Pochi se ne accorgono, tra questi non c'è Pannella
«Confido che il riconoscimento, anche da parte delle più alte autorità religiose, della conoscenza scientifica e del progresso tecnologico come "autentici valori della cultura del nostro tempo", consentirà di dare soluzioni ponderate e condivise ai problemi della libertà della ricerca, con il suo codice e con le sue regole, e ai più complessi temi bioetici».
E' il passaggio del discorso del presidente Napolitano, in occasione della giornata nazionale per la ricerca sul cancro, di cui molto si è discusso nei giorni scorsi.
In realtà nulla di nuovo rispetto a ciò che disse di fronte al Pontefice solo pochi giorni fa. Napolitano confida in «soluzioni condivise», tra Stato e Chiesa, sui temi della ricerca e della bioetica. Non in altro modo può essere interpretato quel passaggio.
E in Vaticano, infatti, sono rimasti soddisfatti delle parole del Capo dello Stato: li si riconosce come autorità religiose che hanno dignità di interlocutori del Parlamento nel trovare le «soluzioni condivise». Un'aberrazione del principio di separazione tra Stato e Chiesa.
Certo, precisa il Quirinale, il Parlamento è la sede (ci mancherebbe!) e a studiare le soluzioni ci sono i cattolici "laici" che vi siedono, non i cardinali. Il presidente Napolitano ribadisce che sui temi detti «eticamente sensibili» sia buona regola (politically correct) che le soluzioni siano «condivise». Ma le auspicate «soluzioni condivise» a quei problemi le fa dipendere dal «riconoscimento» del valore della scienza e del progresso da parte delle «più alte autorità religiose». Insomma, le domande come quella del cittadino Piero Welby troveranno risposta solo se il legislatore sarà in grado di adottare «soluzioni condivise». E la possibilità che il legislatore trovi «soluzioni condivise» dipende a sua volta dall'apertura delle gerarchie ecclesiastiche.
E' questo nesso di dipendenza che il presidente stabilisce tra «riconoscimento» da parte delle «più alte autorità religiose» e il «dare soluzioni condivise» che va a toccare il principio di laicità. Secondo Pannella, invece, Napolitano «ha dato l'esempio» e la sua è stata una «prudenza doverosa». Non vorrei però che a forza di fare i "buonisti" insieme a Napolitano ci venisse sonno. Domanda: e se quel «riconoscimento» non ci fosse - e pare che non ci sia? Che si fa? Aspettiamo? E' il riconoscimento del valore della scienza ciò che importa chiedere alla Chiesa, o della libertà individuale?
La frase del presidente sarebbe stata perfetta senza quell'inciso «anche da parte delle più alte autorità religiose», in cui fa esplicito riferimento alla Santa Sede. Provate a rileggerla senza: «Confido che il riconoscimento... della conoscenza scientifica e del progresso tecnologico come "autentici valori della cultura del nostro tempo", consentirà di dare soluzioni ponderate e condivise ai problemi della libertà della ricerca, con il suo codice e con le sue regole, e ai più complessi temi bioetici».
Quella del presidente Napolitano è una disponibilità tipicamente riformistica al compromesso che si fonda sul concetto ben poco liberale, cui così spesso sentiamo far ricorso, di «etica condivisa». L'idea, cioè, che sui grandi temi etici il legislatore debba adottare soluzioni il più possibile «condivise». Per i sostenitori dell'«etica condivisa» non è importante che lo Stato, rispettando il principio di laicità, non imponga per legge alcuna soluzione etica, ma che essa sia «condivisa» dalle forze politiche prevalenti in Parlamento. Per costoro laicità non equivale all'assenza di una visione etica nelle leggi, ma al compromesso, dal contenuto pur sempre etico, fra visioni etiche diverse. Il risultato, per il cittadino, non cambia.
L'idea di laicità non si contrappone alla religione così, per gusto, per vezzo anti-religioso, ma respinge qualsiasi pretesa di dare un fondamento etico - o una pluralità di fondamenti etici che hanno trovato un compromesso tra di loro - alla politica e al diritto, provengano essi dalla Chiesa, dai partiti, o da qualsiasi normale o illustre cittadino che intenda trasferire la sua etica "buona" in leggi per tutti.
Per questo non è sembrata gran ché come difesa della laicità quella di Napolitano nel suo incontro con il Papa in Vaticano. «Avvertiamo come esigenza pressante ed essenziale il richiamo a quel fondamento etico della politica...», ha detto il presidente, aggiungendo di vedere addirittura per lo Stato e per la Chiesa «una comune missione educativa», da esercitare «là dove sia ferito e lacerato il tessuto della coesione sociale, il senso delle istituzioni e della legalità, il costume civico, l'ordine morale».
Quella di Napolitano non è stata un'affermazione di laicità, ma del suo contrario: una difesa dell'etica di Stato. Meglio, una difesa dell'«autonomia della politica» - di cui «avvertiamo come esigenza pressante ed essenziale» richiamare il «fondamento etico» - a ricercare «soluzioni valide, ponderate, non partigiane...». Non si sta certo parlando di libertà individuale.
Sembra sott'inteso che bisogna trovare un accordo tra chi ritiene che la vita sia proprietà dell'Individuo e chi crede, invece, che appartenga a Dio e che sia, quindi, un bene indisponibile. Sforzarsi di trovare un accordo sembra un auspicio ragionevole, ma c'è un clamoroso non-detto.
La vicenda di Welby non è un caso limite, ma il più emblematico e dal punto di vista liberale il più semplice da risolvere, che non concede alibi ai portatori di una concezione etica del diritto. E' sul testamento biologico che si addensano problematiche ben più complesse, perché si è di fronte a una volontà espressa molto tempo prima dal momento in cui la decisione sulla vita del soggetto viene presa, e perché di fatto si trova ad essere interpretata dalla figura del fiduciario. Di fronte alla volontà di Welby, invece, espressa hic et nunc, nel pieno delle sue facoltà mentali e rispetto alle condizioni di vita imposte da una malattia irreversibile e all'ultimo stadio, non c'è etica che possa valere se non la sua.
Chiunque, in qualsiasi momento, può suicidarsi, mentre al malato terminale, solo perché immobilizzato, viene tolto il diritto di decidere della propria vita. Di fatto lo Stato si fa forte del suo corpo disabile e malato contro di lui, contro la sua volontà, contro la sua coscienza. E' una forma subdola e ipocrita, ma estrema, di violenza e di discriminazione.
Fare una legge sull'eutanasia non vuol dire imporre a tutti i cittadini nelle condizioni di Welby la scelta del cittadino Welby, ma consentire a ciascuno di vivere la morte secondo la propria etica e la propria coscienza. Non farla, invece, vuol dire imporre ai tanti cittadini Welby una scelta non loro.
Queste due posizioni non possono essere messe sullo stesso piano negoziale. Qualsiasi compromesso tra di esse violerebbe la libertà di Welby e il principio di laicità. Vi pare una posizione estremista? Piuttosto la chiamerei radicale, nel senso che la libertà individuale spesso va difesa radicalmente.
4 comments:
davvero complimenti a punzi, scrive in maniera impeccabile (e dice cose impeccabili)
peccato non valorizzarlo all'interno dei radicali
lo ripeto: due Stati, due burocrazie.
Per Pannella contano di più le convenienze delle convinzioni... oramai è chiaro!
Se non ti dispiace vorrei postare questo ottimo post su Clerofobia
http://www.bloggers.it/Hereticus
Ciao e grazie
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