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Friday, October 15, 2010

Si scrive sviluppo, si legge spesa

Diventa sempre più difficile criticare il ministro Tremonti in nome di politiche per lo sviluppo. Se infatti è indubbio che principalmente su di lui pesa la responsabilità di un certo immobilismo del governo durante la crisi, della rivendicata volontà di non affrontare subito le riforme necessarie a far tornare l'Italia a tassi di crescita accettabili una volta passata la tempesta, diventa tuttavia sempre più difficile parlare di sviluppo, perché è dietro questa parolina magica che si nasconde un partito della spesa sempre più grande e trasversale. Aumentano le voci di coloro i quali non sembrano neanche concepire una crescita senza spesa e per i quali, al dunque, sembra esistere un'equazione inscindibile tra sviluppo e spesa pubblica. Vai a sentire quanti si riempiono la bocca di sviluppo e gratta gratta trovi quasi unicamente gente che si lamenta per i tagli tremontiani, non perché vorrebbe abbattere il debito o ridurre le tasse, ma semplicemente perché vorrebbe spendere quei soldi in qualche baraccone pubblico o in sussidi. Ormai quasi nessuno più ha la faccia tosta di invocare esplicitamente "più spesa", per questo occorre sforzarsi di distinguere tra chi usa la parola sviluppo come cortina fumogena e chi sostiene davvero politiche per lo sviluppo. E purtroppo bisogna constatare che oltre a Bersani ed Epifani, che irresponsabilmente hanno passato i mesi più duri della crisi ad invocare «soldi freschi, veri», più deficit, anche molti ministri del governo partecipano al piagnisteo contro i tagli.

Anche per loro lo sviluppo passa per i loro budget ministeriali (vero Galan?). E' comprensibile che non festeggino per i tagli. Il problema di fondo, però, è che intimamente non vedono altro modo per implementare le loro politiche ministeriali se non ottenendo più soldi, sempre più soldi. Ed è un modo sbagliato di concepire i compiti e le responsabilità di ministro. Possibile - mi e vi chiedo - che un ministro non sappia valorizzare il proprio settore di competenza in nessun altro modo che ricevendo più soldi da spendere? Possibile che si comporti più come un capo del personale? Si chiama "Ministero dell'Istruzione", non della "Scuola Statale". Possibile che non si riesca a capire che politiche efficaci per la "salute", o l'"istruzione", per fare due esempi, non debbano inevitabilmente consistere nell'ingrossare il baraccone pubblico di cui si è a capo? Quasi come se aver speso sia garanzia di aver operato bene. Eppure, sono moltissime le cose che possono essere cambiate e migliorate senza spendere un centesimo, ed è proprio questa la sfida.

La Gelmini ha portato a un passo dall'approvazione un'ottima riforma. Non perfetta, ma ottima rispetto allo scarso tasso di riformismo che esprimono i nostri governi. Perché proprio ora quell'emendamento, che non servirà certo a placare le proteste? Perché non portare a casa subito le nuove, preziose regole, la riforma dell'ordinamento, rinviando alla fine dell'anno il fondo per accontentare i ricercatori? E siamo sicuri che le nostre università abbiano davvero bisogno di tutti quei 9 mila nuovi stipendi in sei anni, piuttosto che di nuove infrastrutture, laboratori, attrezzature tecnico-scientifiche? A guardare le statistiche è proprio il monte stipendi che in Italia assorbe una quantità abnorme delle risorse destinate alle università.

Tremonti si è comunque impegnato a trovare i fondi, e lanciare sulla base della stabilità dei conti una politica di sviluppo in questa seconda parte della legislatura. Vedremo, ma ci conforta quello che è diventato il mantra del ministro: il deficit non crea crescita; porta alla rovina, non allo sviluppo. Non può più funzionare il metodo per cui basta un emendamento e puff, ecco in automatico anche i soldi. Il Tesoro non è un bancomat. Tra l'altro, non si tiene in debita considerazione che veramente in Europa il vento - e per fortuna - è cambiato. Probabilmente tra non molto dovremo rispettare un nuovo patto di stabilità che imporrà agli stati membri di portarsi entro il 60% nel rapporto debito/pil. Una meta da cui l'Italia è lontanissima.

Un altro mito che va sfatato è quello dei cosiddetti tagli lineari. Premesso che i baracconi in Italia sono tali da rendere possibili, e quindi necessari, tagli anche lineari, se si vogliono evitare allora qualcuno si dovrà prendere la responsabilità politica di indicare dove tagliare di più e dove meno o nient'affatto. Siccome però quando si cerca la vittima, ogni capitolo di spesa si scopre indispensabile, e l'unico risultato è rinviare qualsiasi taglio, il ministro intanto fa bene a tagliare un po' ovunque, ché dimagrire fa bene a tutti.

1 comment:

Anonymous said...

con i tagli si aumenta la depressione economica. con gli investimenti se ne esce fuori. il vecchio ma sempre valido Keynes.

la "riforma" gelmini è pessima

JL