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Monday, November 26, 2007

La domanda a cui Berlusconi deve rispondere

Anche se Sarkozy «non si è fatto piegare» dagli scioperi e ha ottenuto che i regimi pensionistici speciali vengano riformati, ancora non è chiaro a che prezzo; e le sue altre riforme incontrano forti resistenze. Tuttavia, ha già conseguito un successo notevole mantenendo dalla sua parte l'opinione pubblica, che in Francia era abituata a schierarsi con la protesta sociale e i sindacati. Ieri, sul Corriere della Sera, Mario Monti poneva alla nostra attenzione «tre punti di interesse per l'Italia» suggeriti dall'esperienza sarkozyana.

Innanzitutto, il nostro desiderio, a destra come a sinistra, di essere governati «nel linguaggio della verità e con il coraggio della decisione» che ha dimostrato Sarkozy. La sua forza - oltre a quella che gli attribuisce un sistema presidenzialista e uninominale - deriva anche dall'aver vinto le elezioni sulla base di un «programma chiaro». Ottenuto il mandato, «ouverture» nei confronti degli avversari, né umiliazione, né occupazione, né inciucio: «Ha reso così più condivise le sue linee politiche, più deboli gli argomenti degli oppositori, più isolate le categorie che resistono alle riforme». Sarkozy è forte perché fa pesare la sua legittimazione popolare, «si spiega al Paese, invece di "concertare" con le organizzazioni sindacali e imprenditoriali».

Anche Enzo Bettiza, su La Stampa, ha elogiato «il metodo» di Sarkozy, «morbido nella forma e determinato nella sostanza». Un autunno «tiepido», quello 2007, anche perché al contrario che in passato «si è potuta anzi notare, palpare fisicamente, una certa implicita approvazione collettiva delle riforme proposte, per arginare la senilità assistita della Francia, dal "liberale colbertista"» Sarkozy.

Anche Bettiza è tornato con la memoria alle esperienze di Reagan e della Thatcher, trovando che «l'insegnamento che Sarkozy sembra aver tratto... è che solo dopo lo scontro, consumato fino in fondo, Reagan e la Thatcher furono in grado di portare a casa riforme altrettanto radicali». Ma Sarkozy non è un liberista, non è anglosassone, è un francese, la sua è una riforma più che una rivoluzione, la sua è una Francia «comunque più blairiana che thatcheriana, che stavolta si pone all'avanguardia del riformismo continentale».

La realtà italiana al confronto non può che apparire «deludente», il «tripudio della commedia dell'arte, della sceneggiata allusiva». Tra proporzionale "alla tedesca" o "puro", «guai ad accennare al presidenzialismo, trionfante a Parigi, dove esso ha premiato non solo conservatori atipici ma anche leader socialisti come Mitterrand... Il rischio che corre l'elettore italiano è di recarsi alle urne secondo regole non "tedesche", non "spagnole", tanto meno "francesi". Ma balcaniche senza virgolette».

Ma secondo Mario Monti la lezione di Sarkozy dovrebbe essere imparata soprattutto dalla destra. D'accordo, dice, le «politiche liberali, fondate sulla concorrenza e sul merito, giovano agli obiettivi sociali delle sinistre, come è acquisito da tempo in Europa. Ma perché rinunciare ad aspettarci in primo luogo dalle forze di centrodestra un forte e radicale impulso verso quelle riforme?»

Com'è evidente ai più - anche se i nostri politici, di destra e di sinistra, sembrano non averlo ancora compreso - «l'ottima opera economico-sociale di Blair, di Clinton, di Zapatero non sarebbe stata possibile se prima di loro Thatcher, Reagan, Aznar non avessero smantellato il dominio delle corporazioni sull'economia, dando spazio al mercato, allo sforzo individuale, al merito». È esattamente ciò che Sarkozy si propone di fare, «pur nel più statalista dei grandi Paesi occidentali».

E qui si tocca il nervo scoperto della grande incompiutezza della vicenda politica di Berlusconi, che «ha avuto il merito di creare in Italia una grande forza alternativa», ma la grave responsabilità di non averla usata «per imprimere una svolta verso un liberismo disciplinato e rigoroso. Ha combattuto con accanimento gli spettri comunisti del passato, più che gli interessi corporativi del presente».

La domanda a cui Berlusconi, con il nuovo partito di cui ha annunciato la nascita, dovrà al più presto rispondere è: «Sarà proprio l'Italia l'unico Paese capace di riformarsi a fondo solo grazie alla palingenesi, apprezzabile ma faticosa, delle forze di centrosinistra, che per decenni si erano impegnate con successo contro l'economia di mercato? Perché il centrodestra, oggi in ebollizione, non potrebbe trovare questa missione, che darebbe a esso dignità storica?»

Ancora una volta la malasorte di un paese bloccato mette Berlusconi di fronte alle aspettative che ha già più volte disatteso e deluso: l'unica missione che darebbe al centrodestra «dignità storica» in questo paese è la "rivoluzione liberale". Berlusconi sarà ricordato per molte cose di questi 13 anni - come innovatore della politica italiana, e protagonista di diverse stagioni - ma se non sarà demiurgo di un centrodestra capace di fare propria questa missione temo che il bilancio finale non potrà che risultare in passivo.

2 comments:

Lucius de Geer said...

Analisi perfetta...Berlusconi non a caso è la prova provata di quanto le democrazie occidentali ( usa esclusi) non si potranno mai riformare da sole...il Cav è la prova vivente del populismo improduttivo.

Anonymous said...

Beh, a voler proprio illudersi e a voler proprio essere ottimisti più che realisti, si potrebbe dire che un passo nella direzione giusta l'ha già compiuto mollando i piccoli furbetti postdemocristiani dell'Udc e gli statalisti ministerialisti di An.
Poi bisogna sperare che idee come quelle del socialista Prof.Brunetta, che parla apertamente del PPL come della summa del migliore vecchio pentapartito e della spinta propulsiva del primo centrosinistra contro il tetro cattocomunismo trasformista, si realizzino.
In sintesi: noi speriamo che ce la caviamo... stavolta.