L'hanno intitolata «l'ultimo giro di giostra», su il Riformista di oggi, la prefazione di Andrea Romano alla nuova edizione del suo fortunato libro sui "Compagni di scuola", la classe dirigente del Pci-Pds-Ds, anche se l'autore parlava piuttosto di un «ennesimo giro di giostra». Un giudizio severissimo, ma inoppugnabile.
La vicenda della generazione di postcomunisti che ha raccontato «si conclude nel segno della sopravvivenza dei tratti di fondo che ne hanno segnato gran parte del percorso», un «intreccio di familismo e tribalismo che ha impedito a quel gruppo di dispiegare il proprio potenziale politico e di diventare un'autentica classe dirigente di stampo europeo».
L'ultimo dei mohicani, che doveva salvare l'onore della "famiglia", Walter Veltroni, si caratterizza per il «suo particolare metodo di costruzione di sé, la sua capacità di solcare le onde del consenso senza mai rischiare troppo in prima persona, il suo sperimentato mestiere di profeta del tutto e del contrario di tutto... la sua capacità di non negarsi a qualsiasi tesi possa rivelarsi conveniente domani se non oggi. Quel metodo che lo ha reso sino a oggi inattaccabile perché mai troppo prigioniero di una sola posizione, dopo aver solcato negli anni tutte le collocazioni disponibili sul mercato politico postcomunista...»
E' stato «tutto e il contrario di tutto», Veltroni. Fino ad oggi. Quello che va da solo ma anche con Di Pietro; quello della «nuova stagione» e del dialogo che sa accodarsi al giustizialismo dipietrista.
«Massimamente disinvolta - scrive Andrea Romano - è stata la gestione della sconfitta». Un Pd che guadagna solo l'1% rispetto alla somma dei voti dei Ds e della Margherita nelle elezioni del 2006, «marginalizzato» nell'Italia settentrionale e meridionale, «incapace di attrarre anche solo in minima parte il voto mobile moderato».
Ma una «disfatta politica prima che elettorale», per non aver portato alle estreme conseguenze la logica con cui aveva intrapreso la campagna agli inizi, che Veltroni ha saputo trasformare in «spettacolare vittoria con l'assoluta disinvoltura di colui che rimane un maestro nella gestione pubblica delle sconfitte. In un partito normale, la campagna elettorale 2008 sarebbe stata per lui la partita della vita. Una partita giocata nel pieno controllo del messaggio e dell'offerta politica, una scommessa che in caso di vittoria lo avrebbe legittimamente condotto al governo ma che dinanzi alla sconfitta avrebbe dovuto spingerlo a dimissioni trasparenti e dignitose. Così come accade nei normali partiti delle normali democrazie. Ma non è questo il caso di chi ha attraversato indenne le tormente del postcomunismo italiano con gli strumenti della dissimulazione e della fuga dalla responsabilità. E che anche in questo caso si mostra impermeabile al semplice dovere di rispondere del fallimento delle proprie scelte politiche. Perché anche in questo caso la colpa del proprio insuccesso è attribuita a qualcun altro (oggi Prodi, ieri D'Alema, prima ancora il comunismo sovietico), mentre l'unico superstite dei compagni di scuola si prepara all'ennesimo giro di giostra».
E oggi Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera, scrive che in certi momenti di difficoltà i leader «devono scegliere: tirare dritto, andare alla conta, scontrarsi con i propri nemici interni, oppure galleggiare, sopravvivere piegandosi al volere degli altri». Veltroni ha scelto la seconda opzione, quella da segretario, non da leader. «Ciò che Veltroni deve chiedersi è: che cosa resta di un leader se la piattaforma politica su cui si è impegnato e ha chiesto i consensi viene messa da parte?» Ma secondo me dovrebbe chiedersi cosa resta di un leader se la sua «piattaforma politica» è lui stesso a metterla da parte, rinunciando ad essere il leader di una «nuova stagione» per poter essere il segretario per tutte le stagioni.
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