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Thursday, December 27, 2007

Gli Stati che uccidono di più

Al di là delle intenzioni non certo anti-americane dei radicali (di molti altri forse sì), è però fuor di dubbio che il segno politico della battaglia per la moratoria sulla pena di morte, l'aver voluto cioè far esprimere l'Onu, sia stato in quei termini percepito sull'altra sponda dell'Atlantico. Sarà un effetto di quelli non desiderati, ma reale. Essendo gente pratica, gli americani scarsa o nulla importanza hanno attribuito al voto dell'Onu, perché incapace di produrre effetti più che meramente simbolici.

Nei giorni scorsi sia il Washington Post che il New York Times, nell'elencare i dati e i segnali che indicano una moratoria de facto della pena di morte negli Usa, moratoria vista con favore da entrambi i quotidiani, non hanno nemmeno citato il voto dell'Assemblea generale dell'Onu.

Ma far approvare la moratoria dal Comitato per i Diritti umani prima, e dall'Assemblea generale poi, organi screditatissimi proprio in tema di democrazia e diritti umani, politicamente ha significato porre sullo stesso piano "morale" paesi diversissimi come Stati Uniti e Iran, India e Pakistan, Cina e Giappone.

La pena capitale nel mondo è causa ogni anno di circa 5 mila morti, una minima parte dei morti causati direttamente o indirettamente dagli Stati, tra genocidi, repressioni, pulizie etniche, fame e sottosviluppo, guerre. Dei 51 paesi mantenitori della pena di morte, 40 sono paesi dittatoriali, autoritari o illiberali. In questi paesi, nel 2006, sono state compiute almeno 5.564 esecuzioni, pari al 98,8% del totale mondiale. Un paese solo, la Cina, ne ha effettuate almeno 5.000, circa l'89% del totale mondiale.

Se il 98,8% delle esecuzioni hanno luogo in paesi dittatoriali, è lecito concludere che il problema della pena di morte sia solo un capitolo del più grande dossier che va sotto il nome di "dittatura". E allora, porre sullo stesso piano dal punto di vista politico e morale grandi democrazie e "stati canaglia", confondere un istituto di diritto penale, seppure brutale, comunque interno ad uno stato di diritto, con la violazione sistematica dei diritti umani fondamentali, è un regalo politico alle dittature responsabili del 98,8% delle esecuzioni nel mondo.

Gli Stati che uccidono di più - legalmente o no - sono quelli dove mancano democrazia, libertà e stato di diritto. Se non si inserisce il problema della pena di morte, in qualche modo sciogliendolo, all'interno di questa cornice più grande, si rischia di non cogliere il punto e di confondere i fronti.

Allo studioso John R. Schmidt il Dipartimento di Stato Usa ha affidato un'analisi sulla campagna europea e italiana contro la pena di morte. Uno studio da think tank, «limitato agli esperti e poco pubblicizzato», ma avviato da tempo. Ne ha parlato Massimo Franco, prima di Natale, sul Corriere della Sera. Durante tutto l'iter della moratoria e dopo la sua approvazione, il silenzio della stampa statunitense è stato «quasi totale», ma nel frattempo il Dipartimento di Stato faceva ricostruire «genesi e dinamiche» per valutare in anticipo «le motivazioni e le conseguenze della vittoria in primo luogo europea ed italiana».

La conclusione a cui è giunto Schmidt è che si tratta di «un tema-simbolo che le élites del Vecchio Continente hanno scelto da tempo per costruire una propria identità. E che ormai rappresenta non più un argomento di politica interna all'Ue, ma un biglietto da visita per esportare ed affermare un profilo internazionale autonomo; e con venature morali che storicamente l'Europa ha teso a rimproverare alla politica estera degli Stati Uniti», riassume Franco, riportando quanto annota Schmidt in un breve saggio apparso su Survival, la rivista dell'International Institute for Strategic Studies di Londra: «Il tema della pena di morte dimostra che esistono due visioni in competizione, che potrebbero provocare nel tempo frizioni crescenti nei rapporti transatlantici».

Gli Usa sono diventati uno dei principali bersagli della campagna abolizionista, anche perché essendo un paese alleato e democratico, le opinioni si possono liberamente esprimere, senza rischiare il carcere o rappresaglie commerciali. C'è un altro motivo, però, per cui gli abolizionisti puntano il dito contro gli Stati Uniti: perché sono sempre stati visti come una culla della democrazia, della libertà e dei diritti umani. Eppure, la pena di morte di certo non ha a che fare con la democrazia e la libertà, e con i diritti umani solo secondo una concezione estesa e progressista di essi che assolutizza la sacralità della vita.

Sul piano squisitamente morale, infatti, si potrebbe persino discutere la "moralità" di uno Stato che garantisca a un omicida vitto, alloggio, cure pluridecennali, mentre gran parte della sua popolazione muore di fame e malattie. Una condizione che potrebbe riguardare decine di stati, suprattutto in Africa.

«L'ironia - annota l'analista - è che durante la Guerra fredda molti alleati europei esitavano ad appoggiare le campagne contro le violazioni dei diritti umani da parte dell'Urss: dovevano essere stimolati da Washington». La vittoria della moratoria va attribuita alle élites europee, sottolinea Schmidt, «non nasce da un'ondata di indignazione popolare. L'ostilità contro la pena di morte è un tema elitario», scelto accuratamente a fini interni. A lungo si potrebbe discutere su questa valutazione. E' indubbio però che l'opinione pubblica su questo tema si esprime facendosi molto condizionare dall'emotività.

E' molto politically correct in Europa dirsi contrari alla pena di morte, sulla spinta di un sentimento solidaristico-umanitario promosso dalla cultura, dall'arte e dal cinema, dallo star-system, anche americano. Ma sull'onda emotiva di efferati delitti, la pena di morte smette di essere un tabù. Rispetto poi a quanto accade nel resto del mondo, fuori dall'Europa, gli europei si dimostrano disinteressati alla pena di morte come a molti altri temi, sono degli irriducibili isolazionisti. Che l'Europa sia diventata «la seconda presenza moralizzatrice nella comunità internazionale», è quindi un giudizio quanto meno affrattato, se non palesemente infondato.

Più che la pena di morte, avvertito a Washington come tema minore, se non altro perché è ciascuno stato e non il governo federale a decidere democraticamente, preoccupano le «lacerazioni» sulla guerra in Iraq e quelle, possibili venture, sulla crisi iraniana. Probabilmente, un altro difetto dell'analisi di Schmidt è quello di osservare l'Europa come un interlocutore più o meno unitario, mentre le differenze culturali e le divisioni politiche sono ancora marcate.

Il Corriere ha intervistato su quest'analisi il radicale Marco Cappato, che ha farcito la sua replica criticando gli Usa per l'uso degli «strumenti militari, seguendo peraltro interessi legati al petrolio», che avrebbero prodotto «risultati devastanti». Tra questi, secondo Cappato, «basta guardare come, negli Stati arabi, sia crollata la popolarità della stessa parola democrazia». La risposta di Cappato non fa che confermare l'ipotesi di Schmidt. A noi non risulta che la parola democrazia sia stata mai molto amata in quella regione prima del 2003. Piuttosto, osserviamo che le "piazze arabe" non si sono affatto lasciate andare a violenze anti-americane e anti-occidentali, come molti avevano predetto prima dell'invasione dell'Iraq.

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