Da LibMagazine di questa settimana
Il discorso di Veltroni alla prima assemblea della costituente del Partito democratico, sabato scorso a Milano, è stato fiacco. Nulla di concreto per quanto riguarda i contenuti, nessuna indicazione chiara neanche sulla legge elettorale, se non che non vuole andare al voto con quella attuale, perché sarebbe «irresponsabile». Tuttavia, coerentemente con quanto sostenuto fin dalla sua candidatura alla leadership, nel giugno scorso a Torino, ha ribadito la volontà di fare del Pd un partito a «vocazione maggioritaria», cioè in grado di vincere le elezioni e governare da solo, senza alleanze disomogenee che mettano a repentaglio la coerenza della proposta di governo.
Ci pare questa l'unica vera novità politica di questi mesi, mentre nulla di nuovo, né a livello di idee e proposte, né a livello di contenitore, ci pare giungere dal centrodestra, da Berlusconi, che si limita ad aspettare in riva al fiume che passi il cadavere del Governo Prodi e a preparare quella che per ora ha tutti i tratti di una rivincita personale.
In realtà, a fronte di un Pd che quasi sicuramente si presenterà da solo, con il volto "nuovo" e rassicurante del sindaco di Roma, probabilmente affrontando di petto due tabù della sinistra (tasse e sicurezza), la CdL appare tutta da ricostruire. Sebbene il Governo Berlusconi abbia retto per un'intera legislatura, le divisioni interne non gli hanno permesso di soddisfare l'aspettativa di "rivoluzione liberale" che era stata alla base della netta e consistente vittoria elettorale del 2001.
In questi mesi trascorsi all'opposizione si è palesata una tendenza all'aumento, e non alla diminuzione, della conflittualità interna al centrodestra, dovuta in parte anche alla figura del suo leader. S'intravedono già le armi di polemica personale che sfodereranno i due candidati premier. Veltroni contesterà a Berlusconi di essere «vecchio», alla luce delle sue ben cinque candidature a Palazzo Chigi, mentre Berlusconi ribatterà che il suo avversario non è affatto «nuovo» come pretende di presentarsi, essendo in politica da circa 35 anni.
C'è molto di vero in entrambi gli argomenti, ma per ora l'unico elemento di novità è rappresentato dall'intenzione di Veltroni di presentare il Pd da solo: «Nella prossima legislatura ci presenteremo con un programma chiaro, e se otterrà il consenso di altre forze bene, altrimenti il Pd coltiverà la sua vocazione maggioritaria fino in fondo». Non è poco.
Una «vocazione maggioritaria», come osservava Panebianco sul Corriere, e come abbiamo più volte sottolineato, per esplicarsi appieno avrebbe bisogno di due fattori, uno interno, a livello organizzativo, e uno esterno. Il Pd non dovrebbe essere il partito delle tessere, ma delle primarie, cioè della partecipazione non solo degli iscritti, ma anche degli elettori ai momenti fondamentali della vita del partito. Dal punto di vista del contesto esterno, il Pd dovrebbe inserirsi in un nuovo sistema politico plasmato da una legge elettorale dagli effetti maggioritari.
Secondo la plausibile lettura del Foglio, Veltroni «vuole andare alle elezioni, possibilmente in primavera e con un partito senza tessere, senza correnti e senza alleati... nonostante la lettera, va detto, è assai diversa: "Noi vogliamo che il nostro paese non precipiti verso le elezioni anticipate"».
Continuiamo a pensare invece, che Veltroni preferisca un governo "cuscinetto", da otto mesi a un anno, che con la scusa della legge elettorale gli dia tempo di allontanare il più possibile la disastrosa disavventura Prodi dalla memoria degli italiani e costruire il partito. Il Presidente Napolitano, è noto, in caso di crisi è intenzionato a esperire un tentativo per formare un gabinetto che vari una nuova legge elettorale e porti poi alle urne, anche se al dunque potrebbero mancare i numeri.
Ma Veltroni non teme il precipitare della situazione, quindi la prospettiva di elezioni già nella primavera del 2008. La sua vaghezza nel merito della legge elettorale è un primo indizio. Non vuole farsi logorare, nei prossimi mesi, dalla sopravvivenza del Governo Prodi. Una sua eventuale sconfitta sarebbe comunque imputata al fallimento dell'Unione prodiana, mentre presentando il Pd da solo Veltroni potrebbe cantare una mezza vittoria e sfruttare il periodo all'opposizione per fare piazza pulita, prendere il pieno controllo del partito, ed eventualmente elaborare in libertà politiche davvero innovative.
Paradossalmente, è più probabile che riesca a imporre la "rupture" con la sinistra comunista e massimalista nell'eventualità di un voto a primavera. Nelle ristrettezze temporali, infatti, il dibattito interno e la vita democratica del nuovo partito verrebbero congelati fino a dopo le elezioni e tutte le energie concentrate nella campagna elettorale per ridurre al minimo le perdite. Mesi di dibattito, invece, potrebbero rendere più difficile l'opera di emancipazione del Pd dalla "cosa rossa", rischiando persino di generare fuoriuscite dal centro, o da sinistra, di quelle correnti che percepissero come minoritaria la propria condizione.
Nel week end appena trascorso si è svolto un altro evento non proprio irrilevante: il convegno "Verso la Costituente Liberal-Democratica Europea - Valori liberali: quelli veri e quelli falsi", organizzato da PRI e Voce Repubblicana.
L'idea di un processo aggregativo e/o federativo dell'area laica e liberale, che vada dagli ex radicali ai repubblicani, fino ai diniani, aleggia da anni nel dibattito politico e riprende vigore con l'approssimarsi di ogni giro di boa elettorale. In effetti, un'area di consenso per un soggetto liberale, liberista e laico, certo non maggioritario, ma autorevole e influente soprattutto per le sue proposte, esiste.
Sia il berlusconismo che il riformismo ulivista hanno deluso le aspettative di cambiamento. Se le corporazioni, le minoranze fortemente organizzate, bloccano la capacità decisionale della politica, ampi settori di opinione pubblica chiedono e aspettano una vera e propria trasformazione, che le politiche liberali sono le più attrezzate a realizzare: per quanto riguarda le tasse, la spesa pubblica, gli sprechi e i privilegi, il lavoro, il merito, la concorrenza.
Ciò che è mancato finora è soprattutto una leadership giovane, determinata, competente e lungimirante, dotata di una sufficiente forza di attrazione. Una condizione necessaria, ma non sufficiente per la riuscita di una simile operazione. Altri fattori, infatti, giocano un ruolo determinante. Innanzitutto, dovrebbe essere cancellato dal vocabolario il termine "costituente". Non dovrebbe ridursi a una semplice sommatoria di spezzoni di vecchio ceto politico in cerca di collocamento, pronti all'indomani del voto a riprendere ciascuno la propria strada - come hanno dimostrato esperienze del passato - di fronte a un risultato elettorale al di sotto delle aspettative, oppure se scontenti del proprio peso specifico all'interno.
Un soggetto che volesse rappresentare le istanze liberali dovrebbe invece porsi come obiettivo quello di attrarre l'attenzione di un "Terzo Stato" consapevole: pezzi di imprenditoria e di mondo del lavoro non assistiti e non tutelati, di borghesia cittadina informata, di studenti e outsider sensibili ai temi del merito e dell'inclusione nella vita economica del Paese. Dovrebbe stabilire una forte sintonia con le migliori intelligenze liberali, da Giannino a Ichino, da Monti a Draghi.
Restituire le risorse nelle mani dei produttori, togliendole da quelle dei burocrati e degli assistiti; spezzare il binomio tasse-spesa pubblica, linfa vitale della partitocrazia e del corporativismo che tengono al palo l'Italia, dovrebbero essere le priorità, senza rinunciare alla pratica della laicità come metodo.
Sarebbe sbagliato se una tale aggregazione coltivasse ambizioni terzo-poliste, ma altrettanto sbagliato se - al di là dell'attuale congiuntura post-prodiana - ritenesse come dato acquisito e irreversibile la propria affiliazione al centrodestra. Per cultura un soggetto politico liberale dovrebbe tenere salda la barra della propria navigazione sui contenuti e saper valutare laicamente gli sviluppi, o le involuzioni, nel campo della destra come in quello della sinistra. L'inevitabile, di qui a qualche anno, fine del berlusconismo da una parte, e il processo messo in moto dal Partito democratico dall'altra, rendono difficile prevedere quale destra e quale sinistra ci troveremo di fronte.
Tuesday, October 30, 2007
La minaccia iraniana incombe
In esclusiva su questo numero di LibMagazine, l'analisi di Emanuele Ottolenghi, direttore del Transatlantic Institute, sull'«incombente minaccia» iraniana.
La contrarietà delle cancellerie europee rispetto all'ipotesi di un attacco militare contro l'Iran; la determinazione e il realismo del presidente francese Sarkozy, che ha messo l'Europa di fronte alle sue responsabilità:
«Sarkozy's speech then eloquently formulated our foreign policy challenge: a nuclear Iran is "unacceptable", failure to dissuade Tehran from its nuclear ambitions is unthinkable because the dilemma it forces us to face is catastrophic – either war or a nuclear Iran – and therefore we must do more to prevent Iran from reaching the brink of nuclear mastery... What Sarkozy is saying to Europe is simple: if you want to prevent Iran from going nuclear and avoid a military strike against Iran, make your diplomacy more aggressive and more effective. Or, in simpler language, put your money where your mouth is».
Quindi, Ottolenghi delinea con precisione i due scenari della «disastrosa alternativa», «an Iranian bomb or the bombing of Iran». Da una parte gli studi che indicano le conseguenze, i pericoli e i possibili fallimenti di un attacco; dall'altra gli effetti ancora più catastrofici, sulla regione e sul mondo intero, di un Iran che riuscisse a dotarsi della bomba atomica.
Infine, un capitolo sul "che fare?". L'Europa può fare molto: «Europe is the first commercial partner of Iran... Europe can use its mighty economic, financial and commercial clout, to squeeze Iran». L'Europa può sollevare a livello internazionale la questione della violazione dei diritti umani in Iran ed utilizzarla per esercitare forti pressioni sul regime. Può sostenere pubblicamente e attivamente i dissidenti e l'opposizione iraniana nella loro lotta per la libertà.
Ma c'è molto altro sul nuovo numero di LibMagazine: uno sguardo di Gabriele Cazzulini sullo «spazio politico del Medio Oriente, molto più complesso di quello occidentale che è rimasto alle lineari geometrie di Euclide», e la risposta libertaria di Stefano Magni allo storico marxista Eric Hobsbawm, secondo cui il mercato sta uccidendo la democrazia.
Di politica interna si occupano il corsivo quotidiano, a cura di Francesco Nardi, e un editoriale del sottoscritto, che si sofferma sui due eventi politici del week end, segnali di altrettante potenziali novità: il discorso di Veltroni alla prima assemblea costituente del Pd e il convegno "Verso la Costituente Liberal-Democratica Europea", organizzato da PRI e Voce Repubblicana. Inoltre, Stefano Morandini sul caso dei "Sovereign Wealth Funds", i contributi di Ciro Monacella e Monica Costa e le consuete rubriche di Nardi, Castaldi, Fronterré, Lupi. Buona lettura.
La contrarietà delle cancellerie europee rispetto all'ipotesi di un attacco militare contro l'Iran; la determinazione e il realismo del presidente francese Sarkozy, che ha messo l'Europa di fronte alle sue responsabilità:
«Sarkozy's speech then eloquently formulated our foreign policy challenge: a nuclear Iran is "unacceptable", failure to dissuade Tehran from its nuclear ambitions is unthinkable because the dilemma it forces us to face is catastrophic – either war or a nuclear Iran – and therefore we must do more to prevent Iran from reaching the brink of nuclear mastery... What Sarkozy is saying to Europe is simple: if you want to prevent Iran from going nuclear and avoid a military strike against Iran, make your diplomacy more aggressive and more effective. Or, in simpler language, put your money where your mouth is».
Quindi, Ottolenghi delinea con precisione i due scenari della «disastrosa alternativa», «an Iranian bomb or the bombing of Iran». Da una parte gli studi che indicano le conseguenze, i pericoli e i possibili fallimenti di un attacco; dall'altra gli effetti ancora più catastrofici, sulla regione e sul mondo intero, di un Iran che riuscisse a dotarsi della bomba atomica.
Infine, un capitolo sul "che fare?". L'Europa può fare molto: «Europe is the first commercial partner of Iran... Europe can use its mighty economic, financial and commercial clout, to squeeze Iran». L'Europa può sollevare a livello internazionale la questione della violazione dei diritti umani in Iran ed utilizzarla per esercitare forti pressioni sul regime. Può sostenere pubblicamente e attivamente i dissidenti e l'opposizione iraniana nella loro lotta per la libertà.
Ma c'è molto altro sul nuovo numero di LibMagazine: uno sguardo di Gabriele Cazzulini sullo «spazio politico del Medio Oriente, molto più complesso di quello occidentale che è rimasto alle lineari geometrie di Euclide», e la risposta libertaria di Stefano Magni allo storico marxista Eric Hobsbawm, secondo cui il mercato sta uccidendo la democrazia.
Di politica interna si occupano il corsivo quotidiano, a cura di Francesco Nardi, e un editoriale del sottoscritto, che si sofferma sui due eventi politici del week end, segnali di altrettante potenziali novità: il discorso di Veltroni alla prima assemblea costituente del Pd e il convegno "Verso la Costituente Liberal-Democratica Europea", organizzato da PRI e Voce Repubblicana. Inoltre, Stefano Morandini sul caso dei "Sovereign Wealth Funds", i contributi di Ciro Monacella e Monica Costa e le consuete rubriche di Nardi, Castaldi, Fronterré, Lupi. Buona lettura.
Monday, October 29, 2007
Khodorkovsky e le vere "colpe" degli oligarchi
Per André Glucksmann, Mikhail Khodorkovsky, l'ex magnate russo dell'energia, proprietario di Yukos, espropriato della sua azienda e incarcerato in Siberia, è il nuovo Sakharov, un dissidente vittima di una persecuzione politica. Con un lucido articolo Glucksmann smonta la propaganda putiniana contro gli oligarchi.
E' vero che alcune persone «astute» si sono arricchite grazie alle liberalizzazioni dell'era Eltsin muovendosi in modo spregiudicato, ma «non a spese di proletari esangui per colpa della dittatura del proletariato», bensì di «dirigenti comunisti troppo fiacchi per difendere la loro torta». Non è vera, invece, la «favola» che racconta Putin, cioè la sua presunta lotta contro gli «oligarchi corrotti» per ridistribuire al popolo la ricchezza.
«Per parlare chiaramente, le autorità russe non desiderano sopprimere gli oligarchi, ma selezionano i "buoni", quelli che obbediscono e sopprimono i "cattivi", quelli che disobbediscono. Questi ultimi vengono puniti, il loro gruzzolo sequestrato e ridistribuito agli amici dell'ex Kgb (oggi Fsb)».
Ed ecco, dunque, i tre motivi per cui l'imprenditore Khodorkovsky dava fastidio: popolarità personale; sostegno ai partiti liberali; ostacolo alla concentrazione statale dell'energia e, quindi, alla politica estera del Cremlino, che vede nel ricatto energetico la sua principale arma nei confronti dell'Occidente.
E' vero che alcune persone «astute» si sono arricchite grazie alle liberalizzazioni dell'era Eltsin muovendosi in modo spregiudicato, ma «non a spese di proletari esangui per colpa della dittatura del proletariato», bensì di «dirigenti comunisti troppo fiacchi per difendere la loro torta». Non è vera, invece, la «favola» che racconta Putin, cioè la sua presunta lotta contro gli «oligarchi corrotti» per ridistribuire al popolo la ricchezza.
«Per parlare chiaramente, le autorità russe non desiderano sopprimere gli oligarchi, ma selezionano i "buoni", quelli che obbediscono e sopprimono i "cattivi", quelli che disobbediscono. Questi ultimi vengono puniti, il loro gruzzolo sequestrato e ridistribuito agli amici dell'ex Kgb (oggi Fsb)».
Ed ecco, dunque, i tre motivi per cui l'imprenditore Khodorkovsky dava fastidio: popolarità personale; sostegno ai partiti liberali; ostacolo alla concentrazione statale dell'energia e, quindi, alla politica estera del Cremlino, che vede nel ricatto energetico la sua principale arma nei confronti dell'Occidente.
«Khodorkovsky non è certamente un uomo del tutto candido. Neppure Sakharov lo era... Ma, presa coscienza dell'oppressione e della sopraffazione che lo circondavano, protesse i dissidenti e si oppose alla dittatura. Khodorkovsky... fu disgustato dal ritorno dell'autocrazia. Molti russi mi hanno detto e Anna Politkovskaya in particolare: era ricco e per questo il popolino diffidava di lui. "Ma se vai al bagno penale e non ti pieghi, agli occhi dell'opinione pubblica appari come purificato". La resistenza di Mikhail Khodorkovsky, nella sua solitudine mondiale, lo consacra grande figura di oppositore al fianco di Garry Kasparov e Vladimir Bukovsky».Dietro la balla della lotta agli oligarchi l'anima nera del regime putiniano.
Sunday, October 28, 2007
Dedicato a noi due
Trying to get up that great big hill of hope
For a Destination
What's Up (4 Non Blondes, 1992)
For a Destination
What's Up (4 Non Blondes, 1992)
Friday, October 26, 2007
Birmania. Tra la farsa e una mattanza in stile Pol Pot
Da una parte la messa in scena del dialogo, dall'altra la realtà di un paese brutalizzato da una Giunta militare al potere da 45 anni. Quando, prima o poi, il regime crollerà, verranno fuori le prove di una mattanza simile a quella compiuta da Pol Pot e dai suoi khmer rossi in Cambogia, e allora non potremo far altro che vergognarci per non aver mosso un dito.
«Vergogna della giunta, che proprio oggi diffonde alle telecamere di tutto il mondo il suo goffo tentativo di "riconciliarsi" con i monaci buddisti, costringendoli ad accettare doni. Ma siccome le autorità dei monasteri hanno proibito ai loro bonzi di farlo, i militari hanno inscenato una farsa, con falsi monaci, per una falsa riconciliazione. La giunta cerca di far "comprendere" alle autorità buddiste la "necessità" della repressione. Ma queste foto accusano ogni buona intenzione ed esigono domanda di perdono e un cambiamento radicale nel Paese.
Vergogna per noi, che al di là di qualche sussulto di scandalo verso le violenze dei militari, abbiamo pensato che in fondo si tratta solo della soppressione di alcune manifestazioni, quando invece si tratta di un sistema che uccide, ammazza, schiavizza una popolazione di quasi 50 milioni di persone.
Vergogna per l'Onu e la comunità internazionale, che non trova strumenti efficaci per garantire la democrazia a un popolo che l'ha scelta da tempo».
Così, Asianews, che diffonde le terribili foto (1 - 2) di un monaco buddista assassinato dalla dittatura militare birmana, inviate dagli esuli.
«Vergogna della giunta, che proprio oggi diffonde alle telecamere di tutto il mondo il suo goffo tentativo di "riconciliarsi" con i monaci buddisti, costringendoli ad accettare doni. Ma siccome le autorità dei monasteri hanno proibito ai loro bonzi di farlo, i militari hanno inscenato una farsa, con falsi monaci, per una falsa riconciliazione. La giunta cerca di far "comprendere" alle autorità buddiste la "necessità" della repressione. Ma queste foto accusano ogni buona intenzione ed esigono domanda di perdono e un cambiamento radicale nel Paese.
Vergogna per noi, che al di là di qualche sussulto di scandalo verso le violenze dei militari, abbiamo pensato che in fondo si tratta solo della soppressione di alcune manifestazioni, quando invece si tratta di un sistema che uccide, ammazza, schiavizza una popolazione di quasi 50 milioni di persone.
Vergogna per l'Onu e la comunità internazionale, che non trova strumenti efficaci per garantire la democrazia a un popolo che l'ha scelta da tempo».
Così, Asianews, che diffonde le terribili foto (1 - 2) di un monaco buddista assassinato dalla dittatura militare birmana, inviate dagli esuli.
Più reddito, ripartendo i costi della flessibilità
Il Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, parlando all'Università di Torino, individua un altro fenomeno pericoloso in corso, cui la politica dovrebbe porre rimedio. I giovani, avverte, potrebbero comprimere la loro propensione al consumo in ragione «di un reddito permanente atteso più basso che in passato» e della «discontinuità della vita lavorativa».
«Occorre che il reddito torni a crescere in modo stabile», perché «una ripresa della crescita del consumo è fondamentale per il benessere generale, per la crescita del prodotto, per la stessa stabilità finanziaria. Destinatari e protagonisti di questo processo sono in particolare i giovani».
Come? Abbandonare il totem del contratto collettivo nazionale, vera fonte di potere dei sindacati, monopolisti nella fornitura di manodopera; incentivare quindi i contratti aziendali e detassare gli straordinari. Certo, ma anche liberalizzare il mercato del lavoro: minori tutele sul posto fisso degli insider, tagliare i vincoli ai licenziamenti, in modo che le aziende possano liberare risorse oggi "sequestrate" da interi settori o singoli dipendenti improduttivi e investirle su personale giovane e qualificato. Così, oltre a essere altamente flessibili, o "precari", i primi contratti di lavoro per i giovani sarebbero più sostanziosi e allettanti.
E' proprio questo che intende Draghi quando dice di «ripartire più equamente i costi derivanti dalla maggiore flessibilità» e indica «modi, sperimentati anche in altri paesi, per contemperare le esigenze di imprese competitive con le aspirazioni dei lavoratori che entrano nel mercato, con i bisogni di stabilità e crescita professionale di coloro che già vi sono».
Gli studi dimostrano che esiste una correlazione tra la rigidità del mercato del lavoro e i bassi salari. In Italia si registrano i livelli salariali più bassi tra i principali Paesi Ue, in particolare nelle mansioni più qualificate. Il posto fisso lo paghiamo con una busta paga leggera, ma soprattutto, il posto fisso dei tutelati pesa sulla busta paga - di 800 euro, quando va bene - dei lavoratori flessibili.
Inoltre, età di pensionamento a 65 anni, per «ricostruire l'equilibrio fra attesa di vita, attività lavorativa e modelli di consumo», e abolizione delle forme di cassa integrazione, per un sistema di ammortizzatori universali che riduca la fisiologica contrazione dei consumi nel periodo di passaggio da un lavoro a un altro.
«Occorre che il reddito torni a crescere in modo stabile», perché «una ripresa della crescita del consumo è fondamentale per il benessere generale, per la crescita del prodotto, per la stessa stabilità finanziaria. Destinatari e protagonisti di questo processo sono in particolare i giovani».
Come? Abbandonare il totem del contratto collettivo nazionale, vera fonte di potere dei sindacati, monopolisti nella fornitura di manodopera; incentivare quindi i contratti aziendali e detassare gli straordinari. Certo, ma anche liberalizzare il mercato del lavoro: minori tutele sul posto fisso degli insider, tagliare i vincoli ai licenziamenti, in modo che le aziende possano liberare risorse oggi "sequestrate" da interi settori o singoli dipendenti improduttivi e investirle su personale giovane e qualificato. Così, oltre a essere altamente flessibili, o "precari", i primi contratti di lavoro per i giovani sarebbero più sostanziosi e allettanti.
E' proprio questo che intende Draghi quando dice di «ripartire più equamente i costi derivanti dalla maggiore flessibilità» e indica «modi, sperimentati anche in altri paesi, per contemperare le esigenze di imprese competitive con le aspirazioni dei lavoratori che entrano nel mercato, con i bisogni di stabilità e crescita professionale di coloro che già vi sono».
Gli studi dimostrano che esiste una correlazione tra la rigidità del mercato del lavoro e i bassi salari. In Italia si registrano i livelli salariali più bassi tra i principali Paesi Ue, in particolare nelle mansioni più qualificate. Il posto fisso lo paghiamo con una busta paga leggera, ma soprattutto, il posto fisso dei tutelati pesa sulla busta paga - di 800 euro, quando va bene - dei lavoratori flessibili.
Inoltre, età di pensionamento a 65 anni, per «ricostruire l'equilibrio fra attesa di vita, attività lavorativa e modelli di consumo», e abolizione delle forme di cassa integrazione, per un sistema di ammortizzatori universali che riduca la fisiologica contrazione dei consumi nel periodo di passaggio da un lavoro a un altro.
Ma il modello tedesco non è quello di cui si parla
Giorni fa Panebianco vedeva «un interesse in comune» tra Veltroni e Fini sulla legge elettorale («entrambi necessitano di una buona riforma elettorale che premi le grandi aggregazioni, i grandi partiti, e dovranno faticare per imporla ai rispettivi partner. In mancanza di ciò, a tutti e due conviene il referendum e il sistema elettorale che ne scaturirebbe»).
In questi giorni si celebra il festival dei retroscenisti, con articoli che durano lo spazio di un mattino. Le convergenze diventano divergenze in 24 ore e viceversa. Fabio Martini, su La Stampa, vedeva un asse Veltroni-Prodi, mentre Verderami, sul Corriere, ne scorgeva uno Fausto-Walter per il modello tedesco. Il Foglio anticipava il "no definitivo" di W. dalla convention di sabato. Forse la cosa migliore è proprio ascoltare cosa dirà sabato.
Il sistema elettorale tedesco non mi entusiasma, sono convintamente uninominalista o, in subordine, trovo che il proporzionale spagnolo sia quello dagli effetti più "maggioritari". Vedo però, da come se ne parla (per esempio, Casini a "8 e mezzo"), un tentativo di spacciare per sistema tedesco un semplice proporzionale con lo sbarramento al 5%. E' il caso di ricordare, invece, che in Germania i cittadini eleggono la metà del totale dei deputati del Bundestag (299 su 598) in collegi uninominali. Per l'altra metà dei seggi concorrono le liste dei partiti che superano lo sbarramento del 5%. Assicurati i seggi vinti nell'uninominale, la quota di seggi spettanti a ciascun partito vengono definiti dal proporzionale, cosicché il numero totale dei seggi del Bundestag è variabile. Gli effetti del sistema sono proporzionali e non maggioritari, ma il correttivo uninominale giustifica la definizione di proporzionale "personalizzato".
Quella tedesca è una formula nata in un sistema in cui le estreme erano già escluse per legge, cucita addosso alle tre aggregazioni legittimate (cristiano democratici, socialisti democratici, liberali), che non è riuscita a impedire, negli ultimi due decenni, l'aumento dei partiti a cinque e una "Grosse Koalition". Noi invece avremmo bisogno di una legge elettorale che contribuisca a trasformare e semplificare il sistema, a personalizzare la competizione politica non solo a livello di premiership. Ma se proprio dobbiamo copiare un sistema, almeno copiamolo per bene.
Se il modello tedesco potrebbe saldare gli interessi di Udc e Rifondazione comunista in un governo istituzionale preposto ad approvare la riforma, le possibilità che questo si verifichi rimangono esigue, perché non credo che Veltroni sia disposto a rischiare di trovarsi in un sistema in cui il Pd sia sottoposto a non irrilevanti forze centrifughe. Meglio perdere con questa legge, ma che il partito rimanga tutto nelle sue mani.
In questi giorni si celebra il festival dei retroscenisti, con articoli che durano lo spazio di un mattino. Le convergenze diventano divergenze in 24 ore e viceversa. Fabio Martini, su La Stampa, vedeva un asse Veltroni-Prodi, mentre Verderami, sul Corriere, ne scorgeva uno Fausto-Walter per il modello tedesco. Il Foglio anticipava il "no definitivo" di W. dalla convention di sabato. Forse la cosa migliore è proprio ascoltare cosa dirà sabato.
Il sistema elettorale tedesco non mi entusiasma, sono convintamente uninominalista o, in subordine, trovo che il proporzionale spagnolo sia quello dagli effetti più "maggioritari". Vedo però, da come se ne parla (per esempio, Casini a "8 e mezzo"), un tentativo di spacciare per sistema tedesco un semplice proporzionale con lo sbarramento al 5%. E' il caso di ricordare, invece, che in Germania i cittadini eleggono la metà del totale dei deputati del Bundestag (299 su 598) in collegi uninominali. Per l'altra metà dei seggi concorrono le liste dei partiti che superano lo sbarramento del 5%. Assicurati i seggi vinti nell'uninominale, la quota di seggi spettanti a ciascun partito vengono definiti dal proporzionale, cosicché il numero totale dei seggi del Bundestag è variabile. Gli effetti del sistema sono proporzionali e non maggioritari, ma il correttivo uninominale giustifica la definizione di proporzionale "personalizzato".
Quella tedesca è una formula nata in un sistema in cui le estreme erano già escluse per legge, cucita addosso alle tre aggregazioni legittimate (cristiano democratici, socialisti democratici, liberali), che non è riuscita a impedire, negli ultimi due decenni, l'aumento dei partiti a cinque e una "Grosse Koalition". Noi invece avremmo bisogno di una legge elettorale che contribuisca a trasformare e semplificare il sistema, a personalizzare la competizione politica non solo a livello di premiership. Ma se proprio dobbiamo copiare un sistema, almeno copiamolo per bene.
Se il modello tedesco potrebbe saldare gli interessi di Udc e Rifondazione comunista in un governo istituzionale preposto ad approvare la riforma, le possibilità che questo si verifichi rimangono esigue, perché non credo che Veltroni sia disposto a rischiare di trovarsi in un sistema in cui il Pd sia sottoposto a non irrilevanti forze centrifughe. Meglio perdere con questa legge, ma che il partito rimanga tutto nelle sue mani.
Provocazioni tardive
Dall'1 al 4 novembre, presso il Padova Fiere, si terrà il VI Congresso di Radicali Italiani: «... Centrale sarà anche la provocazione/proposta lanciata dal leader Marco Pannella a tutti i congressisti, cioè quella di - in prospettiva di un dopo Prodi e dunque della formazione di nuove maggioranze - "dare priorità assoluta alle riforme economico-sociali, liberali, liberiste piuttosto che alla lotta civile contro potere, prepotere e aggressione vaticana"».
Più che una «provocazione», sembra la scoperta dell'acqua calda. In altre parole, il lodo Capezzone e molti altri, tra cui il sottoscritto, che "provocarono" già a primavera, ricevendo schiaffoni...
Più che una «provocazione», sembra la scoperta dell'acqua calda. In altre parole, il lodo Capezzone e molti altri, tra cui il sottoscritto, che "provocarono" già a primavera, ricevendo schiaffoni...
Thursday, October 25, 2007
In Birmania la farsa del dialogo: i carcerieri convocano la detenuta
Finché la leader democratica birmana non sarà formalmente rimessa in libertà e in grado di parlare liberamente, non si può dire Aung San Suu Kyi "incontra" la Giunta militare, né tanto meno che "tratta", come purtroppo abbiamo sentito in tv e letto sui giornali. Piuttosto, bisognerà dire è stata "prelevata", "trasferita", "condotta" dinanzi a un rappresentante del regime delegato dai generali ai rapporti con la National League for Democracy. Non può esserci dialogo alla pari tra una detenuta e il suo carceriere.
Le strade militarizzate, i monasteri blindati, le comunicazioni bloccate, la leader dell'opposizione mossa come una pedina, senza che le sia permesso rilasciare dichiarazioni ufficiali ai media, tutto lascia intendere che si tratti solo di un'operazione di immagine del regime, una messa in scena, una "photo-opportunity": far circolare la foto di Aung San Suu Kyi compostamente seduta accanto a un esponente del regime per dare a bere alla comunità e alle opinioni pubbliche internazionali che la situazione è ormai normalizzata e il dialogo procede. L'unico atto, concreto, che invece bisognerebbe esigere dalla dittatura militare birmana è restituire alla leader democratica, e agli altri dissidenti imprigionati, piena di libertà di movimento, parola e azione politica. Ma abbiamo la forza di esigerlo?
Le strade militarizzate, i monasteri blindati, le comunicazioni bloccate, la leader dell'opposizione mossa come una pedina, senza che le sia permesso rilasciare dichiarazioni ufficiali ai media, tutto lascia intendere che si tratti solo di un'operazione di immagine del regime, una messa in scena, una "photo-opportunity": far circolare la foto di Aung San Suu Kyi compostamente seduta accanto a un esponente del regime per dare a bere alla comunità e alle opinioni pubbliche internazionali che la situazione è ormai normalizzata e il dialogo procede. L'unico atto, concreto, che invece bisognerebbe esigere dalla dittatura militare birmana è restituire alla leader democratica, e agli altri dissidenti imprigionati, piena di libertà di movimento, parola e azione politica. Ma abbiamo la forza di esigerlo?
Wednesday, October 24, 2007
In Tibet come in Birmania
Mentre l'India sembra essersi decisa ad esercitare le prime, seppure caute, pressioni diplomatiche sulla Giunta militare birmana, incoraggiata dal primo ministro Singh ad avviare un processo di riconciliazione e di democratizzazione, di cui faccia parte anche Aung San Suu Kyi, giungono dal Tibet notizie che confermano quanto fossero fondate le preoccupazioni del regime cinese: per i possibili sviluppi democratici della crisi birmana e per l'importante riconoscimento politico che il Dalai Lama stava per ottenere a Washington.
Ci era parso evidente, infatti, che la veemenza con la quale Pechino aveva reagito al conferimento al Dalai Lama della Medaglia d'Oro del Congresso Usa, e all'esplicito sostegno del presidente Bush al leader spirituale tibetano, fosse dovuta a un'esatta valutazione da parte del regime sia della grande influenza che il Dalai Lama esercita ancora sulla popolazione tibetana e a livello internazionale, sia della portata del gesto di Bush e degli eventi birmani.
Dal suo punto di vista la Cina faceva bene a temere che il coraggio dei monaci birmani potesse essere contagioso e ispirare i monaci tibetani. Se le manifestazioni avessero provocato addirittura la caduta o la crisi della Giunta di Yangon, il virus democratico non avrebbe tardato a raggiungere il Tibet, tanto più che, pur in assenza di quel successo, qualcosa è accaduto nella regione da decenni occupata e controllota con il pugno di ferro dai cinesi.
La polizia cinese, riportano Asianews e un quotidiano di Hong Kong, il Ming Pao, ha represso con la violenza i festeggiamenti dei monaci buddisti tibetani per l'onorificenza conferita negli Usa al Dalai Lama. Pestaggi e arresti presso i monasteri di Drepung e Nechung, a Lhasa, capitale del Tibet. Centinaia i monaci arrestati e centinaia gli agenti impegnati. Il governo tibetano in esilio, dall'India, ha accusato la polizia cinese di aver prelevato di peso e trascinato via i monaci direttamente dall'interno dei monasteri.
La notizia è giunta con alcuni giorni di ritardo, perché i cinesi hanno pensato bene di staccare le linee internet tibetane sin dallo scorso 17 ottobre, giorno del conferimento della medaglia al Dalai Lama. Lo schema repressivo si è ripetuto quasi identico a quello visto in Birmania, ma con maggior efficienza: monaci per le strade, carcere, censura. Addirittura prevenendo le manifestazioni e la conseguente repressione, le autorità hanno subito tagliato tutte le possibili vie di comunicazione con l'esterno, internet prima di tutte.
Il governo cinese vede in quello religioso, nel buddismo in particolare, l'unico contropotere in grado di sfidare il regime.
Apprezzabile il testo di Richard Gere riportato oggi da la Repubblica: «Se la Cina vuole cambiare la sua immagine del mondo, questo è il momento di agire», osserva l'attore, rilanciando l'invito di Bush alle autorità di Pechino perché incontrino il Dalai Lama. Gere non crede nell'isolamento, che d'altra parte non avrebbe senso né sarebbe possibile, ma è consapevole del soft power che l'Occidente può esercitare: «La Cina ha bisogno di noi non meno di quanto noi pensiamo di aver bisogno di loro». E' rara la consapevolezza del fatto che «la Cina sta giocando nel nostro universo, e noi dobbiamo farla giocare secondo le regole del nostro universo, a partire dal trattamento dignitoso dei lavoratori e dall'apertura culturale e delle comunicazioni, dalla libertà di espressione e di pensiero, dall'auto-determinazione e così via...».
Ci era parso evidente, infatti, che la veemenza con la quale Pechino aveva reagito al conferimento al Dalai Lama della Medaglia d'Oro del Congresso Usa, e all'esplicito sostegno del presidente Bush al leader spirituale tibetano, fosse dovuta a un'esatta valutazione da parte del regime sia della grande influenza che il Dalai Lama esercita ancora sulla popolazione tibetana e a livello internazionale, sia della portata del gesto di Bush e degli eventi birmani.
Dal suo punto di vista la Cina faceva bene a temere che il coraggio dei monaci birmani potesse essere contagioso e ispirare i monaci tibetani. Se le manifestazioni avessero provocato addirittura la caduta o la crisi della Giunta di Yangon, il virus democratico non avrebbe tardato a raggiungere il Tibet, tanto più che, pur in assenza di quel successo, qualcosa è accaduto nella regione da decenni occupata e controllota con il pugno di ferro dai cinesi.
La polizia cinese, riportano Asianews e un quotidiano di Hong Kong, il Ming Pao, ha represso con la violenza i festeggiamenti dei monaci buddisti tibetani per l'onorificenza conferita negli Usa al Dalai Lama. Pestaggi e arresti presso i monasteri di Drepung e Nechung, a Lhasa, capitale del Tibet. Centinaia i monaci arrestati e centinaia gli agenti impegnati. Il governo tibetano in esilio, dall'India, ha accusato la polizia cinese di aver prelevato di peso e trascinato via i monaci direttamente dall'interno dei monasteri.
La notizia è giunta con alcuni giorni di ritardo, perché i cinesi hanno pensato bene di staccare le linee internet tibetane sin dallo scorso 17 ottobre, giorno del conferimento della medaglia al Dalai Lama. Lo schema repressivo si è ripetuto quasi identico a quello visto in Birmania, ma con maggior efficienza: monaci per le strade, carcere, censura. Addirittura prevenendo le manifestazioni e la conseguente repressione, le autorità hanno subito tagliato tutte le possibili vie di comunicazione con l'esterno, internet prima di tutte.
Il governo cinese vede in quello religioso, nel buddismo in particolare, l'unico contropotere in grado di sfidare il regime.
Apprezzabile il testo di Richard Gere riportato oggi da la Repubblica: «Se la Cina vuole cambiare la sua immagine del mondo, questo è il momento di agire», osserva l'attore, rilanciando l'invito di Bush alle autorità di Pechino perché incontrino il Dalai Lama. Gere non crede nell'isolamento, che d'altra parte non avrebbe senso né sarebbe possibile, ma è consapevole del soft power che l'Occidente può esercitare: «La Cina ha bisogno di noi non meno di quanto noi pensiamo di aver bisogno di loro». E' rara la consapevolezza del fatto che «la Cina sta giocando nel nostro universo, e noi dobbiamo farla giocare secondo le regole del nostro universo, a partire dal trattamento dignitoso dei lavoratori e dall'apertura culturale e delle comunicazioni, dalla libertà di espressione e di pensiero, dall'auto-determinazione e così via...».
La settimana della consapevolezza islamo-fascista
E' la «battaglia culturale» in cui è impegnato David Horowitz, intellettuale della sinistra americana degli anni '60, «oggi il più grande accusatore delle malefatte ideologiche dei progressisti e in particolare della sinistra accademica», spiega Christian Rocca su Il Foglio.
In questi giorni ha promosso una campagna di mobilitazione, una serie di iniziative pubbliche nelle università, per far conoscere la natura della minaccia islamo-fascista e smascherare le «due grandi bugie» raccontate dalla sinistra in questi anni: che Bush si sia inventanto la «guerra al terrorismo»; e che il surriscaldamento terrestre sia un pericolo più grave del jihad globale e del razzismo islamista.
Christopher Hitchens, su Slate, ha difeso l'uso del termine "fascismo islamico", contestato dagli accademici politically correct. Ovviamente non c'è una congruenza perfetta tra i due fenomeni storici, i fascismi e il fondamentalismo islamico, ma le analogie - dal culto della morte al rapporto contraddittorio con la modernità e la tecnologia, dalla nostalgia per le glorie del passato al vittimismo e al revancismo, dall'antisemitismo all'ossessione per la decadenza morale e dei costumi - sono evidenti.
A mio avviso, la differenza più rilevante tra fascismo e jihadismo - che paradossalmente rende ancora più appropriato l'accostamento dei due termini - è riscontrabile nei fenomeni culturali di massa alla base dei contesti indispensabili alla loro gestazione e al loro sviluppo come ideologie politiche.
Diversa la categoria principale alla quale le masse si sono aggrappate per recuperare un senso di appartenza messo in discussione dalla modernizzazione: la nazione, nel caso dei fascismi; la religione, cioè l'islam, nel caso del jihadismo. Dunque, se in Europa abbiamo conosciuto il fenomeno della nazionalizzazione delle masse, in Medio Oriente, dove oggi l'idea di nazione è in declino, seppure negli scorsi decenni abbia giocato un suo ruolo, conosciamo l'islamizzazione delle masse. Diverse le categoria di riferimento, ma simile il meccanismo della ricerca di una purezza identitaria smarrita che può assumere forme estremamente violente.
In questi giorni ha promosso una campagna di mobilitazione, una serie di iniziative pubbliche nelle università, per far conoscere la natura della minaccia islamo-fascista e smascherare le «due grandi bugie» raccontate dalla sinistra in questi anni: che Bush si sia inventanto la «guerra al terrorismo»; e che il surriscaldamento terrestre sia un pericolo più grave del jihad globale e del razzismo islamista.
Christopher Hitchens, su Slate, ha difeso l'uso del termine "fascismo islamico", contestato dagli accademici politically correct. Ovviamente non c'è una congruenza perfetta tra i due fenomeni storici, i fascismi e il fondamentalismo islamico, ma le analogie - dal culto della morte al rapporto contraddittorio con la modernità e la tecnologia, dalla nostalgia per le glorie del passato al vittimismo e al revancismo, dall'antisemitismo all'ossessione per la decadenza morale e dei costumi - sono evidenti.
A mio avviso, la differenza più rilevante tra fascismo e jihadismo - che paradossalmente rende ancora più appropriato l'accostamento dei due termini - è riscontrabile nei fenomeni culturali di massa alla base dei contesti indispensabili alla loro gestazione e al loro sviluppo come ideologie politiche.
Diversa la categoria principale alla quale le masse si sono aggrappate per recuperare un senso di appartenza messo in discussione dalla modernizzazione: la nazione, nel caso dei fascismi; la religione, cioè l'islam, nel caso del jihadismo. Dunque, se in Europa abbiamo conosciuto il fenomeno della nazionalizzazione delle masse, in Medio Oriente, dove oggi l'idea di nazione è in declino, seppure negli scorsi decenni abbia giocato un suo ruolo, conosciamo l'islamizzazione delle masse. Diverse le categoria di riferimento, ma simile il meccanismo della ricerca di una purezza identitaria smarrita che può assumere forme estremamente violente.
Tuesday, October 23, 2007
L'insensata corsa al voto
Al capezzale del malato ormai in stato vegetativo permanente, il Governo Prodi, sono tutti in attesa di qualcuno che abbia il coraggio di staccare la spina. Si deciderà colui (o coloro) che in un preciso momento - domani o tra un mese - scorgerà per sé una convenienza. Così, in questo clima febbrile, da ultimi giorni di interrogazioni prima della fine dell'anno scolastico, tutti si agitano con fare frenetico per farsi trovare nella miglior posizione possibile quando il governo verrà a mancare. Ci convincono le parole di Stefano Folli, oggi nel suo "punto" sul Sole 24 Ore.
«La retorica delle "elezioni subito" non convince». Innanzitutto, perché «sulla base dell'attuale sistema elettorale, chi vince non avrà gli strumenti per governare con la dovuta determinazione. E quello che il Paese non può permettersi è proprio un'altra fase di non-Governo, o di Governo insoddisfacente, destinato a rallentare o addirittura ostacolare il processo di modernizzazione di cui si avverte l'urgenza». Che senso ha, si chiede Folli, «la corsa alle elezioni in un sistema bloccato?»
Piuttosto, bisogna fare attenzione «a non sprecare l'arma del voto, che nell'immediato serve a rasserenare l'opinione pubblica, ma suscita attese che sarebbe delittuoso deludere ancora una volta. In quel caso non ci sarebbero ulteriori prove d'appello».
E ci auguriamo che chi ha orecchie per sentire - e occhi per leggere - li metta in funzione.
Riguardo la fretta di Berlusconi di correre verso le urne che quasi certamente lo vedrebbero uscire vincitore, «è un po' troppo comoda la posizione di rendita che si è ritagliato, seduto sulla riva del fiume in attesa di essere richiamato a furor di popolo a Palazzo Chigi». Dal centrodestra (esiste ancora la CdL?) in questi mesi non è giunta nemmeno «un'idea, una suggestione, una proposta originale. Ci si è limitati ad assaporare il crollo dell'Unione. Poco per chi reclama la responsabilità di guidare il Paese».
La prospettiva che indica Folli, di un «governo ad hoc» che in pochi mesi metta in campo tutti gli sforzi e i tentativi possibili per approvare una nuova legge elettorale, ci pare la più saggia. Ovviamente per Veltroni, ma anche per Berlusconi, se vuole governare il Paese e non galleggiare. Purtroppo, la nostra impressione è che Berlusconi sia semplicemente alla ricerca di una rivincita personale e di quella si accontenti, nonostante il rischio sia quello di lasciare dopo di lui un centrodestra ridotto in macerie.
Maria Teresa Meli, sul Corriere della Sera, ha descritto in modo abbastanza verosimile gli auspici e le intenzioni di Veltroni: ancora una «manciata» di mesi, magari gli otto che lui stesso ha evocato, per costruire il partito, cambiare la legge elettorale, e poi al voto. Certo, «se perdesse contro Berlusconi, dopo due anni di un governo dal bilancio non propriamente positivo, nessuno potrebbe imputargli quella sconfitta». I margini «quanto meno per ridurre le perdite» ci sarebbero, scrive la Meli. Quindi, conclude, «non è ancora detto che Veltroni ufficializzi il divorzio del Pd dalla sinistra radicale».
Il problema è che una sconfitta, seppure riducendo le perdite, del Pd alleato alla sinistra comunista e massimalista, sarebbe un rovescio che il nuovo partito potrebbe addirittura non superare, apparendo agli occhi degli italiani già vecchio e con tutti i difetti del defunto Ulivo, mentre una sconfitta del Pd da solo, o sorretto da un pilastro di centro, magari dai tratti lib-dem, sarebbe onorevole e una base di partenza per costruire qualcosa di davvero nuovo. E' vero anche, però, che la sconfitta di un centrosinistra "vecchio conio", ex-ulivisti più sinistra comunista e massimalista, fornirebbe probabilmente la giustificazione necessaria per la rottura definitiva dell'innaturale alleanza. Potrebbero divenire anche quelle ceneri con le quali concimare un partito nuovo.
«La retorica delle "elezioni subito" non convince». Innanzitutto, perché «sulla base dell'attuale sistema elettorale, chi vince non avrà gli strumenti per governare con la dovuta determinazione. E quello che il Paese non può permettersi è proprio un'altra fase di non-Governo, o di Governo insoddisfacente, destinato a rallentare o addirittura ostacolare il processo di modernizzazione di cui si avverte l'urgenza». Che senso ha, si chiede Folli, «la corsa alle elezioni in un sistema bloccato?»
Piuttosto, bisogna fare attenzione «a non sprecare l'arma del voto, che nell'immediato serve a rasserenare l'opinione pubblica, ma suscita attese che sarebbe delittuoso deludere ancora una volta. In quel caso non ci sarebbero ulteriori prove d'appello».
E ci auguriamo che chi ha orecchie per sentire - e occhi per leggere - li metta in funzione.
Riguardo la fretta di Berlusconi di correre verso le urne che quasi certamente lo vedrebbero uscire vincitore, «è un po' troppo comoda la posizione di rendita che si è ritagliato, seduto sulla riva del fiume in attesa di essere richiamato a furor di popolo a Palazzo Chigi». Dal centrodestra (esiste ancora la CdL?) in questi mesi non è giunta nemmeno «un'idea, una suggestione, una proposta originale. Ci si è limitati ad assaporare il crollo dell'Unione. Poco per chi reclama la responsabilità di guidare il Paese».
La prospettiva che indica Folli, di un «governo ad hoc» che in pochi mesi metta in campo tutti gli sforzi e i tentativi possibili per approvare una nuova legge elettorale, ci pare la più saggia. Ovviamente per Veltroni, ma anche per Berlusconi, se vuole governare il Paese e non galleggiare. Purtroppo, la nostra impressione è che Berlusconi sia semplicemente alla ricerca di una rivincita personale e di quella si accontenti, nonostante il rischio sia quello di lasciare dopo di lui un centrodestra ridotto in macerie.
Maria Teresa Meli, sul Corriere della Sera, ha descritto in modo abbastanza verosimile gli auspici e le intenzioni di Veltroni: ancora una «manciata» di mesi, magari gli otto che lui stesso ha evocato, per costruire il partito, cambiare la legge elettorale, e poi al voto. Certo, «se perdesse contro Berlusconi, dopo due anni di un governo dal bilancio non propriamente positivo, nessuno potrebbe imputargli quella sconfitta». I margini «quanto meno per ridurre le perdite» ci sarebbero, scrive la Meli. Quindi, conclude, «non è ancora detto che Veltroni ufficializzi il divorzio del Pd dalla sinistra radicale».
Il problema è che una sconfitta, seppure riducendo le perdite, del Pd alleato alla sinistra comunista e massimalista, sarebbe un rovescio che il nuovo partito potrebbe addirittura non superare, apparendo agli occhi degli italiani già vecchio e con tutti i difetti del defunto Ulivo, mentre una sconfitta del Pd da solo, o sorretto da un pilastro di centro, magari dai tratti lib-dem, sarebbe onorevole e una base di partenza per costruire qualcosa di davvero nuovo. E' vero anche, però, che la sconfitta di un centrosinistra "vecchio conio", ex-ulivisti più sinistra comunista e massimalista, fornirebbe probabilmente la giustificazione necessaria per la rottura definitiva dell'innaturale alleanza. Potrebbero divenire anche quelle ceneri con le quali concimare un partito nuovo.
L'alba polare delle riforme
«La stagione delle riforme è dunque "sempre", eppure – anche non troppo paradossalmente – la data di nascita delle riforme è "mai"».
Il numero di questa settimana di LibMagazine si apre con un editoriale sulle riforme istituzionali, di Francesco Nardi, e articoli sul tentativo governativo di regolamentazione liberticida dei blog (Luca Martinelli), sulla crisi tra Turchia e Usa per le attività del Pkk nel Kurdistan iracheno (del sottoscritto), sulla violenza ai danni delle donne (Marzia Cangiano). L'intervista di questa settimana è a Riccardo Campa, presidente dell'Associazione Italiana Transumanisti, a cura di Fabrizia Cioffi.
In questo numero anche il corsivo quotidiano, a firma Giuliano Gennaio, e le consuete rubriche: Nardi, Castaldi, Fronterrè, Lupi. Altri contributi da Giuseppe Nitto, Michele Fronterrè, Ciro Monacella, Monica Costa. Buona lettura.
Il numero di questa settimana di LibMagazine si apre con un editoriale sulle riforme istituzionali, di Francesco Nardi, e articoli sul tentativo governativo di regolamentazione liberticida dei blog (Luca Martinelli), sulla crisi tra Turchia e Usa per le attività del Pkk nel Kurdistan iracheno (del sottoscritto), sulla violenza ai danni delle donne (Marzia Cangiano). L'intervista di questa settimana è a Riccardo Campa, presidente dell'Associazione Italiana Transumanisti, a cura di Fabrizia Cioffi.
In questo numero anche il corsivo quotidiano, a firma Giuliano Gennaio, e le consuete rubriche: Nardi, Castaldi, Fronterrè, Lupi. Altri contributi da Giuseppe Nitto, Michele Fronterrè, Ciro Monacella, Monica Costa. Buona lettura.
Monday, October 22, 2007
Una via blairiana per il Pd, ma Veltroni non sembra l'uomo giusto
Anthony Giddens indica il modello del New Labour blairiano al leader del Partito democratico: "education" e nuovo welfare, le due vie principali attraverso cui procedere alla modernizzazione della politica, dell'economia e della società italiana.
Prima di tutto, "education", perché «nella nuova economia, basata sulla conoscenza e sui servizi, il ruolo delle università è più cruciale di quanto lo sia mai stato», sia per la crescita economica che per la mobilità sociale.
Seconda preoccupazione dovrebbe essere quella di aumentare la percentuale della forza lavoro attiva, che in Italia non supera il 55% ed è in calo. Dunque, meno pensionati, più donne che lavorano e giovani che entrano prima nel mondo del lavoro. Ciò significa cambiare modello di welfare, a partire dai suoi principali beneficiari: spostare le risorse dello Stato dagli anziani (per esempio, portando l'età pensionabile a 65 anni) ai giovani (riformando istruzione primaria e superiore, investendo in ammortizzatori sociali secondo l'approccio welfare to work, per fare fronte alla flessibilità) e all'infanzia (con un ambizioso programma di asili nido e scuole materne che permetta alle donne di conciliare lavoro e famiglia, come accade nei paesi del Nord Europa).
Che Veltroni sia l'uomo giusto per tutto questo non ne sono convinti in molti, a partire dall'Economist, che definisce il segretario del Pd «il candidato del compromesso». La critica più comune che viene indirizzata al sindaco di Roma è che «sacrifica il contenuto all'immagine». Finora, «la leadership di Veltroni è stata caratterizzata dalla conciliazione, dal compromesso e dal patteggiamento secondo il vecchio stile italiano». Veltroni, conclude l'Economist, «è una scelta eccellente per lo straordinario compito di mettere insieme l'eterogeneo centrosinistra, ma quello di cui il suo Paese ha realmente bisogno è un primo ministro forte abbastanza da aprire l'economia stantia a una maggiore competitività. Poco nella storia di Veltroni indica che sia l'uomo per quel lavoro».
Intervistata da Libération, Ségolène Royal indica l'esempio italiano del Partito democratico alla sinistra francese, auspicando che l'"innovazione" possa attraversare le Alpi. Non sappiamo cosa pensare, se davvero Ds e Margherita ne abbiano fatta una giusta, o se la gauche francese sia davvero così disperata da cercare esempi nel sistema politico più sgangherato d'Europa.
Prima di tutto, "education", perché «nella nuova economia, basata sulla conoscenza e sui servizi, il ruolo delle università è più cruciale di quanto lo sia mai stato», sia per la crescita economica che per la mobilità sociale.
Seconda preoccupazione dovrebbe essere quella di aumentare la percentuale della forza lavoro attiva, che in Italia non supera il 55% ed è in calo. Dunque, meno pensionati, più donne che lavorano e giovani che entrano prima nel mondo del lavoro. Ciò significa cambiare modello di welfare, a partire dai suoi principali beneficiari: spostare le risorse dello Stato dagli anziani (per esempio, portando l'età pensionabile a 65 anni) ai giovani (riformando istruzione primaria e superiore, investendo in ammortizzatori sociali secondo l'approccio welfare to work, per fare fronte alla flessibilità) e all'infanzia (con un ambizioso programma di asili nido e scuole materne che permetta alle donne di conciliare lavoro e famiglia, come accade nei paesi del Nord Europa).
Che Veltroni sia l'uomo giusto per tutto questo non ne sono convinti in molti, a partire dall'Economist, che definisce il segretario del Pd «il candidato del compromesso». La critica più comune che viene indirizzata al sindaco di Roma è che «sacrifica il contenuto all'immagine». Finora, «la leadership di Veltroni è stata caratterizzata dalla conciliazione, dal compromesso e dal patteggiamento secondo il vecchio stile italiano». Veltroni, conclude l'Economist, «è una scelta eccellente per lo straordinario compito di mettere insieme l'eterogeneo centrosinistra, ma quello di cui il suo Paese ha realmente bisogno è un primo ministro forte abbastanza da aprire l'economia stantia a una maggiore competitività. Poco nella storia di Veltroni indica che sia l'uomo per quel lavoro».
Intervistata da Libération, Ségolène Royal indica l'esempio italiano del Partito democratico alla sinistra francese, auspicando che l'"innovazione" possa attraversare le Alpi. Non sappiamo cosa pensare, se davvero Ds e Margherita ne abbiano fatta una giusta, o se la gauche francese sia davvero così disperata da cercare esempi nel sistema politico più sgangherato d'Europa.
Critica del multiculturalismo
«Il velo islamico non è un semplice velo che una bimba di otto anni decide liberamente di mettersi sul capo perché le piace o perché giudica più comodo tenere i capelli nascosti piuttosto di metterli in mostra. E' il simbolo d'una religione nella quale la discriminazione della donna è ancora, disgraziatamente, più forte che in nessun'altra: una tradizionale tara dell'umanità dalla quale la cultura della libertà è stata capace di liberarci in grande misura, seppure non totalmente, grazie a un lungo processo di lotte politiche, ideologiche e istituzionali che sono riuscite a cambiare mentalità e comportamenti e a fissare leggi destinate a porle un freno. Tra queste importanti conquiste c'è il laicismo, uno dei pilastri su quali poggia la democrazia. Lo Stato laico non è ostile alla religione. Al contrario garantisce a tutti i cittadini il diritto di credere e praticare la propria religione senza subire interferenze, sempre che queste pratiche non infrangano le leggi poste a garanzia della libertà, dell'uguaglianza e degli altri diritti umani che sono la ragione dell'esistenza dello stato di diritto.
Il velo islamico nelle scuole pubbliche è una testa di ponte grazie alla quale i nemici del laicismo, dell'uguaglianza fra uomo e donna, della libertà religiosa e dei diritti umani pretendono di ritagliarsi spazi d'autentica extraterritorialità legale e morale all'interno delle democrazie: qualcosa che, se queste l'accettassero, potrebbe condurle al suicidio».
(Mario Vargas Llosa, El Paìs)
Lo scrittore sudamericano va fino in fondo nel suo attacco al multiculturalismo, che si fonda su un «presupposto falso che bisogna respingere, senza prestarsi a equivoci: che, cioè, tutte le culture, per il fatto stesso di esistere, siano equivalenti e degne di rispetto. Non è vero». I paladini del multiculturalismo e del comunitarismo hanno «un'idea statica delle culture, smentita dalla storia».
«Le culture si evolvono: i progressi della scienza e gli interscambi, sempre più frequenti nel mondo moderno, di idee e di conoscenze... trasformano convinzioni, pratiche, credenze, superstizioni, valori e pregiudizi». Un musulmano relativamente «moderno», libanese o egiziano, per esempio, osserva Vargas Llosa, «ha ben poco a che spartire con i musulmani integralisti», che in Darfur, per esempio, «radono al suolo villaggi e bruciano intere famiglie perché le giudicano pagane: applicare loro la stessa etichetta culturale è assurdo».
«Se i paesi democratici vogliono, in qualche modo, offrire il proprio aiuto affinché la religione musulmana sperimenti lo stesso processo di secolarizzazione che ha permesso alla Chiesa cattolica di adeguarsi alla cultura democratica [piuttosto, ci pare l'abbia obbligata], il comportamento peggiore che potrebbero tenere sarebbe rinunciare a conquiste così importanti come il laicismo e l'uguaglianza, per non apparire etnocentrici e portatori di pregiudizi».
Il velo islamico nelle scuole pubbliche è una testa di ponte grazie alla quale i nemici del laicismo, dell'uguaglianza fra uomo e donna, della libertà religiosa e dei diritti umani pretendono di ritagliarsi spazi d'autentica extraterritorialità legale e morale all'interno delle democrazie: qualcosa che, se queste l'accettassero, potrebbe condurle al suicidio».
(Mario Vargas Llosa, El Paìs)
Lo scrittore sudamericano va fino in fondo nel suo attacco al multiculturalismo, che si fonda su un «presupposto falso che bisogna respingere, senza prestarsi a equivoci: che, cioè, tutte le culture, per il fatto stesso di esistere, siano equivalenti e degne di rispetto. Non è vero». I paladini del multiculturalismo e del comunitarismo hanno «un'idea statica delle culture, smentita dalla storia».
«Le culture si evolvono: i progressi della scienza e gli interscambi, sempre più frequenti nel mondo moderno, di idee e di conoscenze... trasformano convinzioni, pratiche, credenze, superstizioni, valori e pregiudizi». Un musulmano relativamente «moderno», libanese o egiziano, per esempio, osserva Vargas Llosa, «ha ben poco a che spartire con i musulmani integralisti», che in Darfur, per esempio, «radono al suolo villaggi e bruciano intere famiglie perché le giudicano pagane: applicare loro la stessa etichetta culturale è assurdo».
«Se i paesi democratici vogliono, in qualche modo, offrire il proprio aiuto affinché la religione musulmana sperimenti lo stesso processo di secolarizzazione che ha permesso alla Chiesa cattolica di adeguarsi alla cultura democratica [piuttosto, ci pare l'abbia obbligata], il comportamento peggiore che potrebbero tenere sarebbe rinunciare a conquiste così importanti come il laicismo e l'uguaglianza, per non apparire etnocentrici e portatori di pregiudizi».
Friday, October 19, 2007
Crocevia di crisi pericolose
L'analisi più lucida sui vari fronti di crisi che il presidente Bush si trova a dover affrontare simultaneamente mi pare quella di Enzo Bettiza, oggi su La Stampa.
Come Mosca assicurò nel 2003 a Saddam che avrebbe fatto di tutto per scongiurare l'attacco, così oggi Putin rassicura Ahmadinejad di essere dalla sua parte sul nucleare. Di fare di tutto per scongiurare l'attacco e di aiutarlo nella costruzione delle centrali. Si rivede «l'antica complicità strategica antioccidentale tra l'Urss e l'Iran khomeinista». Putin non teme la bomba iraniana, perché l'ulteriore instabilità che ne deriverebbe in Medio Oriente provocherebbe l'aumento dei prezzi di petrolio e gas, di cui la Russia è produttore sempre più importante e influente.
Da tempo alti funzionari dell'amministrazione americana si interrogano su quanto in avanti si spingerà Putin nell'estendere la propria influenza nella regione. Negli ultimi venti mesi Mosca ha stretto i legami con Damasco, Hamas e Teheran - i nemici di Washington - spingendosi fino a un summit con il re saudita Abdallah, il più importante alleato di Bush. Per Stephen Sestanovich, cremlinologo del Council on Foreign Relations, «Putin si sta lasciando aperta ogni opzione e punta a vedere se riuscirà a mandare in pezzi l'intesa fra Europa e Usa sull'Iran, proprio come sta facendo in Kosovo».
Tibet, Birmania e Taiwan, sono nodi che mostrano di poter venire al pettine in qualsiasi momento, frustrando le illusioni di chi si aspetta che la Cina sia un attore internazionale naturalmente destinato, nel lungo periodo, a giocare un ruolo di stabilità nella pace e nell'avanzare del processo democratico nel continente.
Ma la crisi più grave - ha ragione Bettiza - è quella con Ankara, alleato di sempre, ed oggi sempre più indispensabile, degli Usa, ma anche dell'Europa, «insostituibile quale avamposto regionale islamico nella lotta al terrorismo fondamentalista».
Improvvisamente ai Democratici Usa - da anni intrappolati in un isolazionismo di ritorno - è tornata la voglia irrefrenabile di pronunciarsi e di difendere la memoria e i diritti dei popoli più lontani, come quello armeno. Proprio ora, che un sano realismo consiglierebbe di non provocare la Turchia, provocata ai suoi confini con l'Iraq dall'attività terroristica del Pkk. La mozione approvata in commissione esteri, su cui si dovrà pronunciare il Congresso, sa di dispetto a Bush, di bastone tra le ruote alla sua nuova strategia in Iraq, che proprio ora sembra stia producendo qualche risultato di rilievo.
Bettiza forse corre troppo in avanti, evocando una crisi regionale che potrebbe addirittura riportarci «ai tempi della distruzione di Belgrado, della conquista di Budapest e dell'assedio di Vienna», ma che la Turchia, respinta dall'Europa, e ora anche incompresa dagli Usa, passi nel campo di iraniani e siriani spalleggiati dai russi, è scenario da non sottovalutare e da far tremare i polsi.
Per non parlare della polveriera Pakistan, pronta esplodere, in un senso o nell'altro, dopo il ritorno di Benazir Bhutto.
Tutte queste crisi dimostrano se non altro che il "Potere americano" sul mondo è un mito coltivato e alimentato soprattutto dall'antiamericanismo occidentale.
Come Mosca assicurò nel 2003 a Saddam che avrebbe fatto di tutto per scongiurare l'attacco, così oggi Putin rassicura Ahmadinejad di essere dalla sua parte sul nucleare. Di fare di tutto per scongiurare l'attacco e di aiutarlo nella costruzione delle centrali. Si rivede «l'antica complicità strategica antioccidentale tra l'Urss e l'Iran khomeinista». Putin non teme la bomba iraniana, perché l'ulteriore instabilità che ne deriverebbe in Medio Oriente provocherebbe l'aumento dei prezzi di petrolio e gas, di cui la Russia è produttore sempre più importante e influente.
Da tempo alti funzionari dell'amministrazione americana si interrogano su quanto in avanti si spingerà Putin nell'estendere la propria influenza nella regione. Negli ultimi venti mesi Mosca ha stretto i legami con Damasco, Hamas e Teheran - i nemici di Washington - spingendosi fino a un summit con il re saudita Abdallah, il più importante alleato di Bush. Per Stephen Sestanovich, cremlinologo del Council on Foreign Relations, «Putin si sta lasciando aperta ogni opzione e punta a vedere se riuscirà a mandare in pezzi l'intesa fra Europa e Usa sull'Iran, proprio come sta facendo in Kosovo».
Tibet, Birmania e Taiwan, sono nodi che mostrano di poter venire al pettine in qualsiasi momento, frustrando le illusioni di chi si aspetta che la Cina sia un attore internazionale naturalmente destinato, nel lungo periodo, a giocare un ruolo di stabilità nella pace e nell'avanzare del processo democratico nel continente.
Ma la crisi più grave - ha ragione Bettiza - è quella con Ankara, alleato di sempre, ed oggi sempre più indispensabile, degli Usa, ma anche dell'Europa, «insostituibile quale avamposto regionale islamico nella lotta al terrorismo fondamentalista».
Improvvisamente ai Democratici Usa - da anni intrappolati in un isolazionismo di ritorno - è tornata la voglia irrefrenabile di pronunciarsi e di difendere la memoria e i diritti dei popoli più lontani, come quello armeno. Proprio ora, che un sano realismo consiglierebbe di non provocare la Turchia, provocata ai suoi confini con l'Iraq dall'attività terroristica del Pkk. La mozione approvata in commissione esteri, su cui si dovrà pronunciare il Congresso, sa di dispetto a Bush, di bastone tra le ruote alla sua nuova strategia in Iraq, che proprio ora sembra stia producendo qualche risultato di rilievo.
Bettiza forse corre troppo in avanti, evocando una crisi regionale che potrebbe addirittura riportarci «ai tempi della distruzione di Belgrado, della conquista di Budapest e dell'assedio di Vienna», ma che la Turchia, respinta dall'Europa, e ora anche incompresa dagli Usa, passi nel campo di iraniani e siriani spalleggiati dai russi, è scenario da non sottovalutare e da far tremare i polsi.
Per non parlare della polveriera Pakistan, pronta esplodere, in un senso o nell'altro, dopo il ritorno di Benazir Bhutto.
Tutte queste crisi dimostrano se non altro che il "Potere americano" sul mondo è un mito coltivato e alimentato soprattutto dall'antiamericanismo occidentale.
La maggioranza ha "occupato" tutti i posti
Presentati in tutto 1787 emendamenti presentati alla Legge Finanziaria: 982 sono le proposte di modifica dell'Unione, contro le 805 avanzate dal centrodestra. Tra le prime, anche gli emendamenti presentati dal governo e dal relatore di maggioranza, pari rispettivamente a quota 39 e 44. E' la prima volta nella storia che la maggioranza presenta più emendamenti dell'opposizione a un testo presentato dal governo. E' proprio vero che questa maggioranza ha occupato tutti i posti di potere, persino quelli dell'opposizione.
Corso di Porta Vigentina 15/A
I radicali riescono ad avere torto anche quando hanno ragione. Non c'entrano nulla le meritorie attività svolte nella storica sede di Milano, che molti cittadini potrebbero ritenere non tali, anzi dannose, sulla base di convinzioni diverse. Né lo stato fatiscente dello stabile e l'assenza della toilette.
Il punto da approfondire è che non si tratta di un canone d'affitto. Stando a quanto sono venuto a sapere facendo qualche domanda in queste ore, i radicali sono sotto sfratto, ma sono rimasti perché il Comune non ha i soldi, o non vuole spenderli, per avviare i lavori di ristrutturazione. Insomma, tecnicamente sarebbe più corretto parlare di una sorta di "occupazione" tollerata dietro un pagamento di un corrispettivo certo irrisorio, in attesa che il Comune si decida, ma senza le garanzie che un canone assicura a un inquilino. Obiettivamente un casino e il solito spreco di risorse pubbliche, ma non per colpa dei radicali, che hanno solo la sfortuna di difendersi con gli argomenti sbagliati. E, come spiega Camillo, quello del Giornale più che a uno scoop somiglia a un granchio.
Il punto da approfondire è che non si tratta di un canone d'affitto. Stando a quanto sono venuto a sapere facendo qualche domanda in queste ore, i radicali sono sotto sfratto, ma sono rimasti perché il Comune non ha i soldi, o non vuole spenderli, per avviare i lavori di ristrutturazione. Insomma, tecnicamente sarebbe più corretto parlare di una sorta di "occupazione" tollerata dietro un pagamento di un corrispettivo certo irrisorio, in attesa che il Comune si decida, ma senza le garanzie che un canone assicura a un inquilino. Obiettivamente un casino e il solito spreco di risorse pubbliche, ma non per colpa dei radicali, che hanno solo la sfortuna di difendersi con gli argomenti sbagliati. E, come spiega Camillo, quello del Giornale più che a uno scoop somiglia a un granchio.
Una polpetta avvelenata per il centrodestra
La precarietà del lavoro tra le emergenze etiche e sociali, al pari della difesa della «vita» e della «famiglia» fondata sul «matrimonio» eterosessuale.
«Quando la precarietà non permette ai giovani di costruire una loro famiglia, lo sviluppo autentico e completo della società risulta seriamente compromesso». Il messaggio di Papa Ratzinger non è ancora univoco. Al problema indicato - la precarietà - non suggerisce una risposta in un senso (rivedere la flessibilità, le leggi Treu e Biagi), o in un altro (liberalizzare il mercato del lavoro). Ma l'intensificarsi delle prese di posizione del Papa in ambiti economico-sociali stanno preparando il terreno a un enciclica sulla dottrina sociale della Chiesa.
E allora, i precetti, anche in quell'ambito, saranno più espliciti. Il centrodestra, incapace di produrre autonomamente cultura politica, sia a livello di coalizione che di singoli partiti, in questi anni ha assorbito e fatto proprio in larga misura il magistero morale che la Chiesa ha riproposto con tenacia nel suo rinnovato protagonismo politico.
Difficile, purtroppo, che rimanga immune da un'offensiva simile del Papa e delle gerarchie sui temi economico-sociali. Ma a quel punto, di fronte a una dottrina dai connotati socialdemocratici, solidaristici e pauperistici, per la quale Stato e Chiesa alleati accompagnano il cittadino passo passo, dalla culla alla bara, intervenendo a moderare la sua esuberante propensione al guadagno, il centrodestra non potrà eludere il bivio: assimilare anche questa parte dell'insegnamento della Chiesa, teorizzando un liberalismo sociale, o compassionevole, che qualcuno ha già sussurrato, abbandonando definitivamente la rappresentanza delle istanze liberiste, determinante nelle vittorie del 1994 e del 2001?
Più che per scelta, per debolezza culturale e bisogno di fonti esterne di legittimazione politica, si compirebbe la mutazione illiberale del centrodestra italiano, contribuendo a rendere più credibile, in termini liberali, un centrosinistra di «nuovo conio» che affidasse il proprio timone economico in mani nuove, esperte, dall'indubitabile pedigree liberale, allo scopo di solcare rotte fino ad ora rimaste tabù per la sinistra.
Neanche il centrosinistra è immune dall'influenza del cattolicesimo sociale, di cui la Bindi è interprete significativa. Ma se Veltroni decidesse davvero di imprimere una "rupture" con i vecchi schemi, avrebbe dalla sua l'appoggio delle agenzie educative, culturali e mediatiche, e dei centri intellettuali, storicamente di sinistra nel paese, oltre che la tipica presunzione di superiorità morale dei post-comunisti.
«Quando la precarietà non permette ai giovani di costruire una loro famiglia, lo sviluppo autentico e completo della società risulta seriamente compromesso». Il messaggio di Papa Ratzinger non è ancora univoco. Al problema indicato - la precarietà - non suggerisce una risposta in un senso (rivedere la flessibilità, le leggi Treu e Biagi), o in un altro (liberalizzare il mercato del lavoro). Ma l'intensificarsi delle prese di posizione del Papa in ambiti economico-sociali stanno preparando il terreno a un enciclica sulla dottrina sociale della Chiesa.
E allora, i precetti, anche in quell'ambito, saranno più espliciti. Il centrodestra, incapace di produrre autonomamente cultura politica, sia a livello di coalizione che di singoli partiti, in questi anni ha assorbito e fatto proprio in larga misura il magistero morale che la Chiesa ha riproposto con tenacia nel suo rinnovato protagonismo politico.
Difficile, purtroppo, che rimanga immune da un'offensiva simile del Papa e delle gerarchie sui temi economico-sociali. Ma a quel punto, di fronte a una dottrina dai connotati socialdemocratici, solidaristici e pauperistici, per la quale Stato e Chiesa alleati accompagnano il cittadino passo passo, dalla culla alla bara, intervenendo a moderare la sua esuberante propensione al guadagno, il centrodestra non potrà eludere il bivio: assimilare anche questa parte dell'insegnamento della Chiesa, teorizzando un liberalismo sociale, o compassionevole, che qualcuno ha già sussurrato, abbandonando definitivamente la rappresentanza delle istanze liberiste, determinante nelle vittorie del 1994 e del 2001?
Più che per scelta, per debolezza culturale e bisogno di fonti esterne di legittimazione politica, si compirebbe la mutazione illiberale del centrodestra italiano, contribuendo a rendere più credibile, in termini liberali, un centrosinistra di «nuovo conio» che affidasse il proprio timone economico in mani nuove, esperte, dall'indubitabile pedigree liberale, allo scopo di solcare rotte fino ad ora rimaste tabù per la sinistra.
Neanche il centrosinistra è immune dall'influenza del cattolicesimo sociale, di cui la Bindi è interprete significativa. Ma se Veltroni decidesse davvero di imprimere una "rupture" con i vecchi schemi, avrebbe dalla sua l'appoggio delle agenzie educative, culturali e mediatiche, e dei centri intellettuali, storicamente di sinistra nel paese, oltre che la tipica presunzione di superiorità morale dei post-comunisti.
Thursday, October 18, 2007
Decidere, ma decidere bene
Francesco, la tua lettera è un contributo importante alla riflessione.
Devo dire che per quanto riguarda la laicità non ho provato lo stesso disagio. Se davvero la laicità è innanzitutto metodo, e non solo temi eticamente sensibili, be', i 13 punti propongono una radicale laicizzazione del nostro sistema economico e politico. Sono sempre più convinto che la sudditanza della politica nei confronti della gerarchia vaticana sia strettamente connessa all'enorme quantità di risorse pubbliche che i partiti si trovano a gestire, per quel meccanismo per cui sono ben contenti di servire clientele e corporazioni per averne in cambio il sostegno necessario, soprattutto in legittimazione, a rimanere al potere, aiutati da un sistema istituzionale ed elettorale che nasconde i volti e le scelte dietro i simboli e il richiamo del "dna" politico. Credimi, un Dico non vale quanto la flat tax, anche in termini di laicità.
Sono d'accordo, però, che sia necessario non tanto il richiamo a questo o a quel tema, ma il palesare a tutti i livelli il metodo della laicità, come rispondenza delle politiche che si propongono, in ogni settore, ai fatti concreti valutati razionalmente.
L'intervento di Capezzone su Il Foglio di oggi mi è parso condivisibile nel possibile scenario che traccia, e anche laddove individua una carenza di proposta dell'attuale frastagliato centrodestra, che rischia di farsi trovare impreparato quando, prima o poi, si ripresenterà l'occasione per la rivincita elettorale.
Come ho avuto modo di scrivere sia sul mio blog sia su LibMagazine, non credo affatto che da qui a quel momento sia scontato che Berlusconi si presenti con un progetto più credibile in termini liberali di quello di Veltroni, il quale potrebbe, in questi mesi, dotarsi della patente non solo "giusta" ma proprio giusta, meno vecchia e ingiallita di quella di Berlusconi. Dipenderà dai temi, dalle allenze, dai nomi. Inutile che mi soffermi sui segnali, perché ne ho già trattato sull'ultimo numero di LibMagazine.
Certo, sbaglierebbe Capezzone, se avesse già tratto il dado. Di questa opinione sembra essere anche Paolo Messa.
Detto questo, è certamente opportuno che Capezzone continui a sollecitare il centrodestra sui punti di Decidere.net (e mi pare che questo intervento sia di gran lunga più mirato dei precedenti) e che corrisponda alle attenzioni che riceve, ma è urgente creare le condizioni per fare altrettando nei confronti di un centrosinistra che potrebbe presentarsi con un "nuovo conio" (se non altro, per poter rivendicare di averle tentate tutte). Sarebbe un fatto politico nuovo in presenza del quale sarebbe grave farsi trovare impreparati. Anche perché il rischio, di tutta evidenza, è il "venire decisi" anziché il "decidere".
Non userei il termine "trasversalità", ma il concetto dell'opa mi sembra quello da seguire con coerenza, non nascondendoci però le oggettive difficoltà che, per vari motivi, il nostro prodotto riscontra presso certi "mercati", e un contesto le cui variabili sfuggono al nostro controllo.
Le risorse liberali sono scarse in questo paese e dobbiamo continuare a offrire il nostro contributo di ragionamento affinché vengano spese nel migliore dei modi, poiché l'alternativa sarebbe il ripiego verso la sfera privata che, se non altro per ragioni anagrafiche (per citare Montanelli), noi non possiamo permetterci.
Devo dire che per quanto riguarda la laicità non ho provato lo stesso disagio. Se davvero la laicità è innanzitutto metodo, e non solo temi eticamente sensibili, be', i 13 punti propongono una radicale laicizzazione del nostro sistema economico e politico. Sono sempre più convinto che la sudditanza della politica nei confronti della gerarchia vaticana sia strettamente connessa all'enorme quantità di risorse pubbliche che i partiti si trovano a gestire, per quel meccanismo per cui sono ben contenti di servire clientele e corporazioni per averne in cambio il sostegno necessario, soprattutto in legittimazione, a rimanere al potere, aiutati da un sistema istituzionale ed elettorale che nasconde i volti e le scelte dietro i simboli e il richiamo del "dna" politico. Credimi, un Dico non vale quanto la flat tax, anche in termini di laicità.
Sono d'accordo, però, che sia necessario non tanto il richiamo a questo o a quel tema, ma il palesare a tutti i livelli il metodo della laicità, come rispondenza delle politiche che si propongono, in ogni settore, ai fatti concreti valutati razionalmente.
L'intervento di Capezzone su Il Foglio di oggi mi è parso condivisibile nel possibile scenario che traccia, e anche laddove individua una carenza di proposta dell'attuale frastagliato centrodestra, che rischia di farsi trovare impreparato quando, prima o poi, si ripresenterà l'occasione per la rivincita elettorale.
Come ho avuto modo di scrivere sia sul mio blog sia su LibMagazine, non credo affatto che da qui a quel momento sia scontato che Berlusconi si presenti con un progetto più credibile in termini liberali di quello di Veltroni, il quale potrebbe, in questi mesi, dotarsi della patente non solo "giusta" ma proprio giusta, meno vecchia e ingiallita di quella di Berlusconi. Dipenderà dai temi, dalle allenze, dai nomi. Inutile che mi soffermi sui segnali, perché ne ho già trattato sull'ultimo numero di LibMagazine.
Certo, sbaglierebbe Capezzone, se avesse già tratto il dado. Di questa opinione sembra essere anche Paolo Messa.
Detto questo, è certamente opportuno che Capezzone continui a sollecitare il centrodestra sui punti di Decidere.net (e mi pare che questo intervento sia di gran lunga più mirato dei precedenti) e che corrisponda alle attenzioni che riceve, ma è urgente creare le condizioni per fare altrettando nei confronti di un centrosinistra che potrebbe presentarsi con un "nuovo conio" (se non altro, per poter rivendicare di averle tentate tutte). Sarebbe un fatto politico nuovo in presenza del quale sarebbe grave farsi trovare impreparati. Anche perché il rischio, di tutta evidenza, è il "venire decisi" anziché il "decidere".
Non userei il termine "trasversalità", ma il concetto dell'opa mi sembra quello da seguire con coerenza, non nascondendoci però le oggettive difficoltà che, per vari motivi, il nostro prodotto riscontra presso certi "mercati", e un contesto le cui variabili sfuggono al nostro controllo.
Le risorse liberali sono scarse in questo paese e dobbiamo continuare a offrire il nostro contributo di ragionamento affinché vengano spese nel migliore dei modi, poiché l'alternativa sarebbe il ripiego verso la sfera privata che, se non altro per ragioni anagrafiche (per citare Montanelli), noi non possiamo permetterci.
La Chiesa scambia la pluralità di valori con l'assenza di moralità
Preceduti dall'affondo dell'Osservatore Romano contro la sentenza della Cassazione - che ha disposto un nuovo processo, «in una diversa sezione della Corte d'Appello di Milano», sul caso di Eluana Englaro, la giovane da 15 anni in stato vegetativo permanente, fissando inoltre le circostanze in cui sarebbe lecito fermare le macchine che le permettono di vegetare - oggi sono tornati all'attacco sia Papa Ratzinger sia il presidente della Cei, Bagnasco.
Sconcertato dal «silenzio e l'imbarazzo» dei politici, Gian Enrico Rusconi, che, su La Stampa di oggi, denuncia una gerarchia cattolica che pretende di avere «il monopolio dell’etica», fin tanto da accusare la magistratura di «orientare il legislatore verso l'eutanasia» e di promuovere «il relativismo dei valori», ormai l'anatema del nuovo millennio. «Dove sono i vocalissimi leader del neonato Partito democratico? Perché lasciano diffamare il pluralismo dei valori - fondamento della laicità - come "zona vuota dai confini non più tracciabili"?», si chiede Rusconi.
Nel caso di Eluana il «difficile e complesso problema della contemperanza dei vari criteri di giudizio etico» viene strumentalmente bollato come «mancanza di moralità», in ossequio a una concezione della vita umana che in realtà si rivela «sostanzialmente biologicistico-vegetativa», corporea e materialistica.
Nel nostro paese, sottolinea Rusconi, «non esiste un vuoto di valori - come ripetono i clericali - ma una paradossale ricchezza di valori che sono spesso in contrasto tra loro».
Sconcertato dal «silenzio e l'imbarazzo» dei politici, Gian Enrico Rusconi, che, su La Stampa di oggi, denuncia una gerarchia cattolica che pretende di avere «il monopolio dell’etica», fin tanto da accusare la magistratura di «orientare il legislatore verso l'eutanasia» e di promuovere «il relativismo dei valori», ormai l'anatema del nuovo millennio. «Dove sono i vocalissimi leader del neonato Partito democratico? Perché lasciano diffamare il pluralismo dei valori - fondamento della laicità - come "zona vuota dai confini non più tracciabili"?», si chiede Rusconi.
Nel caso di Eluana il «difficile e complesso problema della contemperanza dei vari criteri di giudizio etico» viene strumentalmente bollato come «mancanza di moralità», in ossequio a una concezione della vita umana che in realtà si rivela «sostanzialmente biologicistico-vegetativa», corporea e materialistica.
Nel nostro paese, sottolinea Rusconi, «non esiste un vuoto di valori - come ripetono i clericali - ma una paradossale ricchezza di valori che sono spesso in contrasto tra loro».
«Ciò che manca nel nostro Paese è una cultura e una politica laica, degna di questo nome. Una politica che governi davvero il pluralismo dei valori, di cui tutti i politici si riempiono la bocca. Che prenda decisioni legislative difficili, che tracci «confini» nel senso di tenere presenti tutti i criteri morali che entrano in gioco nelle scelte che contano. Anche a costo di scontrarsi con la Chiesa. Di tutto questo non vedo tracce attendibili nei fiumi di parole sentite in queste settimane, dentro e fuori il Partito democratico».
Per Sarkozy il gioco comincia a farsi duro
Mentre la stampa, da Corriere a Repubblica, dedica paginoni alla separazione coniugale tra Sarkozy e la moglie Cécilia, e ironizza sfornando senza troppi sforzi la battuta più calzante (ha avuto la sua "rupture"), questa mattina solo articoli di taglio basso, quando non trafiletti, per l'evento politico del giorno in Francia: lo sciopero dei ferrotranvieri.
Inizia infatti oggi il lungo braccio di ferro tra Sarkozy e i sindacati, le corporazioni, che ci dirà molto, nei prossimi mesi, della statura politica del presidente francese. La Francia oggi è ferma, bloccata. Il governo si dice non disposto a cedere, ma è solo l'inizio e l'autunno che lo aspetta è lungo e difficile. La fermezza di Sarkozy verrà messa a dura prova.
Il suo primo affondo è contro le "pensioni di giovinezza" d'oltralpe, i cosiddetti "regimi pensionistici speciali", che permettono ai lavoratori, circa 1,5 milioni, delle poche categorie che ne beneficiano di andare in pensione tra i 50 e i 55 anni di età, con 37 anni e mezzo di contributi, rispetto ai 40 anni di tutti gli altri lavoratori. La riforma proposta dal governo vuole portare per tutti il limite minimo a 40 anni di contributi entro il 2012.
La novità, se venisse confermata l'attendibilità dei dati, è che i sondaggi rilevano che la maggioranza dei francesi è per la riforma e contro la protesta dei sindacati. Sarebbe la prima volta, segnale che i presunti «diritti storicamente acquisiti» cominciano a essere percepiti come privilegi anche in Francia.
Che Sarkozy si stia sforzando di far accettare ai francesi quel tanto di liberalismo economico che la sua cultura di colbertista pragmatico ritiene indispensabile, lo testimonia, in un'intervista al Corriere della Sera, anche Mario Monti, che il presidente francese ha voluto, insieme a Bassanini, nella Commissione di studio guidata da Attalì per la "liberazione della crescita economica".
«C'è un approccio diverso. Parole impronunciabili come liberismo e concorrenza sono diventate parole d'ordine, metodo di lavoro. Il cittadino-consumatore sta occupando anche in Francia il centro di gravità della politica economica, diventa più importante del cittadino produttore o del "soggetto" sociale. Le nostre proposte rafforzano potere d'acquisto, tutela del consumatore, diritto alla casa come capitale familiare, come servizio, come strumento di mobilità e crescita. In sostanza, si smette di credere che liberalizzare significhi trasformare il mercato in una giungla. La sinistra lo ha creduto spesso, in Francia lo ha creduto anche la destra. È vero il contrario: il liberismo garantisce i più deboli, la mancanza di concorrenza avvantaggia corporazioni e monopoli. Aggiungo che la Francia vuole mantenere alto il profilo della solidarietà e dell'equità, concetti che non sono affatto incompatibili con la competitività e il mercato».
Verso la conclusione dell'intervista Monti riflette sulla situazione italiana. Osserva che la commissione Attalì è guidata da un intellettuale di sinistra ma lavora per un governo di centrodestra «che si propone di compiere, in ritardo, le rivoluzioni liberiste dell'epoca della Thatcher o di Reagan». In Italia, sottolinea Monti, «la destra ha perso molte occasioni per una vera rivoluzione liberista, mentre i passi importanti del centrosinistra, durante il primo governo Prodi, sono stati compiuti in ossequio ai vincoli europei più che per reale convinzione. Blair, Zapatero, Clinton hanno potuto ricostruire un welfare moderno sullo zoccolo duro di un'economia di mercato assicurato dalle rivoluzioni liberiste precedenti».
Troppo presto per formulare un giudizio sul Partito democratico, ma in Italia «si privilegia la concertazione fra parti sociali, quindi la dialettica fra corporazioni. Il potere politico trova legittimità quando c'è l'accordo fra le parti sociali. Viene da chiedersi dove risiedano sovranità e tutela degli interessi del cittadino».
Inizia infatti oggi il lungo braccio di ferro tra Sarkozy e i sindacati, le corporazioni, che ci dirà molto, nei prossimi mesi, della statura politica del presidente francese. La Francia oggi è ferma, bloccata. Il governo si dice non disposto a cedere, ma è solo l'inizio e l'autunno che lo aspetta è lungo e difficile. La fermezza di Sarkozy verrà messa a dura prova.
Il suo primo affondo è contro le "pensioni di giovinezza" d'oltralpe, i cosiddetti "regimi pensionistici speciali", che permettono ai lavoratori, circa 1,5 milioni, delle poche categorie che ne beneficiano di andare in pensione tra i 50 e i 55 anni di età, con 37 anni e mezzo di contributi, rispetto ai 40 anni di tutti gli altri lavoratori. La riforma proposta dal governo vuole portare per tutti il limite minimo a 40 anni di contributi entro il 2012.
La novità, se venisse confermata l'attendibilità dei dati, è che i sondaggi rilevano che la maggioranza dei francesi è per la riforma e contro la protesta dei sindacati. Sarebbe la prima volta, segnale che i presunti «diritti storicamente acquisiti» cominciano a essere percepiti come privilegi anche in Francia.
Che Sarkozy si stia sforzando di far accettare ai francesi quel tanto di liberalismo economico che la sua cultura di colbertista pragmatico ritiene indispensabile, lo testimonia, in un'intervista al Corriere della Sera, anche Mario Monti, che il presidente francese ha voluto, insieme a Bassanini, nella Commissione di studio guidata da Attalì per la "liberazione della crescita economica".
«C'è un approccio diverso. Parole impronunciabili come liberismo e concorrenza sono diventate parole d'ordine, metodo di lavoro. Il cittadino-consumatore sta occupando anche in Francia il centro di gravità della politica economica, diventa più importante del cittadino produttore o del "soggetto" sociale. Le nostre proposte rafforzano potere d'acquisto, tutela del consumatore, diritto alla casa come capitale familiare, come servizio, come strumento di mobilità e crescita. In sostanza, si smette di credere che liberalizzare significhi trasformare il mercato in una giungla. La sinistra lo ha creduto spesso, in Francia lo ha creduto anche la destra. È vero il contrario: il liberismo garantisce i più deboli, la mancanza di concorrenza avvantaggia corporazioni e monopoli. Aggiungo che la Francia vuole mantenere alto il profilo della solidarietà e dell'equità, concetti che non sono affatto incompatibili con la competitività e il mercato».
Verso la conclusione dell'intervista Monti riflette sulla situazione italiana. Osserva che la commissione Attalì è guidata da un intellettuale di sinistra ma lavora per un governo di centrodestra «che si propone di compiere, in ritardo, le rivoluzioni liberiste dell'epoca della Thatcher o di Reagan». In Italia, sottolinea Monti, «la destra ha perso molte occasioni per una vera rivoluzione liberista, mentre i passi importanti del centrosinistra, durante il primo governo Prodi, sono stati compiuti in ossequio ai vincoli europei più che per reale convinzione. Blair, Zapatero, Clinton hanno potuto ricostruire un welfare moderno sullo zoccolo duro di un'economia di mercato assicurato dalle rivoluzioni liberiste precedenti».
Troppo presto per formulare un giudizio sul Partito democratico, ma in Italia «si privilegia la concertazione fra parti sociali, quindi la dialettica fra corporazioni. Il potere politico trova legittimità quando c'è l'accordo fra le parti sociali. Viene da chiedersi dove risiedano sovranità e tutela degli interessi del cittadino».
Wednesday, October 17, 2007
Bush prende per mano il Dalai Lama e sfida Pechino
«Ammiro il Dalai Lama. Appoggio le libertà religiose e se posso vado a tutte le cerimonie di consegna delle medaglie d'oro del Congresso. Ho detto al presidente cinese Hu Jintao che sarei andato a questa cerimonia, e gli ho spiegato anche perché, per rendere onore a quest'uomo. Ho detto a Hu che la tutela delle libertà religiose è nell'interesse della Cina, ho detto che dovrebbero incontrarlo, il Dalai Lama. Se si sedessero allo stesso tavolo con lui scoprirebbero che è un uomo di pace».
(George W. Bush, 17 ottobre 2007)
Com'era prevedibile, il Congresso e il presidente degli Stati Uniti non hanno abbassato lo sguardo di fronte alle minacce cinesi. Lo scorso martedì Bush ha incontrato privatamente il Dalai Lama e, il giorno successivo, ha partecipato alla cerimonia di conferimento della Medaglia d'Oro del Congresso Usa, la più alta onorificenza civile americana, al leader del buddismo tibetano, che vive in esilio dal 1959 a seguito dell'occupazione cinese del Tibet.
Il portavoce del Ministero degli Esteri, Liu Jianchao, aveva reiterato la richiesta di annullare le cerimonie previste ma, soprattutto, l'incontro del presidente Bush con il Dalai Lama e la sua presenza alla consegna del premio, ritenendoli «un'indecente ingerenza negli affari interni cinesi». La decisione di Pechino di rendere così plateale il proprio malcontento – «quest'azione danneggerà gravemente le relazioni fra la Cina e gli Stati Uniti», si era spinto a dichiarare il portavoce – ha senz'altro contribuito a conferire all'evento ancor più risalto e valore politico.
Bush ha fatto di più: ha consegnato egli stesso la medaglia d'oro nelle mani del Dalai Lama: «Gli americani non possono guardare la sciagura degli oppressi nella loro religione e chiudere gli occhi o distogliere lo sguardo». Il premio dà «grande gioia e incoraggiamento al popolo tibetano», ha risposto il Dalai Lama, ringraziando il presidente Usa per «la sua determinata presa di posizione per la libertà religiosa e la democrazia».
La Medaglia d'Oro del Congresso viene spesso assegnata come riconoscimento "politico" a personaggi che si distinguono per la loro azione a favore della democrazia e dei diritti umani. Premiati, tra gli altri, l'ex presidente del Sudafrica Nelson Mandela, Rosa Parks, Papa Giovanni Paolo II, Ronald e Nancy Reagan, Natan Sharansky e Tony Blair.
Rispettata, dunque, da parte di Bush la sua dottrina di promozione globale della democrazia? Sì e no. Sì, perché il presidente Usa non ha mai rinunciato, usando la forza delle parole nelle sedi più autorevoli e la sua agenda personale, alla costante opera di legittimazione delle opposizioni democratiche nei regimi dittatoriali non solo del Medio Oriente, ma di tutto il mondo. I suoi frequenti incontri con il Dalai Lama, ma anche con attivisti democratici di altri paesi, e le sue molte prese di posizione affinché quelli imprigionati, come l'egiziano Saad Eddin Ibrahim o la birmana Aung San Suu Kyi, venissero subito liberati, non hanno un valore meramente simbolico. Hanno anche ricadute politiche, magari non immediate, all'interno di quei paesi "chiusi" al resto del mondo e svolgono l'importante funzione di legittimare, dare voce, forza, convinzione e seguito ai democratici, indicandoli come futuri leader dei popoli oggi oppressi.
Non si tratta di gesti gratuiti. Pur di esercitare una pressione sulla Cina per i diritti umani, Bush ha messo nel conto dei costi, esposto il suo paese a difficoltà diplomatiche con una potenza mondiale con la quale ormai esiste un rapporto di interdipendenza economica. E, certo, questo episodio non renderà più facile vedere accolta da Pechino la richiesta di modificare alcuni comportamenti di natura economica e commerciale che incidono negativamente anche sull'economia americana.
Tuttavia, da un punto di vista più politico e strategico, Bush è in ritardo con la sua agenda, soprattutto in Asia. Dovrebbe essere maggiore l'impegno nell'istituzionalizzare una Lega delle democrazie asiatiche. La recente crisi birmana ha sì confermato l'attenzione della Casa Bianca per la causa della democrazia, ma ne ha anche evidenziato l'impotenza, l'incapacità di condizionare, direttamente o attraverso i paesi "amici", gli eventi in quella parte del mondo, giungendo al paradosso di dover confidare proprio nell'intervento di Pechino per la soluzione pacifica della crisi e l'avvio in Birmania di un improbabile processo democratico.
Il nervosismo cinese è un utile indicatore di quanto tali gesti non siano affatto inutili o solo simbolici. Pechino ha paura dell'influenza del Dalai Lama sul piano internazionale, teme il buddismo tibetano, ancor più dopo che i monaci buddisti birmani hanno dimostrato di poter mobilitare quanto meno le coscienze del mondo libero contro la Giunta militare a Yangon. A parte gli interessi commerciali e strategici, se i monaci buddisti fossero riusciti a rovesciare il regime avrebbero potuto essere di esempio ai buddisti del Tibet. In ogni caso, il conflitto tra i buddisti e la dittatura birmana ha fatto tornare di attualità la questione tibetana e la popolarità, l'autorevolezza di cui gode il Dalai Lama nel mondo è oggi ancor di più un pericolo per la stabilità di regime in Tibet.
Il Dalai Lama, che in un'intervista a Voice of America ha tra l'altro apprezzato le gesta dei monaci birmani, di fronte al caso diplomatico ha ostentato la sua proverbiale e ascetica serenità: «Succede tutte le volte», ha detto ridendo. «Ci conosciamo, e abbiamo creato, credo, una vera profonda amicizia, è come una riunione di famiglia», ha aggiunto su Bush. Da qualche anno il leader spirituale buddista non parla più di indipendenza per il Tibet, ma di «genuina autonomia», sperando di avviare così un dialogo con Pechino. Ma il governo cinese continua ad accusarlo di attività secessioniste. La regione è stata occupata dall'esercito cinese di Mao nel 1950. Verrà prima o poi dimostrato che da allora la politica attuata da Pechino è stata di vera e propria pulizia etnica, se non di genocidio: massacri, distruzione dei monasteri e dei simboli della cultura tibetana, "cinesizzazione" forzata della composizione etnica della popolazione, campagne di rieducazione.
Il 2008 sarà l'anno delle Olimpiadi in Cina e qualcuno, come Bernard Henry-Levy, propone al mondo libero di minacciare il boicottaggio. Un'idea che non deve apparire né irrealistica, né inutile o controproducente. Sarebbe utile se in modo coordinato Usa, Ue e le democrazie asiatiche svolgessero un'azione volta a obiettivi di concreta apertura, soprattutto per quanto riguarda la libertà d'espressione. In Italia, ministri attenti all'export, come D'Alema e Bonino, tentano di screditare l'ipotesi, equiparandola a un embargo, o a un totale isolamento della Cina, che nessuno vuole né sarebbe in grado di attuare.
(George W. Bush, 17 ottobre 2007)
Com'era prevedibile, il Congresso e il presidente degli Stati Uniti non hanno abbassato lo sguardo di fronte alle minacce cinesi. Lo scorso martedì Bush ha incontrato privatamente il Dalai Lama e, il giorno successivo, ha partecipato alla cerimonia di conferimento della Medaglia d'Oro del Congresso Usa, la più alta onorificenza civile americana, al leader del buddismo tibetano, che vive in esilio dal 1959 a seguito dell'occupazione cinese del Tibet.
Il portavoce del Ministero degli Esteri, Liu Jianchao, aveva reiterato la richiesta di annullare le cerimonie previste ma, soprattutto, l'incontro del presidente Bush con il Dalai Lama e la sua presenza alla consegna del premio, ritenendoli «un'indecente ingerenza negli affari interni cinesi». La decisione di Pechino di rendere così plateale il proprio malcontento – «quest'azione danneggerà gravemente le relazioni fra la Cina e gli Stati Uniti», si era spinto a dichiarare il portavoce – ha senz'altro contribuito a conferire all'evento ancor più risalto e valore politico.
Bush ha fatto di più: ha consegnato egli stesso la medaglia d'oro nelle mani del Dalai Lama: «Gli americani non possono guardare la sciagura degli oppressi nella loro religione e chiudere gli occhi o distogliere lo sguardo». Il premio dà «grande gioia e incoraggiamento al popolo tibetano», ha risposto il Dalai Lama, ringraziando il presidente Usa per «la sua determinata presa di posizione per la libertà religiosa e la democrazia».
La Medaglia d'Oro del Congresso viene spesso assegnata come riconoscimento "politico" a personaggi che si distinguono per la loro azione a favore della democrazia e dei diritti umani. Premiati, tra gli altri, l'ex presidente del Sudafrica Nelson Mandela, Rosa Parks, Papa Giovanni Paolo II, Ronald e Nancy Reagan, Natan Sharansky e Tony Blair.
Rispettata, dunque, da parte di Bush la sua dottrina di promozione globale della democrazia? Sì e no. Sì, perché il presidente Usa non ha mai rinunciato, usando la forza delle parole nelle sedi più autorevoli e la sua agenda personale, alla costante opera di legittimazione delle opposizioni democratiche nei regimi dittatoriali non solo del Medio Oriente, ma di tutto il mondo. I suoi frequenti incontri con il Dalai Lama, ma anche con attivisti democratici di altri paesi, e le sue molte prese di posizione affinché quelli imprigionati, come l'egiziano Saad Eddin Ibrahim o la birmana Aung San Suu Kyi, venissero subito liberati, non hanno un valore meramente simbolico. Hanno anche ricadute politiche, magari non immediate, all'interno di quei paesi "chiusi" al resto del mondo e svolgono l'importante funzione di legittimare, dare voce, forza, convinzione e seguito ai democratici, indicandoli come futuri leader dei popoli oggi oppressi.
Non si tratta di gesti gratuiti. Pur di esercitare una pressione sulla Cina per i diritti umani, Bush ha messo nel conto dei costi, esposto il suo paese a difficoltà diplomatiche con una potenza mondiale con la quale ormai esiste un rapporto di interdipendenza economica. E, certo, questo episodio non renderà più facile vedere accolta da Pechino la richiesta di modificare alcuni comportamenti di natura economica e commerciale che incidono negativamente anche sull'economia americana.
Tuttavia, da un punto di vista più politico e strategico, Bush è in ritardo con la sua agenda, soprattutto in Asia. Dovrebbe essere maggiore l'impegno nell'istituzionalizzare una Lega delle democrazie asiatiche. La recente crisi birmana ha sì confermato l'attenzione della Casa Bianca per la causa della democrazia, ma ne ha anche evidenziato l'impotenza, l'incapacità di condizionare, direttamente o attraverso i paesi "amici", gli eventi in quella parte del mondo, giungendo al paradosso di dover confidare proprio nell'intervento di Pechino per la soluzione pacifica della crisi e l'avvio in Birmania di un improbabile processo democratico.
Il nervosismo cinese è un utile indicatore di quanto tali gesti non siano affatto inutili o solo simbolici. Pechino ha paura dell'influenza del Dalai Lama sul piano internazionale, teme il buddismo tibetano, ancor più dopo che i monaci buddisti birmani hanno dimostrato di poter mobilitare quanto meno le coscienze del mondo libero contro la Giunta militare a Yangon. A parte gli interessi commerciali e strategici, se i monaci buddisti fossero riusciti a rovesciare il regime avrebbero potuto essere di esempio ai buddisti del Tibet. In ogni caso, il conflitto tra i buddisti e la dittatura birmana ha fatto tornare di attualità la questione tibetana e la popolarità, l'autorevolezza di cui gode il Dalai Lama nel mondo è oggi ancor di più un pericolo per la stabilità di regime in Tibet.
Il Dalai Lama, che in un'intervista a Voice of America ha tra l'altro apprezzato le gesta dei monaci birmani, di fronte al caso diplomatico ha ostentato la sua proverbiale e ascetica serenità: «Succede tutte le volte», ha detto ridendo. «Ci conosciamo, e abbiamo creato, credo, una vera profonda amicizia, è come una riunione di famiglia», ha aggiunto su Bush. Da qualche anno il leader spirituale buddista non parla più di indipendenza per il Tibet, ma di «genuina autonomia», sperando di avviare così un dialogo con Pechino. Ma il governo cinese continua ad accusarlo di attività secessioniste. La regione è stata occupata dall'esercito cinese di Mao nel 1950. Verrà prima o poi dimostrato che da allora la politica attuata da Pechino è stata di vera e propria pulizia etnica, se non di genocidio: massacri, distruzione dei monasteri e dei simboli della cultura tibetana, "cinesizzazione" forzata della composizione etnica della popolazione, campagne di rieducazione.
Il 2008 sarà l'anno delle Olimpiadi in Cina e qualcuno, come Bernard Henry-Levy, propone al mondo libero di minacciare il boicottaggio. Un'idea che non deve apparire né irrealistica, né inutile o controproducente. Sarebbe utile se in modo coordinato Usa, Ue e le democrazie asiatiche svolgessero un'azione volta a obiettivi di concreta apertura, soprattutto per quanto riguarda la libertà d'espressione. In Italia, ministri attenti all'export, come D'Alema e Bonino, tentano di screditare l'ipotesi, equiparandola a un embargo, o a un totale isolamento della Cina, che nessuno vuole né sarebbe in grado di attuare.
La presidente del Cile dal rettore "venezuelano"
Ieri, all'Università Roma Tre, durante il rito dell'inaugurazione dell'anno accademico, mentre parlava il rettore s'è alzata dalla platea una piccola contestazione.
Come ogni anno, ospiti illustri in via Ostiense, ma quest'anno di più. Nientemeno che due presidenti della Repubblica: Napolitano, di cui il rettore è cognato, e la presidente della Repubblica del Cile, Michelle Bachelet.
Curiosa coincidenza, la presidente cilena accanto a un rettore "venezuelano", se non putiniano. Studenti di An e dei Collettivi (non quelli dei Ds, ovviamente) concordano nel denunciare il provvedimento di modifica dello statuto dell'Ateneo che elimina il tetto sul numero di mandati per le cariche di Rettore, Preside e capo Dipartimento. Per Guido Fabiani si spalancano le porte del quarto (ripeto: quarto) mandato consecutivo.
Già una volta Fabiani aveva strumentalmente promosso una modifica dello statuto per potersi ricandidare. Una norma prevedeva infatti che qualora lo statuto fosse stato modificato, il conteggio dei mandati sarebbe stato azzerato. Sono passati anni e il problema si ripropone, ma stavolta la soluzione è drastica: via il tetto.
Fabiani vorrebbe far credere che non ci sia nesso tra l'abolizione del limite ai mandati consecutivi e la sua ricandidatura. Il quarto mandato "non c'è ancora", mette le mani avanti. "Ci sarà solo con il consenso democratico e se io mi presenterò, ma mancano ancora mesi". Bene, sono ancora previste elezioni, dunque. E' già qualcosa, anche se ridotte a pura formalità. E' da supporre, infatti, che abolito il tetto sui mandati anche per le altre cariche, presidi e presidenti di dipartimento non faranno mancare a Fabiani l'appoggio di facoltà e dipartimenti, come già accaduto in passato.
Per quanto mi riguarda, in un sistema in cui sia la concorrenza e fare la fortuna delle università e dei suoi docenti, e non siano gli assegni statali garantiti, un rettore potrebbe restare in carica anche quarant'anni. Il caso di Roma Tre, invece, è emblematico della realtà accademica italiana. Nessuno è chiamato a rispondere dei risultati, i soldi arrivano comunque. Non è che Roma Tre risplenda come un punto d'eccellenza, eppure, con una oculata spartizione dei fondi, punitiva nei confronti di chi non s'adegua e, viceversa, generosa con i fedelissimi, Fabiani è riuscito a saldare un invincibile blocco di consensi, tanto che nessuno ormai osa più candidarsi contro di lui, temendo di far sprofondare in disgrazia se stesso e la sua facoltà.
Come ogni anno, ospiti illustri in via Ostiense, ma quest'anno di più. Nientemeno che due presidenti della Repubblica: Napolitano, di cui il rettore è cognato, e la presidente della Repubblica del Cile, Michelle Bachelet.
Curiosa coincidenza, la presidente cilena accanto a un rettore "venezuelano", se non putiniano. Studenti di An e dei Collettivi (non quelli dei Ds, ovviamente) concordano nel denunciare il provvedimento di modifica dello statuto dell'Ateneo che elimina il tetto sul numero di mandati per le cariche di Rettore, Preside e capo Dipartimento. Per Guido Fabiani si spalancano le porte del quarto (ripeto: quarto) mandato consecutivo.
Già una volta Fabiani aveva strumentalmente promosso una modifica dello statuto per potersi ricandidare. Una norma prevedeva infatti che qualora lo statuto fosse stato modificato, il conteggio dei mandati sarebbe stato azzerato. Sono passati anni e il problema si ripropone, ma stavolta la soluzione è drastica: via il tetto.
Fabiani vorrebbe far credere che non ci sia nesso tra l'abolizione del limite ai mandati consecutivi e la sua ricandidatura. Il quarto mandato "non c'è ancora", mette le mani avanti. "Ci sarà solo con il consenso democratico e se io mi presenterò, ma mancano ancora mesi". Bene, sono ancora previste elezioni, dunque. E' già qualcosa, anche se ridotte a pura formalità. E' da supporre, infatti, che abolito il tetto sui mandati anche per le altre cariche, presidi e presidenti di dipartimento non faranno mancare a Fabiani l'appoggio di facoltà e dipartimenti, come già accaduto in passato.
Per quanto mi riguarda, in un sistema in cui sia la concorrenza e fare la fortuna delle università e dei suoi docenti, e non siano gli assegni statali garantiti, un rettore potrebbe restare in carica anche quarant'anni. Il caso di Roma Tre, invece, è emblematico della realtà accademica italiana. Nessuno è chiamato a rispondere dei risultati, i soldi arrivano comunque. Non è che Roma Tre risplenda come un punto d'eccellenza, eppure, con una oculata spartizione dei fondi, punitiva nei confronti di chi non s'adegua e, viceversa, generosa con i fedelissimi, Fabiani è riuscito a saldare un invincibile blocco di consensi, tanto che nessuno ormai osa più candidarsi contro di lui, temendo di far sprofondare in disgrazia se stesso e la sua facoltà.
Tuesday, October 16, 2007
Berlusconi ha la rivincita in tasca; il dilemma di Veltroni
«Non me ne andrò fino al 2011», ha sempre ripetuto Romano Prodi. Eppure, nella lettera di congratulazioni inviata a Veltroni per il successo delle primarie ha buttato là una data, il 2009, testualmente riferita alle elezioni europee, ma che potrebbe sottintendere, invece, una proposta di accordo lanciata al segretario del Pd per gestire l'inevitabile dualismo dei prossimi mesi: "Fammi andare avanti fino al 2009, poi accetterò di farmi da parte". D'altra parte, Veltroni avrebbe sì bisogno di un altro anno prima di presentarsi al voto, per fare il partito e per preparare l'alleanza di «nuovo conio», ma forse gli converrebbe anche che a traghettare il paese in questi 12 mesi fosse un governo "cuscinetto", per fare sì che nella memoria degli elettori sbiadisca il ricordo dei disastri dell'attuale coalizione di centrosinistra.
Non è di questo avviso Berlusconi, che invece ha fretta. Con un governo così fallimentare, e gli italiani così incazzati, l'occasione è troppo ghiotta, la rivincita se la sente in tasca. E' impensabile quindi che accetti proprio ora di far partire il dialogo per le riforme, che Prodi sarebbe pronto a strumentalizzare per restare in piedi e che Veltroni sfrutterebbe per prepararsi al meglio.
Trovano conferma dallo stesso Cav., dunque, le parole di Gianni Letta, riportate nel retroscena di Minzolini, oggi su La Stampa: «... forse qualche mese fa si poteva tentare, ma ormai la partita è finita. Siamo agli sgoccioli, ai minuti di recupero. Possono essere uno, due, o tre, ma il fischio finale dell'arbitro sta per arrivare. E si andrà a votare».
In modo molto sintetico ed efficace Berlusconi ha spiegato inoltre perché il grande show di domenica scorsa non è destinato di per sé a produrre alcun cambiamento. Se il Pd non sarà disposto a rinunciare all'alleanza con la sinistra comunista e massimalista farà la stessa fine dell'Ulivo, e Veltroni la stessa di Prodi.
Così la pensa anche Stefano Folli, che ha rievocato il precedente dell'ottobre 2005, quando le finte primarie dell'Unione per la candidatura a premier si trasformarono in un plebiscito a favore di Prodi. L'investitura popolare avrebbe dovuto trasformarlo nel premier più forte mai visto in Italia, ma oggi si deve arrendere alla sua irrilevanza e al fallimento strutturale della sua coalizione, fatta per vincere e non per governare.
Una fine che rischia di fare anche Veltroni, se non farà «buon uso» del successo delle primarie, se non aggiungerà fatti concreti, visibili e percepibili dall'elettorato, soprattutto fra i ceti medi e produttivi: «Le parole non bastano e il crisma del voto popolare servirà al leader solo in una prima fase. Senza risultati tangibili, la magia svanirà inevitabilmente».
Chi ha colto il senso dell'operazione obbligata che sta tentando e che tenterà nei prossimi mesi Veltroni è, come spesso gli capita, Luca Ricolfi, su La Stampa. Gran parte del "popolo della sinistra" è oggi stordito dal vedere Veltroni e il Pd muoversi verso il centro e far proprie istanze tipiche della destra, come tasse e sicurezza. Ma «se Veltroni pensasse di rubare voti alla destra facendosi esso stesso destra, gli elettori moderati mangerebbero la foglia e gli preferirebbero l'originale», osserva Ricolfi. E' questo un rischio fondato che però il segretario del Pd non può fare a meno di correre.
«Quel che Veltroni sta tentando di fare non è di spostare verso destra il baricentro del nuovo partito, ma di costruire una sinistra radicalmente riformatrice. Una sinistra moderna, liberale, e quindi fondata su un'idea diversa di progresso, su un'idea diversa di eguaglianza, su un'idea diversa di libertà». Il «guaio», sottolinea Ricolfi, è che lo fa «senza dirlo, senza spiegarlo». Non una «rivoluzione silenziosa», ma addirittura una «rivoluzione di nascosto».
Non è di questo avviso Berlusconi, che invece ha fretta. Con un governo così fallimentare, e gli italiani così incazzati, l'occasione è troppo ghiotta, la rivincita se la sente in tasca. E' impensabile quindi che accetti proprio ora di far partire il dialogo per le riforme, che Prodi sarebbe pronto a strumentalizzare per restare in piedi e che Veltroni sfrutterebbe per prepararsi al meglio.
Trovano conferma dallo stesso Cav., dunque, le parole di Gianni Letta, riportate nel retroscena di Minzolini, oggi su La Stampa: «... forse qualche mese fa si poteva tentare, ma ormai la partita è finita. Siamo agli sgoccioli, ai minuti di recupero. Possono essere uno, due, o tre, ma il fischio finale dell'arbitro sta per arrivare. E si andrà a votare».
In modo molto sintetico ed efficace Berlusconi ha spiegato inoltre perché il grande show di domenica scorsa non è destinato di per sé a produrre alcun cambiamento. Se il Pd non sarà disposto a rinunciare all'alleanza con la sinistra comunista e massimalista farà la stessa fine dell'Ulivo, e Veltroni la stessa di Prodi.
Così la pensa anche Stefano Folli, che ha rievocato il precedente dell'ottobre 2005, quando le finte primarie dell'Unione per la candidatura a premier si trasformarono in un plebiscito a favore di Prodi. L'investitura popolare avrebbe dovuto trasformarlo nel premier più forte mai visto in Italia, ma oggi si deve arrendere alla sua irrilevanza e al fallimento strutturale della sua coalizione, fatta per vincere e non per governare.
Una fine che rischia di fare anche Veltroni, se non farà «buon uso» del successo delle primarie, se non aggiungerà fatti concreti, visibili e percepibili dall'elettorato, soprattutto fra i ceti medi e produttivi: «Le parole non bastano e il crisma del voto popolare servirà al leader solo in una prima fase. Senza risultati tangibili, la magia svanirà inevitabilmente».
Chi ha colto il senso dell'operazione obbligata che sta tentando e che tenterà nei prossimi mesi Veltroni è, come spesso gli capita, Luca Ricolfi, su La Stampa. Gran parte del "popolo della sinistra" è oggi stordito dal vedere Veltroni e il Pd muoversi verso il centro e far proprie istanze tipiche della destra, come tasse e sicurezza. Ma «se Veltroni pensasse di rubare voti alla destra facendosi esso stesso destra, gli elettori moderati mangerebbero la foglia e gli preferirebbero l'originale», osserva Ricolfi. E' questo un rischio fondato che però il segretario del Pd non può fare a meno di correre.
«Quel che Veltroni sta tentando di fare non è di spostare verso destra il baricentro del nuovo partito, ma di costruire una sinistra radicalmente riformatrice. Una sinistra moderna, liberale, e quindi fondata su un'idea diversa di progresso, su un'idea diversa di eguaglianza, su un'idea diversa di libertà». Il «guaio», sottolinea Ricolfi, è che lo fa «senza dirlo, senza spiegarlo». Non una «rivoluzione silenziosa», ma addirittura una «rivoluzione di nascosto».
«Se volesse davvero spiegare la rivoluzione liberale di cui è diventato un (convinto?) paladino, dovrebbe anche fare i conti fino in fondo con il passato della sinistra. E dire: amici e compagni, per anni vi abbiamo riempiti di stereotipi buonisti, idee semplicistiche, maxi-programmi irrealizzabili; vi abbiamo nascosto i fatti, quando non quadravano con le convinzioni che vi avevamo impartito; vi abbiamo insegnato a criticare la destra sempre e comunque, qualsiasi cosa facesse; abbiamo coltivato il vostro senso di superiorità morale, la certezza di rappresentare "la parte migliore del Paese"; per cacciare Berlusconi abbiamo contratto un'alleanza politica innaturale, che sta paralizzando l'Italia; ora però ci siamo resi conto dei nostri errori, e anche se ci abbiamo messo quasi vent'anni a capirli (il muro di Berlino è caduto nel 1989), chiediamo a voi di metterci meno tempo - molto meno tempo - di quanto ne abbiamo messo noi».Sai che sberla?! Sarebbe un discorso «nobile e coraggioso», ma Veltroni non può permetterselo, perché «un minuto dopo cadrebbe il governo». Dunque, «finché vorrà salvare Prodi, Veltroni non potrà mai spiegare sul serio la sua rivoluzione liberale». E finché non la spiegherà, mancheranno i fatti concreti e a noi rimarrà il sospetto.
La Cina teme che l'Occidente appoggi il Dalai Lama
La Cina minaccia, ma ci auguriamo che il Congresso degli Stati Uniti e il presidente Bush tengano duro su un evento che a questo punto assumerà un alto valore simbolico.
Pechino sta esercitando pressioni affinché venga annullata la cerimonia di conferimento al Dalai Lama, il leader del buddismo tibetano che vive in esilio dal 1959 a seguito dell'occupazione cinese, della Medaglia d'Oro del Congresso Usa, la più alta onorificenza civile americana. «Abbiamo già protestato diverse volte presso gli americani e chiediamo loro nuovamente di correggere l'errore e di annullare le cerimonie previste», ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Liu Jianchao.
«Esprimiamo il nostro profondo malcontento e la nostra ferma opposizione», ha aggiunto minaccioso: «Quest'azione danneggerà gravemente le relazioni fra la Cina e gli Stati Uniti». La cerimonia di consegna, prevista per domani, e soprattutto l'annunciata presenza dello stesso presidente Bush, sostiene Pechino, «violano gravemente i principi di base delle relazioni internazionali, urtano i sentimenti dei cinesi e costituiscono un'indecente ingerenza negli affari interni cinesi».
Il Dalai Lama sarà premiato per «il suo duraturo ed eccezionale contributo alla pace, alla nonviolenza, ai diritti umani e alla comprensione religiosa». La Medaglia d'Oro del Congresso è stata finora assegnata, tra gli altri, a Madre Teresa, all'ex presidente del Sudafrica Nelson Mandela, a Rosa Parks, a Papa Giovanni Paolo II, a Ronald e Nancy Reagan, a Natan Sharansky e a Tony Blair.
Anche il cancelliere tedesco Angela Merkel ha ricevuto pochi giorni fa il Dalai Lama, subendo la rappresaglia immediata di Pechino, che ha cancellato una serie di incontri già in calendario con delegazioni tedesche. Chissà se anche un nostro presidente, prima o poi, si degnerà di seguire l'esempio di Bush e della Merkel, manifestando in un modo che non è solo simbolico, pare di capire dalle reazioni dei cinesi, il proprio appoggio alla causa del Tibet e la disapprovazione per i metodi di oppressione e di pulizia etnica di Pechino sulla regione.
Pechino sta esercitando pressioni affinché venga annullata la cerimonia di conferimento al Dalai Lama, il leader del buddismo tibetano che vive in esilio dal 1959 a seguito dell'occupazione cinese, della Medaglia d'Oro del Congresso Usa, la più alta onorificenza civile americana. «Abbiamo già protestato diverse volte presso gli americani e chiediamo loro nuovamente di correggere l'errore e di annullare le cerimonie previste», ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Liu Jianchao.
«Esprimiamo il nostro profondo malcontento e la nostra ferma opposizione», ha aggiunto minaccioso: «Quest'azione danneggerà gravemente le relazioni fra la Cina e gli Stati Uniti». La cerimonia di consegna, prevista per domani, e soprattutto l'annunciata presenza dello stesso presidente Bush, sostiene Pechino, «violano gravemente i principi di base delle relazioni internazionali, urtano i sentimenti dei cinesi e costituiscono un'indecente ingerenza negli affari interni cinesi».
Il Dalai Lama sarà premiato per «il suo duraturo ed eccezionale contributo alla pace, alla nonviolenza, ai diritti umani e alla comprensione religiosa». La Medaglia d'Oro del Congresso è stata finora assegnata, tra gli altri, a Madre Teresa, all'ex presidente del Sudafrica Nelson Mandela, a Rosa Parks, a Papa Giovanni Paolo II, a Ronald e Nancy Reagan, a Natan Sharansky e a Tony Blair.
Anche il cancelliere tedesco Angela Merkel ha ricevuto pochi giorni fa il Dalai Lama, subendo la rappresaglia immediata di Pechino, che ha cancellato una serie di incontri già in calendario con delegazioni tedesche. Chissà se anche un nostro presidente, prima o poi, si degnerà di seguire l'esempio di Bush e della Merkel, manifestando in un modo che non è solo simbolico, pare di capire dalle reazioni dei cinesi, il proprio appoggio alla causa del Tibet e la disapprovazione per i metodi di oppressione e di pulizia etnica di Pechino sulla regione.
Nessuno al comando
E' noto che Pannella sia il "dominus" indiscutibile della galassia radicale. Anzi, del piccolo ma vitale sistema solare egli è il "sole". Eppure, alla luce di questa prima esperienza dei radicali al governo, c'è da chiedersi se in effetti ci sia davvero qualcuno al comando. E se ci sia qualche forza fisica, oltre all'"amore" e alla fede incondizionata per il leader, a legare i vari corpi celesti.
L'ultima, emblematica situazione di caos e incredibile sequenza di errori politici, si è verificata sul protocollo pensioni/welfare varato venerdì scorso dal Consiglio dei Ministri. Dunque, ricapitolando: venerdì pomeriggio, dopo la riunione, la Bonino dichiara (ore 17:02) che il Cdm «ha assunto una linea che avevo perorato e difeso sin dall'inizio, vale a dire che l'accordo, già frutto di un compromesso, andava recepito così come era stato sottoscritto tra Governo e parti sociali. Sostanzialmente così è stato...».
Subito dopo insorgono Confindustria (18:37) e Cisl (19:34): «Modifiche non lievi ma sostanziali».
Domenica sera, nella consueta conversazione settimanale con Bordin, Pannella spiega: «Bisognerà fare uno sforzo per avere un po' di carte, per capire cosa sta succedendo sulla questione del protocollo... quello è un problema serio. Noi abbiamo - io ce li ho qui sotto al naso - depositato a suo tempo degli emendamenti nel caso in cui il protocollo non venisse difeso e tradotto nella sua integrità... Noi, Emma Bonino, si sta cercando di avere, malgrado la domenica, malgrado queste ore notturne, di capire l'esattezza... stiamo cercando di sapere cosa sia accaduto con le carte del governo».
Le carte a cui si riferisce Pannella dovrebbero essere nel ddl varato venerdì, sotto il naso e con il voto della Bonino! Cosa sia successo sembra chiaro: sono state apportate modifiche sostanziali e peggiorative all'accordo di luglio, ma la Bonino e i radicali non hanno dato seguito ai comportamenti che avevano annunciato, nel caso ciò fosse accaduto.
Lunedì mattina, condivisibile comunicato di Cappato e Cicciomessere, che ritengono «sacrosanta» la «richiesta di Confindustria di rispettare il contenuto del protocollo sul lavoro a tempo determinato, completamente stravolto dal DDL». Dunque, per Cappato e Cicciomessere il protocollo, su quel punto, è stato «completamente stravolto».
Sempre lunedì mattina (ore 10:34), la Bonino chiarisce a Radio Radicale quando ha avuto le famose carte: «Abbiamo avuto il testo del ddl il giovedì sera alle 21-21,30. L'abbiamo studiato, ci siamo consultati tra di noi durante la notte fino alla mattina».
E ribadisce: «La valutazione nostra era che il ddl sostanzialmente non era diverso dal protocollo, se non su un punto che ci interessava e ci preoccupava in modo particolare, la questione dei contratti a termine... questo il punto su cui sono intervenuta in Cdm per chiedere delle chiarificazioni». Chiarificazioni che devono essere state soddisfacenti tanto da votare il ddl, supponiamo.
Che confusione! Un marasma in casa radicale. Carte che non ci sono e poi ci sono e sono state studiate; ddl che prima «sostanzialmente recepisce il protocollo così com'è», poi invece è «completamente stravolto», poi di nuovo «sostanzialmente non diverso». Magari, qualcuno dei consulenti sul libro paga del Ministero, cui la Bonino ha rimesso la propria fiducia, avrebbe potuto aiutarla a leggere il ddl che avrebbe poi votato venerdì.
L'ultima, emblematica situazione di caos e incredibile sequenza di errori politici, si è verificata sul protocollo pensioni/welfare varato venerdì scorso dal Consiglio dei Ministri. Dunque, ricapitolando: venerdì pomeriggio, dopo la riunione, la Bonino dichiara (ore 17:02) che il Cdm «ha assunto una linea che avevo perorato e difeso sin dall'inizio, vale a dire che l'accordo, già frutto di un compromesso, andava recepito così come era stato sottoscritto tra Governo e parti sociali. Sostanzialmente così è stato...».
Subito dopo insorgono Confindustria (18:37) e Cisl (19:34): «Modifiche non lievi ma sostanziali».
Domenica sera, nella consueta conversazione settimanale con Bordin, Pannella spiega: «Bisognerà fare uno sforzo per avere un po' di carte, per capire cosa sta succedendo sulla questione del protocollo... quello è un problema serio. Noi abbiamo - io ce li ho qui sotto al naso - depositato a suo tempo degli emendamenti nel caso in cui il protocollo non venisse difeso e tradotto nella sua integrità... Noi, Emma Bonino, si sta cercando di avere, malgrado la domenica, malgrado queste ore notturne, di capire l'esattezza... stiamo cercando di sapere cosa sia accaduto con le carte del governo».
Le carte a cui si riferisce Pannella dovrebbero essere nel ddl varato venerdì, sotto il naso e con il voto della Bonino! Cosa sia successo sembra chiaro: sono state apportate modifiche sostanziali e peggiorative all'accordo di luglio, ma la Bonino e i radicali non hanno dato seguito ai comportamenti che avevano annunciato, nel caso ciò fosse accaduto.
Lunedì mattina, condivisibile comunicato di Cappato e Cicciomessere, che ritengono «sacrosanta» la «richiesta di Confindustria di rispettare il contenuto del protocollo sul lavoro a tempo determinato, completamente stravolto dal DDL». Dunque, per Cappato e Cicciomessere il protocollo, su quel punto, è stato «completamente stravolto».
Sempre lunedì mattina (ore 10:34), la Bonino chiarisce a Radio Radicale quando ha avuto le famose carte: «Abbiamo avuto il testo del ddl il giovedì sera alle 21-21,30. L'abbiamo studiato, ci siamo consultati tra di noi durante la notte fino alla mattina».
E ribadisce: «La valutazione nostra era che il ddl sostanzialmente non era diverso dal protocollo, se non su un punto che ci interessava e ci preoccupava in modo particolare, la questione dei contratti a termine... questo il punto su cui sono intervenuta in Cdm per chiedere delle chiarificazioni». Chiarificazioni che devono essere state soddisfacenti tanto da votare il ddl, supponiamo.
Che confusione! Un marasma in casa radicale. Carte che non ci sono e poi ci sono e sono state studiate; ddl che prima «sostanzialmente recepisce il protocollo così com'è», poi invece è «completamente stravolto», poi di nuovo «sostanzialmente non diverso». Magari, qualcuno dei consulenti sul libro paga del Ministero, cui la Bonino ha rimesso la propria fiducia, avrebbe potuto aiutarla a leggere il ddl che avrebbe poi votato venerdì.
Partito democratico. Il dado non è tratto
L'apertura del numero di questa settimana di LibMagazine è dedicata alle "primarie" di domenica e al Partito democratico, con un mio editoriale, di cui riporto alcuni passaggi:
Non siamo tra coloro che attendevano con trepidazione di sapere quanti cittadini si sarebbero recati ai gazebo o alle sezioni Ds a votare il segretario del Partito democratico, per annunciare il trionfo del nuovo partito nel giorno del suo battesimo popolare o, viceversa, per constatarne il flop. Sul numero effettivo dei partecipanti non può esservi certezza, data l'assenza di garanzie di legge nella consultazione. Già "Striscia la notizia" ha documentato i casi di diversi elettori plurimi, che sono riusciti a votare fino a sei volte in sedi diverse. La prudenza dovrebbe far diffidare di stime superiori ai 2 milioni. Le difficoltà dello spoglio in Campania autorizzano ulteriori dubbi circa la trasparenza di questa lotta di e tra apparati. "Fusione fredda" tra Ds e Margherita, accelerata dal sempre imminente ma difficilmente prevedibile collasso del Governo Prodi; compromesso storico bonsai tra ex-Pci ed ex-Dc; primarie – che poi primarie non sono (è stato eletto il segretario di un partito, non un candidato premier) – dall'esito scontato e dagli sfidanti di carta pesta. I difetti, le contraddizioni e i punti deboli di un processo costituente, di cui domenica 14 ottobre si è celebrata una tappa fondamentale, sono sotto gli occhi di tutti. Ma questa tappa può segnare il vero giro di boa per la corrente legislatura? E rappresenta davvero la prova che qualcosa di nuovo ha visto la luce nella politica italiana?
(...)
Sarebbe suicida da parte di Veltroni presentarsi di fronte agli elettori senza aver prima messo un bel po' di mesi tra la caduta di Prodi e il voto, oppure alla guida di un centrosinistra non profondamente e strutturalmente diverso da quello del 2006, libero dai ricatti e dai condizionamenti della sinistra massimalista. Gli italiani non ricadrebbero più nell'errore. Ci sentiamo quindi sommessamente di suggerire che la "rottura" strategica del Pd con i partiti comunisti e massimalisti, intorno a 3-4 temi qualificanti tra cui tasse e spesa pubblica, è un'opzione che Veltroni – se non per convinzione, almeno per convenienza – potrebbe considerare, abbandonando quanto di stucchevole, avvolgente ed ecumenico contraddistingue la sua vicenda politica.
Una simile prospettiva dovrebbe indurre a riflettere seriamente quanti sono impegnati per una politica ad "alta velocità", capace di "decidere", di intraprendere soluzioni liberali.
Ben quattro le interviste in questo numero. La prima, a Oscar Giannino, che parla del suo libro (per una visione «non autarchica» della questione fiscale), del sistema tributario e la crescita economica, delle esperienze fiscali degli altri paesi, dei benefici della flat tax, di una spesa pubblica inefficiente a vantaggio di una minoranza di privilegiati, della pesantissima "palla al piede" delle promesse non mantenute dal Governo Berlusconi, e della sua idea di una "Lega del contribuente". Poi le interviste a Paolo Messa, curatore di Formiche, sull'energia nucleare, a Paolo Pobbiati, di Amnesty International, sulle violenze contro le donne nel mondo, e infine a Vittorio Sgarbi, sulla nuova campagna di Toscani.
Il corsivo quotidiano è di Enzo Reale, per imparare la lezione dei fatti in Birmania, e la vignetta di Ciro Monacella. Le consuete rubriche di Castaldi, Nardi, Fronterré e Lupi e, infine, i contributi di Stefano Morandini, Cristina Marullo e Giovanni Venezia. Buona lettura.
Non siamo tra coloro che attendevano con trepidazione di sapere quanti cittadini si sarebbero recati ai gazebo o alle sezioni Ds a votare il segretario del Partito democratico, per annunciare il trionfo del nuovo partito nel giorno del suo battesimo popolare o, viceversa, per constatarne il flop. Sul numero effettivo dei partecipanti non può esservi certezza, data l'assenza di garanzie di legge nella consultazione. Già "Striscia la notizia" ha documentato i casi di diversi elettori plurimi, che sono riusciti a votare fino a sei volte in sedi diverse. La prudenza dovrebbe far diffidare di stime superiori ai 2 milioni. Le difficoltà dello spoglio in Campania autorizzano ulteriori dubbi circa la trasparenza di questa lotta di e tra apparati. "Fusione fredda" tra Ds e Margherita, accelerata dal sempre imminente ma difficilmente prevedibile collasso del Governo Prodi; compromesso storico bonsai tra ex-Pci ed ex-Dc; primarie – che poi primarie non sono (è stato eletto il segretario di un partito, non un candidato premier) – dall'esito scontato e dagli sfidanti di carta pesta. I difetti, le contraddizioni e i punti deboli di un processo costituente, di cui domenica 14 ottobre si è celebrata una tappa fondamentale, sono sotto gli occhi di tutti. Ma questa tappa può segnare il vero giro di boa per la corrente legislatura? E rappresenta davvero la prova che qualcosa di nuovo ha visto la luce nella politica italiana?
(...)
Sarebbe suicida da parte di Veltroni presentarsi di fronte agli elettori senza aver prima messo un bel po' di mesi tra la caduta di Prodi e il voto, oppure alla guida di un centrosinistra non profondamente e strutturalmente diverso da quello del 2006, libero dai ricatti e dai condizionamenti della sinistra massimalista. Gli italiani non ricadrebbero più nell'errore. Ci sentiamo quindi sommessamente di suggerire che la "rottura" strategica del Pd con i partiti comunisti e massimalisti, intorno a 3-4 temi qualificanti tra cui tasse e spesa pubblica, è un'opzione che Veltroni – se non per convinzione, almeno per convenienza – potrebbe considerare, abbandonando quanto di stucchevole, avvolgente ed ecumenico contraddistingue la sua vicenda politica.
Una simile prospettiva dovrebbe indurre a riflettere seriamente quanti sono impegnati per una politica ad "alta velocità", capace di "decidere", di intraprendere soluzioni liberali.
Ben quattro le interviste in questo numero. La prima, a Oscar Giannino, che parla del suo libro (per una visione «non autarchica» della questione fiscale), del sistema tributario e la crescita economica, delle esperienze fiscali degli altri paesi, dei benefici della flat tax, di una spesa pubblica inefficiente a vantaggio di una minoranza di privilegiati, della pesantissima "palla al piede" delle promesse non mantenute dal Governo Berlusconi, e della sua idea di una "Lega del contribuente". Poi le interviste a Paolo Messa, curatore di Formiche, sull'energia nucleare, a Paolo Pobbiati, di Amnesty International, sulle violenze contro le donne nel mondo, e infine a Vittorio Sgarbi, sulla nuova campagna di Toscani.
Il corsivo quotidiano è di Enzo Reale, per imparare la lezione dei fatti in Birmania, e la vignetta di Ciro Monacella. Le consuete rubriche di Castaldi, Nardi, Fronterré e Lupi e, infine, i contributi di Stefano Morandini, Cristina Marullo e Giovanni Venezia. Buona lettura.
Monday, October 15, 2007
Ormai Prodi parla a 16 giri
Molti di voi avranno visto i primi commenti televisivi al voto di domenica. SkyTg24, Raiuno, Roma Uno. Su tutti questi canali Veltroni era accompagnato da Prodi, che indossava una giacca color cacchetta. Ebbene, non so a voi, ma a me Prodi ha davvero impressionato.
La voce biascicante più del solito, quasi come un disco suonato a 16 giri; il tono sommesso, quasi rassegnato, nonostante stesse commentando un buon risultato di affluenza per il Pd; gli occhi socchiusi, ridotti a due fessure; il capo abbassato e le guance ancora più pendenti, da cane bastonato. Un po' insonnolito, come un vecchio che si addormenta mentre gli parli.
Un'immagine talmente depressa che il giornalista di Roma Uno si è sentito in dovere di chiosare qualcosa del genere: "Il presidente del Consiglio, evidentemente provato dalla lunga giornata...".
Dopo un solo anno Prodi risulta tremendamente invecchiato, quasi come Berlusconi in cinque anni. Il suo è il volto della disfatta e del fallimento, molto più eloquente di qualsiasi editoriale. Uno straccio.
La voce biascicante più del solito, quasi come un disco suonato a 16 giri; il tono sommesso, quasi rassegnato, nonostante stesse commentando un buon risultato di affluenza per il Pd; gli occhi socchiusi, ridotti a due fessure; il capo abbassato e le guance ancora più pendenti, da cane bastonato. Un po' insonnolito, come un vecchio che si addormenta mentre gli parli.
Un'immagine talmente depressa che il giornalista di Roma Uno si è sentito in dovere di chiosare qualcosa del genere: "Il presidente del Consiglio, evidentemente provato dalla lunga giornata...".
Dopo un solo anno Prodi risulta tremendamente invecchiato, quasi come Berlusconi in cinque anni. Il suo è il volto della disfatta e del fallimento, molto più eloquente di qualsiasi editoriale. Uno straccio.
Consulenze pericolose
Da alcuni giorni in casa radicale si parla, soprattutto sul forum di Radicali.it, dei 6-7 consulenti radicali retribuiti dal Ministero per le Politiche europee, guidato da Emma Bonino. All'ultimo comitato di Radicali italiani in qualche intervento si è fatto cenno alla questione e sono stati chiesti chiarimenti.
Domenica sera, sull'argomento, introdotto da Massimo Bordin, ha detto la sua Marco Pannella.
«Vedo che ci sono dei compagni radicali - nei confronti dei quali a livello tecnico mi può nascere un sospetto di fiducia che non avevo [?!] - ... Be', se sanno chiedere molte precisazioni sul fatto che 3 o 4 compagni radicali risultino collaboratori, sotto una forma o un'altra, di un nostro ministro... Benissimo, mi auguro che questi nostri bravi amici - perché hanno soddisfazione, gli si risponde - sappiano avere queste attività anche nel mondo nel quale sono immersi e ci possano dimostrare che hanno fatto le stesse domande per i consigli comunali, provinciali e regionali degli altri partiti... Spero che questa attenzione alla cosa radicale li aiuti poi a essere radicali nella loro presenza civile di ogni giorno... Sono certo che queste persone avranno già fatto nel loro impegno politico quello che i radicali fanno sempre... Se per caso dovessi scoprire che invece stranamente questi interrogativi arrivano solo in questo momento...»
Mi pare che il succo del pensiero di Pannella sia il seguente: spero che i compagni che chiedono chiarimenti sui consulenti radicali che risultano nel libro paga del Ministero della Bonino pongano gli stessi interrogativi anche agli altri partiti.
Qualcuno di questi compagni potrebbe però rispondere come segue: degli altri partiti non abbiamo dubbi, purtroppo, di quale sia il malcostume, vorremmo sapere se anche sui radicali dovremmo smettere di avere dubbi.
Mi sarei aspettato da Pannella un vigoroso "Quei consulenti servono e fanno un ottimo e documentabile lavoro". Invece, mi sembra che la risposta fornita dal leader radicale a Bordin rischi di mettere de facto i radicali sullo stesso piano degli altri partiti. Ai "compagni radicali" che hanno sollevato certi interrogativi si chiede se li abbiano sollevati anche nei confronti degli altri partiti. Ma che risposta è? Probabilmente se non lo hanno fatto è perché degli altri partiti conoscono già il comportamento, mentre vorrebbero conoscere il comportamento dei loro "compagni" per la prima volta al governo, per i quali la battaglia contro i costi di "certa" politica è da sempre una bandiera, arricchita ultimamente dalla veemente denuncia del presunto assenteismo di Capezzone.
Domenica sera, sull'argomento, introdotto da Massimo Bordin, ha detto la sua Marco Pannella.
«Vedo che ci sono dei compagni radicali - nei confronti dei quali a livello tecnico mi può nascere un sospetto di fiducia che non avevo [?!] - ... Be', se sanno chiedere molte precisazioni sul fatto che 3 o 4 compagni radicali risultino collaboratori, sotto una forma o un'altra, di un nostro ministro... Benissimo, mi auguro che questi nostri bravi amici - perché hanno soddisfazione, gli si risponde - sappiano avere queste attività anche nel mondo nel quale sono immersi e ci possano dimostrare che hanno fatto le stesse domande per i consigli comunali, provinciali e regionali degli altri partiti... Spero che questa attenzione alla cosa radicale li aiuti poi a essere radicali nella loro presenza civile di ogni giorno... Sono certo che queste persone avranno già fatto nel loro impegno politico quello che i radicali fanno sempre... Se per caso dovessi scoprire che invece stranamente questi interrogativi arrivano solo in questo momento...»
Mi pare che il succo del pensiero di Pannella sia il seguente: spero che i compagni che chiedono chiarimenti sui consulenti radicali che risultano nel libro paga del Ministero della Bonino pongano gli stessi interrogativi anche agli altri partiti.
Qualcuno di questi compagni potrebbe però rispondere come segue: degli altri partiti non abbiamo dubbi, purtroppo, di quale sia il malcostume, vorremmo sapere se anche sui radicali dovremmo smettere di avere dubbi.
Mi sarei aspettato da Pannella un vigoroso "Quei consulenti servono e fanno un ottimo e documentabile lavoro". Invece, mi sembra che la risposta fornita dal leader radicale a Bordin rischi di mettere de facto i radicali sullo stesso piano degli altri partiti. Ai "compagni radicali" che hanno sollevato certi interrogativi si chiede se li abbiano sollevati anche nei confronti degli altri partiti. Ma che risposta è? Probabilmente se non lo hanno fatto è perché degli altri partiti conoscono già il comportamento, mentre vorrebbero conoscere il comportamento dei loro "compagni" per la prima volta al governo, per i quali la battaglia contro i costi di "certa" politica è da sempre una bandiera, arricchita ultimamente dalla veemente denuncia del presunto assenteismo di Capezzone.
Quelli che non hanno vinto il Nobel per la Pace
Camillo ci segnala un emblematico editoriale del Wall Street Journal, dedicato a tutti quelli che quest'anno non hanno vinto il premio Nobel per la Pace, ma, forse, avrebbero avuto le carte un po' più in regola di Al Gore: i monaci buddisti birmani; Morgan Tsvangirai, Arthur Mutambara e gli altri leader dell'opposizione nello Zimbabwe; Padre Nguyen Van Ly, incarcerato in Vietnam, e molti altri, tra cui Garry Kasparov e i presidenti di Ucraina e Georgia, Viktor Yushchenko e Mikhail Saakashvili, che cercano di resistere alla politica autoritaria di Putin, gli egiziani Saad Eddin Ibrahim e Ayman Nour e, ancora, il popolo iracheno, i blogger cinesi, o i libanesi vittime della strategia del terrore della Siria.
Friday, October 12, 2007
Welfare. Modifiche sostanziali, e la Bonino smentisce se stessa
Il protocollo su welfare e pensioni è stato varato dal Consiglio dei ministri, ma - nonostante gli impegni e l'esito del referendum indetto dai sindacati - sono state apportate tre modifiche, di cui almeno una è strutturale e potenzialmente disastrosa per i conti pubblici: è saltato il tetto delle pensioni anticipate legate ai lavori detti "usuranti" (in origine 5 mila l'anno), ma il fondo per il momento resta invariato. Con un numero potenzialmente infinito di lavoratori cui viene concesso un diritto soggettivo ad anticipare la pensione, che valore (e forza) può avere di fronte a quel diritto acquisito un limite finanziario? Eliminato il limite numerico il pacchetto ha perso il suo equilibrio finanziario. Praticamente, da una parte si innalza, seppure ritardandola di qualche anno rispetto allo "scalone", l'età del pensionamento, dall'altra si apre a un numero indefinito di eccezioni.
Aberranti anche le altre due modifiche: per i contratti a termine, dopo i primi 36 mesi, è previsto un solo rinnovo, «da stipulare davanti ad un esponente sindacale delle sigle più rappresentative», e viene introdotta l'ennesima cassa integrazione, stavolta detta «ambientale» (?), ovvero estesa ai lavoratori delle aziende in difficoltà per «crisi ambientali» (!).
Nonostante queste modifiche, il ministro della Solidarietà Sociale Ferrero (Rifondazione Comunista) e quello dei Trasporti Bianchi (Pdci) si sono astenuti. Modifiche che giustamente Confindustria considera non lievi ma «sostanziali». In particolare, chiede la riscrittura del capitolo sui contratti a termine, perché vengono fissati nuovi limiti percentuali massimi di utilizzo e le modifiche apportate «non intervengono solo sulla legge del 2001 ma peggiorano anche le norme del 1962».
Il ministro Emma Bonino, invece, che aveva minacciato, in caso di modifiche, di non sentirsi più vincolata a un accordo di compromesso accettato solo per spirito di coalizione, e, quindi, di presentare a sua volta emendamenti, preferisce negare l'evidenza: nessuna modifica sostanziale, quindi si dice «soddisfatta».
Di fronte a modifiche obiettivamente sostanziali e gravemente peggiorative, ha il coraggio di rivendicare che il Consiglio dei ministri «ha assunto una linea che avevo perorato e difeso sin dall'inizio, vale a dire che l'accordo, già frutto di un compromesso, andava recepito così come era stato sottoscritto tra Governo e parti sociali. Sostanzialmente così è stato...»
Così è stato? Recepito così com'era? Non direi, visto che una delle parti sociali non si dice certo soddisfatta delle modifiche e ne chiede la riscrittura.
La Bonino aggiunge di aver espresso le sue «perplessità sulla riformulazione della disciplina del contratto a termine, riformulazione che potrebbe limitarne l'utilizzo, con il rischio di determinare anche una minore garanzia sostanziale per il lavoratore». Perplessità che però, evidentemente, non sono valse né un voto contrario né un'astensione.
Nessuna parola fine, inoltre, alla volontà dei partiti della sinistra massimalista e comunista di modificare ulteriormente il protocollo per via parlamentare - come tra l'altro sarebbe pienamente legittimo. Dunque, la rinuncia della Bonino e dei radicali a combattere una battaglia parlamentare per un pacchetto welfare/pensioni più liberale e riformatore è del tutto unilaterale.
Aberranti anche le altre due modifiche: per i contratti a termine, dopo i primi 36 mesi, è previsto un solo rinnovo, «da stipulare davanti ad un esponente sindacale delle sigle più rappresentative», e viene introdotta l'ennesima cassa integrazione, stavolta detta «ambientale» (?), ovvero estesa ai lavoratori delle aziende in difficoltà per «crisi ambientali» (!).
Nonostante queste modifiche, il ministro della Solidarietà Sociale Ferrero (Rifondazione Comunista) e quello dei Trasporti Bianchi (Pdci) si sono astenuti. Modifiche che giustamente Confindustria considera non lievi ma «sostanziali». In particolare, chiede la riscrittura del capitolo sui contratti a termine, perché vengono fissati nuovi limiti percentuali massimi di utilizzo e le modifiche apportate «non intervengono solo sulla legge del 2001 ma peggiorano anche le norme del 1962».
Il ministro Emma Bonino, invece, che aveva minacciato, in caso di modifiche, di non sentirsi più vincolata a un accordo di compromesso accettato solo per spirito di coalizione, e, quindi, di presentare a sua volta emendamenti, preferisce negare l'evidenza: nessuna modifica sostanziale, quindi si dice «soddisfatta».
Di fronte a modifiche obiettivamente sostanziali e gravemente peggiorative, ha il coraggio di rivendicare che il Consiglio dei ministri «ha assunto una linea che avevo perorato e difeso sin dall'inizio, vale a dire che l'accordo, già frutto di un compromesso, andava recepito così come era stato sottoscritto tra Governo e parti sociali. Sostanzialmente così è stato...»
Così è stato? Recepito così com'era? Non direi, visto che una delle parti sociali non si dice certo soddisfatta delle modifiche e ne chiede la riscrittura.
La Bonino aggiunge di aver espresso le sue «perplessità sulla riformulazione della disciplina del contratto a termine, riformulazione che potrebbe limitarne l'utilizzo, con il rischio di determinare anche una minore garanzia sostanziale per il lavoratore». Perplessità che però, evidentemente, non sono valse né un voto contrario né un'astensione.
Nessuna parola fine, inoltre, alla volontà dei partiti della sinistra massimalista e comunista di modificare ulteriormente il protocollo per via parlamentare - come tra l'altro sarebbe pienamente legittimo. Dunque, la rinuncia della Bonino e dei radicali a combattere una battaglia parlamentare per un pacchetto welfare/pensioni più liberale e riformatore è del tutto unilaterale.
Cosa ha fatto Al Gore per la pace nel mondo?
Qualcuno si è sottratto al coro politically correct che quasi unanimemente ha accolto il conferimento del Premio Nobel per la Pace l'ex vicepresidente americano Al Gore. «Piuttosto sorpreso» dalla decisione si è detto il presidente ceco, Vaclav Klaus. «La relazione tra le sue attività e la pace nel mondo appare confusa ed indistinta. Sembra piuttosto che i suoi dubbi sui pilastri della nostra civiltà non contribuiscano alla pace». In un recente discorso Klaus aveva spiegato che gli sforzi degli ambientalisti per bloccare il surriscaldamento globale «fatalmente mettono a rischio la nostra libertà e prosperità».
Sono scientificamente attendibili questi allarmi apocalittici? E servono? Non si può convenire sulla necessità della riduzione dei gas serra, investendo nella ricerca di nuove tecnologie e in un mix di fonti energetiche, semplicemente a partire dall'inquinamento nelle nostre città che tutti possiamo respirare con il naso? E, soprattutto, perché affidarci a soluzioni «economicamente folli», che minacciano la nostra prosperità e lo sviluppo, quando semmai proprio grazie ad essi possiamo risolvere i problemi?
Per l'Istituto Bruno Leoni, il Nobel per la Pace ad Al Gore «è l'ultimo atto di una commedia attentamente pianificata e facilmente prevedibile». Carlo Stagnaro, direttore Energia e ambiente dell'IBL, commenta:
Sono scientificamente attendibili questi allarmi apocalittici? E servono? Non si può convenire sulla necessità della riduzione dei gas serra, investendo nella ricerca di nuove tecnologie e in un mix di fonti energetiche, semplicemente a partire dall'inquinamento nelle nostre città che tutti possiamo respirare con il naso? E, soprattutto, perché affidarci a soluzioni «economicamente folli», che minacciano la nostra prosperità e lo sviluppo, quando semmai proprio grazie ad essi possiamo risolvere i problemi?
Per l'Istituto Bruno Leoni, il Nobel per la Pace ad Al Gore «è l'ultimo atto di una commedia attentamente pianificata e facilmente prevedibile». Carlo Stagnaro, direttore Energia e ambiente dell'IBL, commenta:
«Ma che ha fatto Al Gore per la pace nel mondo? L'ex vicepresidente americano ha l'unico pregio di aver prodotto un film di fantascienza di grande successo, che gli è valso un premio Oscar e presumibilmente ha ulteriormente rafforzato la sua già solida posizione economica. Se però si vuole prendere Gore sul serio, e non come cinematografaro, allora il giudizio cambia radicalmente: egli ha piegato la scienza a scopi brutalmente politici, mostrando scarso o nessun rispetto per quegli scienziati che hanno manifestato dissenso. Le politiche invocate da Gore sarebbero economicamente folli e non avrebbero alcun impatto discernibile sul clima».Sul documentario di Al Gore l'IBL propone un focus di Alan Patarga: "Tutte le balle del vicepresidente".
Nobel dubbi. Clamorosa svista a Stoccolma
Bene, adesso la commissione del Premio Nobel di Stoccolma ci ha messi davvero in difficoltà. Dopo il Nobel per la pace all'ex vicepresidente americano Al Gore per il suo documentario apocalittico sui cambiamenti climatici, non siamo più tanto certi che il premio più idiota mai assegnato sia quello per la letteratura a Dario Fo. E' dura, secondo voi è più assurdo il Nobel per la pace a Gore o quello per la letteratura a Fo?
Eppure, il vincitore, anzi i vincitori, del Nobel per la pace di quest'anno erano proprio lì, sotto gli occhi di tutti, ma forse troppo lontani da Stoccolma: i monaci buddisti della Birmania. Indubbiamente tra coloro che di più, negli ultimi anni, hanno sacrificato la loro stessa vita, in modo nonviolento, per una pace che non si riduca alla mera stabilità internazionale, per una pace nella democrazia, nella libertà, e nel rispetto dei diritti umani.
Una svista che a mio avviso grava pesantemente sulla credibilità del Premio Nobel. Com'era prevedibile, l'attenzione è calata e la Giunta militare ha vinto. Fonti di AsiaNews, un'agenzia autorevole, riferiscono addirittura di un forno crematorio alla periferia dell'ex capitale per occultare il numero delle vittime e sbarazzarsi dei detenuti gravemente feriti durante le manifestazioni. Gli occhi di Stoccolma, e del mondo, dovevano cadere laggiù.
Eppure, il vincitore, anzi i vincitori, del Nobel per la pace di quest'anno erano proprio lì, sotto gli occhi di tutti, ma forse troppo lontani da Stoccolma: i monaci buddisti della Birmania. Indubbiamente tra coloro che di più, negli ultimi anni, hanno sacrificato la loro stessa vita, in modo nonviolento, per una pace che non si riduca alla mera stabilità internazionale, per una pace nella democrazia, nella libertà, e nel rispetto dei diritti umani.
Una svista che a mio avviso grava pesantemente sulla credibilità del Premio Nobel. Com'era prevedibile, l'attenzione è calata e la Giunta militare ha vinto. Fonti di AsiaNews, un'agenzia autorevole, riferiscono addirittura di un forno crematorio alla periferia dell'ex capitale per occultare il numero delle vittime e sbarazzarsi dei detenuti gravemente feriti durante le manifestazioni. Gli occhi di Stoccolma, e del mondo, dovevano cadere laggiù.
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