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Wednesday, June 25, 2008

La finzione dei colloqui conviene sia a Pechino che al Dalai Lama

Il 21 giugno la torcia olimpica è passata a Lhasa, capitale del Tibet, che da oggi dovrebbe essere riaperto ai turisti stranieri. Nessun incidente, ma nonostante gli sforzi del regime per trasmettere un'immagine di normalità, la cerimonia si è svolta in un clima visibilmente irreale. Una Lhasa deserta, blindata da migliaia tra poliziotti e truppe para-militari; i giornalisti stranieri "embedded", seguiti a vista da agenti cinesi; i tibetani non hanno avuto il permesso di uscire dalle loro case; solo cinesi assiepati lungo il percorso; decine di figuranti in abiti tradizionali; ma neanche un monaco davanti al Palazzo Potala, un tempo sede del leader spirituale tibetano.

Pechino ha voluto così dimostrare chi comanda in Tibet. Il Dalai Lama aveva chiesto alla sua gente di «rispettare l'evento», ribadendo che la Cina «merita di ospitare i Giochi», mentre il segretario del Partito comunista di Lhasa non perdeva occasione per accusare di nuovo lui e la sua "cricca", nel discorso di chiusura della cerimonia tenuto proprio di fronte al Palazzo Potala.

Qualche giorno prima, il 18 giugno, un rapporto di Amnesty International denunciava la detenzione illegale di oltre mille tibetani, di cui non si hanno più notizie dal marzo scorso. E chiedeva quindi a Pechino di «mettere formalmente i manifestanti in stato di accusa, se vi sono le motivazioni», o altrimenti, di «rilasciarli immediatamente». Due giorni dopo, alla vigilia del passaggio della torcia in Tibet, l'agenzia di stampa ufficiale del regime, la Xinhua, rendeva noto il rilascio di 1.157 detenuti arrestati nel marzo scorso, ma accusati di reati minori, e la condanna di altri dodici a non meglio precisate pene detentive (i condannati sarebbero in tutto 42, secondo Xinhua).

Nonostante l'evidenza che "normalità" in Tibet continui a far rima con detenzioni arbitrarie, torture e privazioni, e che non si veda nemmeno l'ombra della maggiore apertura e libertà di movimento che Pechino aveva promesso al Cio per garantirsi l'assegnazione dei Giochi, alla normalità sembrano essere tornati i rapporti tra Pechino e le capitali occidentali. Le varie delegazioni olimpiche si stanno preparando serenamente all'evento, come se nulla fosse accaduto e incuranti delle restrizioni. Il Coni ha nominato il portabandiera degli atleti azzurri, il canoista Antonio Rossi (quarantenne, per la quinta volta alle Olimpiadi e già vincitore di ben tre medaglie d'oro).

Eppure, c'è stato un momento in cui da una capitale europea all'altra rimbalzavano voci sulla possibilità che i capi di stato e di governo disertassero la cerimonia inaugurale dei Giochi. Di fronte alle immagini della repressione diffuse dalle tv e alle contestazioni al passaggio della torcia nelle capitali occidentali, i governi non risparmiavano nei confronti della Cina parole insolitamente dure. Com'è riuscita Pechino, in così poco tempo, a uscire dall'isolamento in cui nel marzo scorso sembrava essersi cacciata dopo la repressione in Tibet?

Un ruolo l'ha certamente avuto il recente terremoto che ha colpito lo Sichuan, causando 80 mila morti. Ma Pechino è stata abile. Sul fronte interno, grazie al totale controllo mediatico, ha presentato le proteste come pregiudizi anti-cinesi, alimentando una reazione nazionalistica. Pur continuando ad attaccare pubblicamente il Dalai Lama e la sua "cricca", allo stesso tempo le autorità hanno accettato di riprendere il dialogo con i suoi emissari, soddisfacendo la principale richiesta di Bush, Sarkozy e degli altri governi europei. Colloqui accolti come una boccata d'ossigeno dallo stesso Dalai Lama, la cui linea politica è sempre più contestata sia dai tibetani in esilio che dalla sua gente ancora in Tibet, ma che a Pechino servono solo per mostrare al mondo il suo volto dialogante fintanto che dureranno le Olimpiadi.

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