Pagine

Monday, March 06, 2006

Se anche Intini cade nel realismo in politica estera

La questione iraniana non è il nucleare in sé, ma la rivoluzione democratica

Non solo Bush, con la sua strategia, ha alimentato il terrorismo, ma ha pure rafforzato l'Iran. E' questa, in 4.192 battute in cui non compaiono mai parole come "democrazia", "libertà", "diritti", né s'intravedono gli iracheni o gli iraniani, l'analisi che venerdì 3 marzo scorso Ugo Intini, capolista al Senato per la Rosa nel Pugno, ha proposto su il Riformista. Che anche dei radicalsocialisti, oltre che dell'Unione, non si sappia ancora quale sarà la linea di politica estera? Critiche all'amministrazione Bush per la sua politica in Medio Oriente se ne possono muovere, ma il problema è che quelle mosse da Intini vanno iscritte senza indugi alla scuola realista, mentre la democrazia, non la stabilità, dovrebbe essere, almeno per la Rosa nel Pugno, il parametro guida nella politica internazionale.

Intini invece fa esplicito riferimento alla logica stabilizzatrice dell'equilibrio tra potenze. Equilibrio di cui spesso fanno le spese le popolazioni. La colpa dell'amministrazione Bush sarebbe quella di aver sprofondato nel caos la regione infrangendo un equilibrio che scelte discutibili di altre amministrazioni americane avevano creato e mantenuto, e che ha prodotto, in oltre tre decenni, guerre, massacri, terrorismo. Dunque, dobbiamo ritenere che per Intini quell'equilibrio fosse comunque preferibile ai processi che, tra mille difficoltà, sono in corso oggi non solo in Iraq?
Si ricordano gli anni in cui gli Stati Uniti giocavano sulla «reciproca ostilità» di Iran e Iraq, «cinicamente» aiutando l'uno o l'altro per evitare che uno dei due, «prevalendo nettamente sul rivale, diventasse egemone nell'area», come se quella di allora fosse una politica saggia. La «decisione di distruggere il regime di Saddam ha rappresentato il capovolgimento di questa strategia», sembra rammaricarsi Intini. Togliendo di mezzo Saddam Hussein si sono tolti «gli ostacoli al dilagare degli ayatollah». Ma gli ostacoli all'egemonia iraniana non dovrebbero essere cercati in altri dittatori, secondo la logica "il nemico del mio nemico è mio amico", ma nella determinazione dei paesi democratici.

Il terrorismo nasce dal fallimento dello status quo del Medio Oriente. Quindi, se la strategia di democratizzazione sembra non funzionare, il ritorno allo status quo ante non è un'opzione, semmai peggiora la crisi. Occorre invece chiedersi quali condizioni e quali politiche possano favorire il fiorire della democrazia nel contesto mediorientale. Hamas, per esempio, aveva già vinto prima che Stati Uniti e Israele decidessero di delegittimare Arafat (possiamo definire «laico» chi esercita il potere con violenza e prepotenza?). Il successo di Hamas si deve alla endemica corruzione dell'Anp, allo stesso Arafat, che ha cercato di cavalcare all'occorrenza il fanatismo religioso, e semmai all'Europa, che non ha vigilato sui finanziamenti che erogava.

Meglio un Iraq instabile che oppresso da Saddam. Nonostante ancora non in grado di difendersi, l'Iraq post-Saddam non è affatto «succube dell'influenza iraniana». Gode di così poca attrattiva quell'influenza sulla popolazione sciita, che per esercitarla Teheran si serve di agenti sobillatori e dei gruppi sciiti più radicali e violenti. La gran parte degli sciiti iracheni invece ha già dato prova di grande autonomia non rispondendo, se non sporadicamente alcune frange estremiste, alle provocazioni assassine e distruttrici di Zarqawi e alle ingerenze degli ayatollah.

D'altronde, più che la guerra in sé, o la presenza di truppe occidentali, a indurre Teheran a tentare in ogni modo di esercitare la sua influenza è la minaccia di ritrovarsi un paese confinante, di milioni di sciiti, retto da istituzioni democratiche, che possa esercitare un'attrazione irresistibile verso gli stessi iraniani. E' questo il motivo principale che induce gli ayatollah a fare di tutto per far fallire il processo politico iracheno.

Altro che «collegamento con gli ayatollah iraniani più moderati», il più autorevole ayatollah iracheno, Al Sistani, lungi dall'essere scavalcato da Al Sadr, che non ha alcun peso come autorità religiosa, non ritiene affatto che la Repubblica islamica iraniana debba essere un esempio da imitare per l'Iraq. Si è più volte espresso contro l'impegno diretto del clero nel governo del paese e nelle campagne elettorali ha esortato gli sciiti a votare, e a votare per il bene del popolo, ma non ha dato indicazioni specifiche, nonostante si presentasse una grande coalizione unita in rappresentanza della popolazione sciita.

La strategia americana ha davvero «contribuito a rafforzare l'Iran e a rafforzare al suo interno... le tendenze più estremiste»? L'Iran oggi è ben più isolato di quanto lo fosse l'Iraq di Saddam, il potere degli ayatollah sempre più oligarchico, e la società iraniana ancora più distante dal regime. Gli anni dell'illusione "riformista" di Khatami non sono da rimpiangere, perché non hanno portato alcun cambiamento nel paese. Il regime non ha mai smesso di alimentare il terrorismo, di inneggiare alla distruzione di Israele, di progettare nuovi armamenti e di torturare i dissidenti politici. Sarebbe un errore giudicare la politica iraniana con occhi occidentali e ingenuo ritenere che nelle elezioni si confrontassero davvero due opzioni alternative. Le elezioni non sono che il paravento di dinamiche tutte interne al potere oligarchico degli ayatalloah e la scelta di puntare sul volto duro di Ahmadinejad si spiega più con la crisi interna al sistema. Anzi, che l'Iran mostrasse il suo volto peggiore e non si nascondesse sotto il velo ingannevole della moderazione ha avuto il duplice effetto di ricompattare la diplomazia europea e americana su una linea di fermezza e di aumentare il divario tra la società civile iraniana, che si era illusa nella svolta riformista, e la nuova leadership.

Certo, «il pilastro iraniano si è dimostrato il più solido e pericoloso». Ma non da oggi. Da anni lo va dicendo proprio un neoconservatore, Michael Ledeen, che indica nell'Iran il "Master of Terrorism" e ritiene che non sarà possibile vincere in Iraq, né sconfiggere il terrorismo, senza abbattere il regime degli ayatollah e senza affrontare una "guerra" di dimensione regionale. Come? Senza invasioni, ma sostenendo l'opposizione interna, finanziando gli scioperi, aiutando con la tecnologia la circolazione di informazione. A tutto questo gli iraniani sono pronti, lo dicono gli stessi sondaggi del regime.

Essendo inaccettabile che l'Iran si doti dell'atomica, inefficace l'opzione militare diretta agli impianti, e senza sbocchi i negoziati, l'unico modo per convincere gli ayatollah a non proseguire con i piani nucleari è l'ingresso di Israele nell'Ue, come propongono i radicali, e nella Nato, come sostengono Hulsman e Gardiner dell'Heritage Foundation. C'è però una terza, decisiva, opzione. Infatti, mentre ci concentriamo sulla questione nucleare, ci sfugge il vero nodo da tagliare: il regime.

C'è qualcosa che gli ayatollah temono ancor più dell'uso della forza. Il timore che il mondo libero eserciti tutta la sua forza d'attrazione di libertà e democrazia. I paesi democratici dovrebbero cominciare a rivolgersi direttamente al popolo iraniano, a sostenere l'opposizione al regime, perché, come spiegava giorni fa Emanuele Ottolenghi su il Riformista, la questione iraniana non è il nucleare in sé, ma la rivoluzione democratica, il rovesciamento della mullahcrazia: «Ci sono due conti alla rovescia in corso a Teheran: uno, molto veloce, è quello della bomba; l'altro, molto lento, è quello della rivoluzione democratica. Il dilemma è semplice: quali politiche adottare per rallentare il primo e accelerare il secondo, di modo che l'Iran arrivi al rovesciamento del suo regime, prima che il regime arrivi a produrre la bomba?»

Un altro neoconservatore, Robert Kagan, è dello stesso avviso: «La nostra giustificata fissazione di impedire all'Iran di dotarsi della bomba ci ha in qualche modo impedito di perseguire un più fondamentale obiettivo: il cambiamento politico in Iran... Dobbiamo cominciare a sostenere il cambiamento democratico e liberale per il popolo iraniano». Nessuno vuole un Iran con la bomba, ma dipende anche da chi è al potere. Non ci spaventano Francia e Gran Bretagna, India o Israele, perché siamo portati a fidarci di governi democratici. Se l'Iran fosse guidato anche da «un imperfetto governo democratico» saremmo molto meno preoccupati. Potrebbe decidere di smantellare i programmi volontariamente, come Ucraina o Sud Africa, ma anche se non volesse, sarebbe «meno paranoico per la sua sicurezza».

L'amministrazione Bush è criticabile perché non ha ancora provato ad applicare la sua dottrina di democratizzazione nei confronti dell'Iran, dove ideali e interessi strategici coincidono più chiaramente. Recentemente però il Segretario di Stato, Condoleezza Rice, ha chiesto alle commissioni Affari esteri della Camera e Bilancio del Senato di portare da 10 a 85 milioni di dollari i fondi per lo sviluppo di scambi culturali e programmi tv e radio destinati all'Iran, per il finanziamento delle Ong per i diritti umani, dei sindacati e dei dissidenti iraniani.

Se persino un'azione mirata agli impianti non è in grado di garantire con certezza di aver fermato il programma nucleare iraniano, prima o poi il rischio è che diventi inevitabile l'opzione militare per abbattere il regime. Per quanti è davvero intollerabile un Iran nucleare, ma al contempo vogliono fare di tutto per evitare un'altra guerra, non resta che investire tutte le energie, le diplomazie, l'intelligence e le risorse economiche, nella rivoluzione democratica. Strategia che ha il vantaggio di essere compatibile con gli sforzi diplomatici per rallentare i piani nucleari.

Ciò che la sinistra sembra ancora non capire è che oggi la nostra sicurezza sempre più dipende dall'espansione della democrazia, e la libertà a casa nostra dalla libertà in casa altrui. Pur di criticare Bush – e nel suo articolo Intini non si comporta diversamente – è pronta a far coincidere le proprie critiche con quelle del realista repubblicano Brent Scowcroft, l'uomo che brindò con gli artefici del massacro di Tienanmen, che consigliò di non muovere un dito mentre Saddam reprimeva le rivolte del '91, che si definisce «cinico sulla natura umana» («alcuni popoli non vogliono essere liberi»). Se ci sono errori in Iraq e nella strategia americana in Medio Oriente, la soluzione è nei mezzi, non abbandonando il principio guida della diffusione della democrazia. Scambiando Wilson per Scowcroft, o Bush jr. per Nixon, non si fa un buon affare.

6 comments:

Anonymous said...

dai cazzarola... io devo scrivere un paper per domani mattina... tu mi butti sul piatto un boccone così e finisce che io non lavoro...

ci vediamo fra qualche ora... mettiti le imbottiture... :)

Anonymous said...

caro Jimmomo, ho letto poco fa un intervento di Paolino Pietrosanti "Pongo il problema della mia estromissione", che certamente conoscerai, perchè gira parecchio sulla rete:
http://www.radicali.it/phpbb2/viewtopic.php?t=21450&postdays=0&postorder=DESC&start=0

Mi piacerebbe leggere cosa ne pensi, sapendoti persona intelligente e sensibile.
Scusa l' off topic.
Ciao
Milton

JimMomo said...

Caro milton, ho letto. Ti devo dire che conosco poco Paolo e la sua storia, e ancor meno il "come" e il "perché" della sua estromissione, non essendo poi così "interno" ai rapporti che intercorrono tra i radicali.

Ritengo che purtroppo il motivo può anche non essere "politico", il che sarebbe anche peggio. Però un chiarimento ci *deve* essere. Di quel poco che so di Paolo, so che è una risorsa politica oltre che umana.

Più che informarmi di più e dire che a Paolo si deve un chiarimento non sono in grado di fare.

ciao

Anonymous said...

ho letto l'articolo di Intini: ma non vale neppure la pena commentare una roba del genere. Ma questo non sa neppure di cosa parla: al di là del fatto che i richiami al realismo io non li ho visti, Intini è proprio impreparato.

Non sa che il programma nucleare iraniano è vecchio di 30'anni (1976), dice che il verde è il colore del fondamentalismo islamico, mentre è il colore dell'Islam. Senza parlare del resto (armi nucleari, Afghanistan).

Ho altro da fare e, se mi permetti, anche tu. Perchè sprecare del tempo con un demente simile?

buona serata,

aa

Anonymous said...

Sullo stesso articolo di Intini, vedi mio commento sul blog, sostanzialmente in sintonia con quanto hai ben scritto.
Ciao
Geppy Nitto
www.inpartibusinfidelium.
ilcannocchiale.it

perdukistan said...

si "dialogo" punzi intini aspettatevi un bel perdukistan ;)