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Thursday, April 19, 2007

Il Partito non-americano, non-democratico

Partito democratico, un partito nato stancoFacile sarebbe l'ironia. Partito «americano», come scrive oggi Mieli, o «antiamericano»? E' vero che la denominazione richiama «il più antico partito statunitense, il partito di Franklin Delano Roosevelt ma anche dell'anticomunista Harry Truman, di John Kennedy ma anche del "guerrafondaio" Lyndon Johnson e poi di Jimmy Carter e di Bill Clinton», ma di quel partito, e di quei personaggi, non ha nulla.

Quel nome per Mieli «implica in buona sostanza la scelta del modello americano anche se ancora a lungo, per prudenza e dissimulazione, ciò verrà negato. Quantomeno nel discorso pubblico». Una scelta che forse per ragioni di opportunismo viene dissimulata, persino nel suo momento fondativo, è perdente in partenza. Non è «americano» - maggioritario uninominale e bipartitico - il sistema politico verso cui Ds e Margherita mostrano di volersi incamminare, perché non sono disposti a rischiare di perdere il potere infrangendo il tabù dell'unità della sinistra. E per questo finiranno proprio con il perderlo.

Non è «americano», perché l'attuale, e probabilmente prossimo, sistema proporzionalista lo condanna a non giocare un ruolo politico diverso da quello giocato dall'Ulivo: cioè di caotico, incerto, zoppicante, sterile albergo riformista sotto il ricatto della sinistra neocomunista e reazionaria.

Non è «americano», perché non ci sono leader che accettino di uscire «allo scoperto» e rischiare di mettere in gioco se stessi e la loro carriera politica per quella leadership. «Da quasi vent'anni la scena è occupata dagli stessi sei o sette leader, per lo più vecchiotti e di sesso maschile, mentre i giovani aspiranti alla successione - non avendo il coraggio di condurre vere battaglie politiche - preferiscono "prendere il bigliettino" e fare la fila in attesa del proprio turno», ha scritto Luca Ricolfi.

Non è «americano» neanche nei contenuti, perché è la somma delle oligarchie post-comunista e post-democristiana, non ha cultura liberale nel suo Dna.

Il Partito democratico nasce senza un'idea generale di società e un progetto di cambiamento. Letteralmente non si conosce cosa questo partito voglia per il suo paese. Se invece delle parole si esaminano i comportamenti attuali di Ds e Margherita, questo partito si presenta su quasi tutte le issue di questi anni più in retroguardia di molte destre europee: libertà economiche, libertà personali, politica estera. «L'unico modo serio che abbiamo a disposizione per convincerci della bontà del nuovo prodotto, o della felicità del matrimonio Ds-Dl, è di guardare il comportamento dei due fidanzati. E chi lo ha fatto in questi anni... non ha potuto non vedere che i futuri sposi hanno ormai perso l'anima socialista senza per questo acquisire quella liberale».
«I veri liberali, che sono una sparuta minoranza in tutti i partiti italiani (eccetto la Rosa nel pugno), non possono che inorridire di fronte alla timidezza di Ds e Dl nel primo anno di governo. Più tasse, più contributi, più burocrazia in materia fiscale. Concorsi riservati nella pubblica amministrazione. Continui rinvii di problemi cruciali come pensioni e ammortizzatori sociali. Risorgenti tentazioni dirigiste in economia non appena il capitale straniero mette il naso in casa nostra (vicende Telecom e Autostrade). Per non parlare della politica scolastica e universitaria, dove non si intravede un barlume di meritocrazia. O di quella della sanità e degli enti locali, dove la politica non si sogna di fare quel passo indietro che promette sempre e non attua mai».
Dunque, conclude Ricolfi, «se così poco di voi stessi siete riusciti a mostrare in questi undici anni di fidanzamento, perché mai dovremmo credere che - una volta sposati - i vostri vizi si tramuteranno in virtù?»

5 comments:

Anonymous said...

Un'analisi che condivido. Quanto a Mieli, che certo non manca di acume e conoscenza, utilizza furbescamente argomentazioni inconsistenti per " sdoganare" il partito post comunista.
Miserable (in senso americano, ovviamente)!
Bianca

Anonymous said...

Il bello del nascente pd è che già possiamo vederlo all'opera al governo del paese.
Non hanno neppure il tempo per illudere qualcuno.

Alexis said...

Condivido. Ricolfi poi rimane uno degli osservatori più acuti (e onesti) che ci siano...

Anonymous said...

KABUL — Lapidato e finito a colpi di baionetta, nel mezzo della notte, con il figlio dodicenne che piange disperato a poche centinaia di metri. La sua «colpa»? Essere un suonatore di tamburo («dohl»), lo strumento classico della tradizione locale, a forma di cilindro allungato in pelle bovina, da appendere al collo e portare alle feste di paese, alle nascite e ai matrimoni, alle celebrazioni pubbliche. È morto così Nazar Gul, 35 anni, figlio d'arte: il padre e il nonno erano suonatori di dohl noti in tutta la regione del Logar. Ucciso dai telebani, che con lo zelo di sempre cercano in ogni modo di imporre la loro interpretazione fanatica dell'Islam. Dalla loro vittoria sulle milizie dei mujahedin nel 1996 alla guerra del 2001, gli zeloti del Mullah Omar vietarono ogni tipo di musica tranne le nenie coraniche recitate da voci strettamente maschili. Le loro basi erano contrassegnate dai nastri neri delle cassette di musica distrutte appese ai lampioni. Oggi ogni tentativo di restaurare le intransigenti regole sociali di quel periodo amplifica la loro forza nell'Afghanistan impaurito, deluso e ancora poverissimo di questo lungo, infinito dopoguerra. La tragedia del «tamburino martire» non è ancora apparsa sui media locali. Ma nei mercati popolari di Kabul e nella sede centrale della Croce Rossa Internazionale è diventata l'ennesimo esempio dell'incombente rinascita talebana. Ne parla con dovizia di particolari Najibullah, un amico della vittima. «Era la notte del 13 aprile. Nazar stava tornando a casa con il figlio dopo aver suonato a una festa di matrimonio nel villaggio di Qalae Zardad», dice insistendo sul nome della località. E tra il pubblico si avverte un fremito di paura. Non c'è da stupirsene. Nulla a che vedere con le cronache dell'intolleranza quotidiana contro le scuole femminili o i rappresentanti del governo nella regione talebana di Helmand, o nelle zone pashtun al confine pachistano. Laggiù da almeno tre anni i talebani fanno il bello e il cattivo tempo. «Qalae Zardad è qui dietro l'angolo, una sessantina di chilometri a sud di Kabul. Ciò vuol dire che si stanno sempre più avvicinando alla capitale», aggiunge Najibullah. A suo dire Nazar era stato avvisato più volte: non vogliamo musica, basta tamburini. Il figlio tra le lacrime racconta che verso mezzanotte sono stati fermati da una dozzina di talebani armati. Nazar è stato portato via subito. E il suo corpo insanguinato è stato ritrovato la mattina dopo nella discarica del villaggio di Dashte Khusgho.
Il suo dohl sfondato era sotto un mucchio di pietre. Ma le cronache dell'intolleranza non si fermano qui. È almeno dagli inizi del 2005 che i media locali e gli stessi portavoce della Nato segnalano il ritorno in forze non solo delle milizie armate talebane ma soprattutto dei tentativi di imporre i loro codici di comportamento sulla società. A farne le spese sono le maestre che insegnano nelle scuole femminili. Ma non solo. Un mese fa i quotidiani riportavano la decapitazione di un barbiere nella regione di Kandahar, perché «gli uomini non devono radersi come gli occidentali». Lo scorso dicembre il ministero dell'Educazione dichiarava che «circa 200 scuole erano state bruciate o vandalizzate in tutto il Paese nel 2006, contro le 150 nell'anno precedente». I dati che giungono dalle singole province sono ancora più sconcertanti. Nel distretto di Ghazni circa 50.000 studenti non possono seguire le lezioni in modo regolare e sono minacciati di morte dai talebani. In particolare a Moqur, Qarabagh, Andar, Waghaz e Khogyani ben 11 mila ragazze hanno dovuto restare a casa. «Almeno quaranta maestri sono stati uccisi dai talebani negli ultimi 12 mesi, specie nel Sud», osservava due giorni fa il ministro dell'Educazione, Mohammad Hanif Atmar. Nel distretto di Zabul, a nord di Kandahar, su 188 scuole, 133 sono chiuse. Per le ragazze è rimasto funzionante un solo istituto, che al massimo può ospitare 1.800 allieve. Basta leggere il pamphlet di nove pagine diffuso dalle milizie del Mullah Omar in ottobre per ritrovare i dettami del famigerato ex ministero del Vizio e della Virtù imperante sino a sei anni fa. «Va rispettata la giustizia islamica», si legge nei 29 punti del documento. Maestri e professori sono avvisati, devono «immediatamente cessare di insegnare i programmi imposti dal regime di burattini» imperante a Kabul. Come avvertimento verranno picchiati. Se persistono «saranno uccisi». Non mancano regole di comportamento anche per i talebani. L'articolo 18 avverte che è vietato fumare. E il 19 critica l'usanza degli uomini pashtun di intrattenere rapporti sessuali con i ragazzini. Si legge: «È vietato portare giovani imberbi nelle zone di battaglia e nelle case dei nostri combattenti».
Lorenzo Cremonesi
21 aprile 2007

E CON QUESTA GENTACCIA FASSINO VORREBBE TRATTARE AD UN TAVOLO DELLA PACE...

Anonymous said...

proprio ieri sera, in un paesino della toscana, un elettore storico del pci-pds-ds-pd mi ha spiegato con assoluta tranquillità che mussi è solo uno che vuole comandare e per questo si vuol fare un partitino tutto suo.
ecco qua.

è già cominciata la delegittimazione del traditore e la sua demonizzazione ad uso e consumo del popolo bue...

questa sì che è davvero innovazione!