E' on line il numero X di LibMagazine. Insieme a tanti altri validi contributi, alcune mie riflessioni sul rapporto tra democrazia e guerra.
Quali sono le cause delle difficoltà dell'Occidente nella guerra al terrorismo e nell'affrontare regimi fondamentalisti come quello iraniano? Quali sono le cause delle difficoltà americane in Iraq?
Secondo Giuliano Ferrara (Il Foglio, 10 novembre), nessun errore strategico o tattico, le cause vanno ricercate «nel nostro modo di essere occidentali e moderni», nel fatto che Churchill «è morto e sepolto». Ferrara ricorda che il periodo di «lunga pace e prosperità» in cui viviamo dipende «dalla devastazione e dalla spoliazione di un nemico riconosciuto per tale e denunciato per tale».
La forza di annientamento con cui furono sconfitte Germania, Italia e Giappone nella Seconda Guerra Mondiale è cosa «ormai ideologicamente scorretta, incompatibile con la buona coscienza dell'occidente... La guerra è per noi un ricordo lontano, e
per il grosso dell'opinione consolidata dal partito globale dei media, un incubo».
Tuttavia, esistono dei «costi della nostra buona coscienza», nell'aver sostituito la geopolitica alla guerra. La «malattia mortale dell'occidente», conclude Ferrara (Il Foglio, 14 novembre) è «la scomparsa della guerra... non siamo capaci più di farla».
C'è del vero in quanto sostiene il direttore del Foglio. Una guerra contro un nemico che non cerca semplici vantaggi commerciali o territoriali, ma mira alla tua distruzione, come i terroristi in Iraq, non può essere vinta con il minimo sforzo, ma con l'annientamento dell'avversario.
Tuttavia, come ha giustamento osservato Carlo Panella (Il Foglio, 23 novembre), la «cecità» che colpisce le democrazie di fronte ai totalitarismi non è un problema «dell'oggi».
Il fenomeno del «riconoscimento tardivo del nemico» si è manifestato in modo esemplare negli anni '30 del secolo scorso, e la Conferenza di Monaco nel 1938 ne è l'evento più emblematico. Anche allora, dunque, c'era da prendersela con il «nostro modo di essere occidentali e moderni», con «la buona coscienza dell'occidente», con un lungo periodo di «pace e prosperità» alle spalle? Eppure, c'è chi quella guerra ha saputo combatterla e vincerla. Il problema, quindi, sottolinea Panella, è che «le democrazie stentano a comprendere che i sistemi totalitari le minacciano e reagiscono un attimo prima che sia troppo tardi». E' accaduto nel 1938 e, forse, accade oggi.
«Dal 1979 a oggi - osserva - gli Stati Uniti non sono riusciti a mettere a fuoco una strategia decente contro l'avanguardia marciante del totalitarismo islamico: l'Iran degli ayatollah». Dunque, è la previsione pessimistica di Panella, «andiamo a passi da gigante verso Monaco, in attesa che europei e americani sentano sulle loro nuche il freddo delle scimitarre islamiche. Nella speranza che reagiscano, come fecero, ma solo all'ultimo minuto, dopo Dunkerque e Pearl Harbor».
Il ritardo delle democrazie a comprendere le minacce delle forze totalitarie e la tendenza ad agire contro di esse «un attimo prima che sia troppo tardi» sembrano problemi fisiologici, che trovano spiegazione nella natura stessa delle nazioni democratiche, nel loro rapporto con l'idea della guerra e dell'esercito, ben descritto da Alexis de Tocqueville ("La Democrazia in America", 1835 - 1840): «Vi sono due cose che un popolo democratico farà sempre con grande fatica: cominciare una guerra e finirla».
La democrazia, spiegava il magistrato francese di ritorno dal suo viaggio negli Stati Uniti del 1830, «favorisce l'accrescimento delle risorse interne dello stato, diffonde l'agiatezza, sviluppa lo spirito pubblico, fortifica il rispetto della legge nelle varie classi». I cittadini dei paesi democratici sono spinti verso l'industria e il commercio. Essendo «eguali», sanno che è possibile, e desiderano, «mutare la loro condizione e aumentare il loro benessere: ciò li dispone naturalmente ad amare la pace, che fa prosperare l'industria e permette a ognuno di giungere a capo delle sue piccole imprese».
Temono la guerra, invece, che «divora tanto rapidamente» la ricchezza prodotta in tempo di pace: «Una specie di apatia e di benevolenza universale li placa e fa cadere la spada dalle loro mani». Inoltre, la temono perché «qualsiasi lunga guerra in un popolo democratico mette in pericolo la libertà». Aumentano immensamente le attribuzioni del governo, che accentra nelle sue mani i poteri e l'uso delle cose materiali. Dunque, «se non conduce al dispotismo tutt'a un tratto con la violenza, porta dolcemente ad esso con le abitudini». Tutte queste cause «contribuiscono a estinguere lo spirito militare» nelle nazioni democratiche.
Tuttavia, osserva Tocqueville, la guerra è «un accidente a cui tutti i popoli sono soggetti, qualunque sia il gusto che hanno per la pace». Se per ogni esercito è valida la regola per cui se «entra in campagna dopo una lunga pace, rischia di essere vinto...», ciò è particolarmente applicabile agli eserciti dei paesi democratici: «Dopo una lunga pace, e nei tempi democratici le paci sono lunghe, l'esercito è sempre inferiore al paese stesso. In questo stato lo trova la guerra; e, finché la guerra non lo ha mutato, il paese e l'esercito stesso sono in pericolo». Presso le società democratiche, inoltre, in tempo di pace «la carriera militare è poco onorata e seguita. Questo sfavore pubblico è un peso che grava sullo spirito dell'esercito».
Eppure, Tocqueville invita il paese democratico a «non lasciarsi scoraggiare dalle prime disfatte, poiché le possibilità di vittoria del suo esercito aumentano con la durata stessa della guerra». Se la pace è particolarmente "dannosa" per gli eserciti democratici, «la guerra assicura loro qualità che gli altri eserciti non hanno mai».
Quando la minaccia si concretizza, o la guerra si prolunga, strappando i cittadini ai loro lavori pacifici, mettendo in pericolo il benessere conquistato in tempo di pace, i paesi democratici si dimostrano in grado di reperire tutte le risorse e le ricchezze necessarie, umane e materiali, «conducono più facilmente tutte le loro forze disponibili sul campo di battaglia». Accade che «le stesse passioni che attaccavano i cittadini alla pace, li rivolgano verso la guerra» e si scopre che l'abitudine alla libertà e all'eguaglianza ha preparato il loro «animo» ad essere particolarmente motivato e a «farla bene».
Tutte quelle qualità che rendono i popoli democratici attaccati alla pace fino a «un attimo prima che sia troppo tardi», una volta che vi sono trascinati, si trasformano in virtù che li rendono in guerra superiori ai loro nemici.
Per questa ragione, secondo Tocqueville, le nazioni democratiche, che «con tanta malavoglia si fanno condurre sui campi di battaglia, vi compiono prodigi quando si è riusciti a fare loro impugnare le armi» e hanno in definitiva maggiori probabilità di vittoria contro stati dispotici.
Dunque, il ripudio della guerra, le resistenze che ad essa oppongono i Parlamenti, i media, e l'opinione pubblica, sono elementi costitutivi delle società democratiche. Il rapporto tra consenso popolare e guerra è inscindibile, spesso drammatico e pieno di rischi, ma irrinunciabile. Per quanto mi riguarda, mi arruolo tra coloro che con maggiore forza denunciano le minacce delle forze totalitarie, e propongono le risposte più risolute, non escludendo l'uso della forza, ma ho presente che rinunciare alla dialettica tra guerra e opinione pubblica, all'estrema, a volte quasi "suicida" - a volte saggia - riluttanza che i cittadini di una democrazia hanno riguardo la guerra, significa di fatto rinunciare alla democrazia stessa, a ciò che siamo in ragione di essa, al «nostro modo di essere occidentali e moderni». E', quello di reagire troppo tardi, un rischio, e un costo, che sono disposto a correre. Caro Ferrara, ci vuole forse più fiducia nella democrazia, perché finora gli errori e le inefficienze a cui pure è soggetta si sono rivelati sopportabili rispetto ai benefici.
Il vero tema da discutere, invece, sarebbe come riconoscere il nemico prima che sia troppo tardi, prima di quell'ultimo minuto che poi rende inevitabile il ricorso a guerre devastanti. Comprendere se e come, di fronte a stati la cui minaccia è rappresentata dalla natura stessa dei loro regimi, siano possibili politiche di "regime change" nonviolento, con il sostegno delle forze democratiche al loro interno e l'uso delle armi di attrazione di massa delle democrazie. Di questo è urgente parlare. Per questo, è urgente riconoscere il nemico.
2 comments:
ferrara e panella sono due grandi, intelligenti ed acuti, non solo furbi come altri. è vero però che quanto da loro ottimamente dedotto, è un poco - nessuno me ne voglia -, la scoperta dell'acqua calda, nel senso che è sotto gli occhi di tutti...almeno dei più volenterosi...e non parlo di quelli, ormai ex tali, seduti attorno al famoso tavolo....
voglio solo dire che per sapere, come sempre, basta la volontà di documentarsi...anche se a volte dovrebbe bastare il solo essere consapevoli del proprio ruolo in un determinato momento storico.
in ogni caso, ci sono i documenti. storici ed accessibili.
cose trite e ritrite, dunque, note a molti se non ai più; figuriamoci, pure io - da ominide che sono -, ho postato le stesse cose qualche giorno fa...
talché mi chiedo - e nel farlo, voglio parafrasare l'accademico ministro di pietro, purista della crusca -, che c'azzecca? mi chiedo, infatti, che c'azzecca qui la dicotomia "democrazia-guerra"? niente...e nessuna forzatura riuscirà a suffragare la temeraria tesi sulla maggiore probabilità di vittoria che avrebbe uno stato democratico rispetto ad un altro, munito di differente sovranità...quanto all'esito finale della guerra.
si vince perché si è una democrazia?
e l'urss contro i nazi????????????????????
sicuramente una svista degli autori...o un mio cattivo intendere...urge l'esegesi allora e subito perché si parte dalla inconfutabile verità che l'essere in guerra è un requisito essenziale dell'uomo, prestatuale, pre-democratico e pre-tutto, precedente finanche all'acquisizione della posizione eretta...ed in questo senso, rispetto all'età della guerra, la democrazia, per l'uomo...è ieri appena! ieri sera tardi...
ma dai, a prescindere dalla banale considerazione che l'idea di guerra storica, convenzionalmente intesa come lotta accanita per ottenere la vittoria contro le forze nemiche...è pressoché scomparsa, rimpiazzata da un confronto sleale assai, più del primo, posto in essere con operazioni di guerriglia et terrorismo...a prescindere da questo piccolissimo particolare, le parole chiave da usare in questa circostanza sarebbero altre, 3 per la cronaca: tempestività, volontà e tecnologia.
le altre cose, parole chiave o magiche che siano...sono solo corollari, se non sterili surrogati.
partendo dal mio essere contrario alla guerra, specie se "gratuita", tristemente sono costretto a rilevare che gli strateghi politicamente corretti, ovviamente, queste tre parole chiave, nemmeno ( o proprio??? ) loro le considerano più; ma anche questa è cosa nota...perché è pacifico che tutti ci siamo rassegnati, pigramente e comodamente, a che le guerre siano decise più sulle pagine degli editoriali che sui campi di battaglia.
e questo avviene, è palese, col benestare del potere, ovunque nel democratico occidente. ma è chiaro che sia così, versando l'inchiostro al posto del sangue, ci si può esercitare in capziose - ma sempre utili - argomentazioni, così infarcite di efficace retorica da riuscire a presentare i fatti in una luce tanto distorta, da essere addirittura favorevoli - magari - al governo di turno! eh sì, in guerra, la conta delle cifre sondaggistiche conviene maggiormente rispetto a quella dei morti ammazzati finiti nei sacchi di raccolta. ed infatti, i commentatori e gli opinionisti ( di regime governativo, nel caso italiano ) sono le nuove truppe d'elites e la guerra...che magari non sarà propriamente l'unica igiene del mondo ma almeno uno strumento di surroga della moscia diplomazia delle c.d. democrazie occidentali, questo sì...la guerra, dicevo, è diventata talmente scorretta e riprovevole da essere relegata nelle mani di pochi stolti, già kriminali ( manca "amerikani" ma ho inserito la kappa apposta, come richiamino... ), se non ad una approvazione per infiniti gradi, determinata non dall'apprezzamento degli arsenali bellici ma da quello dell'opinione pubblica. proprio come ai quiz di mike bongiorno o chi per lui...
e che ci vogliamo fare? è proprio vero che ciò che von clausewitz definiva "il centro di gravità della guerra" si è spostato dalla forza delle armi alle menti degli opinion leaders, novelli oracoli di delphi i quali, muniti spesso di mandati governativi, ce li fanno a peperini tutti i giorni con la favoletta della supremazia della politica e bla, bla, bla...e così, mentre l'occidente si ferma a...pensare, riflettere, mediare, cerchiobottare...il nemico si crogiola in tutta questa ignavia e si rafforza vieppiù, puntellandosi proprio sugli errori "de noantri", acuti bipedi antropomorfi che si autodefiniscono "occidentalizzati"...e così, mentre noi raggiungiamo il massimo dell'erotismo facendoci le seghe a vicenda, con i culi rivolti rigorosamente ad occidente, al-qaeda, al contrario, si infervora e gode alla grande quando può rendere edotti tutti i punti cardinali del pianeta terra che oltre la metà delle battaglie islamiste "si svolgono sul campo di battaglia dei media".
e noi siamo pure contenti...oltre che fessi!
eh sì, è il tempo delle pubbliche relazioni della guerra.
"pasticcio" politico per primo e armageddon "diplomatico" come seconda portata?...sì.
bah, che dire, se le cose stanno così, delicatessen per delicatessen, con buona pace del bistrattato fegato, anche se solo fritta...mi sa tanto che è meglio una "bomba"...
ciao.
io ero tzunami...
ma perché non mi fai la recenione di da soli in mezzo al campo su lib?
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