Perché non mi convince chi dice che con Kerry l'America sarà più debole. Per Bush l'esportazione della democrazia è una priorità e per Kerry no; Bush ha molti meriti, ma ha commesso gravi errori. Kerry potrebbe fare meglio. Chiunque vinca, avremo fiducia e "tiferemo" America.
Negli Stati Uniti ci si avvicina al voto per eleggere il presidente dei prossimi 4 anni e molti giornali pubblicano i loro endorsement, gli editoriali di sostegno ai candidati. Decisamente dalla parte di Bush il neoconservatore Weekly Standard: la scelta è fra tentare di tornare agli anni '90 (con Kerry), oppure affrontare le sfide del mondo post-11 settembre perché indietro non si può tornare (con Bush). Dopo il New York Times, domenica scorsa, oggi l'altro grande quotidiano liberal, il Washington Post, annuncia il sostegno a John F. Kerry. E' un buon punto di partenza per questo post. Il WP è stato a favore della guerra in Iraq e si è persuaso della necessità di democratizzare il Medio Oriente. La decisione di sostenere Kerry viene spiegata ai lettori con un editoriale onesto, non scontato e molto più ragionato rispetto a quello del NYT: riconosce tutti, ma proprio tutti, i meriti di Bush e indica gli errori. Critica i flip-flop di Kerry, ma lo giudica credibile come commander-in-chief e ritiene che non si mostrerà debole come lo dipingono i detrattori. Insomma, più o meno farà le stesse cose di Bush, ma farà un lavoro migliore.
Ammetto che Bush mi è più simpatico, Kerry è snob e demagogico da morire. Ma dico subito che non mi schiero, non "tifo" per nessuno dei due - o per tutti e due per motivi diversi - poi la mia fede giallorossa mi impedisce di tifare "invano". Ritengo inaccettabili però i pregiudizi e la demonizzazione che colpiscono Bush su praticamente tutti i temi della campagna elettorale e odio certa stampa che approfitta dell'ignoranza dei suoi lettori per distorcere notizie e analisi sulla politica americana e, soprattutto, sulla politica di questa amministrazione. Alcuni meriti del presidente uscente sono indiscutibili, il suo conservatorismo non è più estremo rispetto ad altre amministrazioni repubblicane. E' tuttavia inaccettabile anche molta della propaganda che i fan di Bush ci riversano addosso per spiegarci che non bisogna assolutamente votare per Kerry perché questo metterebbe a rischio la vittoria nella guerra contro il terrorismo. Kerry invece si dimostra credibile come commander-in-chief e il suo flip-flopping è fisiologico in una campagna elettorale tutta in salita.
Ebbene, anche oltreoceano la campagna elettorale vive di tante cose non proprio impeccabili, spesso si usano espressioni ambigue e toni discutibili per intercettare il consenso di questo o quel tipo di elettorato sulla maggior parte dei temi. Riguardo il difetto che più viene contestato a Kerry, cioè di essere un flip-flopper, una banderuola, uno che cambia spesso opinione a seconda della convenienza politica, questa critica trova più di un fondamento, non solo in questa campagna, ma in tutta la sua carriera al Senato. Bisogna riconoscere però, che a differenza di Bush il senatore democratico riscontra una maggiore difficoltà a costruire intorno a sé una maggioranza omogenea di consenso. Mentre Bush può permettersi di parlare al suo elettorato con una certa nettezza e coerenza, sapendo di esprimere posizioni in sintonia con l'intera sua base su praticamente tutti i temi principali (politica estera, sicurezza interna, economia, welfare, bioetica), Kerry non può contare su di un elettorato così omogeneo - unito soprattutto dall'odio per Bush - e sa di dover contemporaneamente sia tenere alta la temperatura della base profondamente democratica, sia tentare di intercettare il voto degli incerti e dei moderati. Da questa doppia esigenza deriva il flip-flopping di Kerry, o almeno quella parte in fondo trascurabile della sua ambiguità.
Le attuali maggioranze al Congresso fanno supporre che a Bush basti mobilitare i suoi, evitare delusione ed astensioni in quel vasto sentimento/movimento conservatore che in questi anni sembra essere ben lanciato per conquistare la maggioranza nel Paese, come rivela un interessante articolo dell'Economist.
Giorni fa leggevo sul Foglio di una giornalista anglo-americana che vota Bush esclusivamente perché se fosse sconfitto i jihadisti di tutto il mondo si darebbero ai festeggiamenti. A pensarla così non sono in pochi. Anche commentatori di spicco, come Charles Krauthammer, citano tra i buoni motivi per votare Bush il fatto che il terrorismo islamico, da bin Laden ad Arafat, e la maggior parte dei Paesi europei, in fondo in fondo "tifano" per Kerry convinti che con lui alla Casa Bianca l'America sarà più debole e accomodante. Questo argomento proprio non mi convince. Probabilmente sia all'Eliseo, sia in Medio Oriente, si auspica la sconfitta di Bush, con l'aspettativa di un'America più debole con Kerry: calcoli errati e gli elettori non si dovrebbero far condizionare. Sebbene sia vero che i due candidati sono portatori di due visioni di politica estera alternative (una idealista e aggressiva, l'altra realista e multilaterale) che per forza di cose funzionano in modo diverso e si danno diversi obiettivi, con Kerry alla Casa Bianca cambierebbe poco sia per i terroristi, sia per noi europei. Nei confronti dei primi ci sarà comunque lotta senza quartiere, Kerry non esiterà a circondarsi delle migliori intelligenze (Holbrooke, Biden, Rubin non sono proprio delle colombe) e a mettere in campo tutte le risorse del Paese, mentre gli europei saranno chiamati a rispondere positivamente alle chiamate di Washington se non vorranno scagionare Bush dall'accusa di unilateralismo e creare un solco, questa volta bipartisan, nelle relazioni transatlantiche.
Il Foglio non manca mai di sottolineare il flip-flopping di Kerry e la sua inadeguatezza per il comando, ma si contraddice spesso quando non può far a meno di ricordare alla sinistra italiana, così vigorosamente anti-Bush, che Kerry non è esattamente un "pacifista" e non dismetterà la dottrina della guerra preventiva. Il netto dissenso tra Bush e Kerry sull'Iraq non inganni: si consuma tutto sul passato, perché entrambi vogliono finire il lavoro e indicano la stessa strategia. Queste osservazioni - in contrasto con l'idea di un Kerry pappamolle liberal - sono esatte e, come notavamo all'inizio, hanno convinto il Washington Post. Non so dire se Kerry sarebbe più o meno capace di Bush, ma credo che lo "sporco lavoro" da fare sia lo stesso e che sia determinato a farlo. Per Bush l'esportazione della democrazia è una priorità e per Kerry no; Bush ha molti meriti, ma ha commesso gravi errori. Kerry potrebbe fare meglio.
Chiunque vinca, avremo fiducia e "tiferemo" America.
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