(Ancora sui 3 fattori)
Oggi sul Foglio Christian Rocca spiega la Delusione neocon: «I liberatori del medio oriente sperano che Bush abbia fatto solo una ritirata tattica, non strategica». Mette in chiaro che non sono i neocon ad aver sequestrato e gestito la politica estera americana. La loro è stata un'influenza, importante, soprattutto dopo l'11 settembre e fino a poco prima della guerra in Iraq, non oltre. Oggi, la loro è un'ondata ampiamente rifluita. Se ora questo riflusso, prevedibile e previsto a causa dell'anno elettorale di Bush, diverrà irreversibile, lo si dovrà ad un secondo e ad un terzo fattore: agli errori commessi dall'amministrazione nel dopoguerra iracheno (tutti più o meno denunciati per tempo da autorevoli esponenti del mondo neocon); all'ostinazione e alle trame europee nell'usare - e perpetuare - le difficoltà Usa in Iraq come espressione di voto anti-Bush a novembre. Due fattori che, in concomitanza delle elezioni, legano le mani a Bush.
Anche se per Gary Schmitt, del Project for a New American Century, Bush non ha smesso i panni del rivoluzionario («basta leggere bene che cosa ha detto all'inizio e alla fine del suo discorso di lunedì sera»), «il percorso verso la democrazia in Iraq, specie nell'area della sicurezza, sembra essere frutto del compromesso con gli insorti e con i ribelli che ogni giorno sfidano la strategia di un Iraq democratico e costituzionale». Ma d'altra parte, suona ovvio ma è bene ripeterlo, «purtroppo i successi strategici possono nascere solo dalle vittorie sul campo» (Victor Davis Hanson). Che ad oggi mancano.
Vengono al pettine gli errori di una guerra fatta «a metà». E' Giuliano Ferrara su Panorama a ricordarceli: prima si è lesinato sul numero di truppe, e rinviata per mesi una guerra «inevitabile», perdendo «tempo prezioso» e concedendolo al nemico, «indebolendo le ragioni e la stessa condotta della guerra». Non è bastato: «Rinviata la presa effettiva delle città, la messa in mora delle forze combattenti che hanno cominciato da subito la guerriglia terrorista, e la forza è stata applicata in misura clamorosamente non proporzionale alla risposta»; «Nessuno ha seriamente dissuaso Siria e Iran dall'intervenire in mille modi». Per avere la «benevolenza» delle varie componenti irachene e della comunità internazionale, e «per non smuovere le cose fino a un prevedibile punto di crisi», la coalizione ha «rinunciato all'unico vero obiettivo della guerra, la distruzione del regime» e la liberazione. Politica e diplomazia, «irrinunciabili», hanno troppo presto «ripreso il sopravvento» sul fattore militare. Occorrono sempre per «una piena vittoria, ma devono sempre essere subordinate al fattore forza, alla capacità di stabilire chi comanda nell'ambito di un territorio, chi ha l'autorità della vittoria».
L'idea iniziale, l'obiettivo strategico, di Bush, e dei neoconservatori, «era liberare l'Iraq, contagiare con il seme democratico l'intero medio oriente, quindi pacificare l'eterno conflitto israelo-palestinese». L'ala più realista dell'amministrazione ha puntato tutto su una prima fase di "occupazione per la stabilità". Jim Hoagland: «Aver concentrato il potere nelle mani dell'Autorità di Bremer, piuttosto che far nascere un governo iracheno provvisorio già un anno fa, ha avuto risultati disastrosi». «La Casa Bianca, con l'avvicinarsi della data delle elezioni, ha riposto nel cassetto i grandi progetti e provato a mettere le toppe in Iraq, ma non è andata come previsto». Quella di Bush, sembra una «ritirata strategica» che, di fatto, «ridimensiona per ora il progetto democratico». Sono le elezioni americane ad aver fatto cambiare passo a Bush, e si sapeva. Ma la ritirata, speriamo tattica e non strategica, si deve agli altri due fattori.
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