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Tuesday, June 30, 2009

La repressione funziona, ma l'Iran non sarà mai più come prima

Solo chi si aspettava come esito della crisi post-elettorale in Iran una "rivoluzione di velluto" (impossibile in regimi le cui forze armate e di sicurezza sono disposte a sparare e a massacrare il proprio popolo), o comunque da un giorno all'altro il rovesciamento del regime, può sorprendersi della cruda e amara realtà che sta emergendo in queste ore e che ben conosce chi non per la prima volta si interessa di regime change e di promozione della democrazia: le repressioni funzionano.

E la repressione attuata dal regime iraniano nei giorni scorsi è andata ben oltre il sangue versato in grandi quantità sulle strade, che nonostante le censure è arrivato sotto i nostri sguardi. Ci sono gli arresti, le detenzioni segrete, le violenze fino dentro le case private, l'intimidazione dei già timidi oppositori "leali" alla rivoluzione islamica. Insomma, in una parola, un terrore generalizzato che non lascia via di scampo. Decisiva è stata la capacità delle forze di polizia, dei pasdaran e dei bassiji, di impedire ai manifestanti di occupare in massa una piazza, ergendola a simbolo della protesta, come fecero gli studenti cinesi a Tienanmen o gli ucraini della rivoluzione "arancione".

Il sequestro dei nove dipendenti iraniani dell'ambasciata britannica e l'appello a «giustiziare i rivoltosi» lanciato dall'ayatollah Khatami (da non confondere con il Khatami "riformista", che ha confermato il suo appoggio a Mousavi) preludono a un secondo atto della repressione. Domata la piazza "riformista", la lotta potrebbe spostarsi dietro le quinte, oppure potrebbe essere la volta dell'epurazione interna all'establishment per blindare il nuovo assetto di potere voluto da Khamenei, che si poggia più sulla casta dei militari, sulla coercizione e sul nazionalismo, che sulla casta clericale e sulla religione.

Una purga che potrebbe non lasciare alcuno scampo ai Mousavi e ai Rafsanjani, i quali in queste ore dovranno decidere una volta per tutte la loro posizione. Rafsanjani sembra aver perso (almeno per ora) la partita per portare dalla sua parte - e contro Khamenei - la maggioranza del clero che conta nella città santa di Qom e nella sua prima uscita pubblica dall'inizio della crisi sembra aver afferrato la mano tesa di Khamenei. Venerdì scorso, rispetto al suo discorso del venerdì precedente, Khamenei ha ammorbidito i toni, «invitando entrambe le parti a non fomentare gli animi dei giovani e a trattanersi dal mettere gli iraniani gli uni contro gli altri. Questa nazione unita non deve essere divisa e i gruppi non devono essere spinti a muoversi l'uno contro l'altro. Ci sono vie legali per risolvere i problemi». Ieri Rafsanjani ha finalmente rotto il suo silenzio e le sue parole sono sembrate fin troppo in sintonia con quelle di Khamenei. Elogiando la decisione della Guida Suprema di prolungare i termini dell'indagine del Consiglio dei Guardiani sulle irregolarità del voto, ha auspicato che le contestazioni siano esaminate con accuratezza, onestà e correttezza, invitando però i candidati sconfitti a «rimuovere gli ostacoli per superare le divergenze», avvertendoli che «un atteggiamento sbagliato potrebbe portare a ulteriore odio e divisione tra i cittadini».

Un invito che Mousavi e Karroubi sembrano non intenzionati a raccogliere, ma che lascia intendere che la fronda interna tentata da Rafsanjani è fallita (per ora). Bisognerà vedere ora se Rafsanjani raggiungerà un compromesso stabile e soddisfacente con Khamenei, o se la sua è solo una ritirata tattica per giocare al meglio le sue carte in un altro momento, in una seconda occasione che però potrebbe anche non arrivare mai.

L'impressione è che comunque, nonostante il successo della repressione, nulla sarà più come prima. Sia perché il regime ha cambiato natura; sia perché potrebbe comunque essersi messo in moto un processo a suo modo rivoluzionario. La frattura interna è difficilmente ricomponibile e il potere accentrato nelle mani di un gruppo ancora più ristretto di ayatollah e militari, non lasciando agli altri che le briciole o la strada della cospirazione.

Secondo Reza Aslan, «la trasparente brutalità della repressione ha polarizzato la politica iraniana a tutti i livelli, obbligando le elite politiche e religiose a prendere posizione», e «la sorte dell'Iran dipende da che parte si schiera l'establishment clericale». Se si convinceranno che l'ascesa delle Guardie rivoluzionarie rappresenta una minaccia al loro ruolo di custodi e amministratori della Repubblica islamica, «allora si schiereranno dalla parte dei "riformisti" al fianco di Rafsanjani e Mousavi», se non altro per contare di più. In questo caso, l'Iran potrebbe intraprendere una strada simile a quella della Cina, di riforme interne e apertura alla comunità internazionale. Se invece il clero si schiera con Khamenei, «che ogni giorno che passa sembra sempre di più un vecchio idiota delle Guardie rivoluzionarie», allora diventerà probabilmente una dittatura militare «simile alla Corea del Nord o al Myanmar».

Anche per Amir Taheri l'elite dominante è divisa e «la frattura riguarda tutti i settori che costituiscono l'establishment khomeinista»: il clero sciita politicamente attivo, con Montazeri e altri mullah dalla parte dell'opposizione, e Yazdi e Ahmad Khatami con Khamenei, ma anche le forze armate e i tecnocrati. Sarà «interessante» vedere cosa accadrà quando si riuniranno gli «organi chiave del regime», come l'Alto Consiglio per la Difesa nazionale, «di cui sia Ahmadinejad che Mousavi sono membri d'ufficio, insieme agli ex presidenti Rafsanjani e Khatami. Metà potrebbe schierarsi con Mousavi e l'altra con Ahmadinejad». Poi c'è il Consiglio per il Discernimento dell'Interesse supremo del regime, «del quale Rafsanjani è a capo, con Rezai, uno dei tre candidati alla presidenza sconfitti, segretario generale. Ma almeno metà dei suoi membri ha espresso sostegno ad Ahmadinejad». «Simile» la situazione nel Consiglio degli Esperti. «Rafsanjani presiede l'assemblea, ma (almeno per ora) non ha la maggioranza dei due terzi necessaria per rimuovere Khamenei». La divisione in Parlamento è «ancor più evidente». Secondo alcune stime, un terzo tenderebbe verso Mousavi, un altro terzo verso Ahmadinejad, e il rimanente terzo sarebbe incline a orientarsi verso il vincitore.

«La frattura - conclude Amir Taheri - potrebbe portare a una sanguinosa resa dei conti, al termine della quale il vincitore lancerebbe una massiccia purga». Secondo Taheri, infatti, «nel sistema khomeinista non c'è spazio per il compromesso, sia all'interno che in politica estera». Che la Repubblica islamica non sarà mai più la stessa è convinzione anche di analisti molto cauti e "realisti". Come Fareed Zakaria, secondo cui «per ora il regime sarà probabilmente in grado di usare armi e denaro per consolidare il suo potere», ma la sua «legittimità», osserva, è «compromessa», una «ferita fatale nel lungo termine».

Pepe Escobar, su Asia Times, scrive che «il muro di Teheran non è caduto» e che «il mondo, e in particolare l'Occidente, dovranno ancora convivere e avere a che fare con Khamenei, Ahmadinejad e l'ala dura delle Guardie rivoluzionarie per gli anni futuri». Questi vogliono liquidare la vecchia generazione dei leader della rivoluzione, come l'ex presidente Rafsanjani. «In tutto questo - osserva Escobar - ci sono degli echi dell'ex Unione sovietica, ma ciò che è accaduto nelle strade somiglia più a una Praga 1968» che al 1989. Eppure, anche per l'analista di Asia Times la Repubblica islamica non sarà mai più la stessa. Schierandosi con Ahmadinejad, Khamenei si è trasformato da arbitro a capo-fazione. «Il contratto sociale tra milioni di iraniani e la rivoluzione si è rotto. Nel lungo termine, ci sarà del sangue, certo, e resistenza. Quella iraniana è una società molto complessa. Non può esserci alcuna marcia indietro. Ma sarà una strada lunga e tortuosa».

Nonostante abbia indurito i toni della sua condanna nei confronti della repressione e abbia schierato l'America dalla parte dei manifestanti, il presidente Obama è rimasto inamovibile nella sua politica di engagement con il regime iraniano, chiunque ne sia nominalmente la Guida. Eppure, alla luce di quanto accaduto e dei pochi punti fermi che abbiamo individuato, quella politica appare oggi superata e poco "realistica". Il colpo di mano autorizzato da Khamenei ha minato alle fondamenta l'autorità della Guida Suprema, che da arbitro e supremo garante di un sistema teocratico è diventato il capo-fazione di una dittatura militare; le leve del comando reale si stanno sempre più spostando dalla casta clericale (con o senza il consenso di tutto il clero sciita non ha importanza) alla casta militare. Ciò significa che il fattore religioso è destinato ad assumere un ruolo di mera legittimazione simbolica, e che il regime si regge sui pilastri del militarismo e del nazionalismo; e che, quindi, l'antiamericanismo e il ricorso alla paranoia del nemico esterno saranno d'ora in avanti ancor più indispensabili come collante ideologico per giustificare la repressione della piazza e l'epurazione tra le file dell'establishment.

Ancor più di prima, dotarsi dell'atomica e non giungere ad alcun compromesso con il "Grande Satana" saranno elementi irrinunciabili per conservare il potere. Per questo le già esigue possibilità di successo della strategia del dialogo sul nucleare perseguita da Obama appaiono oggi prossime allo zero. Non potendo sperare né in un completo isolamento internazionale, né in un embargo efficace sulle esportazioni delle risorse energetiche - essendo note le posizioni di Russia e Cina in merito - gli unici punti deboli del regime sono la sua impopolarità e la frattura che si è creata al suo interno. L'unica speranza, oltre a tentare la rischiosa "opzione Osirak", e a prepararsi a una costosa e fragile deterrenza, è il regime change.

Scomode verità che la sinistra ignora o finge di ignorare

A volte un'analisi è perfetta. Lo è certamente quella di Panebianco, oggi sul Corriere della Sera, ma agli occhi di chi cura questo blog e dei suoi pochi lettori risulta persino ovvia, dopo così tanti anni passati a parlarne. Peccato che a sinistra c'è chi queste scomode verità le snobba sdegnosamente, chi annuisce con rassegnazione, e chi le coltiva nel suo piccolo senza trarne le dovute conseguenze.

Friday, June 26, 2009

L'idea del contagio democratico riprende quota

Se il "regime change" in Iraq non era poi un'idea così scema

Il movimento democratico iraniano potrebbe trasformare l'intera regione. Alla luce di quanto sta accadendo in questi giorni a Teheran, la questione del nucleare iraniano potrebbe rientrare a far parte del più ampio tema della democrazia in Iran e in Medio Oriente. La lotta per la democrazia in Iran ha oggi (o dovrebbe avere) la stessa centralità per la politica estera americana che aveva negli anni '80 la lotta per la democrazia in Europa orientale. Ne è convinto Robert D. Kaplan, realista "muscolare" del Center for a New American Security e corrispondente del The Atlantic. Kaplan non è un neocon, né un sognatore democratico. Eppure, sul Washington Post, ha spinto la sua analisi ben oltre l'Iran: «Le manifestazioni a Teheran e in altre città hanno la capacità di preludere a una nuova era politica in Medio Oriente e in Asia centrale».

Kaplan ricorda la storica capacità dell'Iran (che fu della Persia) di influenzare tutta la regione, dal Mediterraneo all'India. Una capacità di proiettare la propria influenza che risale indietro nei secoli, a molto prima della rivoluzione khomeinista. Inoltre, per molti aspetti la società iraniana è più evoluta di quelle dei suoi vicini arabi e le istituzioni sono più solide.
«Il movimento democratico in Iran è sorprendentemente occidentale nella sua organizzazione e nel sofisticato uso della tecnologia. In termini di sviluppo, l'Iran è più vicino alla Turchia che non alla Siria o all'Iraq. Mentre questi ultimi vivono nella possibilità dell'implosione, l'Iran ha una coerenza interna che gli permette di esercitare forti pressioni sui suoi vicini. Nel futuro, un Iran democratico potrebbe esercitare su Baghdad un'influenza tanto positiva quanto è stata negativa quella delle squadracce assassine dell'Iran teocratico».
Dunque, osserva Kaplan, «l'Iran è così centrale per le sorti del Medio Oriente che anche un cambiamento parziale nel comportamento del regime - e un maggior grado di sfumature nel suo approccio nei confronti dell'Iraq, del Libano, di Israele e degli Stati Uniti - potrebbe influire in modo determinante sulla regione. Proprio come un leader radicale iraniano può fomentare le Arab streets, un riformatore può stimolare l'emergente, ma stranamente opaca, borghesia araba». Per questo Kaplan non è d'accordo con Obama quando dice che tra Mousavi e Ahmadinejad in fondo non c'è tutta questa gran differenza. Questa «rappresentazione» di Mousavi come di «un radicale, sebbene all'apparenza più gentile e affabile di Ahmadinejad, non coglie il punto». Come nella ex Unione sovietica, spiega Kaplan, anche in Iran «il cambiamento può arrivare solo dall'interno» e solo per opera di «un insider, sia un Mousavi o un Gorbacev».

Kaplan non solo conclude che «la lotta iraniana per la democrazia è oggi così centrale per la nostra politica estera come lo fu la lotta per la democrazia in Europa orientale negli anni '80», ma ritiene addirittura che ciò che sta avvenendo in Iran è il frutto intenzionale del regime change in Iraq, suggerendo quindi che non era del tutto campata in aria l'idea dei neocon, fatta propria dalla prima presidenza Bush, secondo cui la caduta del regime baathista in Iraq avrebbe provocato un effetto domino sui regimi dittatoriali confinanti.

Tutti coloro che hanno sostenuto la guerra in Iraq sapevano bene che la caduta del sunnita Saddam «avrebbe rafforzato la componente sciita nella regione», ma il punto è che «ciò non era visto necessariamente come un effetto negativo». I terroristi dell'11 settembre, spiega Kaplan, erano originari di dittature sunnite come l'Egitto e l'Arabia Saudita, «la cui arroganza e avversione per le riforme doveva essere placata riaggiustando l'equilibrio di potere regionale in favore dell'Iran sciita». In tutto ciò, «si sperava che l'Iran avrebbe vissuto la propria rivoluzione, se l'Iraq fosse cambiato. Se l'occupazione dell'Iraq fosse stata gestita in modo più competente, questo scenario avrebbe potuto svilupparsi più rapidamente e in modo più trasparente. Nonostante ciò, si sta verificando. E non solo l'Iran è alle prese con una sollevazione democratica, ma anche Egitto e Arabia Saudita si stanno silenziosamente riformando».

«Il Medio Oriente - conclude Kaplan - è entrato in un periodo di profonda fluidità, destinata ad essere accentuata dalle elezioni in Iraq alla fine di quest'anno e dall'insediamento di un governo filo-occidentale in Libano». Per la sua posizione centrale nella regione, sia dal punto di vista geografico che demografico - per non parlare della forza attrattiva della cultura persiana che giunge fino all'Asia centrale - «l'Iran, ironicamente, ha più possibilità di dominare la regione sotto un dinamico regime democratico di quante ne abbia mai avute sotto la sua elite oscurantista. E potrebbe essere un'ottima notizia per gli Stati Uniti».

L'idea del possibile, anche se lento e non lineare, contagio democratico in Medio Oriente riprende quota. «Se lo sviluppo della democrazia in Medio Oriente non è lineare - scrive Michael Gerson sul Washington Post - non è neanche casuale. Si muove a piccoli passi, ma va avanti. Preso nel suo insieme - una democrazia costituzionale irachena, un potente movimento di riforma in Iran, piccole conquiste democratiche dagli sceiccati del Golfo al Libano - questo è il più grande periodo di progresso democratico nella storia della regione». Sembra evidente che il Grande Medio Oriente «non è immune al contagio democratico e ci sono motivi di credere che l'agenda democratica rimarrà centrale per la politica estera americana, a prescindere dagli umori del momento».

L'avanzamento della libertà in Medio Oriente è «la speranza migliore per l'America», innanzitutto da un punto di vista realista e non solo idealista. «I regimi che opprimono il loro popolo sono con maggiore probabilità quelli che minacciano i loro vicini, che sostengono i gruppi terroristici, che alimentano antiamericanismo e antisemitismo, e che cercano di dotarsi di armi di distruzione di massa». La promozione della democrazia d'altra parte ha sempre contraddistinto la politica estera dei presidenti americani. «Il loro idealismo democratico non gli ha impedito di trattare con il "demonio", ma solo di credere che il futuro appartenga ai "demoni"». La promozione della democrazia è «difficile e reversibile», ma «non è nuova, né un optional».

Mousavi come Lech Walesa o come Boris Yeltsin?

Quello che si è cercato di dire in questi giorni è che certo Khamenei e Ahmadinejad hanno il potere di reprimere spietatamente la piazza e forse anche di respingere le offensive dietro le quinte di Rafsanjani, ma che comunque la Repubblica islamica non sarà mai più la stessa. O perché avranno successo le manovre degli oppositori (tuttora improbabile), o perché il regime avrà perso la sua principale fonte di legittimazione, quella clericale, diventando una volgare dittatura militare che si regge solo sulla forza. E ciò a lungo andare non mancherebbe di produrre delle conseguenze.

La frattura tra «la vecchia guardia khomeinista e la generazione post-rivoluzionaria», che Molinari descrive bene oggi su La Stampa, appare insanabile anche perché nel medio e lungo periodo c'è «in palio ciò che più conta: la successione a Khamenei». La rielezione di Ahmadinejad sarebbe solo una fase intermedia dell'evoluzione del sistema khomeinista, che iniziata dalla sua prima vittoria nel 2005 verrebbe portata a compimento dalla Guida Suprema indicando come suo successore il figlio prediletto Mojtaba.
«La vecchia guarda khomenista nel 2005 perse lo scontro presidenziale con la fazione dei Khamenei quando Rafsanjani venne sconfitto a sorpresa dal quasi sconosciuto Ahmadinejad. Anche allora si parlò di brogli, con le voci su 8 milioni di schede a favore di Ahmadinejad fatte arrivare dall'estero proprio dai seguaci di Mojtaba, ma a prevalere fu poi una tregua che si è rotta quando il 12 giugno il khomeinista Mousavi si è visto strappare il risultato ancora una volta da Ahmadinejad».
La nomina di Mojtaba Khamenei a Guida Suprema, ottenuta scavalcando il Consiglio degli Esperti o imponendola - quindi al prezzo di minare la valenza e la credibilità religiosa dell'autorità posta al vertice della Repubblica - segnerebbe la definitiva «trasformazione dell'Iran in un sistema nepotista sul modello della Nord Corea - dove Kim Il Sung designò Kim Jong Il che ora indica il figlio 26enne Kim Jong Un». Un esito che naturalmente «non piace ai custodi del khomeinismo che, costituzione iraniana alla mano, ritengono che a designare il nuovo Leader Supremo debbano essere gli 86 esponenti del clero che siedono nel Consiglio degli Esperti».

Insomma, la Repubblica non sarà più la stessa anche, e soprattutto, se Khamenei dovesse trionfare e schiacciare l'opposizione interna al regime. Si trasformerebbe infatti in un sistema monocratico e nepotista, sul modello della Corea del Nord, sostenuto dalle forze di sicurezza e dalla generazione dei pasdaran, ancora più fanatica e millenarista degli ayatollah, mentre il clero di Qom verrebbe esautorato e relegato di fatto ad un ruolo essenzialmente cerimoniale, di legittimazione simbolico-religiosa, a conferma di ciò che dicevamo fin dalle prime ore della crisi: in gioco c'è la natura stessa della dittatura, se cioè debba essere una dittatura clericale o militare.

Semplificando al massimo si potrebbe affermare che in questa situazione i veri "rivoluzionari" sono Khamenei e Ahmadinejad, mentre i loro oppositori, da Mousavi a Rafsanjani, sono i "conservatori", che vogliono salvare il sistema khomeinista riformandolo. Un ruolo che li avvicina, come ha suggerito più di un analista (da Luttwak a R. D. Kaplan, fino a Gerecht), a quello svolto negli anni '80, suo malgrado, da Gorbacev, le cui riforme «molto caute, pensate per perpetuare il regime comunista, finirono per distruggerlo in meno di cinque anni». Che vincano i "rivoluzionari" o i "conservatori", dunque, la Repubblica islamica non sarà mai più la stessa e nonostante nelle intenzioni di entrambe le fazioni non ci sia un futuro democratico, non è detto che proprio la democrazia non sarà l'esito finale dei loro sforzi.

Mentre nelle strade va in scena la repressione, i tre principali leader del movimento di protesta (Mousavi, Karrubi e Rafsanjani) sono impegnati dietro le quinte in un dibattito su quale strategia perseguire per opporsi al disegno di Khamenei. Amir Taheri, sul New York Post, spiega che Mousavi «ha adottato un approccio minimalista», che somiglia alla strategia del leader sindacale polacco Lech Walesa negli anni '80 e che consiste nell'avanzare «una singola richiesta, all'interno dell'ordinamento, che se accolta potrebbe cambiare le regole del gioco».

Mousavi chiede nuove elezioni e questa chiara, semplice richiesta ha il pregio di non essere di per sé sovversiva e di raccogliere il più vasto consenso possibile lungo l'intero spettro politico. E' «importante», però, perché questa strategia abbia qualche chance di successo, «che le principali potenze straniere rifiutino di legittimare un secondo mandato di Ahmadinejad. La prospettiva di un maggiore isolamento internazionale potrebbe persuadere più personaggi dell'establishment ad unirsi alla richiesta di nuove elezioni». E qui già la comunità internazionale si dividerebbe, visto che Russia e Cina non avrebbero problemi a riconoscere la rielezione di Ahmadinejad.

Secondo Karrubi invece l'opposizione dovrebbe avanzare «un'agenda più ampia». Karrubi, spiega Taheri, «ha rotto forse il più grosso tabù politico del sistema khomeinista mettendo in discussione la nomina di Khamenei a Guida Suprema». Non vuole solo nuove elezioni, ma anche la «revisione» delle procedure di nomina di Khamenei, una «maggiore autonomia per le minoranze etniche», limitare l'intervento delle forze armate in politica, e altre modifiche costituzionali «per enfatizzare l'aspetto repubblicano del regime rispetto a quello religioso».

Rafsanjani, riferisce Amir Taheri, è «pazzo di rabbia contro Ahmadinejad e sta lavorando duramente per impedire al presidente rieletto di completare il suo secondo mandato di quattro anni». Rafsanjani e Mousavi sono stati «acerrimi nemici politici» negli anni '80. «Nel 1989, Rafsanjani, alleandosi con Khamenei, elaborò modifiche costituzionali che abolirono la carica di primo ministro, spedendo Mousavi in esilio politico per vent'anni. Ora si dice che siano amici per la pelle, determinati a ritornare al potere. Tuttavia, Rafsanjani crede che la strategia minimalista di Mousavi condurrà ad un impasse: il regime può ondeggiare da una parte all'altra, come ha fatto per dieci giorni, finché non riprende il controllo».

La strategia di Rafsanjani invece, spiega Taheri, «mira a formare un'autorità ad interim appoggiata dai grandi ayatollah di Qom. Una volta posta in essere, il Consiglio degli Esperti, che ha il potere di rimuovere la Guida Suprema, potrebbe essere usato come una minaccia per Khamenei, costringendolo a cooperare con il rischio di perdere il posto». Sarebbero 50 finora le figure religiose di spicco (tra Marja Taqlid e Ayatollah) della città santa di Qom ad aver assunto una posizione di forte critica nei confronti di Khamenei, e ad essersi schierati, quindi, con Rafsanjani, almeno secondo quanto riporta il giornale kuwaitiano al-Watan. «Rafsanjani - spiega una fonte iraniana al giornale arabo - è impegnato da diversi giorni in una visita a Qom e ha lavorato in tutto questo tempo per convincere i religiosi locali a dare vita a un nuovo organismo che sostituisca l'istituzione della Guida Suprema. La riforma chiesta da Rafsanjani trasformerebbe il cosiddetto Wali Faqih in un osservatore del regime e non più capo supremo».

«In breve - conclude Amir Taheri - Mousavi mira ad un accordo di condivisione del potere nel quale Khamenei e suoi rimarrebbero la parte maggioritaria nell'elite al potere. Karrubi e Rafsanjani ritengono invece che per conquistare il potere Khamenei debba essere marginalizzato o cacciato. Imprevedibile è l'atteggiamento del popolo iraniano. Nessuno sa quali di queste strategie siano in grado di mobilitare le sue energie, sempre che ce ne sia una».

Se Taheri ha paragonato Mousavi al leader sindacale polacco Lech Walesa, secondo Charles Krauthammer «la rivoluzione iraniana è alla ricerca del suo Yeltsin». «Senza leadership, i manifestanti scenderanno in strada per prendersi gas lacrimogeno, bastonate e pallottole. Hanno bisogno di un leader come Boris Yeltsin: una ex figura dell'establishment con nuove credenziali e legittimità rivoluzionarie, che salga su un carro armato e che indichi la direzione chiedendo l'impensabile - l'abolizione del vecchio ordine politico». Krauthammer vede ormai il movimento «sulla difensiva, in ritirata». «Per riprendersi, ha bisogno della massa, perché ogni dittatura teme il momento in cui dà l'ordine ai suoi uomini armati di sparare sulla folla. Se lo fanno (Tienanmen), il regime sopravvive; se non lo fanno (la Romania di Ceausescu), i dittatori muoiono come cani. L'opposizione ha anche bisogno di uno sciopero generale e di grandi cortei nelle città principali - ma stavolta con qualcuno che si alzi in piedi e che indichi la via da percorrere».

Ora c'è da chiedersi se Mousavi possa diventare lo Yeltsin iraniano. «Finché Mousavi rimane in sospeso tra Gorbacev e Yeltsin, tra il riformatore e il rivoluzionario, tra la figura simbolo e il leader, la rivoluzione è in bilico... Ma ora deve scegliere, e velocemente. Questo è il suo momento, e svanirà presto. Se Mousavi non lo coglie, o qualcun altro non lo coglie al suo posto, la rivolta democratica in Iran finirà non come in Russia nel 1991, ma come in Cina nel 1989», conclude Krauthammer.

Heal the world

Vita e morte di un genio bambino che voleva guarire il mondo. E' stato un bel sogno.

Thursday, June 25, 2009

La lettera del silenzio dell'America

Ieri il Washington Times ha rivelato - citando fonti iraniane - che il presidente Obama avrebbe scritto una lettera all'ayatollah Khamenei prima delle elezioni del 12 giugno, auspicando un miglioramento delle relazioni tra Iran e Stati Uniti, e in particolare una «cooperazione nelle questioni regionali e bilaterali» e una soluzione al problema del nucleare. Nessun funzionario dell'amministrazione ha voluto commentare, ma se fosse vero, Khamenei potrebbe aver interpretato la lettera come un segno di debolezza e, soprattutto, come la garanzia che gli Stati Uniti, per migliorare le relazioni, sarebbero stati disposti a non mettere più bocca negli affari interni iraniani e, anzi, a fare o a tacere di tutto, per dimostrare di riconoscere la legittimità del regime. Ciò potrebbe aver contribuito a convincere Khamenei che Washington sarebbe rimasta in silenzio, non avrebbe reagito in alcun modo dinanzi al colpo di mano pianificato per garantire la rielezione al primo turno di Ahmadinejad. E infatti, così è stato, finché il coraggio dei manifestanti e la fermezza di Mousavi hanno costretto Obama a reagire nell'unico modo coerente con i valori americani.

Il massacro di Piazza Baharestan e il ritorno di Mousavi

Ieri il massacro (le testimonianze, raccapriccianti, su PajamasTV, la Repubblica e il Giornale). Khamenei, come dicevo ieri, sembra aver tolto qualsiasi freno alle milizie, che si sono scatenate. Un brutto segno, perché può significare che si sente sicuro del suo potere, che l'offensiva dietro le quinte di Rafsanjani è stata per ora respinta, e che il regime ha al suo interno l'unità e la compattezza per permettersi di usare la violenza senza limiti. Oppure, che il numero dei manifestanti in strada è sceso a poche centinaia, tale da rendere fattibile una repressione più brutale.

Oggi sappiamo qualcosa di più sulla situazione di Mousavi. Secondo alcuni blog e il sito riformista Nasimfarda, sarebbe agli arresti domiciliari e tutti i suoi collaboratori sarebbero stati arrestati: «Il governo sta cercando di isolarlo completamente dal popolo riformista che sta manifestando». Due giorni fa è stato chiuso il quotidiano da lui diretto e i 25 giornalisti che vi lavoravano sono stati arrestati. Anche 70 professori universitari sono stati arrestati, dopo aver partecipato a un incontro con Mousavi.

Ma è lo stesso Mousavi finalmente a farsi sentire e a denunciare, in una dichiarazione apparsa sul suo sito ufficiale - e riportata dall'AP - che il suo «accesso alla popolazione è stato completamente limitato» dalle autorità e che i suoi due siti internet hanno «molti problemi». Mousavi denuncia inoltre di aver subito «pressioni», per indurlo a ritirare la richiesta di annullamento delle elezioni e spiega che a causa del crescente isolamento, gli attacchi verbali contro di lui sono aumentati, comprese le accuse di essere in combutta con potenze straniere. Ma nella sua dichiarazione Mousavi assicura di non voler mollare: «Non mi fermerò nella mia battaglia per i diritti del popolo iraniano, né per interessi personali, né per la paura delle minacce».

«Non posso cambiare il nero in bianco e il bianco in nero... Non è la soluzione aspettarsi da me che dica qualcosa in cui non credo». E, aggiunge, «insisto sul fatto che protestare contro i risultati delle elezioni presidenziali è un diritto stabilito dalla Costituzione». «Chi è dietro ai brogli elettorali è responsabile del bagno di sangue», accusa Mousavi. Anche Karroubi, l'altro candidato di opposizione, ha dichiarato che non accetta i risultati elettorali e che quindi considera «illegittimo» il nuovo governo, insistendo che «a causa delle irregolarità il voto dovrebbe essere annullato».

Ma intanto, all'interno del regime, la frattura non sembra ancora essersi ricomposta. Secondo alcuni giornali iraniani, sarebbero addirittura 185 su 290 (i due terzi) i parlamentari che hanno deciso di non partecipare alle celebrazioni per la vittoria di Ahmadinejad, mentre l'ayatollah Montazeri si è espresso a favore dei manifestanti: «Se il popolo iraniano non può rivendicare i suoi diritti legittimi in manifestazioni pacifiche e viene represso, la crescita della frustrazione potrebbe arrivare a distruggere le fondamenta di qualsiasi governo, non importa quanto forte», è la dichiarazione inviata via fax all'AFP, in cui si rivolge anche alle autorità: «Tornate a ragionare e non allontanate il popolo dallo Stato e dalla religione islamica. Sicuramente la vostra condotta non giova all'Islam e macchia la nostra religione. Saranno tante le persone che, osservando il vostro operato, sotto il nome dell'Islam, si allontaneranno dalla religione. Riflettete prima che sia troppo tardi».

Un'altra figura religiosa di spicco della città santa di Qom, l'ayatollah Tabrizi, vicino a Rafsanjani, sfida l'autorità del Consiglio dei Guardiani, dicendo che «non è un organo indipendente e neutrale per potersi permettere di verificare l'esistenza di possibili brogli elettorali», e sostenendo la proposta di Mousavi di formare «un comitato saggio e neutrale, capace di verificare la regolarità delle elezioni, garantendo così il diritto di rappresentanza dei cittadini».

Wednesday, June 24, 2009

La Repubblica islamica non sarà mai più la stessa/2

E' bene intendersi sulle aspettative che è realistico nutrire riguardo la crisi in corso in Iran, soprattutto alla luce delle ultime tragiche notizie che ci giungono da Teheran. Se è l'immagine romantica della piazza che in una notte rovescia la dittatura degli ayatollah che aspettiamo, prima di chiamarla rivoluzione democratica, o prima di riconoscere qualche possibilità di un cambiamento effettivo, rimarremo sempre delusi. Il regime ha la forza per reprimere i manifestanti e lo sta facendo. Il movimento popolare deve spingere, accompagnare, ma si deve aprire una breccia dall'interno, nell'elite. Una breccia simile a quella aperta da Gorbacev, che con le sue riforme voleva conservare il regime comunista e di certo non far crollarel'Urss, ma proprio quello è stato l'inevitabile esito della sua glasnost. Solo in questo modo un regime spietato come quello degli ayatollah può cadere, e non dall'oggi al domani.

Bisogna ammettere che in una sola settimana Mousavi (personaggio dal curriculum nient'affatto democratico) ha fatto molto di più di Khatami in quattro anni. Ha sfidato in modo inaudito e impensabile l'autorità della Guida Suprema e del Consiglio dei Guardiani. Ha offerto per dieci giorni uno sbocco politico alla frustrazione e alle istanze di libertà popolari. E questo rimarrà nella memoria degli iraniani. La mia impressione è che sì, magari Mousavi e Rafsanjani usciranno battuti oggi, e saranno costretti ad abbassare il livello dello scontro, ma che la fronda interna continuerà. Bisognerà vedere se il regime avrà la forza di compiere una repressione, e un'epurazione al suo interno, pari a quelle di cui fu capace il Partito comunista cinese dopo Tienanmen, ma ho i miei dubbi.

Dopo Taheri e Gerecht nei giorni scorsi, oggi altri due autorevoli analisti che difficilmente rientrano nella categoria degli illusi, vedono una spaccatura reale e non facilmente ricomponibile nell'elite che ha gestito il potere in Iran fino ad oggi in modo compatto. Anche secondo Edward Luttwak, comunque si concluderà questa crisi, «il regime iraniano non sarà mai più lo stesso».

«A questo punto, solo il futuro di breve termine del regime è in dubbio. Le attuali proteste potrebbero essere represse, ma le istituzioni non elette del regime clericale sono state fatalmente minate». In ogni caso, «non è un regime che può durare per molti anni ancora», secondo Luttwak. Le forze di sicurezza possono controllare e reprimere la piazza, ma «ciò che ha minato la struttura stessa della Repubblica islamica è la frattura nella sua elite dirigente. Le stesse persone che crearono le istituzioni del regime clericale stanno distruggendo la loro autorità». Anche per Luttwak è molto significativo che per la prima volta importanti esponenti del regime abbiano sfidato apertamente l'autorità di Khamenei e del Consiglio dei Guardiani, le due istituzioni su cui si regge tutta l'impalcatura di potere khomeinista e senza le quali l'Iran «sarebbe una normale democrazia».

«E' evidente che dopo anni di umiliante repressione sociale e cattiva gestione dell'economia, i settori più istruiti e produttivi della popolazione hanno voltato le spalle al regime». Ciò che però ancora manca a questo movimento è un leader carismatico. Se il suo «coraggio» nel resistere alle pressioni «ha certamente accresciuto la sua popolarità, tuttavia Mousavi è ancora niente di più che il simbolo involontario di una rivoluzione politica emergente». Nonostante questo, dice Luttwak, «se Mousavi avesse vinto», anche modeste aperture avrebbero «innescato richieste di un maggiore cambiamento, alla fine facendo cadere l'intero sistema del regime clericale». Quindi, per Luttwak, anche se uomo interno all'establishment, Mousavi avrebbe potuto svolgere (e potrebbe in un futuro prossimo svolgere) un ruolo simile a quello svolto, suo malgrado, da Gorbacev, le cui riforme «molto caute, pensate per perpetuare il regime comunista, finirono per distruggerlo in meno di cinque anni». In Iran, osserva Luttwak, «il sistema è molto più giovane e il processo sarebbe stato probabilmente più rapido».

Per il momento, come dimostrano anche gli ultimi sviluppi, Khamenei sembra avere saldamente in mano il potere, ma è anche «nella posizione insostenibile a lungo di dover sostenere un presidente la cui autorità non è accettata da molte delle istituzioni di governo. Quindi, anche se rimane in carica, Ahmadinejad non può funzionare come presidente». Per esempio, Luttwak ipotizza ostruzionismo parlamentare da parte degli oppositori: non è detto, per prima cosa, che il Parlamento ratifichi le sue nomine ministeriali. Insomma, «anche se Khamenei non viene rimosso dal Consiglio degli Esperti e Ahmadinejad non viene rimosso da Khamenei, il governo continuerà ad essere paralizzato», sempre che la frattura all'interno dell'elite persista. «La buona notizia - conclude Luttwak - è che sotto il meccanismo di erosione del regime clericale, le istituzioni essenzialmente democratiche in Iran sono vive e vegete e necessitano solo di nuove elezioni».

Un altro che non fa certo parte dei sognatori democratici è Robert Kaplan, che sul Washington Post addirittura si spinge oltre l'Iran: «Le manifestazioni a Teheran e in altre città hanno la capacità di preludere a una nuova era politica in Medio Oriente e in Asia centrale». Kaplan ricorda la storica capacità dell'Iran (e della Persia) di influenzare tutta la regione, che risale nei secoli a molto prima della rivoluzione khomeinista; inoltre, per molti aspetti la società iraniana è più evoluta di quelle dei suoi vicini arabi:
«Il movimento democratico in Iran è sorprendentemente occidentale nella sua organizzazione e nel sofisticato uso della tecnologia. In termini di sviluppo, l'Iran è più vicino alla Turchia che non alla Siria o all'Iraq. Mentre questi ultimi vivono nella possibilità dell'implosione, l'Iran ha una coerenza interna che gli permette di esercitare una forte pressione sui suoi vicini. Nel futuro, un Iran democratico potrebbe esercitare su Baghdad un'influenza tanto positiva quanto è stata negativa quella delle squadracce assassine dell'Iran teocratico».
Dunque, osserva Kaplan, «l'Iran è così centrale per le sorti del Medio Oriente che anche un cambiamento parziale nel comportamento del regime - e un maggior grado di sfumature nel suo approccio nei confronti dell'Iraq, del Libano, di Israele e degli Stati Uniti - potrebbe avere un effetto drammatico sulla regione. Proprio come un leader radicale iraniano può fomentare le Arab streets, un riformatore può stimolare l'emergente, ma stranamente opaca, borghesia araba». Per questo Kaplan non è d'accordo con Obama quando dice che tra Mousavi e Ahmadinejad in fondo non c'è tutta questa gran differenza. Questa «rappresentazione» di Mousavi come di «un radicale, sebbene all'apparenza più gentile e affabile di Ahmadinejad, non coglie il punto». Anche Kaplan ricorre al paragone con la ex Unione sovietica. Come nell'Urss, anche in Iran infatti «il cambiamento può arrivare solo dall'interno; solo da un insider, sia un Mousavi o un Gorbacev».

Tolti i freni alla repressione

Il via libera ad una repressione brutale, senza più freni, che in queste ore - secondo quanto riferisce la Cnn (i racconti dei testimoni sono terrificanti) - sarebbe in corso a Teheran, è un brutto segno. Significa che Khamenei si sente sicuro del suo potere, che non teme congiure o insidie dall'interno dell'establishment clericale. E quindi, farebbe pensare che l'offensiva di Rafsanjani per ora sia stata respinta. Speriamo si sbagli, ma se la repressione prende la piega di una Tienanmen, può significare che il regime ha al suo interno l'unità e la compattezza per permetterselo. Oppure, che il numero dei manifestanti in strada è sceso a poche centinaia, tale da rendere fattibile l'uso di una violenza spropositata sui pochi malcapitati.

Da parecchie ore, intanto, Mousavi è in silenzio. Potrebbe essere agli arresti o comunque non in grado di comunicare liberamente.

UPDATE ore 18:51
Crescono le voci di arresti domiciliari per Mousavi, Karroubi, e anche Khatami. "Se mi arrestano, scioperate", disse alcuni giorni fa Mousavi temendo di non riuscire più a comunicare con il movimento.

Obama comincia a ritirare la mano?

Dalla conferenza stampa di ieri mi è sembrato che Obama abbia indurito i toni di condanna, abbandonato le imbarazzanti cautele iniziali (anche perché le accuse di ingerenza sono arrivate lo stesso), e cercato di "scaldare" il suo messaggio di vicinanza ai manifestanti, ma che nella sostanza la sua linea non sia cambiata: non intromissione e mano tesa al regime. Il Washington Post, invece, vede già un «cambiamento» nella politica di Obama sull'Iran.

La crisi non finirà molto presto, scrive il WP. Nonostante la repressione, il movimento popolare rimane «vivo», ma soprattutto «la divisione tra hard-liners e moderati ai piani alti del potere rimane aperta e irrisolta». Quindi, «la posta in gioco alta e la probabilità che la crisi prosegua per settimane e mesi richiede un cambiamento fondamentale nell'atteggiamento degli Stati Uniti». Lo credo anch'io, ma a riguardo non sono così ottimista come il WP, che vede Obama non solo «schierarsi senza ambiguità con il popolo iraniano che reclama giustizia», ma anche declinare in modo diverso dal passato la sua offerta di dialogo. «Come declinato più di recente dal presidente, l'engagement non è una iniziativa degli Stati Uniti - osserva il giornale - ma "una strada nella disponibilità dell'Iran", legata a "come trattano il dissenso al loro interno", anche se finora, come ha notato il presidente, "ciò che abbiamo visto non è incoraggiante rispetto al cammino che questo regime può decidere di intraprendere"».

Secondo il WP, dunque, Obama starebbe comprendendo «la realtà di quanto è accaduto nei giorni scorsi». «La rivolta popolare, se continua, potrebbe provocare cambiamenti straordinari in Iran e in Medio Oriente». Ma anche solo «un rafforzamento dei moderati all'interno dell'elite clericale potrebbe servire ad allentare le tensioni regionali - anche se non necessariamente porterebbe all'abbandono del programma nucleare iraniano». Nel caso in cui Khamenei riuscisse invece a «restaurare l'ordine con la forza», il Washington Post vede la stessa prospettiva che indicavo nel mio post di ieri sera: «Le già scarse possibilità del riavvicinamento all'Occidente sarebbero prossime allo zero, qualsiasi siano le tattiche dell'amministrazione». Per questo, a mio modo di vedere, la strategia del dialogo sul nucleare con l'attuale leadership iraniana è ormai stata spazzata via dagli eventi e all'amministrazione non resta che prenderne atto prima possibile.

Tuesday, June 23, 2009

La mano di Obama è ancora tesa

Dall'attesa conferenza stampa di oggi del presidente Obama nessuna novità di rilievo sull'Iran. Aveva già corretto la sua linea alcuni giorni fa, in un'intervista alla CBS e con un comunicato, ribadendo la non intromissione e l'offerta di dialogo, ma chiarendo finalmente che l'America è al fianco di chi reclama diritti «universali». E per ora il presidente Usa è fermo a quella linea. Però ha indurito i toni, la sua condanna dell'uso della violenza sui manifestanti, e si è espresso in modo meno distaccato, mostrando più indignazione e maggiore vicinanza («deploriamo la violenza contro civili innocenti ovunque questo accada»; «siamo sbigottiti e oltraggiati dalle minacce, dai pestaggi e dagli arresti» le cui immagini si vedono in tv e ci giungono sui computer). Ha citato anche la tragica fine di Neda («una donna che moriva dissanguata in mezzo alla strada») per rafforzare il suo sdegno.

Obama ha respinto con forza le accuse di aver istigato la rivolta («clamorosamente false e assurde») lanciate da Ahmadinejad, Khamenei e dal Consiglio dei Guardiani, all'indirizzo degli Stati Uniti e di altri paesi occidentali, smascherando efficacemente l'abusata propaganda del regime: si tratta di «un ovvio tentativo di distrarre la gente da ciò che sta realmente accadendo entro i confini iraniani. Questa stanca strategia di usare vecchie tensioni per fare di altri Paesi i capri espiatori non funziona più in Iran. In ballo adesso non vi sono gli Stati Uniti o l'Occidente. Ma gli iraniani e il futuro che loro, solo loro, sceglieranno».

Ha ribadito quindi che gli Stati Uniti sono solo «testimoni» («rispettano la sovranità della Repubblica islamica dell'Iran e non intendono intromettersi negli affari interni del Paese»), ma non ha nascosto che il cuore dell'America batte per i manifestanti: «Chi chiede giustizia è dalla parte giusta della storia». Eppure, la testa continua a suggerire non intromissione e «strada ancora aperta» al dialogo: «Quello che abbiamo visto negli ultimi giorni, nelle ultime settimane, non è ovviamente incoraggiante», ma «continuiamo ad aspettare».

Certo è che la strada del dialogo si fa sempre più impervia anche per Obama e non è escluso che la strategia dell'engagement debba prima o poi essere rivista, o persino essere riposta in un cassetto già nelle prossime settimane. La mia impressione è che la strategia del dialogo sul nucleare con l'attuale leadership iraniana sia ormai stata spazzata via dagli eventi e che all'amministrazione non resti che prenderne atto prima possibile. Non solo e non tanto perché sedersi al tavolo con Khamenei e Ahmadinejad sia deplorevole dal punto di vista morale, ma perché le condizioni, anche da un punto di vista "realista", sono mutate.

Quella strategia si basa necessariamente sul riconoscimento della legittimità del regime, ma ora per uno strano scherzo del destino questa legittimità viene negata al regime dallo stesso popolo iraniano. Ed è un problema non facilmente trascurabile per l'amministrazione Usa. Inoltre, se il passato da hard-liner di Mousavi autorizza a nutrire forti dubbi sulle sue reali intenzioni, tuttavia metterlo sullo stesso piano di Ahmadinejad è un errore, come è stato un errore non considerare affatto il popolo iraniano come un potenziale attore politico.

Obama e i suoi consiglieri hanno creduto che Mousavi e i manifestanti non avessero alcuna chance contro Ahmadinejad e Khamenei e che quindi fosse inutile esporsi dalla loro parte, per poi ritrovarsi a dover dialogare con interlocutori indeboliti, innervositi e delegittimati. La cautela iniziale non è stata dettata dal timore che un appoggio esplicito dell'America potesse danneggiare l'opposizione, ma come ha osservato Robert Kagan, dal timore che appoggiando l'opposizione in qualsiasi modo Obama potesse apparire ostile al regime con il quale avrebbe dovuto dialogare.

Tuttavia, con il passare dei giorni è emerso in modo sempre più evidente che non si trattava di un fuoco di paglia. Gli iraniani continuano a scendere in strada nonostante la repressione, ma soprattutto l'alleanza Mousavi-Rafsanjani-Khatami non si è sciolta come neve al sole dopo il discorso di Khamenei di venerdì scorso, ma ha sfidato apertamente l'autorità della Guida Suprema e sono in corso delle manovre - il cui esito non è ancora scontato - per portare la maggioranza del clero della città santa di Qom contro Khamenei e Ahmadinejad. E se il clero si sposta, pezzi delle forze militari e di sicurezza potrebbero seguirlo. Ma è tutto da vedere, i segnali che giungono dai vari Consigli (dei Guardiani e degli Esperti) sono contrastanti.

Insomma, la sfida di Mousavi e Rafsanjani alle parole, e agli ordini, di Khamenei ha colto molti di sorpresa anche nell'amministrazione Usa, e infatti da quel venerdì in poi Obama ha corretto la sua linea. A Washington si sono accorti che all'interno del regime la spaccatura è seria e profonda, che potrebbe durare ancora settimane o mesi, che l'autorità posta a fondamento stesso della Repubblica islamica è messa in discussione e che un cambiamento ai vertici, nonché nelle strutture di potere, non è da escludere. Almeno finché Mousavi e Rafsanjani tengono duro, come sembrano fino a questo momento intenzionati a fare.

Come ha fatto giustamente notare Reuel Marc Gerecht, se Ahmadinejad e Khamenei dovessero trionfare, non cederanno di un centimetro sul nucleare perché a quel punto per loro, e per le Guardie rivoluzionarie dietro di loro, le armi nucleari sarebbero la migliore garanzia di restare al potere, dal momento che non potrebbero più sperare di restarci con il consenso del loro popolo. Per questo, ma anche per la sua sorprendente reazione di sfida a Khamenei, ammesso che Mousavi sia mai stato uguale ad Ahmadinejad, sicuramente non lo è più adesso.

Dunque, se prima delle elezioni iraniane le chance di successo del dialogo sul nucleare con Ahmadinejad e Khamenei erano prossime allo zero, alla luce degli eventi di questi giorni sono sensibilmente diminuite e non sono molte di più di quelle di una loro rimozione. Insomma, quella del dialogo sul nucleare è una strategia che va abbandonata, se al potere rimangono Ahmadinejad e Khamenei, non solo per motivi morali, ma anche perché dopo questa crisi le loro paranoie sui complotti americani volti a rovesciare il regime non potranno che aumentare, rendendo ai loro occhi le armi nucleari ancora più irrinunciabili per restare al potere. A fronte di ciò, perseguire ancora il dialogo significherebbe probabilmente non ottenere alcun risultato se non quello di offrire al regime una legittimità che il popolo iraniano gli ha appena tolto.

La Repubblica islamica non sarà mai più la stessa

Le analisi di Amir Taheri e Reuel Marc Gerecht convergono nell'individuare negli ultimi sviluppi della crisi in Iran un salto di qualità tale da poter parlare di una vera «rivoluzione» in corso. Comunque andrà a finire, e qualsiasi siano le reali intenzioni di Mousavi e del cartello che lo sostiene, l'autorità della Guida Suprema, che è a fondamento dell'intero sistema khomeinista, è entrata in crisi, forse irreversibilmente. Gli iraniani, ma per la prima volta anche pezzi importanti dell'establishment come lo stesso Mousavi, sfidando la parola e gli ordini di Khamenei, hanno messo in dubbio la validità del principio del velayat-e faqih, su cui si fonda la Repubblica islamica. Hanno messo in dubbio, in definitiva, la natura divina della legittimazione del potere della Guida Suprema.

«Poco prima di mezzogiorno di venerdì 19 - scrive Amir Taheri - la Repubblica islamica è morta» e l'Iran si è «trasformato da una Repubblica islamica a un emirato islamico guidato da Khamenei». La sua decisione di «uccidere» la Repubblica islamica «può condurre l'Iran in acque inesplorate». L'establishment è «diviso come mai prima. Tutte le figure autorevoli dell'"opposizione leale", compresi gli ex presidenti Rafsanjani e Khatami, hanno boicottato il sermone di venerdì. Quasi metà dei membri del Parlamento, insieme alla maggior parte del Consiglio degli Esperti, erano assenti». Se Khamenei sperava di «intimidire» i manifestanti, ha dovuto presto ricredersi. «Ha cercato di dividere l'opposizione offrendo rassicurazioni a Rafsanjani», ma non c'è riuscito: Rafsanjani «ancora rifiuta di appoggiare la rielezione di Ahmadinejad». E Mousavi, nonostante l'aut-aut della Guida Suprema, e «virtualmente agli arresti domiciliari», continua a sostenere le proteste.

Khamenei ha ridotto a carta straccia l'autorità di cui è investito, posta dalla rivoluzione islamica al vertice del sistema. «Oggi ci sono due Iran», conclude Taheri:
«Uno pronto a sostenere il tentativo di Khamenei di trasformare la Repubblica in un emirato al servizio della causa islamica. Poi c'è un secondo Iran, desideroso di cessare di essere una causa e che aspira ad essere una nazione normale. Questo Iran non ha ancora trovato i suoi leader definitivi. Per ora, è pronto a scommettere su Mousavi. La lotta per il futuro dell'Iran è solo all'inizio».
Per Reuel Marc Gerecht «una cosa è chiara: siamo testimoni non solo di un'appassionante lotta di potere tra uomini che si sono frequentati intimimamente per 30 anni, ma anche del disfarsi della concezione religiosa che ha dato forma alla crescita del moderno fondamentalismo islamico... la volontà di Dio e la volontà popolare non sono più compatibili». Inoltre, aggiunge, «siamo testimoni» del «collasso delle fondamenta strutturali dell'intero approccio islamico» alla gestione del potere negli stati moderni.
«Dopo 9 anni da quando fu stroncato, il movimento riformista che sosteneva Khatami è diventato solo più forte. Ha portato tra le sue file Mousavi, una volta discepolo prediletto dell'ayatollah Khomeini, che oggi di tutta evidenza non ha alcun riguardo per Ahmadinejad, né per la Guida Suprema. Ciò che può sembrare più sorprendente è che così tanti preminenti rivoluzionari della prima ora si siano schierati con Mousavi. Ci sono molte ragioni, ma tra le principali c'è la crescente consapevolezza che la Repubblica islamica e la rivoluzione sono spacciate a meno che l'Iran non diventi più democratico. Può essere una speranza ingenua (come sembrava ai suoi inizi la glasnost), ma è una potente motivazione per coloro che hanno dato l'anima per rovesciare lo shah».
«Non è chiaro - ammette Gerecht - ciò che Mousavi pensa della democrazia, ma ci sono buone probabilità che voglia affidare al popolo più potere di quanto avesse intenzione Khatami, che malgrado alcune differenze non potrebbe né rompere davvero con i suoi confratelli del clero, né liberarsi della vecchia convinzione islamica secondo cui il fedele ha bisogno della supervisione da parte del clero. E anche se Mousavi non è il tipo ideale di riformatore, è circondato dai migliori e più brillanti iraniani... e anche presso il clero, le migliori menti, come il grande ayatollah Montazeri, hanno preso le distanze da Khamenei». Secondo Gerecht infatti, l'esperienza diretta della teocrazia ha convinto «brillanti chierici» della necessità della «separazione tra chiesa e stato come strumento per salvare la fede dal potere corruttore della politica».

«Che lo volesse o meno, Mousavi ha probabilmente dato inizio al conto alla rovescia finale» per la Repubblica islamica e ciò pone al presidente americano Obama una serie di «complicati problemi», di cui «dovrebbe prendere nota»: «All'interno dell'Iran, la questione nucleare non è ciò per cui la gente sta lottando. Sta lottando per la libertà. Anche se l'ayatollah Khamenei dovesse vincere questo round, il presidente dovrebbe mettersi dalla parte giusta della storia. Non ha nulla da perdere: la Guida Suprema non concederà mai nulla sul nucleare. E più il regime clericale diventerà impresentabile al suo interno, più diventerà impresentabile all'estero. Mousavi è la sola speranza di Obama», conclude Gerecht.

Sul Weekly Standard, lo stesso Gerecht approfondisce il tema: «Ci si è sempre chiesti se l'istituto del velayat-e faqih sarebbe sopravvissuto a Khamenei. Egli stesso ora ha dato abbastanza garanzie che non sopravviverà». «Non importa cosa accade - è convinto Gerecht - la Repubblica islamica come l'abbiamo conosciuta probabilmente è finita». Tutti i regimi, spiega, «hanno bisogno di una qualche legittimazione per sopravvivere, e la Repubblica islamica si reggeva su due pilastri»: la convinzione che gli iraniani continuassero a sostenere la rivoluzione islamica e le basi essenziali del suo sistema politico; l'adozione del clero come strumento di legittimazione della Repubblica. «Se nelle prossime settimane - prevede Gerecht - Khamenei commette l'errore di dare luce verde al massacro dei giovani iraniani nelle strade, probabilmente perderà il sostegno del clero, tutto tranne il più retrogrado, che però non è rappresentativo dell'establishment. Un golpe da parte delle Guardie della Rivoluzione verrebbe visto come un assoluto disastro dalla maggior parte dei mullah, che hanno gelosamente custodito la loro posizione preminente nella società».

E allora, «il più importante esperimento di ideologia islamista dalla nascita della Fratellanza musulmana si rivelerà - agli occhi del suo stesso popolo, dei guardiani della fede, e del mondo intero - un fallimento». A meno che Mousavi non si ritiri e non riporti la calma tra i suoi sostenitori, la rivoluzione islamica, «che fu uno shock per il mondo musulmano 30 anni fa, diventerà o un vero laboratorio di democrazia, o una brutale e violenta dittatura paragonabile per la sua ferocia ai regimi baathisti in Iraq e in Siria». In entrambi i casi non sarà mai più la stessa e, soprattutto, perderà la sua legittimazione religiosa.

Ma perché ci sia «qualche possibilità» che l'Iran «desista» dal nucleare, avverte Gerecht, «Mousavi deve vincere questa battaglia. Se Ahmadinejad e Khamenei trionfano, non cederanno. Per loro, e per le Guardie rivoluzionarie dietro di loro, le armi nucleari sono il mezzo per diventare attori globali e la migliore garanzia di restare al potere», non potendo più sperare di restarci con il consenso del loro popolo. «Anche se Mousavi non è nostro amico - e si rivelasse essere in molti casi nostro nemico - dovremmo tutti augurarci che vinca» e Obama «farebbe bene ad essere più determinato nel difendere la democrazia per un popolo che si è guadagnato il suo rispetto. Gli iraniani - è convinto Gerecht - perdoneranno al presidente l'intromissione».

Monday, June 22, 2009

Mousavi e Ahmadinejad un po' meno uguali

La scorsa settimana ho cercato di capire qualcosa di più su quanto sta avvenendo ed è in gioco in Iran soffermandomi sui «dilemmi» di tre personaggi (Khamenei, Obama, Mousavi). Tutti e tre negli ultimi giorni hanno mosso dei passi in una delle direzioni che indicavo, con alcune sorprese: Khamenei ha deciso di appoggiare Ahmadinejad e di appoggiarsi all'ala dura e militarista del regime; Mousavi, sorprendendoci, ha deciso di non piegarsi e di sfidare l'autorità della Guida Suprema; Obama di schierare esplicitamente l'America «al fianco di chi reclama giustizia in modo pacifico» (intervista alla CBS).

Il dato politico che mi pare emergere da questi ultimi due giorni di manifestazioni e scontri (è ragionevole sospettare che i morti siano dieci volte tanti quelli denunciati dal regime, quindi un centinaio), è che - contrariamente a quanto temevo dopo il discorso di Khamenei venerdì scorso - Mousavi oggi è un po' meno uguale ad Ahmadinejad, e che Obama sembra essersene accorto. La differenza tra Ahmadinejad e Mousavi, che pochi giorni fa il presidente Usa definiva «non tanto grande come appare», si va ingrandendo di giorno in giorno. Come ha ben spiegato Angelo Panebianco nel suo editoriale di domenica sul Corriere della Sera, l'equiparazione tra i due con la quale Obama ha inizialmente giustificato la sua cautela è superata dagli ultimi eventi: «Se, come allo stato degli atti sembra probabile... il regolamento di conti in atto mettesse completamente fuori gioco le componenti più moderate del regime, la politica estera iraniana diventerebbe ancora più pericolosa di come oggi è». Se una vittoria (ad oggi improbabile) di Mousavi non significherebbe automaticamente democrazia e abbandono del programma nucleare iraniano, il dominio assoluto di Khamenei e Ahmadinejad, in un contesto di instabilità interna e condanna internazionale, significherebbe quasi certamente una politica estera ancor più minacciosa ed aggressiva.

Ammesso che Ahmadinejad e Mousavi siano mai stati uguali, ciò non è più vero dopo le ultime prese di posizione di quest'ultimo. Sia pure mantenendo i piedi per terra, Mousavi mi ha sorpreso. Credevo che dopo il discorso di Khamenei di venerdì si preparasse a rientrare nei ranghi. E invece ha sfidato apertamente l'autorità della Guida Suprema, non accogliendo l'invito, o meglio l'ordine, impartito nel discorso di venerdì, di non appoggiare le manifestazioni; ha addirittura incoraggiato la popolazione a manifestare ed è sceso in piazza con i manifestanti; si è dichiarato «pronto al martirio» e ha continuato a chiedere l'annullamento delle elezioni, denunciando che «i brogli erano pianificati da mesi». L'arresto della figlia e di quattro suoi parenti farebbe pensare che neanche l'ex presidente Rafsanjani abbia raggiunto un compromesso con Khamenei, voltando le spalle a Mousavi, come temevo venerdì scorso.

La notizia è che nonostante tutto il peso dell'autorità di Khamenei, l'alleanza Mousavi-Rafsanjani-Khatami sembra ancora in piedi e intenzionata a lottare fino al punto di correre il rischio di assestare una ferita mortale alla legittimità dell'intero sistema. Non importa se la loro intenzione è quella di governare, e non rovesciare, la Repubblica islamica. Di fatto, insieme ai manifestanti, la stanno picconando.

Pur con tutti i dubbi sul suo passato da "duro" del regime, non si possono sottovalutare gli enormi, inaspettati e irreversibili passi compiuti da Mousavi negli ultimi giorni. Anche se da una sua eventuale (e ancora improbabile) vittoria nella prova di forza contro Khamenei e Ahmadinejad non possiamo certo aspettarci una rivoluzione democratica, sarebbe comunque realistico aspettarci l'apertura di una breccia consistente all'interno del sistema khomeinista, paragonabile alle brecce aperte da Gorbacev, che in pochi anni portarono alla caduta del Muro e alla fine dell'Urss anche al di là e contro le sue intenzioni.

Il presidente Obama sembra averlo intuito e pur sottolineando il ruolo da meri "osservatori" degli Stati Uniti e della comunità internazionale («the world is watching»; «we are bearing witness... and we will continue to bear witness»), è stato però esplicito nell'indicare da che parte sta l'America: «I diritti universali a riunirsi e la libertà d'espressione devono essere rispettati e gli Stati Uniti stanno al fianco di tutti coloro i quali cercano di esercitare questi diritti». Come prevedevamo, infatti, le pretese cautele di Obama (se davvero la preoccupazione del presidente era quella di non danneggiare le opposizioni) sono state ininfluenti. Nel senso che da giorni il regime fa ricorso al complotto internazionale per delegittimare le proteste, ma ciò non è servito a placare gli animi e a ricompattare l'establishment. L'ala "riformista" del regime, che conosce bene l'uso propagandistico del nemico esterno, non si è fatta irretire.

Friday, June 19, 2009

Ritorno al regime change

Il commento di oggi di David Brooks, sul New York Times, merita di essere citato, non solo per la sua solita lucidità ma stavolta anche per quella che mi sembra una contraddizione. Ci sono alcuni momenti - pochi - nella storia, in cui il potere non risiede solo nei vertici, ma è «radicalmente disperso», scrive Brooks. «La vera trama si dipana nelle strade» e «il corso futuro degli eventi è al massimo grado di incertezza», tanto da poter essere determinato da semplici «sguardi» in un senso o nell'altro:
The fate of nations is determined by glances and chance encounters: by the looks policemen give one another as a protesting crowd approaches down a boulevard; by the presence of a spontaneous leader who sets off a chant or a song and with it an emotional contagion; by a captain who either decides to kill his countrymen or not; by a shy woman who emerges from a throng to throw herself on the thugs who are pummeling a kid prone on the sidewalk.
«I cambiamenti più importanti avvengono in modo invisibile nelle teste delle persone... piccoli gesti uniscono una folla e simboleggiano un futuro diverso, come il momento in cui Mousavi teneva le mani di sua moglie in pubblico». In momenti come questi, osserva Brooks, «i politici e i consiglieri nel governo degli Stati Uniti quasi sempre si ritirano nella passività e nella cautela», in parte per prudenza giustificata dall'incertezza, in parte per deformazione professionale. Agli analisti sfugge l'irrazionalità del momento e, quindi, quanto rapido e inaspettato può risultare un cambiamento: «A posteriori, tutte le rivoluzioni sembrano inevitabili. Prima, tutte sembrano impossibili» (Michael McFaul).

Detto questo, David Brooks approva il comportamento dell'amministrazione Obama, la quale sembra aver capito che «la lezione principale di questi eventi è che il regime iraniano è fragile... Gli iraniani nelle strade lo sanno. Il mondo lo sa». «D'ora in poi - continua Brooks - la questione centrale delle relazioni Iran-Occidente non sarà il programma nucleare. Il regime è più fragile del programma. E' più probabile che cada prima del programma. Il tema centrale sarà la sopravvivenza stessa del regime». I paesi occidentali dovranno quindi elaborare «politiche a più piste non solo per affrontare l'Iran su temi specifici, ma anche per provare a minare la sopravvivenza stessa del regime». Lo stesso approccio di Reagan nei confronti dell'Unione sovietica, che «non significa non parlare con il regime; Reagan parlava ai sovietici». Le elezioni iraniane «hanno azionato un vortice che porterà, un giorno, al collasso del regime. Avvicinare quel giorno è ora l'obiettivo centrale».

La stranezza dell'argomentazione di Brooks è che se davvero adesso, come lui dice, non è più il nucleare ma la caduta del regime, l'obiettivo su cui dovrebbero concentrarsi gli sforzi politici dell'Occidente, a maggior ragione l'amministrazione Obama appare fuori strada, più preoccupata com'è di non interferire per non compromettere la tenue speranza del dialogo sul nucleare.

Il problema è che, come Charles Krauthammer, sono personalmente convinto che ci siano «zero possibilità» (o quasi) di impedire all'Iran di dotarsi di armi nucleari con i negoziati e che «la sola speranza per risolvere la questione del nucleare è il regime change, che potrebbe porre fine al programma o renderlo gestibile e non minaccioso». Dato che il bombardamento sarebbe un mezzo probabilmente inefficace per neutralizzare il programma nucleare, e il regime change usando la forza non è praticabile, che cosa ci resta come arma se non il popolo iraniano?

Il dilemma di Mousavi

Nel suo discorso di oggi - e c'è da ritenere anche in conversazioni private - Khamenei ha ultimativamente chiesto a Mousavi di abbandonare la piazza ed è molto difficile pensare che a questo punto Mousavi decida di sfidare l'ordine esplicito della Guida Suprema, che lo porrebbe al di fuori del sistema, tra i "nemici" della Repubblica islamica. A breve dovrebbe prendere una decisione sulla manifestazione di domani, per la quale le autorità hanno già negato l'autorizzazione.

Pare che con Mousavi, privatamente, Khamenei abbia toccato il tasto del suo passato, per convincerlo a non unirsi a Rafsanjani contro di lui, suggerendogli che Rafsanjani e i suoi ambienti lo stanno semplicemente usando. Gli avrebbe ricordato i suoi anni da primo ministro (1981-89), quando era uno dei più radicali, un po' come Ahmadinejad oggi, e quando Rafsanjani, da presidente del Parlamento, lo boicottava sistematicamente, finché eletto presidente lo fece del tutto fuori dalla vita politica del paese.

Se a ciò si aggiunge che la Guida Suprema nel suo discorso ha lanciato un chiaro messaggio di pace a Rafsanjani, in sostanza rassicurandolo che nessuno intende toccare lui o la sua famiglia - l'unico passaggio in cui ha contraddetto Ahmadinejad («Non accetto le accuse di corruzione lanciate a Hashemi Rafsanjani. Rafsanjani è un'alta personalità che ha dato il suo sostegno alla Rivoluzione e non si può parlare male di lui») - potrebbe essere davvero riuscito a rompere il cartello dei suoi oppositori (Mousavi-Rafsanjani-Khatami).

Da pragmatico quale è, infatti, è probabile che Rafsanjani recepisca il messaggio e si ritiri nell'ombra, aspettando la prossima occasione, se ce ne sarà, e nel frattempo continuando a tessere i suoi rapporti negli apparati clericali per contenere Khamenei o giungere ad un compromesso. Senza troppi problemi potrebbe quindi voltare le spalle a Mousavi e all'ex presidente Khatami, con i quali dopo tutto aveva stretto un'alleanza tattica.

Mousavi a questo punto deve compiere la sua scelta. Se piegherà la testa, tradirà le aspettative di cambiamento di milioni di iraniani come già in precedenza Khatami; se sfiderà l'autorità di Khamenei guidando la manifestazione di domani, va incontro alla repressione, ma nonostante il suo passato oscuro sarà accaduto in Iran qualcosa di veramente nuovo: le istanze di libertà avranno finalmente trovato un leader anti-sistema e a quel punto a Washington e in Europa ho l'impressione che qualche strategia dovrà essere riconsiderata.

E' senz'altro vero che Mousavi, almeno fino ad oggi (e se domani non ci sorprende), non è un leader democratico da cui ci si possa aspettare un regime change, e che rappresenta un cartello tutt'altro che anti-sistema, come ho cercato di spiegare in tutti i post precedenti su questa crisi. Ma è pur vero che non si possono liquidare allo stesso modo le manifestazioni oceaniche viste da lunedì a ieri (per la prima volta dal 1979). Ed è quello, finora, l'unico fatto nuovo, che dovrebbe essere maggiormente considerato. Non mi sembra verosimile che i milioni di iraniani che hanno votato per Mousavi dopo quella campagna elettorale, in cui centrale è stata la figura della moglie, e il milione di persone scese nelle strade per giorni nella sola Teheran, possano considerarsi alla stregua di un esercito personale di una figura per altro semi-sconosciuta perché assente dalla scena da vent'anni.

Quelli non sono numeri da scontro tra fazioni e dignitari del regime, ma da "rivoluzione". E' probabile che quei milioni di iraniani domani mattina si ritroveranno di nuovo senza un leader, ma non c'è dubbio che le elezioni e i brogli hanno fornito lo spazio politico, il pretesto, per l'eruzione di istanze e sentimenti repressi che vanno ben oltre l'elezione di Mousavi e le sue stesse intenzioni. Sono istanze di libertà e sentimenti anti-regime, che vanno oltre il programma e il passato politico di Mousavi, che per ora è solo un accidente, un pretesto. E' una crisi che investe per la prima volta l'autorità della Guida Suprema, la legittimità del regime, e quindi la sua tenuta. Indipendentemente da come andrà a finire, oggi sappiamo che per davvero gli iraniani detestano il regime, che tra la società iraniana e la sua leadership c'è ormai una distanza incolmabile, che il fondamento stesso dell'autorità è in crisi profonda. Queste sono cose sulle quali fino a ieri forse solo Ledeen scommetteva. Forse davvero non bisogna chiedersi se, ma quando.

Aut-aut a Mousavi e ai suoi

Khamenei ha deciso: sta con Ahmadinejad, ordina di porre fine alle manifestazioni, ma non dichiara i candidati dell'opposizione (almeno per ora) nemici della Repubblica islamica. E forse, in questo senso, nelle sue intenzioni si tratta di un'offerta di riconciliazione, di parole a loro modo pacificatrici, per calmare gli animi e dire: in fondo siamo tutti fedeli alla rivoluzione. Tutti i candidati «sono figli ed elementi di questo sistema», dice, la competizione è stata interna, «non tra la Rivoluzione e i nemici ma tra componenti dello stesso sistema». Ma ha anche fatto capire che la sua pazienza sta per finire. Ha infatti ordinato di «porre fine» alle manifestazioni e minacciato i manifestanti che se continueranno «saranno puniti», chiedendo ai candidati dell'opposizione di «assumersi la responsabilità di fermare questo comportamento, che non è giusto e dà origine a caos».

«Forse c'è stata qualche irregolarità», ha concesso la Guida Suprema, ma «il margine della vittoria è stato ampissimo», «non è falsificabile», e comunque, se ci sono dubbi, questi vanno sciolti «seguendo la legge». «Non accettiamo azioni al di fuori della legge», ha aggiunto riferendosi evidentemente all'uso della piazza. Ha quindi, nella sostanza e nel loro esito, difeso la regolarità delle elezioni, assicurando che la Repubblica islamica «non tradisce il voto del popolo» e che «il sistema di voto in questo paese non consente i brogli». Affermazioni che credo agli iraniani appareranno ridicole, come questa volta non si berranno le accuse rivolte ai «nemici stranieri» - l'Occidente, l'America, la Gran Bretagna e gli europei sono stati direttamente chiamati in causa - che «si erano preparati» a mettere in dubbio la regolarità del voto «per arrecare danno al sistema vigente», per incrinare «la fiducia del popolo nella Repubblica».

Ma «il popolo ha scelto chi voleva» come presidente dell'Iran, ha detto Khamenei, facendo così intendere che in nessun modo dal riconteggio parziale uscirà un ballottaggio. Ha difeso Ahmadinejad («sono da respingere le false accuse immoralmente avanzate contro il presidente») e l'unica concessione ai suoi oppositori (con un occhio di riguardo al clero di Qom) è stata la difesa di Rafsanjani dalle accuse ricevute da Ahmadinejad in campagna elettorale: «Non accetto le accuse di corruzione lanciate a Hashemi Rafsanjani. Rafsanjani è un'alta personalità che ha dato il suo sostegno alla Rivoluzione e non si può parlare male di lui». Rafsanjani si acconteterà di queste parole?

Evidentemente Khamenei ha ancora fiducia nel suo potere, spende tutta la sua autorità a garanzia della regolarità del voto, e crede di avere la forza per far rientrare pacificamente nei ranghi Mousavi e gli altri oppositori. Vedremo dalla loro reazione se dietro il discorso di oggi c'è già un possibile compromesso, o se si è trattato di un azzardo della Guida Suprema. In ogni caso, è un aut-aut per Mousavi: fuori o dentro. Se continua a sostenere le manifestazioni, si pone al di fuori, tra i nemici della Repubblica islamica.

Quanta strada da Campo de' Fiori a Piazza Farnese

Quanta strada ha fatto Emma Bonino da Campo de' Fiori a Piazza Farnese! A poco più di un anno di distanza le poche parole pronunciate in due manifestazioni, quella del 19 marzo 2008 per il Tibet, a Campo de' Fiori, e quella di pochi giorni fa per l'Iran, a Piazza Farnese, sembrano appartenere a due persone diverse. Chi non conosce Roma può pensare che le due piazze siano molto distanti tra di loro, mentre sono a poche decine di metri. Bisogna quindi dedurre che la distanza è quella che c'è dalla poltrona di ministro a leader dell'opposizione. Evidentemente c'è una Bonino di lotta e una di governo. Versione del 17 giugno 2009:
«... mi rivolgo e vedo molti colleghi parlamentari anche della maggioranza: siamo proprio sicuri che vale la pena di invitare il leader iraniano? [al G8 ministeriale di Trieste, n.d.r.]... Siamo proprio sicuri che non è il caso di ripensarci, che non è il caso semmai di dare un segno? Che non è il segno né dell'isolamento, né dell'ostracismo né del bombardamento ma è un segno che dica ci sono limiti che non intendiamo avallare, ci sono violenze che non intendiamo dimenticare, ci sono repressioni che segnano una differenza, siamo differenti. Lo chiedo perché questa sarebbe un'occasione anche di fare delle cose insieme per il bene e per i diritti civili... già, credo, abbiamo ricevuto fin troppi dittatori con sfarzi degni di migliore causa. Forse non ripetere l'errore potrebbe essere utile a tutti».
Una «differenza» che evidentemente la repressione di un anno fa in Tibet non segnava, visto che il 19 marzo 2008 la Bonino con queste parole si dichiarava contraria a qualsiasi minaccia di boicottaggio delle Olimpiadi di Pechino:
«Probabilmente sarò molto meno applaudita di Bonelli, ma io penso che di fronte a problemi complessi il problema non è a chi le spara più grosse... il problema non è neanche della buona coscienza a buon mercato, soprattutto se la pagano altri. Il problema è forse quello di sostenere con un po' di umiltà non quello che noi pensiamo il meglio, ma intanto quello che il Dalai Lama chiede. E in tutti gli incontri che io ho avuto... mai, mai il Dalai Lama ci ha chiesto di isolare la Cina. Vorrei anche - tanto per non essere applaudita - dirvi che il problema più grosso è non dimenticare. Vedete, tre giorni di emozioni per la Birmania se lo ricorda ancora qualcuno? 24 ore per lo Zimbabwe, qualcuno ha insistito a fare qualcos'altro? Abbiamo isolato la Corea del Nord [*], qualcuno per caso gli punge vaghezza? Il nostro modo migliore, e il più facile, sembra apparentemente quello più netto. Il nostro problema non è punire centinaia di milioni di cinesi che stanno affacciandosi a un minimo di benessere... Non c'è nessuna ricetta miracolistica, c'è da inventare e perseguire nuovi strumenti costosi, anche personalmente».
«Tra le cose che il Dalai Lama chiede c'è di essere ricevuto dai governi», chiosava al termine dell'intervento Antonio Polito, facendo notare che il Governo Prodi, di cui la Bonino faceva parte, non l'ha ricevuto. Inoltre, quando durante la visita di un'ampia delegazione governativa italiana in Cina, nel settembre del 2006, Prodi arrivò persino a garantire il suo appoggio alla richiesta cinese di revocare l'embargo europeo sulle armi, in vigore dal massacro di Piazza Tienanmen, la Bonino non fece e non disse nulla, se non difendere anche in Parlamento, nei giorni successivi, la posizione espressa da Prodi sull'embargo.

«Ci sono momenti in cui bisogna dire basta», dichiara oggi la Bonino sempre a Piazza Farnese, commentando con un cronista il ministro degli Esteri Frattini, secondo cui «ci sono le condizioni perché l'Iran partecipi alla riunione ministeriale del G8 a Trieste». «Se anche di fronte ad episodi come quelli che stanno avvenendo in Iran in questi giorni non c'è una presa di distanza, è un messaggio grave per i democratici che nella democrazia hanno creduto, anche se siamo in una fase di real politik a tutto spiano».

Adesso è il momento di dire «basta» all'Iran, cancellando una presenza tutto sommato poco significativa - ma qui pensiamo che quel momento sia giunto da molto tempo - ma un anno fa, dopo la repressione in Tibet non era il caso di dire «basta» alla Cina? Non solo la Bonino si opponeva al boicottaggio, forse a ragione, ma in molte occasioni ha ribadito la sua contrarietà a qualsiasi gesto simbolico, a suo avviso utile solo ad alimentare il «cicaleccio» qui in Italia. Pensate a che «messaggio» dev'essere stato per il democratico Wei Jingsheng, iscritto al Partito radicale, Prodi che offriva a Pechino il suo aiuto per la fine dell'embargo europeo sulle armi.

Viene messa giustamente sotto i riflettori la «real politik a tutto spiano» italiana, ma i tanti fan di Obama (e i radicali sono tra questi), tranne poche eccezioni (il Riformista), non aprono bocca sulla real politik dell'amministrazione Obama e magari tornano pure a civettare di regime change, di rovesciare regimi, dopo aver demonizzato Bush.

* Mi pare che la Corea del Nord non sia stata mai affatto isolata ma ricompensata in ogni modo per la sospensione di un programma nucleare che ha poi sempre immancabilmente ripreso.

Thursday, June 18, 2009

Il dilemma di Obama

Il paradosso di Obama è che il presidente del "change" non vede cambiamento possibile a Teheran. Un cambiamento non certo da vedere nella figura di Mousavi, ambigua e compromessa con le peggiori atrocità del regime khomeinista, ma nelle folle oceaniche che mai dal 1979 (cioè proprio dall'ultima rivoluzione in Iran) avevano riempito le strade di Teheran e di altre importanti città iraniane per gridare il loro disprezzo nei confronti del governo. Davvero nulla di nuovo sta accadendo in Iran? Oppure, Obama non vede questa novità perché il suo sguardo è concentrato su Mousavi e non sul movimento, grande assente nelle analisi della Casa Bianca, che pur con tutte le contraddizioni al suo interno rappresenta comunque forti istanze di cambiamento e di libertà, ed esprime una critica, radicale o riformista che sia, al sistema?

E' qui l'errore d'analisi, tipica di tutti gli approcci realisti, dell'amministrazione Usa. Non considerare affatto il popolo iraniano come un potenziale attore politico (attore non equivale a vincitore), ma limitare il campo degli attori politici ai personaggi di spicco dell'establishment, come Mousavi, Ahmadinejad e Khamenei. Mousavi e Ahmadinejad «non sono poi tanto diversi», per l'amministrazione, consapevole che con qualunque presidente, la politica estera continuerebbe a farla la Guida Suprema, Khamenei, ed è con lui che bisognerà in ogni caso fare i conti.

C'è del vero ma anche una sottovalutazione degli eventi in corso, in questa analisi, perché fondata su un equilibrio tra i poteri della Repubblica islamica che comunque andrà a finire non sarà mai più lo stesso. Al punto in cui sono arrivate le cose in Iran, infatti, se dovesse cadere Ahmadinejad, è probabile che in breve tempo seguirebbe la caduta, o comunque il ridimensionamento, di Khamenei; ma anche se Ahmadinejad prevalesse, il potere di Khamenei non sarebbe più lo stesso. Dipenderebbe sempre più dalle armi dei pasdaran e delle milizie, cui dovrebbe concedere un peso maggiore nel governo del paese.

Quindi a Washington sbagliano i calcoli, sottovalutano il diverso equilibrio di potere che comunque uscirà dalla crisi. E' falso che in ogni caso è solo con Khamenei che bisognerebbe parlare. E' quasi vero il contrario, e cioè che comunque andrà a finire, Khamenei ne uscirà con un potere un po' meno assoluto. Insomma, Obama punta sulla continuità del potere di Khamenei, l'unico che comunque vada ne uscirà meno forte, mentre chi vincerà tra Ahmadinejad e Mousavi vedrà accrescere il suo potere relativo nei confronti della Guida Suprema.

Più che «schierato» dalla parte del regime, come le rimprovera Robert Kagan, l'amministrazione Obama ha puntato sul regime. Ha cioè scommesso che da questa crisi post-elettorale, in un modo o nell'altro, usciranno al comando Ahmadinejad e Khamenei. E' improbabile, ma se da qui ad alcuni mesi gli sviluppi della crisi dovessero togliere di scena prima Ahmadinejad e poi Khamenei, che ne rimarrebbe della presidenza di Obama? Quale credibilità rimarrebbe al presidente, se proprio nel momento di massimo sforzo diplomatico per legittimare il regime iraniano vedesse quella legittimità negata al regime dallo stesso popolo iraniano che ha scelto di non sostenere? Stiamo fantasticando naturalmente, ma le probabilità di successo dell'iniziativa di dialogo con Ahmadinejad e Khamenei sul nucleare sono davvero molte di più di quelle che hanno gli iraniani di rovesciare il regime? Tante di più da suggerire di non metterle a repentaglio, non tanto per appoggiare Mousavi o Rafsanjani, ma per lo meno la mobilitazione popolare?

Nel suo ultimo post Michael Ledeen scrive una cosa giusta: «E' sbagliato pensare che le chance di accordarti con il tuo nemico aumentano con l'appeasement. Reagan ha fatto molti affari con l'Unione sovietica, sebbene la denunciasse quasi ogni giorno». Ledeen non ha dubbi che «a Obama è stato detto dai servizi segreti che il regime vincerà, che i disordini non sono seri e che dovrà trattare con Ahmadinejad per i prossimi quattro anni, e che quindi farebbe meglio a stare attento a non urtarlo. Ogni servizio di intelligence dice sempre così in queste situazioni».

Ma secondo Ledeen molti opinionisti sbagliano a continuare a considerare l'Iran per quello che era cinque giorni fa, e non per il «calderone che ribolle» che è oggi. Lo stesso errore per Ledeen si commette pensando, come ha detto anche il presidente Obama, che «Mousavi, dopo tutto, è uno di loro, un membro della generazione fondativa della Repubblica islamica, e quindi non ci si può aspettare alcun reale cambiamento da lui». Ledeen pensa che sia sbagliato, perché «a questo punto Mousavi o fa cadere la Repubblica islamica, o viene impiccato. Se vince, e la Repubblica islamica viene giù, può darsi che vedremo cambiare il mondo intero», non solo «la fine di un regime fascista-teocratico», ma anche «il taglio dei soldi, delle armi, della tecnologia, dei campi di addestramento e dell'intelligence alle principali organizzazioni terroristiche e, sì, persino la fine del programma di armamenti nucleari».

Ledeen ritiene ciò possibile «a prescindere da cosa e chi fosse cinque anni fa Mousavi, perché lui adesso è il leader di un movimento di massa che chiede un Iran libero e riappacificato con il mondo occidentale. Certo, la ruota può girare di nuovo, e questa rivoluzione essere di nuovo tradita, tutti i tipi di sorpresa aspettano il popolo iraniano. Ma oggi c'è un'occasione spettacolare...».

Il dilemma di Khamenei

Non sembra ancora arrivata l'ora della repressione più brutale ma indubbiamente pasdaran e altre milizie stanno preparando il contesto migliore. Arresti a centinaia tra gli oppositori e gli esponenti riformisti; violenze e intimidazioni soprattutto nelle città lontane dallo sguardo dei media; blocco delle comunicazioni; censura dei siti internet. Pare persino che la polizia sia passata di quartiere in quartiere per abbattere le antenne paraboliche. I corrispondenti stranieri fanno sempre più fatica a lavorare e a riprendere immagini della protesta. Le autorità hanno già fatto sapere che non rinnoveranno i visti, che sono ormai prossimi alla scadenza. L'impressione è che quando l'ultimo giornalista straniero sarà partito (sperando che qualcuno rimanga anche "clandestinamente"), calerà il buio su Teheran e le altre città iraniane, come in Tibet, e da allora in poi ogni momento sarà propizio per la repressione.

Nulla comunque dovrebbe accadere prima del riconteggio parziale dei voti, ma la presa di posizione del Consiglio dei Guardiani della rivoluzione («I nemici dell'Iran cercano di creare disordine perché sono arrabbiati per la grande partecipazione del popolo alle elezioni»), cui spetta l'ultima parola, non fa presagire nulla di buono.

E' impossibile prevedere l'esito di questa crisi. La Guida Suprema Khamenei si è ficcato con le sue mani in un vicolo cieco, sottovalutando la reazione di Mousavi ma soprattutto il seguito popolare che avrebbe avuto. Tutte le possibili vie d'uscita presentano per lui enormi costi politici. Se ordinerà la repressione, che dati i numeri sarebbe in stile Tienanmen, legherebbe irreversibilmente le sue sorti a quelle di Ahmadinejad e delle forze militari e di sicurezza del regime, cui dovrebbe concedere ulteriore potere nel governo del paese, rischiando di perdere il sostegno di gran parte del clero sciita e di veder ridotto il suo stesso potere. Il che sancirebbe il passaggio definitivo della Repubblica islamica da dittatura teocratica a una dittatura militare.

Una soluzione di compromesso con l'opposizione, cercando quindi di riacquistare una ormai poco credibile posizione di "terzietà" tra Mousavi (e Rafsanjani) e Ahmadinejad, minerebbe la sua autorità sia agli occhi dei suoi avversari che dei suoi alleati, ma soprattutto agli occhi del popolo iraniano, e non lo metterebbe comunque al riparo dalle trame dei settori del clero (da Rafsanjani a Khatami) di cui Mousavi è espressione. La sua autorità è già stata sfidata da migliaia di iraniani che sono scesi in strada disobbedendo ai suoi ordini; e la sua infallibilità come guida religiosa messa in dubbio da lui stesso, quando autorizzando il riconteggio parziale ha ammesso indirettamente che l'esito delle elezioni - solo poche ore prima definito un miracolo del disegno divino - potrebbe essere stato falsato.

Appare improbabile, ma non da escludere del tutto, che Khamenei decida di rimangiarsi la sua frettolosa proclamazione del vincitore e concedere il ballottaggio tra Mousavi e Ahmadinejad. Sarebbe un colpo devastante, forse letale, alla sua autorità. Più probabile che il compromesso passi per l'offerta a Mousavi, e alla cordata di chierici che lo sostiene, di qualche posto nel nuovo governo di Ahmadinejad. A questo punto, starebbe a Mousavi e a Rafsanjani decidere se accettare o no sulla base della forza che sentono di avere. In caso accettassero, la resa dei conti sarebbe solo rimandata ma il movimento "verde" si sentirebbe tradito ancora una volta.

Sia che decida di uscire dalla crisi dando più potere ai pasdaran e alle milizie, oppure all'opposizione clericale, Khamenei sarà costretto a giocarsi la sua supremazia. Molto dipenderà dalle manovre sia di Rafsanjani che di Khamenei presso l'establishment clericale che ha sede nella città santa di Qom, e in particolare in seno a quel Consiglio degli Esperti, composto da 86 membri, che avrebbe il potere legale di rimuovere la Guida Suprema. Consiglio che in un comunicato diffuso proprio oggi si congratula solo per l'affluenza, non menzionando la contestata rielezione. Dai rapporti di forza che usciranno nelle prossime ore a Qom dipenderà probabilmente anche la sorte delle centinaia di migliaia di iraniani che riempiono le strade, accomunati dall'odio nei confronti di Ahmadienjad e Khamenei, ma probabilmente divisi sul tipo di cambiamento che chiedono.

Wednesday, June 17, 2009

Iran, la lotta tra caste e l'ultima sfida Rafsanjani-Khamenei

Sempre più analisi confermano la tesi dello scontro tra elite all'interno del regime di cui ho già parlato in precedenti post. Nonostante indubitabilmente le manifestazioni oceaniche a Teheran e in altre città (si parla di un milione di persone, quantità "rivoluzionarie", mai così dal 1979) sono anche il segno evidente di quanto siano diffuse nella società iraniana le richieste di cambiamento e le istanze di maggiore libertà, probabilmente in gioco non c'è la democrazia. In queste ore nelle strade di Teheran l'anima più rivoluzionaria della protesta - fatta di migliaia di cittadini, donne e giovani iraniani che detestano il regime e possono sfogare i loro sentimenti sostenendo l'unica candidatura che il regime ha messo loro a disposizione - si confonde (ma non è detto che al dunque si saldi) con l'anima "riformista", pezzi importanti, i più pragmatici e moderati, dell'establishment clericale sciita (quali Mousavi, Rafsanjani, Khatami), convinti che il regime khomeinista sia riformabile dall'interno e soprattutto timorosi di perdere i propri privilegi e le proprie ricchezze, e persino di venire epurati.

Quello in atto dunque sarebbe uno scontro di potere tra due caste, quella dei sacerdoti e quella dei militari, ed in gioco ci sarebbe la natura stessa della dittatura, se cioè debba essere una dittatura clericale o militare. Da una parte, la strana alleanza tra il pragmatico Rafsanjani e il "riformista" Khatami, di cui Mousavi sarebbe espressione; dall'altra, la Guida Suprema Khamenei, che avrebbe deciso di servirsi di Ahmadinejad e delle forze militari e di sicurezza a lui fedeli, per esautorare di fatto, o persino per liquidare, i suoi avversari all'interno del clero sciita. Bisognerà vedere se le due parti riusciranno a trovare un compromesso e, in questo caso, se Rafsanjani e Mousavi tradiranno le aspettative "rivoluzionarie" di milioni di persone, o se decideranno di tenere duro e passare dall'altra parte della barricata, diventando a tutti gli effetti dissidenti.

Danielle Pletka e Ali Alfoneh, sul New Yok Times, scrivono che «la vera rivoluzione è passata inosservata... Nel più drammatico cambiamento dalla rivoluzione del 1979, l'Iran si è trasformato da stato teocratico a dittatura militare». Una rivoluzione i cui «semi sono stati piantati quattro anni fa con la prima elezione di Ahmadinejad». Nonostante abbia deluso l'opinione pubblica iraniana, con una disastrosa performance economica, le forze a lui fedeli ora controllano il paese. C'è da chiedersi perché la Guida Suprema, Ali Khamenei, abbia «deliberatamente liquidato il clero a cui egli stesso appartiene. Per sopravvivenza», è la risposta. L'ayatollah Khamenei, che non aveva i titoli religiosi per succedere a Khomeini nell'89, «ha ripetutamente dimostrato di voler liquidare l'attributo "islamica" dalla rivoluzione islamica». Nel fare ciò, concludono Pletka e Alfoneh, «si è messo in un angolo, in un'alleanza permanente con Ahmadinejad e le Guardie rivoluzionarie. E questa frode elettorale li avvicinerà ancora di più».

Robert Baer, per vent'anni agente operativo della CIA, spiega sul suo blog su The New Republic, che l'Iran «non è una teocrazia. E' una dittatura militare guidata da Khamenei con la consulenza di una consorteria di generali della Guardia rivoluzionaria e dell'esercito, nonché dell'ala dura della polizia segreta. Ahmadinejad è poco più che un portavoce di questo gruppo di potere. Può avere voce in capitolo nella gestione corrente dell'economia di altri settori dell'amministrazione iraniana - ma tutte le decisioni importanti, in particolare quelle riguardanti la sicurezza nazionale, inclusi i brogli alle elezioni presidenziali, sono prese da Khamenei».

Tuttavia, «un segnale certo della debolezza politica di Khamenei è emerso quando Ahmadinejad ha accusato l'ex presidente Rafsanjani di corruzione durante la campagna elettorale. Rafsanjani è, ed è sempre stato, una minaccia per la legittimità di Khamenei. E' presidente del Consiglio degli Esperti, che ha il potere di rimuovere Khamenei e nominare una nuova Guida Suprema. Khamenei quindi vede in Rafsanjani una minaccia permanente al suo potere. Si dice che Rafsanjani si sia recato nella città santa di Qom, dove ha sede il Consiglio, per complottare contro Khamenei, per verificare di avere sufficienti voti in seno al Consiglio, che ha 86 membri, per rimuovere Khamenei», il quale quindi all'ultimo momento avrebbe dato via libera ad Ahmadinejad autorizzando il ribaltamento dell'esito delle elezioni.

In Italia questa lettura degli eventi è sostenuta da Tatiana Boutourline, che su Il Foglio ha parlato di «resa dei conti tra due volti del regime» (Rafsanjani e Khamenei): «Se dietro alla "dolce vittoria" di Ahmadinejad c'è la mano di Khamenei, dietro all'insubordinazione di Mir Hossein Moussavi c'è la regia di Rafsanjani». «L'obiettivo visibile è quello di tornare alle urne e liberarsi di Ahmadinejad», ma dietro c'è un «disegno ben più ambizioso», come dimostrano le «febbrili consultazioni» di Rafsanjani con gli ayatollah di Qom e i membri del Consiglio degli esperti: eliminare Khamenei, sostituire la Guida Suprema «con un consiglio costituito da 3-5 leader religiosi». Una riforma costituzionale della Repubblica islamica, nel tentativo di «riequilibrare i rapporti di forza tra i turbanti e i fucili». Rafsanjani è convinto che l'«evoluzione del regime khomeinista sia possibile» e caldeggia una «riforma dottrinale» per «portare lo sciismo nell'era moderna», spiega Boutourline. Il che indebolirebbe la figura della Guida Suprema e le forze militari e di sicurezza fedeli ad Ahmadinejad e oggi al governo.

«Probabilmente - ipotizza Vittorio Emanuele Parsi su La Stampa - proprio l'ultima grande manifestazione pre-elettorale, così affollata di giovani festosi e colmi di speranza, come non se ne vedevano dai tempi dell'elezione di Khatami, ha convinto il titubante Khamenei a rompere gli indugi e a sottoscrivere la nuova alleanza tra i conservatori, i cui interessi egli rappresenta, e i radicali (armati) di Ahmadinejad». Tuttavia, «accettando di avallare brogli elettorali probabilmente giganteschi, Khamenei ha sancito la fine del regime inventato da Khomeini». Dopo due tentativi "riformisti" falliti, potrebbe riuscire un tentativo reazionario di Ahmadinejad, che «non ha mai fatto mistero della sua insofferenza per il ruolo dell'alto clero. Il paradosso è che l'operazione gli potrebbe riuscire, proprio grazie all'aiuto del supremo garante di quell'ordine che lui vuole radicalmente trasformare. Se Ahmadinejad prevarrà, se riuscirà a reprimere una rivolta che sembra sempre più una "quasi rivoluzione", il regime che sorgerà sarà cosa sostanzialmente diversa da quello fin qui conosciuto».

Quanto tempo passerà, e soprattutto quali rassicurazioni dovrà dare l'ayatollah Khamenei in persona ai settori del clero rappresentati da Mousavi e Rafsanjani, perché rientrino le proteste? Per ora Mousavi continua a ripetere che le proteste proseguiranno fino a quando non ci saranno nuove elezioni: «Noi protestiamo pacificamente contro la frode elettorale e tutto quello che vogliamo è l'annullamento del voto e nuove elezioni senza brogli». E, particolare importante, respinge con forza l'accusa di manipolazioni dall'esterno: «La protesta dell'Onda verde è solo il riflesso di una richiesta interna e indipendente... legare l'Onda verde a forze esterne è assurdo».