando la strada di «un patto nazionale da rifondare», ci sono ancora le pericolose ambiguità siriane e iraniane, ma poi ci sono le splendide pagine di Alì, un blogger iracheno che ha fondato un partito ed è entusiasta perché per la prima volta cambiare il governo non sarà considerato un atto sovversivo. Racconta lo stupore di non aver rischiato l'impiccagione nel registrare il loro partito, il Partito iracheno per la democrazia. E al di là di tutti gli orrori di questi mesi, Alì ci dice qual è il risultato incaccellabile dell'"occupazione" angloamericana: ora le assemblee non sono fuori-legge, e questo potrebbe già bastare.
«Ogni volta che cercavamo di organizzare un gruppo che non comprendesse soltanto noi e i nostri amici più intimi, non riuscivamo a ottenere l'appoggio di più di 5-10 persone. Fidarsi degli altri era quasi impossibile e molto rischioso. Dovevamo tenere conto del fatto che non rischiavamo solo la nostra vita, ma anche quella dei nostri familiari». Un giorno però, le cose sono cambiate...
Conclude Ferrara:
«La lotta tra la normalità e la vita da una parte, le truppe scelte della reazione banditesca all'abbattimento di Saddam dall'altra, comincia a girare verso il quotidiano, la compravendita delle case, la formazione di una classe dirigente che è impreparata alla democrazia, e tuttora vulnerabile dalla violenza, ma di un programma democratico non è in grado di fare a meno. Si scopriranno a poco a poco, se il bel tempo coperto continua, nuovi modesti e precari colori di quel teatro di guerra che mette in scena la pacificazione dopo l'orrore. E i colpi di coda della bestia ferita non contano».

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