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Thursday, May 07, 2009

Tea parties. In America si riapre la battaglia culturale sulla libertà di impresa

Tra la fine di marzo e la prima metà di aprile si sono tenuti negli Stati Uniti circa 2 mila tra meeting, comizi, cortei e raduni contro l'aumento delle tasse, della spesa e del debito pubblico. Iniziative che hanno preso il nome di tea parties, per richiamare alla memoria un evento storico fondativo della cultura politica americana. Era il 16 dicembre del 1773, quando i cittadini di Boston, allora coloni e sudditi di sua Maestà britannica, al grido "no taxation without representation" assalirono le navi ancorate nel porto gettando in mare il carico di te indiano sul quale gli inglesi volevano far pagare le tasse. La protesta odierna ha raggiunto il suo culmine il 15 aprile, negli Usa termine ultimo per la presentazione delle dichiarazioni dei redditi. Si calcola che siano stati migliaia (e c'è chi ha parlato addirittura di 250 mila) gli americani scesi in piazza, in centinaia di città, al grido "Give me liberty, not debt".

Si è trattato della prima vera manifestazione di dissenso nei confronti delle politiche del nuovo presidente, Barack Obama. Un movimento per lo più spontaneo, visto che l'opposizione repubblicana è ancora afasica, stordita e incerta su come contrastare il partito avversario, che ha conquistato la Casa Bianca e detiene una solida maggioranza al Congresso. La richiesta di Michael Steele, presidente della Commissione nazionale repubblicana, di parlare al tea party di Chicago è stata gentilmente respinta dagli organizzatori: «Informiamo il presidente Steele che i funzionari della Commissione possono partecipare, ma preferiamo limitare il tempo dedicato ai discorsi a coloro che non sono politici... Questa è un'opportunità che permette all'America di parlare, e ai politici di ascoltare, non il contrario».

A dispetto della grande popolarità di Obama, e delle sue ripetute promesse (durante e dopo la campagna elettorale) di voler governare con spirito bipartisan, per "unire" gli americani, sta iniziando invece una nuova "battaglia culturale". Non sui tipici temi eticamente sensibili, come l'aborto o il matrimonio tra gli omosessuali, ma sulla libertà di impresa, principio che si trova «al cuore stesso della cultura americana». Ne è convinto Arthur C. Brooks, presidente dell'American Enterprise Institute, secondo il quale i tea parties "sbocciati" in tutto il paese ne sono la dimostrazione.

I tea parties, ha scritto sull'edizione del 30 aprile del Wall Street Journal, «non nascono dalla fredda analisi dei dati di bilancio, ma sono animati da quello che potrebbe essere definito "populismo etico"». Protagonisti dei tea parties sono infatti proprietari di case che hanno sempre pagato le rate dei loro mutui, piccoli imprenditori che non vogliono l'assistenza dello Stato, banchieri che hanno gestito nel migliore dei modi i loro investimenti e non hanno bisogno di essere "salvati". Tutti coloro, insomma, «che stavano facendo i conti come si deve e che ora assistono allo spettacolo dei loro governanti che premiano chi ha fatto malissimo i conti».

I tea parties sono stati accusati di populismo ed estremismo dai media, dal mondo accademico e dai politici di sinistra, ma «il libero mercato, lo Stato minimo e la libertà d'impresa - ricorda Brooks - godono ancora del favore della maggioranza degli americani». Secondo il presidente dell'AEI, i difensori della libertà d'impresa dovrebbero trarre una «lezione» importante dall'esperienza dei tea parties. Le politiche redistributive vanno combattute anche sulla base di «presupposti etici»: «La confisca di una parte sempre maggiore del reddito di una minoranza solamente in virtù del fatto che lo Stato ne ha la possibilità è una questione di ordine morale». Così come è una «questione morale» il debito pubblico che alimentiamo oggi e che nel prossimo futuro peserà sulle spalle dei nostri figli e nipoti.

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