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Friday, January 30, 2009

La crisi italiana ha un solo nome: stato

Non ne parlo da parecchio tempo perché davvero non so più come ripeterlo. Eppure, ci ripenso ogni volta che sento parlare Tremonti. L'Italia è in crisi da un decennio. La crisi finanziaria si aggiunge ad una crisi solo nostra, prolungata e costante, dovuta a fattori esclusivamente interni al nostro paese. Soffriamo certamente gli effetti della crisi mondiale, ma sotto di essa c'è un altra crisi, tutta nostra. Se abbiamo l'impressione di risentirne relativamente meno di altri paesi è perché noi eravamo già in crisi da molto tempo prima dello scorso settembre. E se la crisi che ci è piovuta in testa ha molti nomi e molti colpevoli, quella che scorre al nostro interno ha un solo nome e un solo colpevole: lo stato.

Per questo il governo può fare molto per risolvere almeno questa seconda crisi e non deve commettere l'errore di nascondersi dietro l'alibi della crisi globale, come se non potesse fare altro che sedersi e aspettare che la tempesta passi.

Se non si comprende questo - e il governo sembra non comprenderlo - quando l'economia mondiale ricomincerà a girare, l'Italia rimarrà al palo, ripartendo dal suo zero virgola del 2008. Invece, approfittando del fatto che in questo momento l'opinione pubblica si aspetta che i governi agiscano, si potrebbero avviare le riforme strutturali di cui l'Italia ha disperato bisogno. Solo così le nostre vele potrebbero gonfiarsi quando il vento della ripresa mondiale comincerà a spirare.

Certo, se avessimo avuto un governo di sinistra, di questa sinistra, si sarebbe già dato alle spese pazze con i soldi che non abbiamo, soffocando sotto ancora più tasse la nostra economia e mettendo a rischio l'unico bene di cui, in questo momento di crisi, non possiamo permetterci di privarci: la stabilità finanziaria.

Basta umiliazioni sul caso Battisti

E' indubbio che la vicenda Battisti sia vergognosa. E la rubrica di Capuozzo, Terra!, ieri sera su Canale5, ha rivelato particolari interessanti, non ancora emersi su giornali e tv, sui motivi che stanno dietro al rifiuto all'estradizione da parte delle autorità brasiliane. E' la contiguità ideologica con il governo Lula che ha permesso a Battisti di farla franca. E franche sono state le mani che lo hanno aiutato a lasciare l'Europa, con un passaporto falso gentilmente fornito dai servizi segreti francesi. Il caso Battisti era diventato per Parigi una spinosa questione d'onore. Non consegnarlo all'Italia sarebbe stato uno sgarbo troppo pesante; consegnarlo avrebbe significato ammettere di aver protetto per anni un assassino. Quindi, se ne sono lavati le mani lasciandolo fuggire. L'onore della patria è salvo, almeno nella concezione che ne hanno i francesi.

Riguardo il Brasile, considerando i precedenti si può dire che sia diventato una sorta di lussuosa casa di riposo per terroristi in pensione. Come l'Argentina per i nazisti. Certo, è una vergogna. Dei francesi non ci si può mai fidare e Lula nel suo governo ha ministri degni di Chavez.

Ma il governo italiano sta umiliando se stesso con l'infinita questua per riavere Battisti. Non è così che dovrebbe agire uno stato democratico che non voglia perdere la faccia di fronte ai suoi cittadini e che ci tenga davvero a fare giustizia delle vittime del terrorismo. A questo punto, constatata la malafede dei francesi e dei brasiliani nella vicenda, il governo dovrebbe far calare il silenzio su Battisti. Sperando nel caso. Ogni giorno migliaia di persone muoiono in incidenti stradali. Per quanto riguarda Francia e Brasile, non mancheranno occasioni per ripagarle con la stessa moneta.

Wednesday, January 28, 2009

Scuse che non chiudono il caso

Su Il Foglio di oggi:

Al direttore - Il Pontificato di Ratzinger è stato costellato di incidenti con il mondo ebraico e si è posto in totale continuità con la tradizionale posizione di ostilità della Chiesa nei confronti dello stato di Israele. E' sempre più difficile credere a «potenti gaffe curiali», all'«incompetenza di chi consiglia il Papa», a meno che non si ritenga il Papa non in grado di governare la sua Curia. Non si tratta di una scelta dottrinaria (il perdono dei lefebvriani), né delle opinioni personali di un fedele confuso, ma dell'ideologia negazionista di un vescovo. Non c'entra il suo essere lefebvriano. Sarebbe ugualmente grave se non lo fosse. Paragonando Gaza a un «campo di concentramento», il cardinale Martino ha allo stesso tempo banalizzato l'Olocausto, declassando la politica di sterminio nazista quasi al livello dell'effetto collaterale di un conflitto, e negato a Israele il diritto di difendersi. Come ha spiegato Battista, il negazionismo «non è un'opinione personale», una «disputa storiografica», ma l'ingrediente di un'ideologia ancora viva e minacciosa, in Medio Oriente ma anche, cosa ancor più grave, di nuovo in Europa. Se oggi, con la tolleranza del Papa, un vescovo cattolico e il presidente iraniano Ahmadinejad possono essere accomunati per il loro negazionismo, forse è ora di chiedersi se la Chiesa voglia assumere «una sua posizione politica di validità generale, se non universale... sui conflitti di civiltà a sfondo religioso che dilaniano il mondo». La difesa della civiltà occidentale (e dei suoi frutti, liberalismo compreso), che si fonda sulle radici giudaico-cristiane, implica un'alleanza solida con la parte giudaica di quelle radici. Per questo «con Israele e con gli ebrei la questione non si può risolvere sul filo delle acrobazie», come Lei stesso scriveva non molto tempo fa.

Ieri è venuto fuori che quel vescovo è un disgraziato di cui la stessa fraternità san Pio X si vergogna, chiedendo scusa al Papa. Mi fa piacere, anche per chi aveva tratto conclusioni affrettate.
Giuliano Ferrara

Ringrazio il direttore per la risposta, ma il «povero disgraziato» rimane pur sempre un vescovo e le scuse dei lefebvriani (al Papa, non agli ebrei), com'era prevedibile, non chiudono il caso. Anche perché i lefebvriani si limitano a riconoscere «l'inopportunità» delle tesi di Williamson e il Papa, che non perde occasione per pronunciarsi su tutto lo scibile, non ha comunque avvertito l'esigenza di pronunciarsi di persona, pur essendo il «povero disgraziato» - fino a prova contraria, visto la revoca della scomunica - comunque un suo vescovo.

UPDATE 11:00
A dimostrazione del fatto che il caso non è chiuso, il rabbinato d'Israele ha rotto indefinitamente i rapporti ufficiali con il Vaticano in seguito alla revoca della scomunica del vescovo negazionista, riferisce il Jerusalem Post. Cancellato un incontro in programma a Roma il 2-4 marzo con la Commissione della Santa Sede per i rapporti con gli ebrei. In una lettera indirizzata al presidente della Commissione, il cardinale Walter Casper, il direttore generale del rabbinato Oded Weiner scrive che «senza scuse pubbliche e una ritrattazione, sarà difficile continuare il dialogo».

Il rabbino David Rosen, direttore dell'American Jewish Committee's Department for Interreligious Affairs, spiega che il rabbinato si aspetta che intervenga personalmente il Papa, e che assuma iniziative «concrete» contro il vescovo Williamson.
«I don't think it is my place to tell the Church precisely what to do. But Williamson should be censured in some way or forced to retract his statements. Until that happens, we may be in contact with the Vatican on an individual level, but there will be no official meetings».
Il problema è proprio questo: sarà certamente un «povero disgraziato», ma Williamson è un vescovo a pieno titolo, grazie alla decisione di Ratzinger di revocare la scomunica nei suoi confronti. Al Papa non rimane che revocare la revoca.

Tuesday, January 27, 2009

Meglio quattro pecorelle nere che il popolo ebraico?

Ratzinger preferisce quattro pecorelle nere all'intero popolo ebraico. Recuperare quelle pecorelle smarrite - davvero poche, quasi insignificanti - del proprio pascolo, anche se ciò dovesse provocare anni, forse decenni, di incomprensioni e diffidenze tra mondo cattolico e mondo ebraico. E lo fa nel momento peggiore che potesse scegliere, alla vigilia della Giornata della Memoria. Mentre una delle pecorelle ripaga la misericordia del Pontefice manifestando tutto il loro odio negazionista («neppure un ebreo è stato ucciso nelle camere a gas»).

Ma a questo punto, se fino ad oggi il Pontificato di Ratzinger è stato costellato di incidenti con il mondo ebraico, e se finora si è posto in totale linea di continuità con la tradizionale posizione di ostilità della Chiesa nei confronti dello stato di Israele (come abbiamo visto con la pericolosa e ambigua equidistanza rispetto ai due contendenti nell'ultima guerra a Gaza), è lecito sospettare che non sia un caso. Quando il cardinale Martino ha paragonato Gaza a un «campo di concentramento» ha allo stesso tempo banalizzato l'Olocausto, declassando la politica di sterminio nazista quasi a livello degli effetti collaterali di un conflitto, e negato a Israele il diritto di difendersi, cioè di esistere. In breve, sono suonate negazioniste e nazistoidi anche le parole di Martino.

C'è, evidentemente, come minimo, a voler pensare in positivo, insensibilità, disinteresse a coltivare buoni rapporti con i «fratelli maggiori» e a migliorarli. Certo, la Cei e l'Osservatore Romano si dissociano dalle parole del vescovo lefebvriano, le condannano, ma resta un fatto: la Chiesa tollera qualcosa di intollerabile. E il Papa, per ora, non ha neanche ritenuto opportuno di intervenire di persona e pubblicamente per richiamare il vescovo.

Ma non si tratta di entrare nel merito di scelte dottrinarie, come il "perdono" dei lefebvriani, anche se non si possono prendere alla leggera le loro tendenze antisemite. Il problema è che non si tratta delle opinioni personali di un fedele confuso, ma dell'ideologia negazionista di un vescovo, un esponente tra i più alti in grado nella gerarchia ecclesiastica. E non c'entra il suo essere lefebvriano. Sarebbe stato ugualmente grave se non lo fosse stato. Il Papa deve decidere se un antisemita può essere vescovo; se, cioè, l'antisemitismo non solo abbia diritto di cittadinanza nella Chiesa, ma sia rappresentato ai suoi vertici massimi. Di questo si tratta.

Come ha in modo perfetto e lampante spiegato Pierluigi Battista, oggi sul Corriere, il negazionismo sulla Shoah «non è un'opinione personale», una «disputa storiografica» legata a una «controversa pagina della storia». Il negazionismo è uno tra gli elementi principali di un'ideologia purtroppo ancora esistente e minacciosa, soprattutto in Medio Oriente ma, cosa ancor più grave, anche, di nuovo, in Europa.
«Ricollocato e rivitalizzato negli schemi di una jihad globale che vuole ripulire il mondo dall'impurità ebraica, il negazionismo vecchio stampo riacquista un significato e un'eco sconosciuti nell'infetto recinto neonazista in cui era confinato».
Da questa triste storia dovrebbero trarre qualche conseguenza coloro che - in compagnia di Giuliano Ferrara - si sono illusi che la Chiesa cattolica intendesse prendere «una sua posizione politica di validità generale, se non universale... sui conflitti di civiltà a sfondo religioso che dilaniano il mondo». E la prendesse schierandosi a difesa della democrazia contro la tirannia fondamentalista, in nome di una civiltà occidentale dalle radici giudaico-cristiane. «Con Israele e con gli ebrei la questione non si può risolvere sul filo delle acrobazie, nemmeno di quelle pie concepite per il bene della causa superiore», scriveva non molto tempo fa lo stesso Ferrara.

Caro direttore, si può ancora spiegare questa incredibile serie di incidenti con «potenti gaffe curiali», con «l'incompetenza di chi consiglia il Papa»? Chi sta davvero distruggendo «la connessione tra ellenismo, giudaismo e cristianesimo», o quanto meno se ne sta rendendo complice per miopia politica e dottrinaria?

Se oggi, con la tolleranza del Papa, un vescovo cattolico e il presidente iraniano Ahmadinejad possono essere accomunati per il loro negazionismo, forse è ora che Ferrara riveda la sua lettura degli ultimi anni (o per lo meno eserciti il dubbio su di essa) di una Chiesa baluardo della civiltà occidentale, aperta e democratica, che si fonda sulle radici giudaico-cristiane. Della parte giudaica di quelle radici la Santa Sede sembra fottersene. Come scrivevo qualche giorno fa, la decisione non è stata ancora presa. La Chiesa cattolica non ha ancora deciso quale nemico combattere: se schierarsi in difesa della civiltà occidentale e di ciò che rappresenta (liberalismo e relativismo compresi) - il che implica stringere un'alleanza solida con la parte giudaica delle sue radici - e contro il fondamentalismo islamico e le sue tirannie; o se invece trovare forme di convivenza non conflittuali con quel fondamentalismo per combattere il liberalismo come degenerazione (e non prodotto) della nostra civiltà. Alcuni segnali fanno purtroppo temere che possa essere presa la decisione peggiore.

Monday, January 26, 2009

Primi passi di Obama, in attesa di una sua "dottrina"

Con i suoi primi ordini esecutivi Barack Obama ha mantenuto le sue promesse elettorali. Il nuovo presidente ha deciso di chiudere entro un anno il carcere di Guantanamo e le prigioni segrete della Cia; ha sospeso i processi in corso dinanzi alle corti militari istituite da Bush; e ha vietato i metodi di interrogatorio non espressamente autorizzati nei manuali del Pentagono. Tuttavia, ha anche deciso di formare due "task force" che in sostanza, nei prossimi sei mesi, dovranno valutare se e quali eccezioni tollerare per esigenze di sicurezza nazionale.

Una mossa abile, perché da una parte Obama lancia un segnale di rottura rispetto a Bush; dall'altra, si tiene comunque aperte tutte (o quasi) le opzioni, in attesa di elaborare una sua dottrina antiterrorismo, una volta acquisiti tutti gli elementi di conoscenza necessari. Se dall'Unione europea giunge la disponibilità a collaborare, anche se non c'è accordo sul trattamento da riservare ai terroristi che verrebbero trasferiti nel Vecchio Continente, il New York Times riferisce che decine degli oltre 500 detenuti di Guantanamo rimessi in libertà da Bush sono già tornati a combattere.

Interpretati come un definitivo cambio di rotta rispetto alla normativa e alla strategia antiterrorismo della precedente amministrazione, e salutati con entusiasmo dagli attivisti per i diritti umani e dai più critici della presidenza Bush, in realtà i provvedimenti di Obama – spiega in una lunga analisi Benjamin Wittes, del think tank clintoniano Brookings Institution – sono molto diversi nelle loro conseguenze.

L'ordine di chiusura di Guantanamo è molto meno significativo di quanto si creda. Non risolve nessuno dei nodi giuridici riguardanti la detenzione dei terroristi. Semplicemente si limita ad avviare un processo che durerà un anno e si concluderà con la chiusura della prigione sull'isola di Cuba. Ma non stabilisce cosa accadrà ai 242 detenuti ancora nella struttura.

L'ordine è «attento a tenere aperte tutte le opzioni per ciascun detenuto», spiega Wittes: «Non prevede il trasferimento o il rilascio di alcuno. Né che i detenuti vengano proccessati. Né preclude l'eventuale utilizzo di corti militari, o di qualche altra sede di giudizio alternativa. E, soprattutto, non preclude il proseguimento della detenzione di certi – forse molti – detenuti». Una sola cosa è chiara (che era stata promessa anche dal concorrente di Obama per la presidenza, John McCain): la chiusura del campo di prigionia a Guantanamo. Ma le detenzioni potrebbero continuare.

Ogni detenuto – si legge nell'ordine – «dovrà essere reimpatriato, rilasciato, trasferito in un paese terzo, o in un'altro centro di detenzione degli Stati Uniti in modo conforme alle leggi, alle esigenze di sicurezza nazionale e agli interessi degli Stati Uniti». Da ciò emerge chiaramente che il reimpatrio, il trasferimento a un paese terzo, il rilascio, o il processo non sono le uniche opzioni, perché si riconosce che in alcuni casi potrebbero non essere compatibili con le esigenze di sicurezza nazionale. Se le detenzioni continueranno – e in che in forma – dipenderà dalle valutazioni di una task force che in sei mesi dovrà rivedere la posizione di ciascun detenuto. Per quei detenuti per i quali non si potrà provvedere al processo, al rilascio, o al trasferimento, la task force «dovrà individuare mezzi legali, conformi alle esigenze di sicurezza nazionale e agli interessi degli Stati Uniti».

Ciò significa che alcuni o molti dei 242 detenuti potrebbero rimanere sotto la custodia americana, senza processo, anche dopo la chiusura di Guantanamo, forse in nuovi centri di detenzione su territorio americano. In questo caso la politica di Obama si differenzierebbe da quella di Bush solo per il luogo fisico della detenzione. Ma è anche possibile che Obama chieda l'appoggio del Congresso per protrarre la detenzione in presenza di talune particolari circostanze. Insomma, «l'ordine non decide nulla che non fosse già stato deciso molto tempo fa. Semplicemente dà avvio al processo di chiusura di Guantanamo, ma cautamente tiene tutte le opzioni sul tavolo e dà alla nuova amministrazione ampio margine di manovra», conclude Wittes.

Al contrario, l'ordine presidenziale sui centri di detenzione e i metodi di interrogatorio della CIA fa molto di più. Revoca gran parte dell'architettura legale messa in piedi da Bush, vietando alla Cia metodi di interrogatorio non espressamente autorizzati dal Manuale di battaglia delle Forze armate e ordinando all'agenzia di «chiudere il più velocemente possibile ogni centro di detenzione attualmente operativo». La CIA dovrà attenersi ad un insieme specifico di tecniche di interrogatorio approvate, alle quali le forze armate sono già tenute per legge. «Non solo, quindi, l'ordine toglie alla CIA la possibilità di condurre interrogatori con metodi altamente coercitivi», vicini alla tortura, ma «vieta anche di usare tecniche che, pur essendo indubitabilmente legali, non siano previste dal Manuale dell'esercito». Tuttavia, se l'ordine di Obama è «inflessibile» nella sua opposizione ai metodi coercitivi di interrogatorio, accenna alla possibilità che la CIA abbia bisogno di ricorrere a tecniche a cui le Forze armate non sono autorizzate. Anche in questo caso, sarà una «task force» speciale a definire le eccezioni.

Biglietto da visita

Quella promessa da Obama è un'America pronta a «tendere la mano» anche ai propri nemici, a patto che siano disposti a «sciogliere il pugno». Ma intanto, per non sbagliare, per non fargli venire la tentazione di fare i furbi, Obama porge il suo biglietto da visita ai terroristi e al mondo intero.

Nuova era, vecchi principi e un futuro post-razziale

E' interessante vedere come alcuni conservatori hanno accolto le prime parole di Obama. Davvero una «nuova Era?», si è chiesto sul Weekly Standard Fred Barnes, secondo cui quello d'insediamento «non è stato il miglior discorso che Obama abbia mai pronunciato». E come discorso inaugurale, «non sarà menzionato tra quelli del presidente Lincoln, o di Franklin Roosevelt, di Kennedy o di Reagan». Mentre annunciava una «nuova era» in America e nel mondo, Obama ricorreva a principi e valori del passato, sia in economia che in politica estera.

Barnes ha ammesso di essersi sentito «abbastanza tranquillizzato, sebbene forse solo momentaneamente», dalle parole di Obama sul libero mercato, che indicano che il nuovo presidente ne comprende l'importanza. Così come, osserva, sulla guerra al terrorismo «ha pronunciato le parole che qualsiasi presidente entrante avrebbe usato». E' stato «churchilliano» - «anzi, ad essere onesti, un finto churchilliano».

Poi Barnes ha osservato che «come molti politici, anche Obama è innamorato della parola "nuovo"». Ma davvero ci aspetta una "nuova era"? In realtà, il modo in cui ha descritto questa epoca alle porte è sembrato «piuttosto vecchio». Fare appello ad una «nuova era di responsabilità», secondo Barnes colloca Obama «tra i tradizionalisti, non tra i progressisti». D'altra parte, tra le cose cruciali nella nuova era Obama ha messo «duro lavoro e onestà, coraggio e fair play, tolleranza e curiosità, lealtà e patriottismo». Tutte cose, come ha ammesso lo stesso Obama, «vecchie ma vere». Questa la contraddizione notata da Fred Barnes tra «nuova era» e valori vecchi. Insomma, conclude, «da un punto di vista conservatore, il discorso di Obama sarebbe potuto essere molto peggiore».

Interessante, come ha segnalato 1972, il punto di vista di Charles Krauthammer, che ha messo in evidenza un'altra particolarità del discorso inaugurale di Obama. Discorso certo «affascinante», ma sorprendentemente «contenuto», «piatto dal punto di vista retorico, privo di ritmo e cadenza». E c'è da credere che sia stata una scelta consapevole. «Meglio non stupire nel giorno dell'insediamento. Altrimenti, si aspetteranno magie per tutto il resto del mandato», deve aver calcolato Obama.

Originale la lettura che Krauthammer dà del nuovo presidente, uno che «dà ciò che deve dare per perseguire i suoi obiettivi, i suoi programmi, le sue ambizioni. Ma non di più. Non ne ha bisogno». Ne è uscito fuori un discorso inaugurale che «mancava di lirismo. Nessuna traiettoria narrativa... nessuna idea centrale, come fu la libertà universale per Bush». Krauthammer si spiega questa «mediocrità» inaugurale con il fatto che avendo «promesso la luna» da candidato, ora Obama cerca di «abbassare le aspettative» e raffreddare quel senso di attesa quasi messianica che farebbe tremare i polsi anche a uno come George Washington.

Avendo descritto «un mondo devastato da Bush, un mondo che da presidente avrebbe redento», ora che è presidente «il redentore Obama si trattiene, il tono è nuovamente sobrio, persino cupo e austero. Il mondo è ancora tra le rovine bushiane, segnato da "paura... conflitto... discordia... meschine lamentele e false promesse... recriminazioni e logori dogmi". Ma non c'è più la prospettiva di una magica restaurazione. Obama non ha offerto solo sangue, sudore e lacrime, ma anche responsabilità, lavoro, sacrificio e spirito di servizio... Da qui il suo monito a non contare "sull'abilità o sulla visione di coloro che occupano gli alti uffici", ma su "Noi stessi, il Popolo"».

Ma a Krauthammer Obama è piaciuto per come ha affrontato il tema della razza, «persino più trattenuto, e in modo ammirevole». Perché «ha capito che la sua sola presenza era già sufficiente per rimarcare la storicità del momento. Le parole sarebbero state superflue. Collegando se stesso a Washington piuttosto che a Lincoln, Obama ha legittimato l'intero corso della storia americana, senza annotazioni o riserve mentali. Se mai avremo un futuro post-razziale, questo momento segnerà il suo inizio. Un uomo complicato, questo nuovo presidente. Opaco, contradditorio, e sottile. E siamo solo al primo giorno», conclude Krauthammer.

Thursday, January 22, 2009

Vittime e strumenti della propaganda nazista di Hamas

Vittime loro malgrado della propaganda nazista di Hamas sono stati i civili innocenti di Gaza. Strumenti, più o meno consapevoli, ne sono stati le agenzie dell'Onu, UNWRA in testa (quella per i rifugiati palestinesi, i cui portavoce ormai non si distinguono più da quelli di Hamas), le ong per i diritti umani e la stampa internazionale.
«I più coraggiosi si erano organizzati e avevano sbarrato le porte di accesso ai loro cortili, inchiodato assi a quelle dei palazzi, bloccato in fretta e furia le scale per i tetti più alti. Ma per lo più la guerriglia non dava ascolto a nessuno. "Traditori. Collaborazionisti di Israele. Spie di Fatah, codardi. I soldati della guerra santa vi puniranno. E in ogni caso morirete tutti, come noi. Combattendo gli ebrei sionisti siamo tutti destinati al paradiso, non siete contenti di morire assieme?". E così, urlando furiosi, abbattevano porte e finestre, si nascondevano ai piani alti, negli orti, usavano le ambulanze, si barricavano vicino a ospedali, scuole, edifici dell'Onu. In casi estremi sparavano contro chi cercava di bloccare loro la strada per salvare le proprie famiglie, oppure picchiavano selvaggiamente».
Per chi l'ha sempre saputo non fa un grande effetto il bel reportage di Lorenzo Cremonesi, oggi sul Corriere della Sera, che si è preso la briga di andare a verificare le cifre diffuse da Hamas e ha raccolto le tragiche testimonianze degli abitanti della Striscia di Gaza sulla loro lotta per non farsi usare come "scudi umani" dai miliziani di Hamas.
«Volevano che sparassero sulle nostre case per accusarli poi di crimini di guerra».

«Praticamente tutti i palazzi più alti di Gaza che sono stato colpiti dalle bombe israeliane, come lo Dogmoush, Andalous, Jawarah, Siussi e tanti altri avevano sul tetto le rampe lanciarazzi, oppure punti di osservazione di Hamas. Li avevano messi anche vicino al grande deposito Onu poi andato in fiamme. E lo stesso vale per i villaggi lungo la linea di frontiera poi più devastati dalla furia folle e punitiva dei sionisti».

«Gli uomini di Hamas si erano rifugiati soprattutto nel palazzo che ospita gli uffici amministrativi dello Al Quds. Usavano le ambulanze e avevano costretto ambulanzieri e infermieri a togliersi le uniformi con i simboli dei paramedici, così potevano confondersi meglio e sfuggire ai cecchini israeliani».
«E' stato difficile raccogliere queste testimonianze», scrive il giornalista del Corriere: «Chi racconta una versione diversa dalla narrativa imposta dalla "muhamawa" (la resistenza) è automaticamente un "amil", un collaborazionista e rischia la vita». Ma i pochi che parlano «forniscono dettagli ben circostanziati».

«Un altro dato che sta emergendo sempre più evidente visitando cliniche, ospedali e le famiglie delle vittime del fuoco israeliano», è che in realtà i morti potrebbero essere molti meno dei 1.300 denunciati dagli uomini di Hamas e dai funzionari dell'Onu e della Croce Rossa locale. E' «sufficiente visitare qualche ospedale per capire che i conti non tornano - aggiunge Cremonesi - molti letti sono liberi». Potrebbe venir fuori un altro scandalo come nel 2002 a Jenin. «I morti potrebbero essere non più di 500 o 600. Per lo più ragazzi tra i 17 e 23 anni reclutati tra le fila di Hamas che li ha mandati letteralmente al massacro», dice un medico dell'ospedale Shifah.

Un dato confermato anche dai giornalisti locali: «Lo abbiamo già segnalato ai capi di Hamas. Perché insistono nel gonfiare le cifre delle vittime? Strano tra l'altro che le organizzazioni non governative, anche occidentali, le riportino senza verifica. Alla fine la verità potrebbe venire a galla. E potrebbe essere come a Jenin nel 2002. Inizialmente si parlò di 1.500 morti. Poi venne fuori che erano solo 54, di cui almeno 45 guerriglieri caduti combattendo».

Infine, sfatiamo un altro luogo comune che abbiamo sentito ripetere durante la guerra. Non è vero che i giornalisti non potevano andare a Gaza. Non potevano andarci scortati dalla truppe israeliane e attraverso i confini israeliani, ma perché i pigroni non se la sono sentita di farsi invitare da Hamas?

Quel brutto viziaccio dei nostri giornalisti

Sottoscriviamo totalmente questo commento di Aldo Grasso sulla cattiva e fastidiosissima abitudine dei giornalisti televisivi italiani a sovrapporre i loro commenti all'audio di un evento che sta andando in onda in diretta. Per chiosare, riassumere, o commentare ciò che i telespettatori, non essendo imbecilli, possono capire da sé. Il critico televisivo del Corriere ha notato che durante la cerimonia di giuramento di Barack Obama su tutte le tv che hanno coperto l'evento (tranne Skytg24), giornalisti e commentatori intervenivano continuamente. Per fortuna non proprio sul pledge e sul discorso d'insediamento, ma ogni tanto zac - che stesse pregando il reverendo tal dei tali, o giurando il vicepresidente Biden, o cantando Aretha Franklin (mica pizza e fichi!) - ecco la voce molesta. Vogliamo godere dell'evento in sé integralmente. Lo volete capire o no?! I commenti, per favore, dopo. Se proprio vi scappano...

E' degli interpreti che bisogna diffidare

La legge di Dio prevale su quella dell'uomo e quindi i medici cattolici che si trovassero a lavorare in un ospedale dove si intende interrompere l'alimentazione artificiale di una persona, dovrebbero obiettare e rifiutarsi di farlo. Ammirevole la schiettezza "eversiva" del cardinale Severino Poletto, intervistato ieri da la Repubblica sul caso Englaro. Si può anche concedere che la legge di Dio sia superiore a quella dell'uomo, ma è dei suoi interpreti che bisognerebbe diffidare.

E' curioso che autorevoli esponenti della Chiesa cattolica si siano ormai abituati ad usare l'espressione "legge di Dio" nell'accezione di una sorta di codice civile che regola tutti gli aspetti della vita terrena. Ma è proprio questo che la legge del Dio dei cristiani non è, ed è ciò che la distingue, per fortuna, dalla legge del Dio dei musulmani.

Sull'obiezione di coscienza, nulla da obiettare, ma chi la pratica deve poi essere disposto a pagarne le conseguenze. L'obiezione di coscienza, infatti, è l'ultima arma a disposizione dell'uomo libero per difendersi da un potere politico. E' quindi intimamente legata a quel diritto alla resistenza contro lo stato riconosciuto dalle teorie liberali. Ma decidendo di esercitare il diritto alla resistenza l'individuo denuncia il "contratto di sottomissione" con il quale ha delegato alcuni suoi diritti al potere politico (per esempio, il diritto all'uso della forza) e se ne assume pienamente la responsabilità.

Il diritto alla resistenza, di cui l'obiezione di coscienza non è che un'espressione, esercitabile in qualsiasi momento, pone in essere un conflitto radicale, una frattura incomponibile, tra l'individuo e il potere politico, ma non è di per sé sinonimo di lotta di libertà. Si può "resistere" a uno stato oppressore, ma anche a un potere democratico nelle cui leggi non ci si riconosce. E non è la stessa cosa.

Il paragone suggerito dal cardinale Poletto con l'obiezione di coscienza alla leva obbligatoria non regge. Il medico che non accetta di praticare i protocolli di una struttura pubblica può sempre darsi alla libera professione, mentre chi rifiutava di svolgere il servizio di leva rischiava l'arresto. Per altro, anche il rifiutarsi di usare le armi, anche se per difesa, pone dei problemi nel rapporto tra l'obiettore di coscienza e la comunità in cui vive.

Wednesday, January 21, 2009

Sono di nuovo tutti "americani", ma durerà poco anche stavolta

Eccomi di nuovo qui, dopo questa pausa lunga un sospiro.

Nel frattempo Barack H. Obama ha giurato come 44esimo presidente degli Stati Uniti. Dopo la nottata elettorale, un altro momento storico, di vibranti emozioni. Ancora una volta l'America si dimostra quel posto dove i sogni possono diventare realtà. Così è stato per i nove "ragazzi di Little Rock", invitati alla cerimonia. Ecco, l'America è un paese dove nell'arco di una vita si può essere testimoni di un progresso economico e civile senza eguali; dove prima di morire si possono ammirare i frutti di ciò che si è seminato 50 anni prima, come hanno potuto ammirarli ieri quei primi studenti di colore.

Tutto il mondo si è fermato per il giuramento di Obama, un presidente che ha suscitato nella sua gente, negli altri popoli e leader della terra, delle attese quasi messianiche. Mi è sembrato di rivivere quel particolare momento, immediatamente dopo gli attacchi dell'11 settembre, in cui tutto il mondo o quasi, di sicuro tutto l'Occidente, si sentiva "americano". Ma non facciamoci illusioni, anche questa volta durerà poco. Esattamente come nei mesi che seguirono l'11 settembre, anche questa unità di sentimenti favorevoli che grazie a Obama circondano oggi l'America si rivelerà purtroppo effimera e le scelte di politica estera della nuova amministrazione non tarderanno a suscitare divisioni e ostilità, anche all'interno del mondo occidentale.

Il discorso inaugurale di Obama non è stato uno dei suoi migliori, né uno dei migliori discorsi inaugurali.

In questo difficile momento di crisi, economica e internazionale, Obama ha innanzitutto voluto lanciare agli americani un messaggio di speranza. Il suo sforzo per risvegliare in loro la fiducia nei propri mezzi ricorre ovunque nel discorso. Più di qualsiasi presidente, a poter riaffermare «la grandezza dell'America» sono il sacrificio, il duro lavoro, la responsabilità, il senso del dovere, la fede di uomini e donne comuni in valori e principi che trascendono loro stessi. Siamo noi cittadini tutti insieme, ha voluto dire Obama, che possiamo farcela, vincere le sfide presenti, non un uomo solo al comando.

«America has carried on not simply because of the skill or vision of those in high office, but because We the People have remained faithful to the ideals of our forbearers, and true to our founding documents».
Obama ha quindi richiamato i valori dei padri fondatori, sacrificio e libertà, citando le parole di George Washington in un momento decisivo della guerra d'indipendenza:
«Let it be told to the future world that in the depth of winter, when nothing but hope and virtue could survive, that the city and the country, alarmed at one common danger, came forth to meet it».
E ha chiesto agli americani di comportarsi allo stesso modo, in questi tempi difficili, così «che i figli dei nostri figli possano dire che quando fummo messi alla prova non ci tirammo indietro né inciampammo; e... portammo avanti quel grande dono della libertà, e lo consegnammo intatto alle generazioni future».
«The time has come to reaffirm our enduring spirit; to choose our better history; to carry forward that precious gift, that noble idea, passed on from generation to generation: the God-given promise that all are equal, all are free, and all deserve a chance to pursue their full measure of happiness».
Obama ha cercato quindi di esorcizzare la paura per un «declino» descritto come «inevitabile», non nascondendo che le sfide di oggi «sono reali, sono serie e sono molte». Non sarà facile e ci vorrà tempo, «ma sappi questo, America: saranno vinte». Ciò che serve è una «nuova era di responsabilità - un riconoscimento, da parte di ogni americano, che abbiamo doveri verso noi stessi, verso la nazione e il mondo, doveri che non accettiamo a malincuore ma anzi afferriamo con gioia, saldi nella consapevolezza che non c'è nulla di più soddisfacente per lo spirito, di più caratteristico della nostra anima, che dare tutto a un compito difficile. Questo è il prezzo e la promessa della cittadinanza».

In politica interna quello di Obama è stato un forte richiamo all'unità, a saper superare l'interesse personale o di fazione per il bene della nazione. In economia il suo approccio mi è sembrato meno condivisibile, e poiché eccessivamente fiducioso nelle capacità del governo, persino in contraddizione con l'appello allo spirito di sacrificio e al senso di responsabilità individuale di ciascun americano. Ma non si era detto che più delle «skill or vision of those in high office» contavano la fede nei valori costituzionali e il duro lavoro di ciascuno?

In politica estera Obama si è tenuto aperto entrambe le strade: quella del dialogo, con la quale partirà, e quella dell'uso della forza, sulla quale probabilmente finirà anche lui. Quella «tra la nostra sicurezza e i nostri ideali è una falsa scelta», ha premesso:
«Recall that earlier generations faced down fascism and communism not just with missiles and tanks, but with the sturdy alliances and enduring convictions. They understood that our power alone cannot protect us, nor does it entitle us to do as we please. Instead, they knew that our power grows through its prudent use. Our security emanates from the justness of our cause; the force of our example; the tempering qualities of humility and restraint».
Ha quindi ricordato che l'America è disposta ad essere amica di tutti, ma non di chi ricorre al terrore e alla violenza, chiarendo subito:
«We will not apologize for our way of life, nor will we waver in its defense, and for those who seek to advance their aims by inducing terror and slaughtering innocents, we say to you now that our spirit is stronger and cannot be broken; you cannot outlast us, and we will defeat you».
Si è rivolto al mondo islamico, ai nemici, ai tiranni e ai corrotti, promettendo che gli Stati Uniti «tenderanno una mano» se loro saranno disposti «a sciogliere il pugno»:
«To the Muslim world, we seek a new way forward, based on mutual interest and mutual respect. To those leaders around the globe who seek to sow conflict or blame their society's ills on the West, know that your people will judge you on what you can build, not what you destroy. To those who cling to power through corruption and deceit and the silencing of dissent, know that you are on the wrong side of history, but that we will extend a hand if you are willing to unclench your fist». E' forse quest'ultima l'unica frase di questo discorso inaugurale che rimarrà scolpita nel tempo.
In ogni caso auguri, presidente Obama.

Friday, January 16, 2009

La partita egiziana/1: E' ora che Mubarak si decida

Da giorni una tregua viene data per imminente. La realtà è che nessuno sa con esattezza quanto sia vicina, perché la sostanza di un accordo si nasconde nei dettagli. L'ipotesi su cui si sta lavorando si basa su 5 punti: cessate il fuoco e aiuti umanitari; completo ritiro israeliano entro la prima settimana; ripresa degli scambi commerciali da e per Gaza sotto la supervisione di osservatori di Egitto, Turchia e Paesi europei; riapertura del valico di Rafah (al confine con l'Egitto) sotto la supervisione delle forze di sicurezza dell'Anp e di osservatori internazionali, fino a quando non sarà stato formato un governo di unità palestinese; tregua in vigore un anno, rinnovabile.

Hamas punta alla fine del blocco, alla riapertura dei confini, come implicito riconoscimento del suo potere sulla Striscia di Gaza da parte dei Paesi arabi e, indirettamente, dell'Occidente. Riconoscimento che difficilmente questi concederanno. E' probabile che i valichi verranno riaperti, ma Hamas non ne avrà il controllo, dovrà accettare la presenza di forze multinazionali nella Striscia. Ciò significa nessuna legittimazione internazionale e un potere ridotto.

Walid Phares, della Foundation for the Defense of Democracies, propone che sia l'Onu, secondo il Capitolo 7 della sua Carta, ad assumere il controllo effettivo della Striscia, con il dispiegamento di una forza multinazionale, il disarmo di Hamas e delle altre milizie, per preparare il ritorno di una «riformata» Autorità palestinese. Una soluzione ideale ma irrealistica, anche se è fuor di dubbio che al centro delle trattative in corso al Cairo vi sia proprio una qualche forma di internazionalizzazione di Gaza e di presenza dell'Anp. Una soluzione diplomatica non potrà che scaturire all'interno di questo schema. Quanto più consistente sarà la presenza di forze internazionali e dell'Anp, e quanto più ampio sarà il loro mandato, tanto più netta sarà la sconfitta di Hamas.

L'offensiva israeliana ha restituito spazi di manovra ai Paesi arabi, soprattutto all'Egitto. Nel ruolo di mediazione del Cairo tutti, sia in Europa che in America, hanno riposto le proprie speranze. Ma ora bisognerà vedere come gli stati arabi, Egitto in testa, vorranno sfruttare questa nuova opportunità. La politica egiziana su Gaza infatti è stata particolarmente ambigua. Come ha ricordato Carlo Panella, su L'Occidentale, l'artefice di tutti gli accordi, il capo dell'intelligence Omar Suleiman, è anche responsabile del loro sistematico fallimento. Come è stato possibile che migliaia di militari egiziani non siano mai stati in grado di controllare un confine di soli 14 chilometri, non riuscendo ad impedire che attraverso i tunnel sotterranei Hamas ricevesse finanziamenti e armi (circa 20 mila razzi)?

Certo, qualcuno si sarà arricchito a suon di mazzette per chiudere un occhio sui tunnel. Ma ciò non esclude una strategia politica volutamente ambigua, esitante e di corto respiro, condivisa dal presidente Mubarak: da una parte, per impedire che il virus di Hamas contagiasse l'Egitto, è stata sigillata la frontiera a cielo aperto, rendendola impenetrabile; dall'altra, invece di strangolare Hamas, si è lasciato che continuasse a ricevere armi e denaro attraverso i tunnel sotterranei, in modo che Gaza potesse fungere da valvola di sfogo per l'estremismo islamista egiziano.

Una strategia miope, però, perché converge con quella iraniana volta a tenere alta la tensione a Gaza per radicalizzare la politica in tutto il Medio Oriente, e destabilizzare così i regimi arabi sunniti. E' ora quindi che Mubarak si decida. Grazie all'offensiva israeliana Hamas è alle corde ed è un'occasione unica per fargli ingoiare una tregua che getti le basi per il ritorno della Striscia di Gaza sotto il controllo dell'Anp, con l'aiuto di forze multinazionali, sottraendo così la questione palestinese dalla strumentalizzazione iraniana.

L'addio di Bush

Giovedì sera George W. Bush ha salutato per l'ultima volta la nazione che ha guidato per otto lunghissimi anni. Lo ha fatto con uno splendido discorso, uno dei tanti che gli abbiamo sentito pronunciare in questi otto anni. Ricordo come fosse ieri il dibattito televisivo tra lui e Gore, quando quel texano un po' rozzo e spavaldo, dall'inglese per me meno comprensibile di quello del suo avversario, non mi convinceva con il suo conservatorismo compassionevole e il suo isolazionismo. Allora eravamo un po' tutti affascinati dal clintonismo e dall'era internet che si stava spalancando.

Ci sarà modo e tempo per valutare la sua presidenza, ma intanto Bush esce dalla Casa Bianca avendo evitato che gli Stati Uniti subissero un secondo devastante attacco terroristico. Forse oggi sembra poca cosa, ma all'indomani dell'11 settembre in quanti ci avrebbero scommesso?

La sua presidenza, i suoi programmi di governo, il suo modo di pensare, di agire e di prendere decisioni, tutto da quel giorno non è stato più lo stesso. E dall'isolazionismo con cui si era presentato agli americani, ha abbracciato l'interventismo. Nel giorno del commiato ha ribadito con forza la convinzione su cui - pur con tutte le inevitabili contraddizioni, i successi e gli insuccessi - ha fondato la sua politica estera, il pilastro ideale della sua "dottrina": «Dobbiamo respingere l'isolazionismo e il suo compagno, il protezionismo. Ritirarci dietro i nostri confini sarebbe solo un modo per attirare il pericolo. Nel 21esimo secolo, la sicurezza e la prosperità a casa nostra dipendono dall'espansione della libertà al di fuori dei nostri confini. Se l'America non porta avanti la causa della libertà, quella causa non verrà portata avanti affatto».

E' la sola risposta giusta alla sfida del fascismo islamico. L'espansione della libertà e della democrazia non come aspirazione morale, ma come fattore di pace, sicurezza e prosperità disponibili per tutti. Il punto dove interessi e ideali convergono.

A scontrarsi sono «due sistemi profondamente diversi. Sotto il primo, una piccola banda di fanatici pretende obbedienza totale a una ideologia oppressiva, condanna le donne alla sottomissione e marca gli infedeli con l'assassinio. L'altro sistema è basato sulla convinzione che la libertà sia un dono universale di Dio Onnipotente, e che la libertà e la giustizia illuminino la via per la pace. Questo è il credo che ha dato origine alla nostra nazione. E nel lungo termine, portare avanti questo credo è l'unico modo efficace per proteggere i nostri cittadini. Quando le persone vivono in libertà, non scelgono leader che perseguono campagne di terrore».

Bush ha ammesso che se ne avesse avuta l'occasione, avrebbe fatto alcune cose diversamente, ma ha chiesto comprensione, per aver dovuto prendere decisioni difficili: «Potete non essere d'accordo con molte decisioni difficili che ho preso. Ma spero possiate essere d'accordo che sono stato disposto a prendere decisioni difficili».

Ha ricordato agli americani che «la più grave minaccia» rimane quella di «un altro attacco terroristico... Non dobbiamo mai abbassare la guardia». Perché «il bene e il male sono presenti nel mondo e tra i due non ci possono essere compromessi. Assassinare un innocente per portare avanti un'ideologia è ogni volta sbagliato, ovunque. Liberare persone dall'oppressione e dalla disperazione è giusto in eterno».

All'inizio del suo discorso, porgendo i suoi migliori auguri al prossimo presidente, Bush ha voluto sottolineare il valore della scelta compiuta dal popolo americano, indicando in Barack Obama «un uomo la cui storia rispecchia la perenne promessa della nostra patria».

Thursday, January 15, 2009

L'Italia sprofonda quasi tra i paesi "poco liberi"

Dall'inizio dell'anno nuovo mi sono occupato solo di Medio Oriente. Tanto dall'Italia, oltre ai soliti teatrini, giungono solo cattive notizie. Nel 2009 Pil in calo del 2%, calcola la Banca D'Italia. Ancora di più si contrae la produzione industriale, «uno dei peggiori risultati dal secondo dopoguerra». In grave difficoltà anche l'export.

«Torniamo al 2006, non mi sembra il Medioevo», sdrammatizza il ministro Tremonti, commentando questo -2%. Certo che non sarebbe un dramma, ma se non si trattasse di un paese che da circa dieci anni praticamente non cresce, o ha percentuali di crescita da prefisso telefonico, e non lo sarebbe per un paese che terminata la recessione sapesse ripartire di slancio. Purtroppo non è il nostro caso. E visto che la riduzione del Pil peggiorerà inevitabilmente anche il rapporto debito/Pil, forse sarebbe stata opportuna una politica più coraggiosa di tagli alle tasse e alla spesa.

Preoccupante anche il dato dell'Ocse, che ha assegnato all'Italia la "maglia nera" per la crescita economica nell'Eurozona negli anni dal 2003 al 2007. Italia penultima, davanti solo al Portogallo. In media la crescita del Pil è stata solo dell'1,1%, a fronte di una media del 2% nei paesi della zona euro.

Ma non finiscono qui le brutte notizie. L'Italia fa registrare un record negativo anche nell'Indice della libertà economica, pubblicato ogni anno dalla Heritage Foundation e dal Wall Street Journal, in collaborazione con un pool di think tank tra cui, per l'Italia, l'Istituto Bruno Leoni. L'Italia quest'anno è al 76esimo posto, ben 12 posizioni sotto il 64esimo posto conquistato l'anno scorso. In valore assoluto, il livello di libertà economica viene valutato al 61,4%, circa un punto percentuale in meno rispetto all'anno scorso, e sempre più pericolosamente vicino a quella soglia del 60% sotto la quale si passa dalla categoria dei paesi "moderatamente liberi" a quella dei paesi "poco liberi". Nei prossimi giorni lo leggeremo con maggiore attenzione.

Tuesday, January 13, 2009

Uso "sproporzionato" della forza

Non passa praticamente giorno senza che Hamas respinga tutte le mediazioni egiziane per arrivare a una tregua. Il risultato politico che Hamas vuole ottenere - a spese dei suoi «scudi», i civili - è il suo riconoscimento da parte dei Paesi arabi, e indirettamente dell'Occidente, come forza legittimamente al potere nella Striscia di Gaza. Un riconoscimento che diverrebbe implicito una volta che venisse accettata la principale richiesta di Hamas, motivo di rottura della tregua in vigore fino al dicembre scorso: l'apertura dei valichi di frontiera con l'Egitto in modo da potersi armare a suo piacimento come qualsiasi stato sovrano. Ciò significherebbe riconoscere che gli stati palestinesi con cui Israele dovrebbe trattare sono in realtà due. Insomma, Hamas vuole il suo stato terrorista. Un'assurdità.

Intanto, i combattimenti proseguono e il governo israeliano prende sempre più in considerazione l'obiettivo di annientare del tutto Hamas, nonostante le perdite tra i suoi e tra i civili che ciò comporterebbe. Ma è sospetta la solerzia di Agenzie dell'Onu già screditatissime e ong nel denunciare l'uso da parte di Israele di presunte armi «non convenzionali». Negli anni infatti mai una denuncia sulla "non convenzionalità" del lancio indiscriminato di missili sulla popolazione civile israeliana.

Come qualcuno ha fatto notare, invece, non si parla abbastanza del fatto che per la prima volta nella storia militare un esercito abbia effettuato migliaia di chiamate telefoniche per avvertire i civili di imminenti bombardamenti su obiettivi limitrofi alle loro abitazioni.

A chi accusa Israele di «uso sproporzionato» della forza, risponde Alan Dershowitz, l'esperto di diritto internazionale e autore di "The Case for Peace: How The Arab-Israeli Conflict Can Be Resolved", intervistato ieri dal Corriere:
«Israele potrebbe vincere oggi, se lo volesse. Invece, per motivi etico-morali ha scelto di usare una forza militare sproporzionatamente debole a Gaza... ha preferito andare coi guanti di velluto perché vuole minimizzare le morti tra i civili. Al suo posto, ogni altro Paese avrebbe raso al suolo Gaza. Guardi cosa hanno fatto i russi in Cecenia, i francesi in Algeria, gli inglesi a Dresda e gli americani in Giappone dopo Pearl Harbor. Ma come al solito il mondo s'aspetta una reazione diversa da Israele. Israele è l'ebreo tra le nazioni e il mondo lo tratta come storicamente ha trattato gli ebrei. Con un doppio standard. Ma nessun Paese può permettere al nemico di giocare alla roulette russa con la vita dei propri figli».
Anche per il giurista dei diritti umani Dershowitz «bisogna disarmare Hamas... La cosa migliore che può capitare ai palestinesi è che Israele metta Hamas k.o. Potrebbero così tornare a parlare di pace con Israele, riesumando la soluzione che Arafat rifiutò nel 2001».

La "grande rimozione". Senza Iran e jihad non si può capire il Medio Oriente

Ripetutamente e instancabilmente su questo blog mi sono sforzato di sottolineare come in Italia, e in Europa, prevalgano nel dibattito pubblico letture datate della guerra nella Striscia di Gaza, come di quella in Libano due anni fa: qualsiasi cosa accada in Medio Oriente viene sistematicamente interpretata secondo i vecchi - e immutabili, pare - schemi della questione "nazionale" palestinese, nonostante, come scrivevo alcuni giorni fa, due fatti - ormai neanche troppo nuovi, ma risalenti agli anni '90 - hanno mutato per sempre la cornice in cui si inserisce. Nelle analisi dei politici di sinistra e degli opinionisti che ascoltiamo in tv o alla radio non compaiono quasi mai le due parole Iran e jihad, che evocano problematiche senza le quali non si possono comprendere le dinamiche che oggi muovono la politica mediorientale.

Israele sta combattendo una guerra diversa e tra i pochissimi a dirlo in modo esplicito è stato, ieri sul Corriere, Angelo Panebianco, che ha parlato di un «conflitto nuovo».

Purtroppo, però, in pochi si rendono conto della nuova realtà del conflitto. Ne è la prova, scrive Panebianco, l'assenza dai discorsi dei politici (di D'Alema, per esempio), da molte cronache e analisi giornalistiche, proprio delle parole «Iran» e «jihad». «Chiunque abbia, se non altro per ragioni anagrafiche, un passato, è portato a leggere i conflitti di oggi alla luce degli schemi mentali di ieri...», gli stessi schemi che spiegano gli «atteggiamenti europei verso il conflitto israeliano-palestinese», pregiudizialmente ostili nei confronti di Israele. «Il passato pesa sul presente ed è comprensibile che riflessi automatici portino ancora oggi tanti a leggere l'attuale scontro a Gaza con le categorie del passato. Ma è singolare che ciò avvenga al prezzo di una grande rimozione. Sono due i fatti nuovi che hanno determinato un cambiamento qualitativo del conflitto israeliano-palestinese e che tanti sembrano voler rimuovere»: la partita che l'Iran sta giocando sull'intera regione e la jihad globale, appunto.

Panebianco non ha usato a caso l'espressione «tanti sembrano voler rimuovere». Questo difetto di comprensione in alcuni casi infatti si trasforma in furbizia politica. E' il caso di chi - come D'Alema, e come molti politici e giornalisti di sinistra - pur avendo tutti gli strumenti conoscitivi per riformare le loro vedute, si aggrappano alle categorie del passato senza le quali si ritroverebbero privi di una parte in commedia.

Segni di rimozione appaiono anche da parte della Chiesa cattolica. Ma su questo argomento è stato Ernesto Galli Della Loggia, nel suo editoriale di domenica scorsa sul Corriere, a fare non opinione ma notizia, fornendo fondamentali, ma spesso dimenticati, cenni storici: dall'appiattimento del Vaticano sul «fronte del rifiuto» arabo-islamico fino a quel vescovo cattolico «sorpreso a trasportare armi nel bagagliaio della propria auto per conto delle organizzazioni armate palestinesi».

Ma l'atteggiamento della Chiesa nel conflitto arabo-israeliano, osserva Galli Della Loggia, va oltre i suoi rapporti con l'Ebraismo, riguarda, e serve ad approfondire, il problema del «pacifismo impossibile», quel «rifiuto/denuncia della guerra, virtualmente di ogni guerra», che finisce inevitabilmente per rivelarsi falso. La Chiesa infatti non rappresenta un'eccezione nel panorama di quelle forze politiche e sociali il cui pacifismo mostra un «carattere quasi sempre non neutrale». Il problema è che un «pacifismo coerente dovrebbe indurre non solo ad essere contro la guerra, ma a denunciare di continuo con eguale forza anche ogni manifestazione di conflittualità, di qualunque tipo o misura, che spesso costituisce la premessa obbligata del successivo scoppio delle ostilità vere e proprie. È dunque lecito chiedersi: la Santa Sede che è contro le odierne operazioni belliche di Israele, lo è stata allo stesso modo, con la stessa nettezza, lo stesso tono e soprattutto con la medesima pubblicità, nei confronti per esempio della politica estera di Siria e Iran? O di tante quotidiane manifestazioni violentissime del fronte palestinese? Ognuno può rispondere da sé».

Giungendo quindi al nocciolo del problema del «pacifismo impossibile», Galli Della Loggia conclude che «una vera politica pacifista è in realtà impossibile per qualunque organizzazione vasta e complessa, tutrice di vari e molteplici interessi, perché, intesa coerentemente, essa implicherebbe la rinuncia di fatto a svolgere un qualunque vero ruolo politico... per limitarsi, viceversa, ad un ruolo di esclusiva testimonianza morale». E chi si accontenta o chi, anche con le migliori intenzioni, si abbandona ingenuamente alla testimonianza morale, rischia di divenire spettatore passivo dei crimini peggiori. Proprio la Chiesa cattolica dovrebbe saperne qualcosa.

Friday, January 09, 2009

Una vittoria di Israele renderebbe più docile l'Iran

Praticamente tutti i più autorevoli analisti e commentatori americani, di scuola realista o neoconservatori, più amati a destra o più a sinistra, trattando della crisi di Gaza attribuiscono un ruolo di primo piano all'Iran, principale sponsor di Hamas. Mentre in Italia le letture prevalenti sui mainstream media risultano datate, perché il loro sguardo non va oltre il logoro orizzonte del conflitto tra israeliani e palestinesi, in America tutti sembrano avere ben chiaro che la questione palestinese c'entra ben poco e che Israele sta combattendo una guerra diversa, dai cui esiti dipenderà il futuro assetto del Medio Oriente, e che riguarda anche l'Occidente.

Succede, quindi, che tra sostenitori della linea dura con Teheran sulla questione del nucleare e fautori di un approccio più dialogante e negoziale si verifichino sostanziali convergenze su Gaza. E' il caso del realista Robert Kaplan e del neoconservatore Bill Kristol: entrambi "tifano" per Israele, giudicano negativamente una tregua che dia respiro ad Hamas, perché una sonora sconfitta degli islamisti a Gaza renderebbe l'Iran più disponibile a una soluzione diplomatica sul nucleare. Una vittoria di Israele su Hamas ridurrebbe il rischio di dover usare la forza contro l'Iran.

Gaza è «l'avamposto occidentale dell'Impero iraniano». Quindi, l'attacco di Israele a Gaza è «un attacco contro l'Impero iraniano», il primo dopo la guerra contro Hezbollah nel 2006, fa notare Kaplan sull'Atlantic Monthly. Questa volta l'attacco sembra meglio pianificato, ma il «dilemma» di Israele con quell'«animale postmoderno» che è l'«Impero iraniano», è che «non sta combattendo contro uno stato, ma contro un'ideologia, il collante postmoderno che tiene unita la grande sfera d'influenza iraniana». Che siano le entità parastatali di Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano, e del Mahdi in Iraq, o «le speranze, i sogni, le illusioni» di milioni di arabi sunniti che, soprattutto in Egitto, si sentono più vicini ai mullah radicali sciiti che alla loro autocrazia sunnita, l'Iran ha costruito il suo impero combinando sapientemente un'ideologia antioccidentale e antisemita con operazioni dei servizi segreti.

Oggi, osserva Kaplan, dalla vittoria di Israele a Gaza dipende la praticabilità della via diplomatica con Teheran: «Dobbiamo crearci un vantaggio strategico prima di negoziare con il regime clericale e questo vantaggio può venire soltanto da una vittoria morale di Israele che faccia vacillare di spavento anche i siriani pro-iraniani pronti ad aiutare Hamas». Il paradosso è che l'unico posto dove i musulmani sono scettici dell'Iran, e dove l'anti-americanismo e l'anti-semitismo hanno meno presa, è proprio l'Iran, e quindi «la vera battaglia per l'anima della regione – ipotizza Kaplan, che in questo sembra far eco a Michael Ledeen – potrebbe essere combattuta all'interno dell'Iran stesso».

Ma per il momento, non resta che sperare che Israele vinca questa guerra, piuttosto che venga «compromessa da una tregua che permetta ad Hamas di riorganizzarsi». «Se ciò accadesse, la nostra influenza sull'Iran sarebbe ulteriormente ridotta». Non appena Israele avrà conseguito un successo, «dovremo subito esercitare una forte pressione su Teheran, in funzione di negoziati sia con gli arabi che con gli iraniani». «Se Obama è intelligente - conclude Kaplan - in questo momento starà tifando silenziosamente per Israele».

Per il neoconservatore Bill Kristol, «un successo di Israele a Gaza sarebbe una vittoria nella guerra contro il terrorismo, e nella più ampia lotta per il futuro del Medio Oriente». La combinazione di movimenti terroristici come Hamas con l'Iran, maggiore sponsor del terrorismo e alla ricerca dell'atomica, costituisce una «nuova minaccia» per Israele. «Ma non solo per Israele». Per tutti i musulmani che non vogliono vivere sotto regimi estremisti e per ogni nazione, come gli Stati Uniti, nel mirino del terrorismo islamico. Quindi ci sono «solidi motivi» per sostenere Israele. E Israele «sta facendo un favore agli Stati Uniti affrontando Hamas adesso», perché «la sfida più grande per l'amministrazione Obama sarà costituita dall'Iran».

Come Robert Kaplan, anche Kristol è infatti convinto che «se Israele avesse ceduto ad Hamas trattenendosi dall'usare la forza per fermare gli attacchi terroristici, o se adesso si ritirasse senza aver prima indebolito gravemente Hamas e impedito la ricostituzione di uno stato terrorista a Gaza, sarebbe un trionfo per l'Iran», il regime «ne uscirebbe rafforzato», e «meno sensibile alle pressioni» di Obama per fermare il suo programma nucleare. Ma «una sconfitta di Hamas a Gaza, dopo il successo in Iraq, sarebbe un vero colpo per l'Iran, renderebbe più facile assemblare una coalizione regionale e internazionale per fare pressioni sull'Iran. Potrebbe anche avere un effetto positivo sulle elezioni iraniane di giugno e rendere il regime iraniano più aperto a una trattativa. Come il governo israeliano con Hamas, Obama prima o poi potrebbe trovarsi in una situazione in cui l'uso della forza contro l'Iran sembri l'opzione più responsabile. Ma la volontà di Israele di combattere a Gaza rende più possibile l'ipotesi che gli Stati Uniti non siano costretti ad usarla».

Il mito della vittoria impossibile

C'è un falso mito che negli ultimi anni è stato diffuso da editorialisti e commentatori: che Israele usando la forza non possa conseguire una completa vittoria militare e politica contro gruppi terroristici come Hezbollah e Hamas.

Ma questa volta, a Gaza, riconosce il realista Robert Kaplan, l'attacco israeliano sembra meglio pianificato rispetto a quello di due anni fa contro Hezbollah in Libano, che è sembrato confermare il mito della vittoria impossibile.

Certo, Israele ha un problema fondamentale con quell'«animale postmoderno» che è l'Impero iraniano, di cui Gaza è «l'avamposto occidentale». Innanzitutto, Hamas non ha bisogno di vincere la guerra. Può perderla eppure in un certo senso vincerla. Finché nessun altro gruppo lo sostituirà al potere nella Striscia di Gaza, e qualche suo fanatico potrà continuare a lanciare missili su Israele, potrà rivendicare «una sorta di vittoria morale». Inoltre, se al Fatah provasse a prendere il suo posto a Gaza, verrebbe per sempre etichettato come «servo» di Israele. Il «dilemma» di Israele, osserva Kaplan, è che «non sta combattendo contro uno stato, ma contro un'ideologia, il collante postmoderno che tiene unita la grande sfera d'influenza iraniana». Che siano le entità parastatali di Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano, o del Mahdi in Iraq; o «le speranze, i sogni, le illusioni» di milioni di arabi sunniti che, soprattutto in Egitto, si sentono più vicini ai mullah radicali sciiti che alla loro autocrazia sunnita, l'Iran ha costruito il suo "impero" combinando sapientemente ideologia antioccidentale e antisemita con operazioni dei servizi segreti.

Dunque, «si possono combattere eserciti non convenzionali, parastatali, animati dall'ideologia?» si chiede Kaplan. Sì. «Erodendoli sottilmente nel tempo, oppure schiacciandoli completamente, brutalmente. Israele, non potendo tollerare il continuo lancio di razzi sulla sua gente, ha deciso per la seconda via», scrive Kaplan, che quindi ammette che un successo di Israele è possibile - oltre che desiderabile per aumentare le chance diplomatiche occidentali con l'Iran - e che il principale ostacolo a una vittoria di Israele è l'ennesima tregua che permetta ad Hamas di riorganizzarsi, compromettendo i risultati conseguiti sul campo.

Anche un altro realista di ferro, molto noto in Italia per le sue apparizioni televisive, Edward Luttwack, sul Wall Street Journal, ha smentito il mito della vittoria impossibile di Israele. Gruppi come Hamas e Hezbollah rivendicano la vittoria a prescindere dalle perdite umane e materiali che subiscono. Ma se con tutto ciò che sta accadendo a Gaza, Hezbollah rimane immobile e il confine con il Libano tranquillo, vuol dire che nel 2006, al di là della propaganda islamista, l'operazione di Israele ha avuto successo. Oggi Hezbollah ha paura di correre in soccorso di Hamas. Quindi, pur con tutti gli errori commessi in Libano, se Israele si limitasse anche solo a ripetersi contro Hamas a Gaza, sarebbe già una vittoria significativa.

Secondo il neoconservatore Bill Kristol, il luogo comune secondo cui Israele non può vincere contro Hamas come non poteva vincere due anni fa in Libano contro Hezbollah, si dimostrerà sbagliato. Gaza è una striscia di terra stretta e piatta, confinante con Israele a est e a nord, il mare a ovest e l'Egitto a sud. Hamas non ha amici intorno. Tagliando in due la striscia Israele ha praticamente circondato la parte nord, creando una situazione completamente diversa dal punto di vista militare rispetto a quella in Libano nel 2006. Inoltre, la leadership israeliana sembra aver imparato dagli errori - politici, strategici, militari - commessi due anni fa. L'operazione a Gaza sembra essere stata ben pianificata ed eseguita.

In una lunga analisi sul Weekly Standard, anche gli esperti Thomas Donnelly e Danielle Pletka, dell'American Enterprise Institute, avvertono che «Gaza non è il Libano» e spiegano «perché la campagna di Israele contro Hamas può avere successo». L'opinione diffusa che «i leader israeliani con l'offensiva di terra a Gaza corrono il rischio di ripetere la disastrosa esperienza della guerra in Libano nel 2006» non tiene conto del fatto che «Gaza non è il Libano, Hamas non è Hezbollah e, soprattutto, che Israele oggi non è lo stesso Israele del 2006».

Thursday, January 08, 2009

Le colpe dell'Europa

E' grottesco invocare una "tregua" quando si è arrivati a questa guerra proprio perché il 18 dicembre scorso Hamas ha unilateralmente dichiarato finita la tregua esistente, e perché sono fallite tutte le trattative per una nuova tregua in cui si erano impegnati egiziani e israeliani tra la metà di dicembre e l'inizio dell'offensiva. In quelle due settimane, quando forse si poteva evitare l'escalation, l'Ue non ha mosso un dito, né proferito parola, dimostrandosi ancora una volta impotente e disinteressata.

Le tardive prese di posizione dei governi europei, in ordine sparso e come se l'unico intento fosse quello di farsi vedere impegnati per la "pace" dalle loro opinioni pubbliche, restituiscono l'immagine di un'Europa ancora disunita. Il più svelto a rubare la scena è stato il presidente francese Sarkozy, impegnato a far credere che è la Francia a condurre la politica estera europea. In effetti, è riuscito a offuscare la presidenza ufficiale dell'Ue, di turno della Repubblica Ceca. Importanti governi, tra cui quello italiano, si sono fatti cogliere impreparati e scontano quindi una deplorevole irrilevanza in questa crisi.

Essendo la guerra scaturita dal fallimento di una tregua, è ovvio che una nuova tregua sarà tanto più possibile quanto più l'esercito israeliano riuscirà a infliggere ad Hamas perdite tali da renderla desiderabile.

In queste ore è oggetto di trattative un piano franco-egiziano. Il fatto che manchi la firma di Hamas, che detiene il controllo di Gaza, basterebbe di per sé a rendere ridicola la soddisfazione espressa ieri dal presidente francese per le aperture da parte di Israele e Anp. I dettagli non sono ancora noti, ma per essere accettata una nuova tregua dovrà garantire a Israele che non ci siano più lanci di missili contro i suoi territori. Ciò sarebbe possibile solo con lo schieramento di una forza d'interposizione nella Striscia di Gaza (come l'Unifil-2 in Libano) e un embargo efficace, di cui soprattutto l'Egitto dovrebbe farsi garante, che impedisca l'arrivo degli aiuti iraniani via mare e il traffico di armi attraverso i tunnel sotterranei scavati lungo i confini egiziani. Ma è proprio l'embargo la causa della rottura di Hamas.

La via delle tregue è lastricata di fallimenti. Per ottenerne una delle tante, l'Ue, con il consenso americano, non volle che Hamas fosse esclusa dalle elezioni politiche del gennaio 2006, come invece proponeva Ariel Sharon, in quanto si rifiutava di riconoscere gli accordi di Oslo e l'esistenza di Israele.

L'errore concettuale dell'Europa sta nel ritenere che qualsiasi movimento palestinese abbia un carattere prevalentemente "nazionalista" e possa quindi divenire, prima o poi, un interlocutore affidabile e pragmatico. Le analisi europee prescindono da due realtà inconfutabili: la partita che l'Iran sta giocando sull'intera regione e il network globale della jihad, di cui Hamas fa parte. Due fatti che hanno mutato per sempre la cornice in cui si inserisce la questione palestinese.

La guerra di Israele contro Hamas, come quella contro Hezbollah nell'estate del 2006, non è l'ennesima recrudescenza del conflitto tra israeliani e palestinesi. Fa parte di un altro conflitto, di portata più vasta e potenzialmente più distruttiva: quello finora a distanza tra l'Iran (e la Siria?) da una parte e Israele (e l'Occidente) dall'altra. E' falso che la stabilità della regione dipenda dalla risoluzione del conflitto israelo-palestinese. E' vero piuttosto il contrario: il completamento del processo di pace è ostaggio delle mire iraniane.

Hamas non aderirà mai allo schema "pace in cambio di territori", perché non è la questione palestinese il suo scopo, ma la distruzione di Israele e lo sterminio degli ebrei, com'è scritto a chiare lettere nel suo statuto. Sharon non si aspettava che consegnando Gaza ai palestinesi avesse in cambio pace e riconoscenza, ma il ritiro unilaterale ha contribuito ad un chiarimento. La spaccatura tra i movimenti palestinesi ha reso evidente agli occhi degli arabi e del mondo intero quali di essi si battono per la causa "nazionale" palestinese e quali, invece, animati dall'integralismo islamico, sono al soldo dei disegni egemonici iraniani.

Se si ignorano questi fatti, e l'innegabile natura jihadista e neonazista dei piani di Teheran e delle sue propaggini, ogni iniziativa diplomatica rischia di rivelarsi patetica. Tutti gli sforzi, militari e politici, in questo momento hanno senso se finalizzati ad un unico scopo: preparare il ritorno della Striscia di Gaza sotto l'Anp, per sottrarre la questione palestinese alle strumentalizzazioni iraniane. E' corretto quindi l'approccio del ministro degli Esteri Frattini: «Il problema è Hamas. Vogliamo che Gaza torni sotto il controllo dell'Anp».

Wednesday, January 07, 2009

La Chiesa non ha ancora deciso

«Tutte e due le parti sono colpevoli»; Gaza ormai come «un grande campo di concentramento». Un autorevolissimo esponente della gerarchia ecclesiastica cattolica, il cardinale Martino, presidente del Pontificio Consiglio per la giustizia e la pace, rappresenta in modo emblematico la tradizionale politica mediorientale vaticana, di equidistanza tra lo stato d'Israele e i terroristi che vogliono distruggerlo.

Se Hamas nega a Israele il diritto di esistere, la Chiesa gli nega il diritto a difendersi. «Di certo - scrive Sandro Magister sul suo blog, ripreso da Il Foglio - le autorità della Chiesa cattolica non difendono l'esistenza di Israele - che i suoi nemici vogliono annientare ed è la vera, ultima posta in gioco del conflitto - con la stessa esplicita, fortissima determinazione con cui alzano la voce in difesa dei principi "innegoziabili" riguardanti la vita umana».

Mentre Hamas «consolidava il suo dominio feroce su Gaza, massacrava i musulmani fedeli al presidente Abu Mazen, umiliava le minuscole comunità cristiane, lanciava ogni giorno missili contro le popolazioni israeliane», nessuna autorità della Chiesa, dal Papa all'ultimo dei preti di campagna, fiatava. Appena Israele ha reagito, giù condanne anche da parte di Benedetto XVI. Prosegue Magister:
«Nei confronti di Hamas e della sua ostentata "missione" di cancellare lo stato ebraico dalla faccia della terra, di Hamas come avamposto delle mire egemoniche dell'Iran nel Vicino Oriente, di Hamas come alleato di Hezbollah e della Siria, le autorità vaticane non hanno mai acceso l'allarme rosso. Non hanno mai mostrato di giudicare Hamas un rischio mortale per Israele, un ostacolo alla nascita di uno stato palestinese, oltre che un incubo per i regimi arabi dell'area, dall'Egitto alla Giordania all'Arabia Saudita».
"Se Israele non ci fosse...", è il retropensiero, la riserva mentale, che prevale tra i cristiani in Terra Santa e nei palazzi della Curia romana.

Tralasciamo per un istante possibili strascichi di antisemitismo. Oggi, nell'editoriale di presentazione del paginone sul conflitto a Gaza, Giuliano Ferrara chiede alla Chiesa cattolica «una sua posizione politica di validità generale, se non universale... sui conflitti di civiltà a sfondo religioso che dilaniano il mondo. Sul conflitto tra la tradizione occidentale, razionale e universalista, e le culture fondate, secondo la lettera e lo spirito del discorso di Ratisbona, sulla rescissione del nesso tra libertà, ragione e fede». In qualche modo sembrerebbe che Ferrara stia chiamando la Chiesa ad una nuova "crociata".

In poche parole gli sta chiedendo di schierarsi a difesa della democrazia contro la tirannia fondamentalista. «Se ama la società aperta e la caratura spirituale delle grandi democrazie moderne, ciò che è sembrato chiaro da molti segni culturali e dal viaggio papale negli Stati Uniti, la chiesa si attrezzerà per difenderla e per far valere in essa le proprie idee, le esperienze, i princìpi non negoziabili di cui si considera a buon titolo custode. Questo vuol dire», conclude Ferrara, che Hamas «deve essere riconosciuta per quello che è, con una parola che sia sì sì, no no» dalla Chiesa.

Certo, «non si può chiedere alla chiesa di rinunciare all'uso profetico della parola "pace"», o alla «difesa di comunità cristiane» in Palestina, o «alla sua vocazione universalistica e di carità» nei confronti dei «diseredati del mondo». Ma, conclude Ferrara, «con Israele e con gli ebrei la questione non si può risolvere sul filo delle acrobazie, nemeno di quelle pie concepite per il bene della causa superiore».

Il problema sta in quel periodo ipotetico, in quel «Se ama la società aperta e la caratura spirituale delle grandi democrazie moderne...». La Chiesa la ama per davvero quel tipo di società? Ne ha accettato i principi costitutivi? O non è piuttosto propensa a «far valere le proprie idee, le esperienze, i princìpi non negoziabili di cui si considera a buon titolo custode» in qualsiasi società le sia data, anzi meglio in una società chiusa con un unico potere con cui trattare?

Insomma, la Chiesa cattolica non ha ancora deciso quale nemico combattere: se schierarsi con il liberalismo (e il relativismo) contro il fondamentalismo islamico e le tirannie che potrà generare, o se trovare forme di convivenza non conflittuali con quel fondamentalismo per combattere il liberalismo.

Caro D'Alema, anche i nazisti non erano "marziani"

Quale governo al mondo (e quale europeo!) tollererebbe senza reagire che in una parte del suo territorio i suoi cittadini debbano convivere, per anni, con il pericolo di venire uccisi da missili lanciati da un territorio confinante? Nessuno. Sono poche le trasmissioni radiofoniche o televisive sulla crisi di Gaza in cui si possono sentire i fatti e le considerazioni assolutamente ragionevoli che espone, oggi sul Corriere, Bernard Henry-Levy.

Ma tra le posizioni più odiose e ripugnanti, per ogni sincero democratico, c'è senz'altro quella espressa da Massimo D'Alema, sia ieri sera a Matrix che oggi su la Repubblica. Siccome Hamas ha vinto le elezioni, è un partito, radicato sul territorio, e tra i suoi aderenti ci sono padri, madri, figli, allora è un interlocutore con cui negoziare è d'obbligo.

A ripugnare è soprattutto l'idea bislacca di democrazia che rivela l'ex ministro degli Esteri. Perché Hamas ha sì vinto le elezioni (chissà poi se in modo davvero democratico...), ma la legittimazione democratica l'ha perduta subito dopo, quando con un colpo di stato ha tentato di prendere il potere, fallendo in Cisgiordania ma riuscendovi nella Striscia di Gaza, dove ha instaurato una dittatura fondamentalista eliminando tutti gli oppositori politici.

Siccome Hamas ha nel proprio statuto la distruzione di Israele e lo sterminio del maggior numero di ebrei, e siccome mostra tutta l'intenzione di voler perseguire questo fine, D'Alema farebbe bene ad accorgersi che le analogie con il nazismo (sebbene per fortuna Gaza non sia la Germania di Weimar) cominciano a diventare un po' troppe.

Hamas è «una forza reale», «non è certo un gruppetto di terroristi». E' un «movimento politico con 25 mila militanti armati, che non sono marziani ma i figli e i nipoti di quanti li hanno scelti». Già, esattamente come non si può negare che anche fascismo e nazismo fossero «forze reali» cui aderirono milioni di persone, e non proprio «marziani».

Monday, January 05, 2009

Una tregua per che cosa? Hamas va annientata

La mossa lungimirante di Sharon

E' appena iniziato l'anno e già ci si deve vergognare di essere europei. Sto parlando della reazione dell'Ue all'offensiva israeliana contro Hamas. L'equidistanza enunciata dalla presidenza di turno francese va a braccetto con la palese impotenza europea. Diverse sono state le posizioni espresse singolarmente da Germania, Italia e Paesi dell'Europa orientale, con in testa la Repubblica Ceca, a favore del diritto di Israele a difendersi. Anche se, forse sorpresi dagli eventi, i governi di Berlino, Roma e Praga non hanno saputo muoversi per influenzare la posizione dell'Ue.

Per lo meno - pur condannando l'offensiva di terra israeliana, messa sullo stesso piano delle azioni terroristiche di Hamas - Sarkozy si è visto costretto a riconoscere, solo oggi, che «decidendo di rompere la tregua e di riprendere il lancio dei missili, Hamas si è assunta una pesante responsabilità nella sofferenza dei palestinesi a Gaza». Sarkozy mi ha comunque deluso: se in passato, sulla questione dell'atomica iraniana, aveva dimostrato fermezza, in questa circostanza, che vede Teheran non meno coinvolta, ha rivelato preoccupanti riflessi chiracchiani.

Si presta a interpretazioni maliziose il silenzio del presidente-eletto Obama, che però rimane istituzionalmente ineccepibile. Tra l'altro, qualsiasi politica intenda perseguire in Medio Oriente, non sarebbe furbo da parte sua pronunciare parole inutili su una situazione sulla quale non ha ancora modo di intervenire, e che potrebbero solo "bruciare" le sue future iniziative.

Per quanto riguarda il governo italiano, il ministro Frattini si è espresso con parole simili a quelle usate dall'amministrazione Usa, distinguendosi dalla posizione francese: ha chiesto a Israele di fare il possibile per evitare vittime civili, comunque ribadendo il suo diritto a difendersi dai missili e sottolineando che i palestinesi sono «le vere vittime di Hamas, che tiene in ostaggio la Striscia di Gaza».

Malissimo l'opposizione. Abbiamo scoperto che non solo sulla scuola e l'università, sulle riforme, sulla giustizia, la linea del Pd non è diversa da quella conservatrice, statalista e giustizialista dell'Unione prodiana. Ora anche in politica estera sappiamo che Veltroni non si è spostato di un millimetro dall'atteggiamento del vecchio centrosinistra, pregiudizialmente ostile nei confronti di Israele. Si è appiattito piuttosto sulle posizioni di D'Alema: con i terroristi si tratta. Poi forse qualcuno ci spiegherà perché bisogna passeggiare a braccetto con Hezbollah, trattare con Hamas e non, per esempio, con la camorra. La vittoria elettorale nel gennaio 2006 non rende Hamas un interlocutore, né tanto meno un'organizzazione democratica. Anche Hitler vinse le elezioni.

E' emblematico che l'Europa - e i media - abbiano per oltre un mese e mezzo ignorato i segnali che indicavano le intenzioni minacciose di Hamas, e che rendevano sempre più inevitabile e prevedibile la durissima reazione israeliana. Solo dopo l'avvio dell'offensiva israeliana l'attenzione dei media, e dei governi europei, è tornata sul Medio Oriente. Guarda caso non dopo che Hamas ha dapprima violato la tregua (il 6 novembre), e l'ha poi ufficialmente dichiarata finita (il 19 dicembre), quando forse qualcosa poteva ancora essere fatto per evitare l'escalation.

Dal 6 novembre ad oggi infatti sono piovuti più di 500 razzi da Gaza sulle città israeliane di Ashkelon e Sderot. Ma soprattutto il 20 novembre Hamas faceva saltare il tavolo delle trattative con Al Fatah faticosamente mediato dall'Egitto. Segnale inequivocabile di ciò che si preparava. Eppure, l'Ue non ha mosso un dito, né proferito parola. Il 19 dicembre passava quasi sotto silenzio anche l'annuncio unilaterale della fine della tregua da parte di Hamas. Da quel momento 200 razzi sono piovuti sul territorio israeliano e tutti sapevano che la reazione di Tel Aviv sarebbe stata inevitabile e particolarmente dura.

Bisogna una volta per tutte accettare che Hamas non aderirà mai allo schema "pace in cambio di territori", perché non è la questione palestinese il suo scopo, ma la distruzione di Israele e lo sterminio degli ebrei, com'è scritto a chiare lettere nel suo statuto. L'Ue sa solo chiedere «tregue», non si sa bene finalizzate a che cosa, se si prende in considerazione l'innegabile natura jihadista e neonazista di Hamas. L'errore concettuale dell'Europa sta nel ritenere che qualsiasi movimento emerga dall'estremismo palestinese abbia un carattere prevalentemente "nazionalista" e possa quindi divenire, prima o poi, un interlocutore affidabile e pragmatico. Le analisi europee prescindono dalle due realtà della partita iraniana e del jihad globale, che hanno mutato per sempre la cornice in cui si inserisce la questione palestinese.

Non ci si vuole rendere conto, anzi, che di fatto la questione palestinese è chiusa. I palestinesi hanno un loro stato, indipendente "de facto". Certo, il processo di pace non è ancora concluso e l'Anp continuerà a trattare con Tel Aviv ulteriori concessioni, territoriali e non, ma dopo il ritiro unilaterale di Israele da Gaza e Cisgiordania una terra ce l'hanno. Il fatto che i palestinesi non siano in grado di autogovernarsi e che siano in balìa di potenti gruppi terroristici, come Hamas e Hezbollah, manovrati da potenze straniere che perseguono ambizioni egemoniche, non riguarda i loro rapporti con Israele. E' un altro problema: regionale.

Hamas deve essere annientata e tutti gli sforzi diplomatici in questo momento hanno senso se finalizzati ad un unico scopo: non l'ennesima, inutile, tregua, ma preparare il terreno per il ritorno della Striscia di Gaza, una volta bonificata dall'esercito israeliano, sotto l'Autorità nazionale palestinese.

Come giorni fa ha sottolineato Piero Ostellino sul Corriere, «con la decisione di ritirare le truppe israeliane da Gaza, Ariel Sharon aveva offerto ai palestinesi un'opportunità», cioè che «le fazioni nelle quali il movimento era diviso abbandonassero la lotta armata, si unificassero sotto Al Fatah e partecipassero al processo di pace con Israele».

E' accaduto il contrario: è scoppiata una sorta di guerra civile tra i palestinesi. Continuo a ritenere che, seppure non priva di aspetti negativi, la decisione di Sharon fosse lungimirante. Non si aspettava certo che consegnando Gaza ai palestinesi avesse in cambio pace e riconoscenza, ma il ritiro ha contribuito ad un chiarimento necessario nella regione e non privo di sviluppi importanti. La spaccatura tra i movimenti palestinesi ha reso evidente agli occhi degli arabi e del mondo intero quali di essi si battono ancora per la causa "nazionale" palestinese e quali, invece, animati dal fanatismo dell'integralismo islamico, sono al soldo dei disegni egemonici iraniani.

Al contrario di gran parte dell'Europa, Egitto, Giordania e Arabia Saudita hanno recepito la portata chiarificatrice della mossa di Sharon e si sono rinsaldati contro l'Iran e le sue propaggini terroristiche. Nella Striscia di Gaza abbandonata dagli israeliani e occupata da Hamas hanno potuto vedere all'opera le trame di Teheran, sovversive degli equilibri di potere in Medio Oriente. Hanno capito che esattamente come la bomba atomica, anche Hamas e Hezbollah sono parte della strategia iraniana.

Dietro la tradizionale propaganda anti-israeliana e le consuete proteste di piazza, il presidente egiziano Mubarak, i re di Giordania e Arabia Saudita, il presidente dell'Anp Abu Mazen, temono più di ogni altra cosa che il virus jihadista infetti i loro paesi arrivando a rovesciare i loro regimi e sono contenti che Israele faccia il "lavoro sporco", contrastando i piani egemonici iraniani sull'intero Medio Oriente.

La crisi di questi giorni conferma che Hamas non ha nulla a che fare con la causa palestinese (anzi, la danneggia); e che ha scelto un territorio allo sbando come base da cui condurre la sua jihad per sterminare gli ebrei e abbattere i governi arabi "traditori". La guerra tra Israele e Hamas, come quella tra Israele e Hezbollah, non è l'ennesima recrudescenza del conflitto tra israeliani e palestinesi, fa parte di un altro conflitto, di portata più vasta e potenzialmente più disastrosa: quello finora a distanza tra l'Iran (e la Siria?) da una parte e Israele (e l'Occidente) dall'altra.