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Friday, December 28, 2007

Se la Corte si sostituisce agli elettori

Per fortuna qualcuno, il solito Angelo Panebianco, ha risposto all'indegno editoriale di Gustavo Zagrebelsky prima di Natale. La sua ultima opera («I falsi difensori della Consulta», la Repubblica, 24 dicembre) è un imbroglio.

Ricorrendo a uno smaccato artificio retorico degno di un azzecca-garbugli, accusa di pressioni sulla Corte costituzionale proprio coloro, come l'ex giudice Vaccarella e il referendario Guzzetta, che hanno denunciato le pressioni politiche sulla Corte in merito al referendum elettorale.

Tutto il ragionamento di Zagrebelsky si regge sulla premessa - falsa - che ad allarmare i sostenitori del referendum siano esclusivamente «dichiarazioni pubbliche di uomini di governo circa il contenuto della decisione della Corte». Su di esse anche Panebianco gli dà ragione: «Le Corti costituzionali o supreme vivono nel mondo e ci sono sempre stati, in tutte le democrazie che ne dispongono, tentativi di influenzarne le decisioni. Non vale la pena di scandalizzarsene...». Tentativi alla luce del sole, nel libero confronto politico.

Non staremmo parlando, secondo Zagrebelsky, di «trame segrete, di frequentazioni ambigue, di contiguità d'interessi politici, economici o professionali». Queste sì, aggiunge, «quando ci sono, sono allarmanti». Ebbene, è invece proprio di queste, emerse nei giorni scorsi dalle pagine di autorevoli quotidiani, e mai smentite, che si sta parlando, ma a Zagrebelsky fa comodo escluderle dal suo ragionamento.

La Corte, chiede provocatoriamente l'ex presidente della Consulta, ha forse bisogno di essere «tutelata»? «Non sa "tutelarsi" da sé, semplicemente facendo uso delle prerogative di autonomia che la Costituzione le concede in somma misura, una misura che non si riscontra con riguardo a nessun altro organo costituzionale? Una Corte che ha bisogno della protezione d'altri? Diffondere questa idea, questo davvero è un attentato alla sua indipendenza», sentenzia Zagrebelsky.

Semplicemente no. Non di «tutela» ha bisogno la Corte, ma di denuncia pubblica e preventiva della natura politica, e non giuridica, che potrebbe caratterizzare anche la sua prossima decisione sui referendum. Denunce e sospetti che appaiono più che mai fondati alla luce della lunga serie di precedenti, soprattutto in materia referendaria, e dell'edificazione di una giurisprudenza basata sull'espansione abnorme di criteri discrezionali che non trovano rispondenza nell'art. 75 della Costituzione.

Ma Zagrebelsky non si scomoda neanche a cercare di convincerci che invece la Corte giudica in punta di diritto e in modo indipendente. Con la ben nota tecnica retorica, egli punta l'indice non sul problema, ma su chi lo denuncia e "diffonde" una legittima preoccupazione.

Nell'ultimo capoverso del suo editoriale Zagrebelsky dimostra implicitamente quanto siano fondati i sospetti di una decisione politica della Corte. Egli stesso, infatti, suggerisce ai giudici un argomento per bocciare almeno uno, il più importante, dei quesiti referendari: come si potrebbero criticare i giudici, dice Zagrebelsky, se essi dichiarassero inammissibile un referendum che (vale la pena di citare testualmente le sue parole) «attribuisce un mai visto "premio di maggioranza" alla lista che ottiene un numero di voti qualunque, anche molto basso, purché superiore a quello di ognuna delle altre liste»?

La Corte ovviamente può benissimo anche ritenere non ammissibile il quesito, ma è chiamata a motivare la sua sentenza. Se però, come motivazione adducesse quella di Zagrebelsky, allora sì, darebbe la prova del cedimento alle pressioni politiche.

Quello che Zagrebelsky trova così assurdo, infatti, non è altro che il principio "First-Past-the-Post". All'insigne giurista dà fastidio ciò che può accadere in ogni sistema elettorale maggioritario: cioè che, in presenza di più di due candidati, partiti, o coalizioni, uno prevalga (aggiudicandosi il premio) «con un numero di voti qualunque, anche molto basso», (purché, si intende, almeno uno più degli altri). In pratica, osserva Panebianco, questo non accade, perché di solito «se c'è un premio alle coalizioni, gli elettori tendono a indirizzare i voti sulle due che hanno più probabilità di prevalere mentre nei collegi uninominali li concentrano sui due o tre candidati più quotati».

Premesso che un "premio di maggioranza" è già in vigore senza suscitare scandalo (con il referendum si tratterebbe di trasferirlo dalla coalizione al partito che prende più voti), dichiarare inammissibile il referendum respingendo il principio "First-Past-the-Post" equivarrebbe a sostenere l'inammissibilità costituzionale di qualsiasi legge elettorale maggioritaria, pluri o uninominale. Una tale sentenza sarebbe indiscutibilmente politica, perché la Corte non è chiamata a dichiarare la sua preferenza tra i diversi sistemi elettorali, bensì a decidere sull'ammissibilità del quesito alla luce di quanto prescrive l'articolo 75 della Costituzione (relativo alle condizioni di ammissibilità/inammissibilità).

«Non si può proprio definire "mai visto" un qualsivoglia sistema elettorale che dia la vittoria a chi ottiene — persino, eventualmente, con una bassissima percentuale di voti — anche un solo voto in più degli altri. La notissima espressione inglese "first past the post" usata per qualificare i sistemi maggioritari a un turno indica precisamente ciò. Anche se può fare orrore alla mentalità proporzionalistica, tuttora così diffusa nel nostro Paese, si tratta del principio cui si ispirano (in genere, vivendo piuttosto bene) le democrazie maggioritarie. Spero che la Corte dichiari i referendum ammissibili e che, durante la campagna referendaria, si possa di nuovo incrociare i fioretti: da un lato, i fautori del principio "maggioritario" (come me e come altri), dall'altro i "proporzionalisti", come Zagrebelsky e altri», conclude Panebianco.

Dunque, se la Corte bocciasse il quesito sulla base dell'argomento di Zagrebelsky, assumerebbe una decisione di carattere politico, aderirebbe nel merito all'opzione dei "proporzionalisti", prendendo il posto di coloro ai quali eventualmente spetta di aderirvi: gli elettori.

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