Pagine

Monday, May 28, 2007

Il deficit di leadership si cura con la riforma anglosassone

«La politica funziona benissimo, là dove dispone di leadership capaci di mettersi in gioco per raccogliere consenso intorno alle proprie idee. Più dei costi e dei privilegi, più della scarsità di giovani e di volti nuovi, la nostra malattia si chiama difetto di leadership. Ovvero l'assenza di quella qualità che trasforma un'élite politica in una classe dirigente, quando sa assumersi la responsabilità di rischiare la faccia per svolgere bene e fino in fondo il lavoro che ha scelto».

Pienamente condivisibile questa lettura di Andrea Romano, oggi su La Stampa, che ci consente, a partire dal problema, di provare a individuare una soluzione. Che a mio avviso non può che passare per una riforma istituzionale capace di mettere finalmente l'individuo - elettore o eletto - al centro del sistema politico, al posto dei partiti. Una riforma di tipo anglosassone, che preveda un sistema elettorale uninominale e il presidenzialismo o il premierato come sistema di governo. L'importante è che il capo dell'Esecutivo riceva la legittimazione a governare direttamente dai cittadini e non dai partiti attraverso lo strumento della fiducia parlamentare.

Ciò che possiamo toccare con mano oggi è che le democrazie di tipo anglosassone, o quelle semipresidenzialiste, come la Repubblica francese, non solo dispongono di leadership forti - che nel bene o nel male si assumomo la responsabilità delle proprie scelte e su quelle vengono premiate, o bocciate, e decidono, quindi governano - ma riescono a coniugare governabilità e ruolo forte dei Parlamenti nazionali.

Nei sistemi in cui i governi non dipendono (non devono la propria legittimità) da maggioranze che gli concedono la fiducia, cioè da un patto politico tra partiti che nasce in Parlamento e, quindi, rimangono in carica fino alla scadenza naturale del mandato, se arriva alle Camere una legge gradita all'opposizione, capita spesso che alcuni suoi deputati la votino, non essendo in gioco la permanenza al governo degli avversari; e, viceversa, se arriva una legge sgradita a parte della maggioranza, capita che alcuni suoi deputati non la votino, sapendo di non far cadere il premier o il presidente. Il fatto che siano tutti più indotti a valutare nel merito e non per appartenenza toglie potere di ricatto alle ali estreme e ai partiti e l'autonomia del Parlamento ne esce rafforzata.

In un sistema elettorale maggioritario, puro (senza quote proporzionali o scorpori), non ci sono collegi per i quali optare o ripescaggi. Se perdi, sei fuori. E in una democrazia post-ideologica, dove ormai la quasi totalità dei collegi si giocherebbe su pochi punti percentuali, anche gli esponenti medio-alti, quelli più famosi e telegenici, certamente i burocrati di partito, rischierebbero di andare a casa. Per i cittadini vorrebbe dire finalmente più controllo sull'operato degli eletti, un ricambio più frequente e "meritocratico" della classe politica. Un metodo di selezione delle leadership molto più efficiente, che indurrebbe i partiti stessi a valorizzare chi sa mettersi in gioco davanti agli elettori e raccogliere consenso intorno alle proprie idee, piuttosto che costruire la propria carriera sulle clientele e all'interno dell'apparato.

1 comment:

Sergio Vivi said...

Post interessante e ben argomentato, come sempre. Mi permetto, però, di dissentire.

«mettere finalmente l'individuo - elettore o eletto - al centro del sistema politico, al posto dei partiti»
per me significa dare all’individuo elettore la più ampia facoltà di scelta possibile.

Personalmente, auspico il ritorno al voto di preferenza: per scegliere non un singolo, ma alcuni nomi. Non su una lista territoriale, ma su un elenco nazionale. Non solo dalle liste dei partiti, ma anche da elenchi d’indipendenti.

Non sono disposto a votare il nome “bloccato” dell’unico candidato di un collegio uninominale, neppure se scelto con “le primarie” più serie.

Sarò controcorrente, ma credo che l’unico metodo democratico per eleggere i detentori del potere legislativo sia il proporzionale puro.
Occorre, invece, trovare il modo affinché si possa perseguire in parlamento la sintesi delle posizioni politiche per dare vita ad un potere esecutivo stabile.

Il leader non salta fuori da nessuna riforma istituzionale e neppure da elezioni primarie.
Prodi e Ségolène non sono leader, Sarkozy sì.