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Thursday, December 28, 2006

Non è la condanna a morte di Saddam a minacciare il futuro del nuovo Iraq

Saddam Hussein davanti al giudiceNon l'impiccagione di Saddam, ma la guerra che Al Qaeda, Siria e Iran alimentano sulla pelle degli iracheni pregiudica lo sviluppo democratico del paese

La condanna a morte dell'ex dittatore non rende il nuovo Iraq simile al vecchio o alle altre dittature arabe. Pur imperfetto, sta nel processo secondo i dettami dello stato di diritto la differenza

Parte la lacrimosa mobilitazione per salvare dalla forca il dittatore Saddam Hussein. Come spesso accade si intrecciano diverse istanze: le più nobili, i tipici casi di retorica da salotto e bella mostra di grandi principi a buon mercato, le strumentalizzazioni. Soprattutto da parte di chi, oggi al Governo, ha ostacolato e infine deciso di non presentare all'Onu una risoluzione per la moratoria universale della pena capitale, da parte di chi mostra scarso o nullo interesse per gli adolescenti omosessuali appesi alle gru in Iran, la denuncia della condanna a morte inflitta a Saddam appare strumentale alla delegittimazione del governo e delle istituzioni irachene sorte dopo l'intervento anglo-americano in Iraq e in generale a dimostrare che la nuova barbarie è simile alla vecchia e frutto dei fallimenti della politica americana.

Tutti coloro, e non sono pochi, che si ricordano della pena di morte solo quando il condannato è un ex dittatore deposto dall'esercito americano dovrebbero innanzitutto denunciare l'uccisione extragiudiziale di Mussolini da parte delle forze partigiane. S'insinua addirittura il dubbio che siano gli americani a volere la morte di Saddam per impedire che altri processi facciano luce sulle complicità di cui l'ex raìs ha goduto in Occidente, senza ricordare che gli stessi americani e gli iracheni avrebbero potuto risolvere la questione con una pallottola in fronte, durante l'azione che ha portato alla sua cattura, ma hanno preferito condurlo dinanzi alla giustizia. Magari fossimo stati in grado di fare altrettanto con Mussolini.

Isolato, c'è il rigore ideale di Marco Pannella, in sciopero della fame e della sete «perché il Governo Italiano mobiliti subito la comunità internazionale per impedire l'immediata esecuzione di Saddam». Qui la coerente battaglia radicale contro la pena di morte nel mondo vede in Saddam un Caino esemplare e un'occasione imperdibile per «far esplodere nel cuore del Medio Oriente e nel mondo un grande atto di pace, un grande dibattito nei popoli e nelle coscienze, lo scandalo della nonviolenza come alternativa alle dittature e alla guerra».

In questo caso l'astrattezza dei principi rischia però di prendere il sopravvento sulla concretezza della realtà. Qual è, davvero, il dibattito che dovrebbe esplodere presso i popoli arabi?

Ci sono motivi di principio e di convenienza che ci rendono contrari all'«omicidio di Stato», ma il dato più rilevante è che gli arabi, per la prima volta, vedano un tiranno chiamato a rispondere dei crimini che ha commesso davanti a una giustizia civile legittimamente istituita. Il dato fondamentale di progresso è il dittatore alla sbarra. Il fatto che la umma sunnita, che si sente la nazione araba eletta a comandare sugli altri musulmani, veda la fine del campione del panarabismo e del suo presunto intrinseco diritto a comandare; e che gli altri autocrati della regione vedano come ipotesi non più così remota venire anch'essi un giorno raggiunti dalla giustizia dei loro popoli.

Uccidendo Saddam si crea un martire e si alimentano le violenze in Iraq, sostengono in molti. Per farsi venire qualche dubbio basterebbe chiedersi quali ulteriori frustrazioni e violenze potrebbe, viceversa, causare la sua mancata esecuzione. D'altronde, la rabbia per l'uccisione dell'ex tiranno riguarderebbe i ristrettissimi clan che hanno beneficiato del suo regime. Se questi sono numericamente tanto consistenti da mettere a ferro e fuoco Baghdad con le autobomba già oggi, anche perché non contrastati né dalle forze di sicurezza irachene né dai soldati americani, appaiono però del tutto insignificanti se paragonati ai milioni di iracheni (curdi, sciiti, ma anche sunniti) che quella stessa reazione di rabbia potrebbero averla, e riversarla contro le giovani istituzioni del paese, vedendo il dittatore farla franca ancora una volta.

Soprattutto, a questo punto, l'intervento esterno di un Deus ex machina che arriva e si permette di riscrivere la sentenza (30 anni, propone salomonicamente Pannella) verrebbe interpretato come il massimo del sopruso alla fragile autodeterminazione appena riconquistata dal popolo iracheno. Abbiamo rimosso gli ostacoli, ora siano gli iracheni a decidere, nel bene e nel male.

Va considerato anche che oggi l'Iraq è un paese in guerra. Una guerra di cui Saddam è ancora pienamente parte, con molti ex baathisti in giro ad incutere timore nella popolazione, che ancora fatica a credere quella di Saddam un'epoca che non tornerà. Proprio per il ruolo che ancora oggi giocano l'ex raìs e i suoi fedelissimi nel caos iracheno, la via di una trattativa con Saddam, per ottenere da lui un appello alla pacificazione, è già stata praticata dalle autorità, ma evidentemente con scarso successo.

L'impiccagione di Saddam non chiuderà forse la stagione del sangue, perché è la guerra alimentata da Al Qaeda, Siria e Iran sulla pelle del popolo iracheno la vera minaccia che grava oggi sullo sviluppo democratico del paese, ma toglierà comunque dalla scena un'ingombrante ombra del passato. Spesso, storicamente, l'eliminazione di un dittatore si è rivelata un contributo alla democrazia e alla pace. E' ragionevole pensare che possa esserlo soprattutto dopo un regolare processo.

Si può certamente definire una condanna a morte «un atto infame», ma in nessun modo è paragonabile a «quelli che furono propri di Saddam Hussein stesso». Saddam si è avvalso di ciò che ha negato alle sue vittime: un processo pubblico, fondato su delle prove, con avvocati difensori di sua fiducia. La condanna a morte dell'ex dittatore non rende il nuovo Iraq uguale al precedente regime baathista, altrimenti dovremmo sostenere che ben 37 degli Stati Uniti siano paragonabili all'Iraq di Saddam. Sarebbe semplicemente ridicolo.

Ma è qui l'equivoco di fondo. Per quanto da abolizionisti riteniamo quella contro la pena di morte una sacrosanta battaglia di elevazione della civiltà giuridica di un paese, essa non attiene alla democrazia e allo stato di diritto. La presenza della pena di morte nella giurisdizione di un paese, per quanto esecrabile, non è di per sé indice di assenza di democrazia e di stato di diritto. Le prime e più mature democrazie del pianeta hanno previsto e prevedono la pena capitale nei loro ordinamenti e ciò non gli ha impedito di svolgere nei secoli il ruolo di autentici fari della democrazia nel mondo.

Se nella pena di morte troviamo un'analogia tra paesi così diversi come Stati Uniti, Iraq, Iran o Cina, a rendere ridicolo il fatto stesso di paragonarli è un fattore ben più dirimente: il rispetto o meno dello stato di diritto.

Per questo motivo possiamo dirci contrari alla pena di morte ma riconoscere che per la prima volta il mondo arabo, abituato a vedere leader assassinati o deposti extra legem, ha conosciuto la supremazia della legge, ha assistito a un processo dove il tiranno, giudicato da una corte legittimata da istituzioni elette, ha dovuto affrontare le proprie responsabilità, e dove la condanna è avvenuta secondo i dettami di uno stato di diritto. Uno stato di diritto certo imperfetto e sottoposto alle intimidazioni di entrambe le parti durante tutto il processo, ma pur sempre raro nella regione. Ora spetta agli iracheni farlo evolvere.

Chi parla di «giustizia dei vincitori» dovrebbe ricordare che fu proprio questa l'espressione coniata dal gerarca nazista Goering per delegittimare Norimberga. Il ricorso alla pena capitale nei confronti dei nazisti non ha oscurato il grande progresso giuridico rappresentato dal perseguimento dei crimini contro l'umanità. Ironia della sorte, chi come Antonio Cassese parla di «giustizia dei vincitori» è poi pronto a invocarla alla massima potenza quando pretende che siano ricostruiti processualmente decenni di crimini, arrivando a teorizzare una presunta «funzione di chiarificazione storica» del e nel processo. E' qui che si apre una grande questione giuridica su cosa sia il processo, sui limiti della giustizia internazionale e sulla funzione stessa della giustizia umana.

Cassese propone esattamente la riedizione del fallimentare processo a Milosevic. L'enorme mole di documenti e testimonianze necessari alla titanica impresa di ricostruire tutti i suoi crimini nel corso di decenni, senza individuarne uno in particolare, hanno permesso al sanguinario dittatore dei Balcani di sfuggire alla sentenza e di trasformare le udienze in una sua personale tribuna politica. Era un lavoro per gli storici, non per i tribunali.

I procuratori all'opera nel processo Saddam (preparati in Gran Bretagna) hanno optato invece per una strategia pragmatica (ricorda quella che inchiodò Al Capone per evasione fiscale), isolando tra tutti i crimini il massacro di Dujail, tutto sommato "minore" rispetto ad altri eccidi di massa, ma scelto per la gran quantità di testimonianze e prove incontrovertibili in grado di portare a un giudizio rapido.

Il problema è che nella cultura giuridica prevalente in Europa continentale è ancora radicata la presunzione che attraverso il processo si possa e si debba giungere a una sorta di verità storica e ontologica, a un giudizio morale definitivo sulla persona imputata. Dunque, sembra quasi che spostando il processo a una sede e a un livello internazionale si ricorra a un occhio superiore e a un ente infallibile. Non è così. E' questo un pregiudizio che rischia di minare alle fondamenta la credibilità e la possibilità stessa della giustizia internazionale. Nei tribunali non si fa Storia, né si fanno operazioni Verità. La giustizia è amministrata da uomini limitati e fallibili. Nel processo si devono accertare fatti precisi limitati nello spazio e nel tempo, chiedendo conto all'imputato del comportamento tenuto in una data circostanza.

Continuare a sostenere che per il "caso Saddam" fosse opportuno un Tribunale internazionale è profondamente sbagliato per due ragioni. Innanzitutto, lo stesso statuto del Tribunale penale internazionale stabilisce che la sua giurisdizione può scattare solo in vece delle giurisdizioni nazionali inadempienti e fissa il limite giuridico della irretroattività, che avrebbe impedito di processare Saddam per la maggior parte dei suoi crimini. Forse un tribunale misto, composto sia da giudici iracheni che internazionali, in accordo tra il governo iracheno e le Nazioni Unite, avrebbe fornito più garanzie, ma l'essenziale era, ed è, un processo che si svolgesse in Iraq e si celebrasse in arabo.

Ma soprattutto, anche nel perseguire feroci dittatori dobbiamo ricordarci dei principi generali della civiltà giuridica liberale, secondo i quali i crimini devono essere perseguiti laddove sono commessi e l'imputato giudicato dai suoi giudici naturali, emanazione diretta della cittadinanza di cui fa parte. Spesso ci si scorda del legame inscindibile tra democrazia, giustizia e territorio: democrazia e giustizia rispondono al meglio al loro scopo di regolare la convivenza civile quanto più la pratica della prima e l'amministrazione della seconda sono vincolate a un territorio circoscritto e impegnano una determinata comunità.

4 comments:

Anonymous said...

Fede: perfetto. Da diffondere e tenere da parte. Davvero, complimentissimi. Non era facile argomentare così, coerentemente, saggiamente e coraggiosamente.
Umberto

Anonymous said...

sì, buona analisi...a parte la << coerente >> battaglia di << pannella >>.

coerenza?

pannella??

it's a joke???

forse ho capito male ma comunque, dopo una bella risata, stendiamo un velo pietoso.

quanto a saddam, precisando che la bestia in questione è stata condannata alla stregua di un volgare criminale imputato per singoli fatti specifici e non in quanto "dittatore irakeno"...no alla pena di morte della bestia mesopotamica...ma no pure al solito sciopero ( che palle!!! ) del solito pannella che stoltamente chiede di sottoporla, la bestia di prima, alla sterile pena di 30 anni di reclusione...bah, se espiazione deve essere, la pena da comminare è quella dell'ergastolo.

pannella invece, dice che in tal guisa...sarebbe la dimostrazione della vittoria del diritto che mira alla rieducazione del reo e bla, bla bla.

sì, arrivederci, meglio della supercazzola...rieducare saddam? ma che è 'na mania? mission impossible? un format di rai3??? o è solo l'ennesimo, insano ircocervo idealistico che deriva dalla triste commistione tra il pannella sinceramente libertario ( residuale sempre più ) e quello sfacciatamente filogovernativo, già amico del sig. prodi...il nuovo "duce della simpatia&felicità" che pure lui, stoltamente vorrebbe rieducare qualcuno...sì, gli italiani tutti...e vorrebbe farlo a forza di schiaffoni tirati a piene mani...quelli alla bud spencer per capirci...e lo vorrebbe fare pure con stampato in faccia(?) quel suo cadente sorrisino meta-umano.

è proprio vero che se cristo scende dalle stelle...pannella si fionda a capofitto dalle nuvole...direttamente dall'empireo...ah, ma come sono belle e giuste le parole ( in libertà...libertà saddamita??? ) di marco pannella.

vabbé, tanto sono gratis!!!

la costosa realtà, invece, è ben diversa e sarebbe ora che si abbandonassero slogan e karaoke, specie quelli di stampo dietetico-diuretico.

anche perché nella onnivora, folle logica(?) panislamica...e sotto questo aspetto...sciiti, sunniti ed infine...pure vetero- baathisti...ciliaci e non...vegetariani o carnivori che siano...per tutti questi affamatissimi lupi vale lo stesso menù, anche se per diverse esigenze alimentari...per costoro la non-esecuzione di saddam rappresenterebbe una dimostrazione di debolezza assoluta del "nemico".

un banchetto prelibato con pietanze sopraffine ovvero...il governo irakeno nello specifico e tutto il grande satana occidentale più in generale.

primo e secondo, due morsi ed un bel rutto digestivo.

e poi, hai voglia ad affilare i coltelli...

e se questo è vero già per l'ergastolo, figuriamoci per 30 anni di prigione appena!!!

e magari, grazie ad un indultino alla irakena...tra 10 anni saddam è fuori.

non un martire...una star!!!

a meno che non lo si voglia, saddam dico..."suicidare" in cella!!!

ma qui, pur non essendo in italia, entriamo veramente nella fantapolitica...con il risultato - scontato - che la "rogna saddam" rimarrebbe sempre appiccicata addosso al governo irakeno...lui sì spalle al muro pronto per l'esecuzione capitale!

a proposito di italica fantapolitica...a panné, mangna&bevi pure che le proteine fanno sempre bene alle sinapsi...

veramente dico.

saddam: mettetelo in galera e buttate la chiave.

amen.


ciao.


io ero tzunami...

Anonymous said...

Sono contrarissimo alla pena di morte ma considero lo sciopero di Pannella, un errore. Ultimamente non è che ci prenda molto...

ciao Paolo

perdukistan said...

da quanto partirebbe questo ultimamente pannelliano?