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Thursday, November 23, 2006

Miti nazional-popolari/1: il concorso e la raccomandazione

Mi pare sia sfuggito all'attenzione dei più un editoriale di Pietro Ichino, di qualche giorno fa sul Corriere della Sera, volto a smontare uno dei più potenti miti dell'Italia burocratico-corporativa: «l'ipocrisia del concorso». La tesi è di quelle che vengono fatte cadere nel dimenticatoio, che non provocano dibattiti, perché troppo radicali.

In sostanza, quello di Ichino non è il solito articolo piagnucoloso sui concorsi truccati dove vengono mandati avanti i raccomandati. E' lo sport nazionale di tutte le mamme prendersela con il concorso truccato e convincersi che se non lo fosse garantirebbe la scelta imparziale dei candidati migliori a svolgere l'incarico bandito. Ogni problema sarebbe risolto e ogni ragazzo troverebbe il suo posto di lavoro. Insomma, un altro tabù nazional-popolare, quello del concorso, tanto che nessuno si è ancora permesso di mettere in discussione l'art. 97 della nostra Costituzione, che recita: «Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso».

Non è così, Ichino si spinge oltre e arriva subito al punto: non è un problema degli inquinamenti clientelari, baronali, politici, sindacali o di altro genere, ma è il metodo stesso del concorso che è di «ostacolo alla scelta migliore». Il concorso si rivela come «un metodo cattivo di scelta anche quando esso si svolge rigorosamente secondo le regole».
«In primo luogo perché l'idoneità di una persona a un determinato ruolo dipende per lo più da un insieme di qualità e attitudini molto più complesso di quanto si possa accertare e verbalizzare con una procedura concorsuale... Quand'anche, poi, le prove concorsuali consentissero di accertare le qualità che veramente contano... resterebbe il fatto che la commissione giudicatrice non risponde per nulla della bontà della scelta. Svolto il compito, essa si scioglie; e se il vincitore si rivelerà inidoneo al ruolo, nessuno ne chiederà mai conto ai commissari. Il metodo del concorso è legato all'idea ottocentesca dell'amministrazione pubblica come luogo dove i comportamenti sono soggetti al controllo ex ante di legittimità, ma non al controllo ex post dei risultati prodotti».
Ben venga, dunque, la "raccomandazione". Non è contro questo mostro mitologico che bisogna scagliarsi. La raccomandazione, fondandosi sull'esperienza diretta che un collega, o un amico, ha del raccomandato, e sulla conoscenza precisa del profilo professionale che si sta cercando, è uno dei migliori metodi di selezione.

Nel nostro paese però ci sono elementi distorsivi che rendono questo metodo tutt'altro che virtuoso. Perché? Perché manca «un sistema di controllo rigoroso dei risultati». In altre parole, chi assume un "raccomandato" non risponde in proprio, e in base ai risultati, della scelta fatta. Non bisogna combattere la "raccomandazione" in sé, ma fare in modo che quanti ne fanno un uso clientelare, baronale, politico o sindacale, sappiano di rischiare il loro stipendio.

Vale il discorso che facevamo tempo fa sulla possibilità di licenziamento nel pubblico impiego. Trattandosi di denaro della comunità, gli sprechi devono essere minimizzati. Quindi i dipendenti pubblici dovrebbero rispondere ai massimi criteri di efficienza. Questo significa che occorre trasformare completamente l'organizzazione della pubblica amministrazione. La catena di responsabilità dal più alto all'ultimo dei dirigenti dev'essere ben definita. Ciascuno responsabile dell'efficienza del suo settore e ciascuno libero di licenziare e passibile di essere licenziato.

Ichino fa un esempio molto concreto, che riguarda il sistema universitario. Se venisse abolito il valore legale della laurea (cioè «abrogate tutte le norme che richiedono quel titolo di studio per accedere a qualsivoglia posto, funzione o beneficio»), e se lo Stato non finanziasse direttamente gli atenei, ma offrisse «a ogni diciottenne l'80% del necessario per l'iscrizione a una facoltà liberamente scelta, a suo rischio, a quel punto potremmo lasciare altrettanto libera ogni facoltà di assumere il personale docente e amministrativo secondo le procedure che essa preferisce: se sceglierà male, gli studenti andranno altrove ed essa dovrà chiudere».

E' essenziale invertire il flusso del finanziamento per introdurre elementi di concorrenza nel nostro sistema educativo (da un mio articolo sul numero di Diritto e Libertà dedicato al Welfare to Work):
«... dallo Stato, che finanzia indiscriminatamente, a pioggia, istituti e università, garantendo in modo automatico la loro esistenza, ai privati e alle famiglie, che investono le loro risorse indirizzandole laddove sanno che il servizio è di migliore qualità.

L'autonomia, delle scuole come delle università, deve così intendersi come piena responsabilità della propria sopravvivenza. Solo se gli istituti – i dirigenti, gli insegnanti e il resto del personale – fossero messi nella condizione di dover o garantire un servizio decente o chiudere, sarebbero spinti a fare appello a tutte le proprie energie, risorse, capacità, per offrire un'istruzione di qualità e richiamare fondi (privati e pubblici) in ragione di quella... Prendendo in considerazione i 13 anni del percorso scolastico dalle elementari alle superiori, ogni alunno costa allo Stato 100 mila dollari, 23 mila in più della media Ocse (pari a 77 mila dollari). Immaginiamo cosa potrebbe significare mettere solo la metà di quel denaro in mano alle famiglie, in modo che gli istituti non siano più finanziati in modo uguale, indistinto, ma si debbano contendere gli assegni delle famiglie, messe in grado così di scegliere tra gli istituti a seconda del loro valore reale».

7 comments:

Anonymous said...

mi fa piacere che l'hai ripreso tu almeno sta in prima pagina di Tv, il mio post era passato inosservato :-)

Anonymous said...

Questo post è eccellente, e Dio solo sa quanto io tenda a lesinare sui complimenti!
Ora, però, immagina di essere a una cena con gli amici, in pizzeria, e di spiegare a voce i concetti illustrati nell'articolo.
Per quanto riguarda la mia - limitatissima - esperienza personale di "divulgazione del Verbo", finisce sempre che ti guardano tutti come una bestia rara.
Questi discorsi non vengono capiti, destano sconcerto nei più. A livello politico, quindi, credo che l'unica soluzione per rendere accettabili alle masse certe riforme (sempreché, nell'anno del mai, vengano effettivamente varate) sia di ammortizzarle tramite la gradualità di introduzione e dispositivi di (transitoria) protezione sociale. Altrimenti sono destinate a rimanere splendide speculazioni per ristrette élite liberl/libertarie/radical/riformiste.

JimMomo said...

Ci ho provato, Ismael, le facce sono sorprese, ma non ostili. Si può lavorarci ;-))

Anonymous said...

Condivido pensiero sulla raccomandazione, meno quello sul valore legale del titolo di studio.
Il titolo di studio non è discriminante, in quanto l'iscrizione all'università è unicamente subordinata al possesso del diploma di scuola superiore.
A questo punto si potrebbe obiettare sulla necessità del dipoloma.
Credo che una gradualità nell'istruzione sia necessaria.
Provocazione: per testare le capacità di un chirurgo, vi fareste operare da una persona con la terza media?

Anonymous said...

condivido l'analisi, ma sulla diatriba raccomandazione-concorso ricorderei una cosa: se è vero che la raccomandazione, in un sistema di verifica dei risultati ex post, divent aun sistema di selezione non distorsivo, è anche vero che il concorso in sé, oltra a garantire una graduatoria imperfetta ma trasparente, garantisce l'accessibilità delle cariche a tutti, cosa che assolutamente non appartiene alla raccomandazione. e questo non va certo dimenticato.

Anonymous said...

Quando c'è la raccomandazione allora non c'è democrazia. Negli stati anglosassoni la raccomandazione. Un dipendente viene assunto per le proprie capacità. In Italia vanno avanti solo le persone incapaci ecco perchè siamo indietro.

Anonymous said...

sta facendo un escursus dai nullafacenti ai concorsi etcetc,bellissimi,ci sarebbe da farne un libro