L'obiettivo principale della visita in Israele del segretario alla Difesa Usa, Bob Gates, era di dissuadere il governo israeliano dall'agire militarmente contro gli impianti nucleari iraniani. Israele non rinuncia certo all'opzione militare, ma è disposto ad aspettare che la politica di coinvolgimento diplomatico degli Stati Uniti nei confronti di Teheran faccia il suo corso, tanto più che Gates ha ribadito a Netanyahu che l'offerta non è illimitata nel tempo e, anzi, che Obama si aspetta una risposta entro l'autunno, magari già all'apertura dell'Assemblea generale dell'Onu, verso la fine di settembre.
Ma secondo alcune fonti di intelligence e militari israeliane, sarebbe anche un'altra l'assicurazione data da Gates agli israeliani: che il piano americano per fronteggiare la minaccia nucleare iraniana contempla anche il ricorso a un'azione militare unilaterale da parte degli Usa, sia pure come ultima risorsa. Gates quindi non avrebbe solo chiesto agli israeliani di aspettare ad attaccare l'Iran, per non intralciare il tentativo di dialogo della Casa Bianca, ma gli avrebbe chiesto di astenersi del tutto dall'attacco, assicurando che nel caso in cui la via diplomatica fallisse e neanche sanzioni più dure convincessero Teheran a fermarsi, ci penserebbero gli Stati Uniti a usare la forza, mentre nel frattempo Israele dovrebbe limitarsi a minacciare l'attacco per tenere gli iraniani sotto pressione, ma nulla di più.
L'azione militare unilaterale quindi rientrerebbe ancora nell'orizzonte delle opzioni che l'amministrazione Obama prende in considerazione per impedire all'Iran di dotarsi della bomba atomica e da qui forse «l'identità di vedute» celebrata con enfasi dal premier israeliano al termine dell'incontro con Gates. Tuttavia, possibili tensioni potrebbero sorgere sui tempi. Chiedendogli di lasciare che siano gli Usa a occuparsi della questione nucleare iraniana, Gates sta chiedendo a Israele di accettare la tempistica di Washington, e in particolare le stime dell'intelligence Usa sui tempi in cui l'Iran riuscirà a dotarsi di testate nucleari. Stime che differiscono da quelle israeliane, e che potrebbero rivelarsi in contrasto con le esigenze di sicurezza di Israele.
Dal messaggio che quindi Gates avrebbe recapitato ai leader israeliani non si direbbe che l'amministrazione Obama si sia rassegnata ad avere a che fare con un Iran nucleare, come invece aveva fatto temere giorni fa l'infelice uscita del segretario di Stato Hillary Clinton in Asia, quando aveva parlato di un «ombrello difensivo» americano a protezione dei paesi del Medio Oriente e del Golfo minacciati dall'atomica iraniana. A molti era comprensibilmente sembrato l'annuncio di una nuova politica - poiché era la prima volta che un membro di primo piano dell'amministrazione Usa contemplava pubblicamente l'opzione del contenimento e della deterrenza nei confronti di Teheran - e in ogni caso di un messaggio sbagliato all'indirizzo degli iraniani.
Nei giorni scorsi, al talk show Meet the press, della Nbc, la Clinton ha cercato di rimediare: «Il nostro messaggio a chi prende le decisioni in Iran è questo: se pensate di ottenere l'arma atomica per intimidire e proiettare la vostra potenza non ve lo lasceremo fare. Riteniamo inaccettabile che Teheran abbia l'atomica e non lo permetteremo, a qualunque costo», ha chiarito la Clinton a scanso di equivoci.
Solo una gaffe, quindi, non una nuova politica. Una gaffe anche secondo Charles Krauthammer, che ha ricordato come il 16 aprile del 2008, in piena corsa per le primarie democratiche, durante un dibattito con Obama la Clinton rispose molto più duramente del suo avversario sull'Iran, dicendo che se attaccasse Israele con armi nucleari, gli Stati Uniti dovrebbero rispondere «with nukes» ed estendere un «ombrello difensivo su Israele e - aggiunse - sugli altri stati nella regione». La Clinton ha ripetuto qualche altra volta quel concetto durante la campagna, per dimostrare quanto fosse determinata sull'Iran, e Krauthammer pensa che in Tailandia non abbia fatto altro che ripeterlo «inavvertitamente», senza considerare che un conto è dirlo da candidata per apparire "tosta", tutt'altra cosa da segretario di Stato, dando l'impressione, che infatti tutti hanno avuto, che gli Stati Uniti si preparassero ad accettare la realtà di un Iran nucleare e, di conseguenza, al contenimento e alla deterrenza, come con i sovietici durante la Guerra Fredda.
Friday, July 31, 2009
Thursday, July 30, 2009
Feltri torna al Giornale
Dal 24 agosto il Giornale esce in edicola con Vittorio Feltri direttore. Lo aveva già diretto dal '94 fino alla fine del '97, dopo Montanelli. Prova «una punta di dolore lancinante a lasciare Libero, che ho fondato e portato in questi nove anni a conquistarsi un posto di assoluta autorevolezza nel panorama editoriale», confida a il Velino. E' facile immaginare quanti lettori di Libero adesso emigreranno verso il Giornale. Sarà dura per Libero senza Feltri. Ci auguriamo che invece con Feltri il Giornale riesca a fare un salto di qualità e di autorevolezza. Il centrodestra avrebbe tanto bisogno di un giornale intelligente, di grande diffusione e autorevole, capace sì di sostenere, ma anche di informare, criticare quando ci vuole, e soprattutto di provocare dibattiti di idee e di stimolare la corteccia cerebrale del ceto dirigente pdellino.
Wednesday, July 29, 2009
Usa-Cina. Le prove di G-2 e la vera bolla cinese
Su Il Velino
Il vertice Stati Uniti-Cina dei giorni scorsi ha fornito ulteriori elementi di riflessione riguardo l'ipotesi G-2, una governance globale sempre più imperniata sull'asse Washington-Pechino su temi quali l'economia, il clima, la non-proliferazione nucleare. Il presidente americano Obama ha parlato di partnership strategica, spiegando che «le relazioni tra Stati Uniti e Cina daranno forma al 21esimo secolo». La natura strategica e non solo economica che Washington vuole conferire alla cooperazione con la Cina è confermata dalla definizione stessa dei due giorni di incontri come "Dialogo strategico ed economico" e dall'intervento congiunto, alla vigilia, del segretario di Stato Hillary Clinton e del segretario al Tesoro Timothy Geithner, che dalle colonne del Wall Street Journal hanno sostenuto la necessità di «discussioni di livello strategico» tra Usa-Cina.
Nel dibattito sulla natura dei rapporti da tenere con la Cina, a Washington si confrontano due scuole di pensiero: i «funzionalisti» e gli «strategici», li definisce John Lee, studioso dell'Hudson Institute. I primi ritengono che Stati Uniti e Cina sono così interdipendenti dal punto di vista economico da essere obbligati ad essere partner strategici. Una cooperazione da cui entrambi avrebbero tutto da guadagnare - invece che una competizione a "somma zero" - è a loro avviso un obiettivo fattibile. Tutti gli eventuali motivi di tensione tra le due potenze sono transitori e dovuti per lo più ad incomprensioni, mentre le profonde divergenze che ancora esistono passano in secondo piano se ci si concentra sui problemi pratici. «Quando siete sulla stessa barca, dovete attraversare il fiume in modo pacifico», è il proverbio cinese cui hanno fatto ricorso la Clinton e Geithner per spiegarsi.
Gli "strategici" non hanno una visione così rosea. Per loro i rapporti tra Stati Uniti e Cina vanno letti nell'ottica di una competizione strategica, una rivalità irreversibile e già in corso. Ciò non significa che non debbano migliorare le loro relazioni e aumentare la reciproca comprensione per minimizzare le tensioni, ma che ogni cooperazione può essere solo tattica, non strategica. Dietro di essa uno scontro sostanziale di interessi e valori, che può essere gestito ma non risolto, a meno che interessi e valori dell'una o dell'altra potenza non mutino, ma è altamente improbabile. Nell'attuale amministrazione i "funzionalisti" stanno prevalendo...
(...)
la crescita economica cinese non dovrebbe essere considerata un dato scontato, una variabile indipendente. Mentre la bolla cinese di cui molti analisti finanziari temono l'esplosione è quella azionaria, secondo Vitaliy N. Katsenelson bisogna guardare altrove: è «l'intera economia cinese che si sta preparando a esplodere», ha scritto per Foreign Policy.
CONTINUA
Il vertice Stati Uniti-Cina dei giorni scorsi ha fornito ulteriori elementi di riflessione riguardo l'ipotesi G-2, una governance globale sempre più imperniata sull'asse Washington-Pechino su temi quali l'economia, il clima, la non-proliferazione nucleare. Il presidente americano Obama ha parlato di partnership strategica, spiegando che «le relazioni tra Stati Uniti e Cina daranno forma al 21esimo secolo». La natura strategica e non solo economica che Washington vuole conferire alla cooperazione con la Cina è confermata dalla definizione stessa dei due giorni di incontri come "Dialogo strategico ed economico" e dall'intervento congiunto, alla vigilia, del segretario di Stato Hillary Clinton e del segretario al Tesoro Timothy Geithner, che dalle colonne del Wall Street Journal hanno sostenuto la necessità di «discussioni di livello strategico» tra Usa-Cina.
Nel dibattito sulla natura dei rapporti da tenere con la Cina, a Washington si confrontano due scuole di pensiero: i «funzionalisti» e gli «strategici», li definisce John Lee, studioso dell'Hudson Institute. I primi ritengono che Stati Uniti e Cina sono così interdipendenti dal punto di vista economico da essere obbligati ad essere partner strategici. Una cooperazione da cui entrambi avrebbero tutto da guadagnare - invece che una competizione a "somma zero" - è a loro avviso un obiettivo fattibile. Tutti gli eventuali motivi di tensione tra le due potenze sono transitori e dovuti per lo più ad incomprensioni, mentre le profonde divergenze che ancora esistono passano in secondo piano se ci si concentra sui problemi pratici. «Quando siete sulla stessa barca, dovete attraversare il fiume in modo pacifico», è il proverbio cinese cui hanno fatto ricorso la Clinton e Geithner per spiegarsi.
Gli "strategici" non hanno una visione così rosea. Per loro i rapporti tra Stati Uniti e Cina vanno letti nell'ottica di una competizione strategica, una rivalità irreversibile e già in corso. Ciò non significa che non debbano migliorare le loro relazioni e aumentare la reciproca comprensione per minimizzare le tensioni, ma che ogni cooperazione può essere solo tattica, non strategica. Dietro di essa uno scontro sostanziale di interessi e valori, che può essere gestito ma non risolto, a meno che interessi e valori dell'una o dell'altra potenza non mutino, ma è altamente improbabile. Nell'attuale amministrazione i "funzionalisti" stanno prevalendo...
(...)
la crescita economica cinese non dovrebbe essere considerata un dato scontato, una variabile indipendente. Mentre la bolla cinese di cui molti analisti finanziari temono l'esplosione è quella azionaria, secondo Vitaliy N. Katsenelson bisogna guardare altrove: è «l'intera economia cinese che si sta preparando a esplodere», ha scritto per Foreign Policy.
CONTINUA
Paradossi consapevoli
Michael Gerson, sul Washington Post, ha scritto del «paradosso», non sappiamo quanto davvero inintenzionale, della politica di "engagement" di Obama: «Tentando di coinvolgere Corea del Nord e Iran così palesemente, Obama sta evidenziando in modo drammatico i limiti dell'"engagement" - e fornendo argomenti per il confronto».
Tuesday, July 28, 2009
Il Nord continua a pagare e il Sud a sprecare
Al di là degli stucchevoli personalismi e delle pretese dei singoli che cercano di far carriera cavalcando facili slogan per il Mezzogiorno, l'unico modo giusto di inquadrare il solito piagnisteo meridionale sugli aiuti pubblici è quello di Alberto Bisin, oggi su La Stampa, dall'emblematico titolo: "E il Nord continua a pagare". E infatti tutti i dati, come aveva già ricordato ieri Nicola Porro su il Giornale, indicano che il Nord continua a pagare e il Sud a sprecare.
Il reddito pro capite della Lombardia (dati Eurostat 2005) è da 60 anni circa il doppio di quello della Campania, della Calabria o della Sicilia, osserva Bisin. Dai dati del Ministero delle Finanze (elaborazione Centro Studi Sintesi, 2005) risulta che «l'eccesso di spesa pubblica sui tributi raccolti da Stato e Regioni (disavanzo pubblico totale per Regione) è pari a quasi duemila euro pro capite in Campania, a oltre tremila in Calabria, a tremila e cinquecento euro in Sicilia. I contribuenti lombardi invece versano allo Stato cinquemila euro pro capite in eccesso di quanto ricevano; e duemila i piemontesi».
E accanto a questi trasferimenti "ufficiali", c'è un trasferimento "sommerso", occulto. Nelle regioni meridionali l'evasione fiscale risulta maggiore che in quelle del Nord (dati Agenzia delle Entrate, medie 1998-2002): la Calabria, secondo queste stime, avrebbe un rapporto evaso/dichiarato del 93,89 per cento, la Sicilia del 65,89 per cento, la Puglia del 60,65 per cento, la Campania del 60,55 per cento, la Sardegna 54,71 per cento e il Molise del 54,61 per cento. Mentre le regioni più virtuose sono risultate la Lombardia, con un rapporto evaso/dichiarato del 13,04 per cento, l'Emilia Romagna con il 22,05 per cento, il Veneto con il 22,26 per cento e il Lazio con il 26,05 per cento.
Insomma, il flusso dal Nord al Sud, dalle regioni ricche a quelle povere, non si è mai interrotto. Giusto che sia così, ma se nel corso dei decenni nulla cambia vuol dire che qualcos'altro non va. Il problema, conclude correttamente Bisin, è che «la spesa pubblica nel Sud ha un forte carattere clientelare e ha alimentato una classe di politici e amministratori locali tra le peggiori d'Europa. La gestione della questione rifiuti in Campania, della spesa sanitaria in Calabria, Puglia, e ancora Campania sono casi eclatanti ma niente affatto anomali. Per quanto l'intero Paese sia caratterizzato da un sistema pubblico enormemente inefficiente, la situazione al Sud è addirittura indegna di un Paese sviluppato».
«Proprio nelle Regioni in cui la spesa sanitaria è maggiormente fuori controllo - nota l'economista - i servizi sanitari sono carenti e i malati sono costretti a curarsi altrove». E la situazione è del tutto simile nell'istruzione, come dimostrano la classifica degli atenei stilata dal ministro Gelmini e i test Pisa (Ocse, 2006). Più spesa, meno qualità. Non è una questione di reddito né di soldi pubblici. «La verità è che la spesa pubblica è gestita al Sud in modo spaventosamente clientelare e quindi inefficiente».
Il reddito pro capite della Lombardia (dati Eurostat 2005) è da 60 anni circa il doppio di quello della Campania, della Calabria o della Sicilia, osserva Bisin. Dai dati del Ministero delle Finanze (elaborazione Centro Studi Sintesi, 2005) risulta che «l'eccesso di spesa pubblica sui tributi raccolti da Stato e Regioni (disavanzo pubblico totale per Regione) è pari a quasi duemila euro pro capite in Campania, a oltre tremila in Calabria, a tremila e cinquecento euro in Sicilia. I contribuenti lombardi invece versano allo Stato cinquemila euro pro capite in eccesso di quanto ricevano; e duemila i piemontesi».
E accanto a questi trasferimenti "ufficiali", c'è un trasferimento "sommerso", occulto. Nelle regioni meridionali l'evasione fiscale risulta maggiore che in quelle del Nord (dati Agenzia delle Entrate, medie 1998-2002): la Calabria, secondo queste stime, avrebbe un rapporto evaso/dichiarato del 93,89 per cento, la Sicilia del 65,89 per cento, la Puglia del 60,65 per cento, la Campania del 60,55 per cento, la Sardegna 54,71 per cento e il Molise del 54,61 per cento. Mentre le regioni più virtuose sono risultate la Lombardia, con un rapporto evaso/dichiarato del 13,04 per cento, l'Emilia Romagna con il 22,05 per cento, il Veneto con il 22,26 per cento e il Lazio con il 26,05 per cento.
Insomma, il flusso dal Nord al Sud, dalle regioni ricche a quelle povere, non si è mai interrotto. Giusto che sia così, ma se nel corso dei decenni nulla cambia vuol dire che qualcos'altro non va. Il problema, conclude correttamente Bisin, è che «la spesa pubblica nel Sud ha un forte carattere clientelare e ha alimentato una classe di politici e amministratori locali tra le peggiori d'Europa. La gestione della questione rifiuti in Campania, della spesa sanitaria in Calabria, Puglia, e ancora Campania sono casi eclatanti ma niente affatto anomali. Per quanto l'intero Paese sia caratterizzato da un sistema pubblico enormemente inefficiente, la situazione al Sud è addirittura indegna di un Paese sviluppato».
«Proprio nelle Regioni in cui la spesa sanitaria è maggiormente fuori controllo - nota l'economista - i servizi sanitari sono carenti e i malati sono costretti a curarsi altrove». E la situazione è del tutto simile nell'istruzione, come dimostrano la classifica degli atenei stilata dal ministro Gelmini e i test Pisa (Ocse, 2006). Più spesa, meno qualità. Non è una questione di reddito né di soldi pubblici. «La verità è che la spesa pubblica è gestita al Sud in modo spaventosamente clientelare e quindi inefficiente».
«Tali squilibri - conclude Bisin - sono insostenibili nel medio periodo, specie in un Paese gravato da un debito pubblico enorme e da un fisco tanto asfissiante quanto inefficiente. In questa situazione, il governo irrigidisce giustamente i cordoni della spesa e la classe politica che rappresenta il Sud fa quello che è stata eletta per fare: chiede finanziamenti, sussidi, e posizioni di governo da cui poter elargire finanziamenti e sussidi. Per questo la rigidità finanziaria del ministro Tremonti è tanto impopolare quanto importante. Data la situazione in cui versa l'amministrazione locale nel Mezzogiorno, il governo fa bene nel breve periodo ad accentrare i centri di spesa per investimenti al Sud. Ma una riproposizione della Cassa del Mezzogiorno sarebbe un grave errore. Nel medio periodo è necessario che gli elettori siano, in ogni parte del Paese, responsabili fiscalmente della spesa dei propri amministratori. Solo allora gli amministratori locali e i governatori regionali saranno eletti sulla base della loro capacità di favorire lo sviluppo e non di produrre sussidi. Ne guadagnerà il Nord, ma soprattutto il Sud».Questa volta stiamo con il ministro Tremonti: si tenga stretti i soldi e li conceda solo per progetti concreti e verificabili, non per gonfiare la spesa corrente.
L'unica "policy" è la convivenza
Il solito puntuale ed informato Enzo Reale sulla tristissima situazione birmana (da Mizzima.com):
Il tentativo di comprare la libertà di Aung San Suu Kyi con la promessa di nuovi investimenti dimostra una dose di improvvisazione e ingenuità che dovrebbe preoccupare gli attivisti per la democrazia dentro e fuori la Birmania e, in generale tutti coloro che hanno sempre guardato agli Stati Uniti come a una forza di cambiamento democratico nei paesi autoritari. Invece di lavorare per liberare la Birmania e i suoi cittadini, Hillary Clinton sceglie di concentrare gli sforzi americani verso un obiettivo simbolico, popolare e limitato, la liberazione del Premio Nobel per la Pace.Parole sagge, ma in questo periodo, anche alla luce della gaffe sull'Iran (l'offerta dell'«ombrello militare» ai Paesi minacciati dall'atomica iraniana), Hillary non mi pare nel massimo della forma ed è sicuramente "azzoppata" dalla mancanza di una totale identità di vedute con la Casa Bianca.
(...)
Le parole del Segretario di Stato sono inopportune per diverse ragioni. Innanzitutto sembrano suggerire che la realtà di miseria e di oppressione di 55 milioni di persone possa essere ridotta al destino di una singola, per quanto importante, icona democratica. Se potesse parlare, sono sicuro che Aung San Suu Kyi rifiuterebbe questo scambio: lei considera la sua libertà uno strumento per la liberazione del popolo birmano e non viceversa.
(...)
la proposta sottolinea tutta la debolezza (se non la inesistenza) di una strategia americana sulla Birmania. Dopo le dichiarazioni di Clinton, i generali sono più che mai consapevoli che il governo americano non ha idea di come trattare con loro. Non c'è nessun piano, solo un gioco di corteggiamento e rifiuto, di carota e bastone, che probabilmente li sta facendo divertire. In realtà, sembra che l'unica "policy" tangibile sotto Obama sia la convivenza con i regimi autoritari, in Asia e altrove: "normalizzazione" è la parola chiave.
(...)
democrazia e sviluppo sono intimamente collegati ed è impossibile promuovere uno sviluppo reale se continuerà il ladrocinio nazionale gestito da un governo spietato ed illegittimo. L'unica cura per la malattia della Birmania è la fine della dittatura, non più soldi (soldi occidentali, di nuovo?) nelle tasche dei generali. Signora Clinton, liberi la Birmania e libererà anche Aung San Suu Kyi.
Riforma sanitaria trappola politica per Obama
Il problema politico è che molti americani vogliono la copertura sanitaria universale, ma quando un concreto progetto di riforma si avvicina all'esame del Congresso, una parte importante di coloro che la vogliono (e che magari per averla hanno eletto un presidente democratico di colore) si spaventano dei costi. Non sanno più di cosa avere più paura, se di non avere in alcuni momenti della loro vita una copertura sanitaria, o delle tasse che dovranno sborsare per pagarla a tutti. Così si ha il paradosso che il presidente eletto per fare una riforma sanitaria che garantisca una copertura universale perde consensi nei sondaggi proprio quando si appresta a presentarla al Congresso.
Il suo partito, che deve votarla, si spaventa, perché dopo un anno ci sono le elezioni di medio termine e rischia di perdere la maggioranza al Congresso. Per un verso, quindi, Obama rischia sia di non riuscire a far passare la sua riforma al Congresso, sia di causare in ogni caso una sconfitta per il suo partito alle elezioni di medio termine del 2010, come accadde già a Clinton prima di lui. Per un altro verso, l'approvazione della sua riforma rischia di dare «il colpo di grazia», come osserva Alberto Alesina, oggi sul Sole 24 Ore, alla finanza pubblica americana, «già sotto enorme stress a causa della crisi».
Sarebbe un disastro. Causerebbe il fallimento di molte società di assicurazione privata, che non potrebbero competere con quella pubblica, e comporterebbe costi enormi per lo Stato, anche se Obama naturalmente sostiene che il suo piano farebbe risparmiare. Ma passare a un sistema sanitario stile europeo comporta anche altri svantaggi, oltre ai costi per lo Stato: minore qualità ed efficienza del servizio, e minore accessibilità alle cure (tempi di attesa estremamente lunghi). Obama insomma vuole rovinare il sistema sanitario che "produce" i Dottor House.
Alesina riferisce che Doug Elmendorf, nuovo giovane direttore del Congressional Budget Office, un organo indipendente e bipartisan, «ha testimoniato al Congresso che secondo lui non vi sarebbero risparmi con il piano Obama, anzi i costi per lo Stato si moltiplicherebbero». Elmendorf, spiega Alesina, è tra l'altro «ex collaboratore di Larry Summers, il consigliere economico di Obama, ed è di simpatie democratiche, quindi non è affatto un "nemico giurato" dell'amministrazione, anzi». Anche in base alle ipotesi più ottimistiche, il deficit americano potrebbe essere ancora del 7% del Pil nel 2020. Per finanziare la sua riforma Obama vorrebbe alzare le tasse ai più abbienti, ma rischiando di ostacolare la ripresa. Il Partito democratico è comprensibilmente scettico e preferirebbe un approccio più realistico, del primo tipo. Invece Obama spinge a testa bassa per l'approvazione in tempi brevi.
Il suo partito, che deve votarla, si spaventa, perché dopo un anno ci sono le elezioni di medio termine e rischia di perdere la maggioranza al Congresso. Per un verso, quindi, Obama rischia sia di non riuscire a far passare la sua riforma al Congresso, sia di causare in ogni caso una sconfitta per il suo partito alle elezioni di medio termine del 2010, come accadde già a Clinton prima di lui. Per un altro verso, l'approvazione della sua riforma rischia di dare «il colpo di grazia», come osserva Alberto Alesina, oggi sul Sole 24 Ore, alla finanza pubblica americana, «già sotto enorme stress a causa della crisi».
Che il sistema sanitario americano vada riformato non c'è dubbio. I costi della sanità sono altissimi e circa 45 milioni di americani non sono assicurati. Chi sono? Non sono i più poveri, i quali sono protetti da un sistema pubblico che si chiama Medicaid. Non sono gli anziani, ricchi o poveri che siano, che sono ben protetti (perfino troppo, perché sono un gruppo di elettori cruciali) da un altro sistema pubblico, Medicare, una vera emorragia di risorse. I non assicurati sono coloro che non sono abbastanza anziani per Medicare, non sono abbastanza poveri per Medicaid, e lavorano in imprese che non offrono l'assicurazione sanitaria e scelgono di non assicurarsi da soli, dati i costi. Le imprese che non offrono l'assicurazione sanitaria sono in genere quelle piccole. E poi vi sono i lavoratori autonomi. Particolarmente problematico diventa quindi perdere il posto di lavoro perché in molti casi con esso se ne va l'assicurazione sanitaria.Le possibili soluzioni sono di due tipi, indica Alesina. Una è quella adottata dal Massachusetts, di «lasciare i cardini del sistema immutati ma di dare sussidi a quella parte dei 45 milioni di americani che non si può permettere l'assicurazione sanitaria privata, rendendola invece obbligatoria». Copertura sanitaria fornita ancora dalle assicurazioni private, quindi, ma obbligatoria. Un po' come da noi l'Rc auto. Il secondo tipo di riforma è quello di «passare essenzialmente a un sistema di assicurazione pubblica stile europeo ed è quello che propone Obama».
Sarebbe un disastro. Causerebbe il fallimento di molte società di assicurazione privata, che non potrebbero competere con quella pubblica, e comporterebbe costi enormi per lo Stato, anche se Obama naturalmente sostiene che il suo piano farebbe risparmiare. Ma passare a un sistema sanitario stile europeo comporta anche altri svantaggi, oltre ai costi per lo Stato: minore qualità ed efficienza del servizio, e minore accessibilità alle cure (tempi di attesa estremamente lunghi). Obama insomma vuole rovinare il sistema sanitario che "produce" i Dottor House.
Alesina riferisce che Doug Elmendorf, nuovo giovane direttore del Congressional Budget Office, un organo indipendente e bipartisan, «ha testimoniato al Congresso che secondo lui non vi sarebbero risparmi con il piano Obama, anzi i costi per lo Stato si moltiplicherebbero». Elmendorf, spiega Alesina, è tra l'altro «ex collaboratore di Larry Summers, il consigliere economico di Obama, ed è di simpatie democratiche, quindi non è affatto un "nemico giurato" dell'amministrazione, anzi». Anche in base alle ipotesi più ottimistiche, il deficit americano potrebbe essere ancora del 7% del Pil nel 2020. Per finanziare la sua riforma Obama vorrebbe alzare le tasse ai più abbienti, ma rischiando di ostacolare la ripresa. Il Partito democratico è comprensibilmente scettico e preferirebbe un approccio più realistico, del primo tipo. Invece Obama spinge a testa bassa per l'approvazione in tempi brevi.
«Obama fa benissimo - conclude Alesina - a cogliere il momento della crisi per sfruttare energie politiche che potrebbero sostenere riforme importanti, una lezione che il nostro governo dovrebbe recepire. Ma il presidente americano sbaglia a buttarsi a testa bassa cocciutamente su una riforma che parte con il piede sbagliato. E infatti sta scontrandosi con una forte opposizione anche all'interno del suo partito».Contrarissimi ai piani di Obama per la sanità i liberisti del Cato Institute.
Friday, July 24, 2009
Eppur si muove
Finalmente qualcosa si muove sul piano delle riforme. Poco - non quanto dovrebbe e sarebbe necessario per assicurarci un'uscita di slancio dalla crisi - ma si muove e non era scontato, visto l'immobilismo economico-sociale che contraddistingue la politica nel nostro Paese. «Negli ultimi vent'anni - osservava tempo fa il governatore Draghi - la nostra è stata una storia di produttività stagnante, bassi investimenti, bassi salari, bassi consumi, tasse alte». Quindi, non basterà aspettare con le mani in mano che la tempesta della crisi passi, «una risposta incisiva all'emergenza è possibile solo se accompagnata da comportamenti e da riforme che rialzino la crescita dal basso sentiero degli ultimi decenni».
I sindacati (tutti tranne la Cgil) e l'opinione pubblica (il 59%, almeno stando ad un recente sondaggio del Financial Times) sembrano ormai favorevoli, o per lo meno possibilisti, all'innalzamento graduale dell'età effettiva di pensionamento, e Confindustria l'ha richiesta a gran voce. Il governo deve aver preso una briciola di coraggio - dalla totale chiusura di poche settimane fa di Tremonti e Sacconi (secondo cui in tempo di crisi non si doveva toccare nulla) - e un passo nella direzione giusta l'ha mosso. Non solo l'aumento graduale dell'età di pensionamento per le donne nella pubblica amministrazione a partire dal 2010 - per il quale il governo ha astutamente aspettato la "copertura" politica della condanna da parte della Corte di Giustizia europea - ma a sorpresa anche un percorso che porterà nel 2015 ad agganciare, in modo parziale, le pensioni alle aspettative di vita media.
Certo, il 2015 è lontano e queste riforme differite nel tempo rischiano di essere revocate dai successivi governi, come accadde con la controriforma del Governo Prodi che abolì lo "scalone" Maroni, diminuendo di fatto l'età di pensionamento e soprattutto caricandone i costi sulle spalle dei lavoratori flessibili, i più indifesi. Ma l'agganciamento delle pensioni alla speranza di vita è una «riforma strutturale fondamentale. Ci porta come sistema delle pensioni alle condizioni di maggiore affidabilità e stabilità in Europa», ha rivendicato Tremonti, per il quale solo poche settimane fa quel sistema andava bene così com'era.
I risparmi economici non saranno dispersi nel mare magnum della spesa pubblica, ma «rimarranno nel circuito del welfare», ha assicurato il ministro evocando proprio quel riequilibrio tra le varie categorie della nostra spesa sociale di cui l'Italia ha bisogno per adeguarsi al livello di servizi e ammortizzatori degli altri grandi Paesi europei come Francia, Germania e Gran Bretagna.
L'Italia infatti ha assoluto bisogno che la sua spesa pensionistica pesi di meno in rapporto al PIL. Dagli ultimi dati Eurostat relativi al 2006 sulla composizione della spesa sociale nei 27 Paesi membri dell'Unione europea risulta che mentre gli altri paesi spendono in pensioni mediamente il 46,2% del loro budget sociale (il 11,9% del PIL), in Italia le pensioni assorbono ben il 60,5% dell'intera spesa sociale (e il 15,5% del PIL). Squilibrio ancora maggiore se ci confrontiamo con le nazioni paragonabili all'Italia per dimensioni e strutture economico-sociali e demografiche (Francia, Germania, Gran Bretagna). Ciò permette a queste nazioni di dedicare più risorse dell'Italia ad altre voci di spesa sociale: gli ammortizzatori sociali; l'assistenza sanitaria; i servizi sociali alla famiglia e ai bambini (anche il doppio o il triplo dell'Italia), come gli asili nido (che incentivano il lavoro femminile e aiutano le donne a conciliare carriera e famiglia, con effetti positivi anche sui redditi e sul PIL).
Manca il capitolo tasse. Nel nostro Paese sopportiamo ancora una delle pressioni fiscali più elevate d'Europa - oltre il 43% - ed è un sistema che continua ad essere iniquo ed evaso, e a costituire un freno per l'economia. E' difficile in tempi di crisi, quando il bilancio statale è sottoposto a uno stress inevitabile a causa della recessione, parlare di tagli alle tasse, ma nell'orizzonte di una legislatura è un tema che dovrà essere affrontato.
Sulle pensioni come su altri temi (l'università, la pubblica amministrazione), il governo muove piccoli passi, troppo piccoli, e con piccole dosi di coraggio, ma nelle giuste direzioni. Qual è stata finora la reazione del Pd a questi piccoli passi? Non quella di incoraggiarlo a fare di più, magari offrendosi di condividere la responsabilità politica di scelte più coraggiose, ma tanti "no" pregiudiziali. Sulle pensioni, tranne isolati e lodevoli casi individuali, il Pd è apparso appiattito sulle posizioni immobiliste della Cgil, contestando persino l'adeguamento dell'età pensionabile delle donne a quella degli uomini nella PA, imposto dall'Ue; sulla giustizia insegue l'alleato Di Pietro, dal quale si riesce a distinguere solo quando l'ex pm attacca il capo dello Stato; ha cavalcato la protesta dell'Onda studentesca contro i tentativi della Gelmini di riformare l'università; per non parlare di certi epiteti usati nei confronti del ministro Brunetta.
L'unico fronte su cui il Pd ha incalzato il governo rimproverandogli di non avere coraggio è quello – sbagliato – della spesa pubblica come strategia anti-crisi. Tremonti stavolta ha risposto bene, bisogna dargliene atto: «Se avessimo avuto più coraggio avremmo potuto fare più deficit e debito. Ma avremmo aumentato i rischi e i costi per l'Italia. Non credo sia questo l'interesse del Paese né degli italiani». A parte il deterioramento del bilancio statale, fisiologico per effetto della recessione, l'Italia non sta peggio di altri Paesi che hanno messo in atto enormi piani di spesa pubblica. Non si troverà neanche meglio, ma certamente non peggio. E ciò dovrebbe far riflettere sull'utilità di certi pacchetti di stimolo.
La reazione del Pd spiega perché non possiamo far altro che tenerci stretti i piccoli passi che muove il governo di centrodestra. Se il governo si muove poco ma nella giusta direzione, il Pd andrebbe in senso opposto. Una linea, quella di Tremonti e Sacconi, definita dal Sole 24 Ore «del riformismo nordeuropeo». E' questo uno degli "eccezionalismi" della politica italiana. I socialisti in Italia sono stati per decenni odiati e demonizzati dai comunisti prima e dai post-comunisti poi, egemoni a sinistra. Dopo Tangentopoli, nel corso degli anni, alcuni dalla mentalità più aperta e pragmatica sono passati da sinistra a destra, da dove ora governano la politica economica del Paese con le loro idee (vedi Tremonti, Sacconi, Brunetta e Cazzola).
Abbiamo così in Italia la stranezza di un centrodestra che invece di politiche orientate al libero mercato, ai tagli della spesa e delle tasse, pratica una politica economica e sociale ispirata al riformismo delle socialdemocrazie nordeuropee, moderatamente e responsabilmente statalista (che cerca cioè di far funzionare lo stato, ma non di alleggerirlo); e dall'altra parte un centrosinistra egemonizzato da ex e post-comunisti e da ex Dc di sinistra, che invece di sposare il mercato e il riformismo blairiano è arroccato su una linea immobilista, assistenzialista, tassa & spendi.
I sindacati (tutti tranne la Cgil) e l'opinione pubblica (il 59%, almeno stando ad un recente sondaggio del Financial Times) sembrano ormai favorevoli, o per lo meno possibilisti, all'innalzamento graduale dell'età effettiva di pensionamento, e Confindustria l'ha richiesta a gran voce. Il governo deve aver preso una briciola di coraggio - dalla totale chiusura di poche settimane fa di Tremonti e Sacconi (secondo cui in tempo di crisi non si doveva toccare nulla) - e un passo nella direzione giusta l'ha mosso. Non solo l'aumento graduale dell'età di pensionamento per le donne nella pubblica amministrazione a partire dal 2010 - per il quale il governo ha astutamente aspettato la "copertura" politica della condanna da parte della Corte di Giustizia europea - ma a sorpresa anche un percorso che porterà nel 2015 ad agganciare, in modo parziale, le pensioni alle aspettative di vita media.
Certo, il 2015 è lontano e queste riforme differite nel tempo rischiano di essere revocate dai successivi governi, come accadde con la controriforma del Governo Prodi che abolì lo "scalone" Maroni, diminuendo di fatto l'età di pensionamento e soprattutto caricandone i costi sulle spalle dei lavoratori flessibili, i più indifesi. Ma l'agganciamento delle pensioni alla speranza di vita è una «riforma strutturale fondamentale. Ci porta come sistema delle pensioni alle condizioni di maggiore affidabilità e stabilità in Europa», ha rivendicato Tremonti, per il quale solo poche settimane fa quel sistema andava bene così com'era.
I risparmi economici non saranno dispersi nel mare magnum della spesa pubblica, ma «rimarranno nel circuito del welfare», ha assicurato il ministro evocando proprio quel riequilibrio tra le varie categorie della nostra spesa sociale di cui l'Italia ha bisogno per adeguarsi al livello di servizi e ammortizzatori degli altri grandi Paesi europei come Francia, Germania e Gran Bretagna.
L'Italia infatti ha assoluto bisogno che la sua spesa pensionistica pesi di meno in rapporto al PIL. Dagli ultimi dati Eurostat relativi al 2006 sulla composizione della spesa sociale nei 27 Paesi membri dell'Unione europea risulta che mentre gli altri paesi spendono in pensioni mediamente il 46,2% del loro budget sociale (il 11,9% del PIL), in Italia le pensioni assorbono ben il 60,5% dell'intera spesa sociale (e il 15,5% del PIL). Squilibrio ancora maggiore se ci confrontiamo con le nazioni paragonabili all'Italia per dimensioni e strutture economico-sociali e demografiche (Francia, Germania, Gran Bretagna). Ciò permette a queste nazioni di dedicare più risorse dell'Italia ad altre voci di spesa sociale: gli ammortizzatori sociali; l'assistenza sanitaria; i servizi sociali alla famiglia e ai bambini (anche il doppio o il triplo dell'Italia), come gli asili nido (che incentivano il lavoro femminile e aiutano le donne a conciliare carriera e famiglia, con effetti positivi anche sui redditi e sul PIL).
Manca il capitolo tasse. Nel nostro Paese sopportiamo ancora una delle pressioni fiscali più elevate d'Europa - oltre il 43% - ed è un sistema che continua ad essere iniquo ed evaso, e a costituire un freno per l'economia. E' difficile in tempi di crisi, quando il bilancio statale è sottoposto a uno stress inevitabile a causa della recessione, parlare di tagli alle tasse, ma nell'orizzonte di una legislatura è un tema che dovrà essere affrontato.
Sulle pensioni come su altri temi (l'università, la pubblica amministrazione), il governo muove piccoli passi, troppo piccoli, e con piccole dosi di coraggio, ma nelle giuste direzioni. Qual è stata finora la reazione del Pd a questi piccoli passi? Non quella di incoraggiarlo a fare di più, magari offrendosi di condividere la responsabilità politica di scelte più coraggiose, ma tanti "no" pregiudiziali. Sulle pensioni, tranne isolati e lodevoli casi individuali, il Pd è apparso appiattito sulle posizioni immobiliste della Cgil, contestando persino l'adeguamento dell'età pensionabile delle donne a quella degli uomini nella PA, imposto dall'Ue; sulla giustizia insegue l'alleato Di Pietro, dal quale si riesce a distinguere solo quando l'ex pm attacca il capo dello Stato; ha cavalcato la protesta dell'Onda studentesca contro i tentativi della Gelmini di riformare l'università; per non parlare di certi epiteti usati nei confronti del ministro Brunetta.
L'unico fronte su cui il Pd ha incalzato il governo rimproverandogli di non avere coraggio è quello – sbagliato – della spesa pubblica come strategia anti-crisi. Tremonti stavolta ha risposto bene, bisogna dargliene atto: «Se avessimo avuto più coraggio avremmo potuto fare più deficit e debito. Ma avremmo aumentato i rischi e i costi per l'Italia. Non credo sia questo l'interesse del Paese né degli italiani». A parte il deterioramento del bilancio statale, fisiologico per effetto della recessione, l'Italia non sta peggio di altri Paesi che hanno messo in atto enormi piani di spesa pubblica. Non si troverà neanche meglio, ma certamente non peggio. E ciò dovrebbe far riflettere sull'utilità di certi pacchetti di stimolo.
La reazione del Pd spiega perché non possiamo far altro che tenerci stretti i piccoli passi che muove il governo di centrodestra. Se il governo si muove poco ma nella giusta direzione, il Pd andrebbe in senso opposto. Una linea, quella di Tremonti e Sacconi, definita dal Sole 24 Ore «del riformismo nordeuropeo». E' questo uno degli "eccezionalismi" della politica italiana. I socialisti in Italia sono stati per decenni odiati e demonizzati dai comunisti prima e dai post-comunisti poi, egemoni a sinistra. Dopo Tangentopoli, nel corso degli anni, alcuni dalla mentalità più aperta e pragmatica sono passati da sinistra a destra, da dove ora governano la politica economica del Paese con le loro idee (vedi Tremonti, Sacconi, Brunetta e Cazzola).
Abbiamo così in Italia la stranezza di un centrodestra che invece di politiche orientate al libero mercato, ai tagli della spesa e delle tasse, pratica una politica economica e sociale ispirata al riformismo delle socialdemocrazie nordeuropee, moderatamente e responsabilmente statalista (che cerca cioè di far funzionare lo stato, ma non di alleggerirlo); e dall'altra parte un centrosinistra egemonizzato da ex e post-comunisti e da ex Dc di sinistra, che invece di sposare il mercato e il riformismo blairiano è arroccato su una linea immobilista, assistenzialista, tassa & spendi.
Thursday, July 23, 2009
Se fosse Obama ad aiutare Ahmadinejad
Su Il Velino:
«Il presidente Obama aiuterà il regime khomeinista a riguadagnare un po' della legittimazione persa» a causa dei brogli elettorali e delle repressioni dell'ultimo mese? E' la domanda che si sarebbe posto in pubblico l'ex presidente Khatami, incontrando le famiglie di alcuni dei 5 mila oppositori arrestati durante le proteste. A riferirlo, sul New York Post di ieri, è Amir Taheri, secondo cui la strategia di Ahmadinejad per puntellare il suo potere in questo momento di crisi politica interna passa per la ricerca della legittimazione internazionale. La sua debolezza interna potrebbe spingerlo ad aperture strumentali che potrebbero trarre in inganno il presidente Obama.
CONTINUA
«Il presidente Obama aiuterà il regime khomeinista a riguadagnare un po' della legittimazione persa» a causa dei brogli elettorali e delle repressioni dell'ultimo mese? E' la domanda che si sarebbe posto in pubblico l'ex presidente Khatami, incontrando le famiglie di alcuni dei 5 mila oppositori arrestati durante le proteste. A riferirlo, sul New York Post di ieri, è Amir Taheri, secondo cui la strategia di Ahmadinejad per puntellare il suo potere in questo momento di crisi politica interna passa per la ricerca della legittimazione internazionale. La sua debolezza interna potrebbe spingerlo ad aperture strumentali che potrebbero trarre in inganno il presidente Obama.
CONTINUA
Tuesday, July 21, 2009
Moratti si nasce
Dallo "sfortunato" collocamento in Borsa della Saras alle «sontuose campagne acquisti» per l'Inter; dagli incidenti nella raffineria di Sarroch in Sardegna ai "buoni benzina" ai partiti. Tutto da leggere questo pregevole pezzo di Gianluigi Da Rold per Il Velino sul «fascino discreto» dei Moratti.
Friday, July 17, 2009
Rafsanjani rilancia la sua sfida
Devo correggermi. Il sermone pronunciato oggi all'Università di Teheran dall'ex presidente e ayatollah Rafsanjani, per la prima volta dalle contestate elezioni presidenziali, non sembra affatto suggellare un compromesso tra il fronte moderato e "riformista" e la coppia Khamenei-Ahmadinejad. Neanche una tregua. Il problema politico rimane e Rafsanjani insiste, anzi rilancia la sua sfida alla Guida suprema, la rende pubblica, anche se il suo discorso segna l'istituzionalizzazione della crisi, con la conseguente marginalizzazione del movimento popolare, e richiama l'establishment all'unità e alla fratellanza per la salvaguardia della Repubblica islamica. Ma è il massimo che ci si poteva realisticamente aspettare. A scanso di equivoci, non stiamo parlando di una rivoluzione democratica, ma di uno scontro che prosegue, all'interno del sistema khomeinista, e che ha comunque ancor di più ridotto la sua legittimazione politica agli occhi degli iraniani e che nel medio-lungo termine potrebbe evolversi fino alla caduta del regime.
Il tentativo dell'ex presidente è di riconquistare uno spazio centrale nella struttura di potere e nella politica iraniana, di porsi come mediatore e riconciliatore, senza rinunciare ad attaccare i suoi rivali. Per questo, forse, il sermone non è stato trasmesso in diretta tv, ma solo alla radio. Nel passaggio politicamente più rilevante del suo sermone Rafsanjani critica il Consiglio dei Guardiani, che «non ha usato nel miglior modo possibile» il tempo supplementare concesso dalla Guida suprema per esaminare i ricorsi presentati dai candidati sconfitti, e cita l'Imam Khomeini, quando usava ricordare le parole del Profeta Maometto al successore Alì: «Se il popolo non ti vuole, non puoi essere Wali (guida, n.d.r.)». Un monito nei confronti del governo di Ahmadinejad, ma anche di Khamenei.
Quindi, propone la sua «soluzione» a quella che definisce una vera e propria «crisi» della Repubblica. Premette di essersi «consultato» con i membri del Consiglio degli Esperti e del Consiglio per il Discernimento dell'Interesse del regime, lasciando intendere che non il Consiglio dei Guardiani, ma il Consiglio degli Esperti, di cui è presidente e sul quale può esercitare una maggiore influenza, è la sede istituzionale più qualificata a indicare la via verso la soluzione della crisi. Dopo le elezioni del 12 giugno si è creata una situazione «amara». «Un gran numero di iraniani nutre dubbi sul risultato delle elezioni», osserva Rafsanjani, sollecitando la «rimozione» di questi dubbi. «Il popolo iraniano ha perso la fiducia nel governo» e questa «fiducia» deve essere «riguadagnata», dice, elencando i suoi «suggerimenti». Innanzitutto, «dobbiamo tutti attenerci alla legge»; «dobbiamo creare le condizioni per cui ciascuno possa parlare»; «non si devono imporre vincoli ai mezzi d'informazione, entro i limiti della legge». Poi chiede di scarcerare i manifestanti arrestati durante le proteste («nella situazione attuale non è necessario avere persone in prigione, dovremmo permettere loro di tornare dalle loro famiglie») e di presentare le «condoglianze» alle famiglie che hanno sofferto delle vittime.
Rafsanjani non ci sta a lasciare campo libero a Khamenei e ad Ahmadinejad, ma i numerosi richiami al rispetto della legge, a «uscire da questa situazione solo attraverso le vie legali», e gli appelli al dialogo e all'unità indicano la sua lealtà al sistema khomeinista: «Siamo tutti membri di una famiglia e spero con questo sermone che possiamo attraversare questo periodo difficile che può essere definito una crisi». Insomma, la soluzione può e deve essere trovata secondo i principi della Repubblica islamica, non contro.
In un altro passaggio importante del suo sermone infatti si concentra sul ruolo del consenso popolare e sulle parole dell'Imam Khomeini. Per governare è «necessario» il consenso popolare, «senza di esso il governo non ha legittimità», sottolinea Rafsanjani ricordando come in Iran «il potere è in mano al popolo... tutte le istituzioni vengono elette dal popolo», per volere dell'Imam Khomeini, fondatore della Repubblica islamica, che «ha sempre enfatizzato il ruolo del popolo». Facendo pesare la sua storia personale di fedeltà alla Repubblica e di protagonista della rivoluzione e della vita politica del paese al fianco di Khomeini, Rafsanjani trasforma il suo sermone in una vera e propria lezione sui fondamenti istituzionali della Repubblica islamica.
I commenti degli iraniani che si possono leggere in rete sono molto diversi tra loro. Alcuni sono molto contenti delle parole di Rafsanjani; altri sorpresi, conoscendo la sua proverbiale cautela, ma avrebbero voluto che andasse oltre; altri ancora sono rimasti delusi e credono che abbia "liquidato" il popolo. La storia politica di Rafsanjani è fatta di opportunismi e ambiguità. Ha sempre evitato di assumere posizioni che limitassero i suoi spazi di manovra e anche oggi ha tenuto fede al suo tatticismo, ma questa volta sembra intenzionato a contrastare - sia pure con i suoi metodi e credendo di salvaguardare al meglio i principi della rivoluzione khomeinista - la totale conquista del potere da parte di Khamenei, Ahmadinejad e delle Guardie rivoluzionarie.
UPDATE: Il testo in inglese del sermone (fonte: Cfr.org).
Il tentativo dell'ex presidente è di riconquistare uno spazio centrale nella struttura di potere e nella politica iraniana, di porsi come mediatore e riconciliatore, senza rinunciare ad attaccare i suoi rivali. Per questo, forse, il sermone non è stato trasmesso in diretta tv, ma solo alla radio. Nel passaggio politicamente più rilevante del suo sermone Rafsanjani critica il Consiglio dei Guardiani, che «non ha usato nel miglior modo possibile» il tempo supplementare concesso dalla Guida suprema per esaminare i ricorsi presentati dai candidati sconfitti, e cita l'Imam Khomeini, quando usava ricordare le parole del Profeta Maometto al successore Alì: «Se il popolo non ti vuole, non puoi essere Wali (guida, n.d.r.)». Un monito nei confronti del governo di Ahmadinejad, ma anche di Khamenei.
Quindi, propone la sua «soluzione» a quella che definisce una vera e propria «crisi» della Repubblica. Premette di essersi «consultato» con i membri del Consiglio degli Esperti e del Consiglio per il Discernimento dell'Interesse del regime, lasciando intendere che non il Consiglio dei Guardiani, ma il Consiglio degli Esperti, di cui è presidente e sul quale può esercitare una maggiore influenza, è la sede istituzionale più qualificata a indicare la via verso la soluzione della crisi. Dopo le elezioni del 12 giugno si è creata una situazione «amara». «Un gran numero di iraniani nutre dubbi sul risultato delle elezioni», osserva Rafsanjani, sollecitando la «rimozione» di questi dubbi. «Il popolo iraniano ha perso la fiducia nel governo» e questa «fiducia» deve essere «riguadagnata», dice, elencando i suoi «suggerimenti». Innanzitutto, «dobbiamo tutti attenerci alla legge»; «dobbiamo creare le condizioni per cui ciascuno possa parlare»; «non si devono imporre vincoli ai mezzi d'informazione, entro i limiti della legge». Poi chiede di scarcerare i manifestanti arrestati durante le proteste («nella situazione attuale non è necessario avere persone in prigione, dovremmo permettere loro di tornare dalle loro famiglie») e di presentare le «condoglianze» alle famiglie che hanno sofferto delle vittime.
Rafsanjani non ci sta a lasciare campo libero a Khamenei e ad Ahmadinejad, ma i numerosi richiami al rispetto della legge, a «uscire da questa situazione solo attraverso le vie legali», e gli appelli al dialogo e all'unità indicano la sua lealtà al sistema khomeinista: «Siamo tutti membri di una famiglia e spero con questo sermone che possiamo attraversare questo periodo difficile che può essere definito una crisi». Insomma, la soluzione può e deve essere trovata secondo i principi della Repubblica islamica, non contro.
In un altro passaggio importante del suo sermone infatti si concentra sul ruolo del consenso popolare e sulle parole dell'Imam Khomeini. Per governare è «necessario» il consenso popolare, «senza di esso il governo non ha legittimità», sottolinea Rafsanjani ricordando come in Iran «il potere è in mano al popolo... tutte le istituzioni vengono elette dal popolo», per volere dell'Imam Khomeini, fondatore della Repubblica islamica, che «ha sempre enfatizzato il ruolo del popolo». Facendo pesare la sua storia personale di fedeltà alla Repubblica e di protagonista della rivoluzione e della vita politica del paese al fianco di Khomeini, Rafsanjani trasforma il suo sermone in una vera e propria lezione sui fondamenti istituzionali della Repubblica islamica.
«Abbiamo organizzato lo Stato prendendo come punto di riferimento la volontà del popolo. Ecco perché è il popolo che elegge l'Assemblea degli Esperti, che a sua volta elegge la Guida, così come il popolo elegge il Parlamento ed è il popolo che deve scegliere il presidente... Se l'elemento islamico e quello repubblicano della rivoluzione non sono preservati, ciò significa che abbiamo dimenticato i principi della rivoluzione».Ovviamente Rafsanjani non ci convincerà mai che l'Iran degli ayatollah è una democrazia, ma è chiaro - ed è ciò che qui ci interessa - chi tra le righe sta accusando di tradire la rivoluzione.
I commenti degli iraniani che si possono leggere in rete sono molto diversi tra loro. Alcuni sono molto contenti delle parole di Rafsanjani; altri sorpresi, conoscendo la sua proverbiale cautela, ma avrebbero voluto che andasse oltre; altri ancora sono rimasti delusi e credono che abbia "liquidato" il popolo. La storia politica di Rafsanjani è fatta di opportunismi e ambiguità. Ha sempre evitato di assumere posizioni che limitassero i suoi spazi di manovra e anche oggi ha tenuto fede al suo tatticismo, ma questa volta sembra intenzionato a contrastare - sia pure con i suoi metodi e credendo di salvaguardare al meglio i principi della rivoluzione khomeinista - la totale conquista del potere da parte di Khamenei, Ahmadinejad e delle Guardie rivoluzionarie.
UPDATE: Il testo in inglese del sermone (fonte: Cfr.org).
Medvedev saprà emanciparsi da Putin?
E' uno stillicidio di giornalisti e attivisti per i diritti umani in Russia, neanche fossimo in Birmania o in Iran, ma la comunità internazionale sembra ormai assuefatta. L'ultima vittima in ordine di tempo è Natalya Estemirova. Avrete già letto di lei e della sua attività di denuncia sui giornali e non sto a ripetervi le considerazioni fatte decine di volte sulla Russia di Putin. Se una novità è possibile registrare questa volta, è senz'altro nella reazione del presidente russo Medvedev. I responsabili dell'omicidio, ha assicurato, «saranno trovati e puniti». Fin qui niente di particolarmente originale, anche se Putin aveva commentato l'uccisione della Politkovskaya con un laconico «nessuno la conosceva».
Ha ragione Novazio, oggi su La Stampa, quando scrive che «a rendere significativo l'intervento del capo del Cremlino sono altre, più incisive, parole: la giornalista, che aveva svelato sequestri, torture e omicidi delle forze filorusse in Cecenia "diceva la verità", sostiene il presidente: "Il suo assassinio è legato alla sua attività professionale, utile per uno Stato normale"».
Parole che fanno ben sperare sul futuro della Russia, ma saranno i fatti, non le parole, a fare di Medvedev un democratico, e probabilmente le sue parole di ieri sono state dettate in parte dalla circostanza (l'incontro con la cancelliera Merkel) e dalla strumentalità, ma intanto le annotiamo, perché se è vero che Medvedev deve a Putin la presidenza, è anche vero che per restarci ha bisogno di rafforzare il suo personaggio, di crearsi una propria identità politica indipendente e riconoscibile, anche smarcandosi dall'immagine di Putin. E uno dei modi è senz'altro acquisire una maggiore rispettabilità agli occhi dell'Occidente.
Anche se spinto dall'ambizione personale più che da nobili ideali, c'è da augurarsi che voglia emanciparsi politicamente da Putin e che la sua reazione di ieri sia un sintomo di questo processo. Ne potrà scaturire solo del bene. Uno dei temi dei prossimi mesi e anni per capire dove andrà la Russia è proprio questo: Medvedev saprà emanciparsi da Putin?
Ha ragione Novazio, oggi su La Stampa, quando scrive che «a rendere significativo l'intervento del capo del Cremlino sono altre, più incisive, parole: la giornalista, che aveva svelato sequestri, torture e omicidi delle forze filorusse in Cecenia "diceva la verità", sostiene il presidente: "Il suo assassinio è legato alla sua attività professionale, utile per uno Stato normale"».
Parole che fanno ben sperare sul futuro della Russia, ma saranno i fatti, non le parole, a fare di Medvedev un democratico, e probabilmente le sue parole di ieri sono state dettate in parte dalla circostanza (l'incontro con la cancelliera Merkel) e dalla strumentalità, ma intanto le annotiamo, perché se è vero che Medvedev deve a Putin la presidenza, è anche vero che per restarci ha bisogno di rafforzare il suo personaggio, di crearsi una propria identità politica indipendente e riconoscibile, anche smarcandosi dall'immagine di Putin. E uno dei modi è senz'altro acquisire una maggiore rispettabilità agli occhi dell'Occidente.
Anche se spinto dall'ambizione personale più che da nobili ideali, c'è da augurarsi che voglia emanciparsi politicamente da Putin e che la sua reazione di ieri sia un sintomo di questo processo. Ne potrà scaturire solo del bene. Uno dei temi dei prossimi mesi e anni per capire dove andrà la Russia è proprio questo: Medvedev saprà emanciparsi da Putin?
Thursday, July 16, 2009
Il sermone del compromesso
Mousavi ha confermato la sua presenza alla preghiera del venerdì all'università di Teheran, che sarà condotta, per la prima volta dalle contestate presidenziali, da Rafsanjani, l'ex presidente che molto si è dato da fare dietro le quinte per portare il clero di Qom su posizioni ostili alla coppia Khamenei-Ahmadinejad. Il suo sermone di domani dovrebbe sancire però il definitivo compromesso, o per lo meno una tregua duratura, tra le due fazioni del regime. Ai segnali di cui parlavamo due giorni fa, si aggiungono oggi i retroscena - non saprei dire quanto attendibili - di alcuni media arabi di proprietà saudita. Secondo fonti iraniane "ufficiali" citate dal quotidiano al Sharq al Awsat e dalla tv satellitare al Arabiya, subito dopo la preghiera sarebbe stato autorizzato un corteo guidato da Rafsanjani, Mousavi e dall'ex presidente Khatami.
Mi sembra ipotesi al quanto improbabile, ma secondo le stesse fonti suggellerebbe il compromesso che si sta profilando a Teheran: verrebbe autorizzata la formazione di un largo "Fronte d'opposizione moderata" guidato dal candidato sconfitto, Mousavi, e sostenuto dai due ex presidenti, Rafsanjani e Khatami, «in modo da garantire un ombrello politico [leale al regime, n.d.r.] per tutte le forme di dissenso». In cambio, il Fronte dovrebbe riconoscere «la legittimità del governo di Ahamdinejad». Su sollecitazione degli ayatollah di Qom verrebbero inoltre rilasciate «tutte le persone arrestate» durante gli scontri e verrebbe aperta «un'indagine su larga scala per punire i responsabili della repressione» - cose ancor più improbabili. Anzi, secondo una fonte "governativa" citata sempre da al Sharq al Awsat, sarà lo stesso Rafsanjani nel suo sermone a chiedere di «punire i responsabili delle repressioni avvenute durante le manifestazioni di protesta e di aprire una inchiesta su larga scala» e a insistere perché «non si ripeta mai più la brutalità» contro i manifestanti.
Il fratello di Rafsanjani, Mohammed Hashimi, citato dal quotidiano arabo, avrebbe spiegato che «le condizioni politiche e sociali per la formazione di un Fronte sono ormai mature perché coloro che hanno votato per Mousavi rappresentano una forza enorme» tra «le elite universitarie e gli studenti». Il quotidiano conservatore Sarmaya, citato dalla tv al Arabiya, scrive che «se Mousavi riconosce la legittimità del governo e chiede l'autorizzazione per formare un suo partito, sarà un passo positivo che accoglieremo». Staremo a vedere.
Intanto, da Washington giunge una conferma della linea dell'amministrazione Obama (condanna della repressione, ma mano tesa a Teheran), anche se il trascorrere del tempo senza risposte sembra rendere più ultimativi i toni dell'offerta da parte americana. Ieri, parlando al Council on Foreign Relations, Hillary Clinton ha ammonito l'Iran e gli altri avversari degli Stati Uniti di «non interpretate la volontà americana di dialogare come un segno di debolezza». E se il segretario di Stato ha sentito l'esigenza di chiarirlo esplicitamente, vuol dire che il rischio concreto che le aperture vengano intepretate come debolezza esiste davvero. Dopo aver definito «inaccettabile» la repressione, la Clinton ha spiegato anche che la scelta che ha di fronte l'Iran «è chiara»: «Noi rimaniamo pronti a negoziare con l'Iran, ma il momento di agire è questo». Negli ultimi tempi l'amministrazione Obama sta enfatizzando sempre di più il fatto che «l'opportunità non rimarrà aperta all'infinito».
La Clinton ha anche voluto chiarire che pur avendo scelto di aprire un momento della diplomazia, l'amministrazione rimane pronta a usare la forza: «Non esiteremo a difendere i nostri amici e noi stessi vigorosamente quando necessario, con l'esercito più forte del mondo. Non è un'opzione che cerchiamo, né una minaccia, ma una promessa al popolo americano». Un altro messaggio all'indirizzo di Teheran.
«A parte il fatto che con questo regime non ci si può fidare di negoziare nulla - commenta oggi il Wall Street Journal - più immediatamente evidente è che milioni di iraniani si rifiutano di accettare i "leader" della "Repubblica islamica" (parole della Clinton) che l'amministrazione così ansiosamente mira a coinvolgere... Perché Washington ha fretta di conferire il riconoscimento americano e internazionale a un regime che non gode della legittimazione del suo stesso popolo?». Anche il WSJ volge «occhi e orecchie» al sermone di venerdì: Rafsanjani «si opporrà apertamente al regime, o cercherà di porre fine alla faida interna?». Penso che ormai rimangano pochi dubbi: la seconda.
Mi sembra ipotesi al quanto improbabile, ma secondo le stesse fonti suggellerebbe il compromesso che si sta profilando a Teheran: verrebbe autorizzata la formazione di un largo "Fronte d'opposizione moderata" guidato dal candidato sconfitto, Mousavi, e sostenuto dai due ex presidenti, Rafsanjani e Khatami, «in modo da garantire un ombrello politico [leale al regime, n.d.r.] per tutte le forme di dissenso». In cambio, il Fronte dovrebbe riconoscere «la legittimità del governo di Ahamdinejad». Su sollecitazione degli ayatollah di Qom verrebbero inoltre rilasciate «tutte le persone arrestate» durante gli scontri e verrebbe aperta «un'indagine su larga scala per punire i responsabili della repressione» - cose ancor più improbabili. Anzi, secondo una fonte "governativa" citata sempre da al Sharq al Awsat, sarà lo stesso Rafsanjani nel suo sermone a chiedere di «punire i responsabili delle repressioni avvenute durante le manifestazioni di protesta e di aprire una inchiesta su larga scala» e a insistere perché «non si ripeta mai più la brutalità» contro i manifestanti.
Il fratello di Rafsanjani, Mohammed Hashimi, citato dal quotidiano arabo, avrebbe spiegato che «le condizioni politiche e sociali per la formazione di un Fronte sono ormai mature perché coloro che hanno votato per Mousavi rappresentano una forza enorme» tra «le elite universitarie e gli studenti». Il quotidiano conservatore Sarmaya, citato dalla tv al Arabiya, scrive che «se Mousavi riconosce la legittimità del governo e chiede l'autorizzazione per formare un suo partito, sarà un passo positivo che accoglieremo». Staremo a vedere.
Intanto, da Washington giunge una conferma della linea dell'amministrazione Obama (condanna della repressione, ma mano tesa a Teheran), anche se il trascorrere del tempo senza risposte sembra rendere più ultimativi i toni dell'offerta da parte americana. Ieri, parlando al Council on Foreign Relations, Hillary Clinton ha ammonito l'Iran e gli altri avversari degli Stati Uniti di «non interpretate la volontà americana di dialogare come un segno di debolezza». E se il segretario di Stato ha sentito l'esigenza di chiarirlo esplicitamente, vuol dire che il rischio concreto che le aperture vengano intepretate come debolezza esiste davvero. Dopo aver definito «inaccettabile» la repressione, la Clinton ha spiegato anche che la scelta che ha di fronte l'Iran «è chiara»: «Noi rimaniamo pronti a negoziare con l'Iran, ma il momento di agire è questo». Negli ultimi tempi l'amministrazione Obama sta enfatizzando sempre di più il fatto che «l'opportunità non rimarrà aperta all'infinito».
La Clinton ha anche voluto chiarire che pur avendo scelto di aprire un momento della diplomazia, l'amministrazione rimane pronta a usare la forza: «Non esiteremo a difendere i nostri amici e noi stessi vigorosamente quando necessario, con l'esercito più forte del mondo. Non è un'opzione che cerchiamo, né una minaccia, ma una promessa al popolo americano». Un altro messaggio all'indirizzo di Teheran.
«A parte il fatto che con questo regime non ci si può fidare di negoziare nulla - commenta oggi il Wall Street Journal - più immediatamente evidente è che milioni di iraniani si rifiutano di accettare i "leader" della "Repubblica islamica" (parole della Clinton) che l'amministrazione così ansiosamente mira a coinvolgere... Perché Washington ha fretta di conferire il riconoscimento americano e internazionale a un regime che non gode della legittimazione del suo stesso popolo?». Anche il WSJ volge «occhi e orecchie» al sermone di venerdì: Rafsanjani «si opporrà apertamente al regime, o cercherà di porre fine alla faida interna?». Penso che ormai rimangano pochi dubbi: la seconda.
Gli sconfinamenti di Napolitano
Nonostante tutto sommato stia interpretando con prudenza ed equilibrio il suo mandato, e meriti persino un plauso per i suoi interventi nei confronti del Csm e sulla giustizia in generale, è la seconda volta che il presidente della Repubblica commette l'errore di andare al di là di quelle che sono le sue prerogative costituzionali. Nella lettera al presidente del Consiglio sul caso Englaro non solo avanzava la discutibile pretesa di un suo "no" preventivo a un decreto del governo ancora in via di scrittura, ma riduceva lo spazio politico per ottenere lo scopo da lui - e da alcuni all'interno del governo stesso - auspicato. In questa occasione ha deciso per una "promulgazione critica" del "pacchetto sicurezza", ben sapendo che fondati rilievi di costituzionalità per il rinvio del testo alle Camere non ce ne sono, e che dal punto di vista della sua coerenza e omogeneità riconsegnare la legge a un farraginoso iter parlamentare sarebbe stato peggio. Il problema però è che in questo modo il presidente si spinge troppo all'interno del processo di formazione delle leggi.
Un tentativo apprezzabile, pragmatico ed equilibrato, perché volto in perfetta buona fede a rendere la legge più efficace e applicabile, e infatti accolto con favore dal governo stesso, a cui viene offerta la possibilità di correggere le storture via via introdotte. «Quando parla di eterogeneità e di scarsa omogeneità si riferisce a principi non costituzionalmente imposti, ma ai quali un buon legislatore dovrebbe attenersi», ha spiegato a il Giornale il costituzionalista Achille Chiappetti. Le osservazioni del capo dello Stato hanno quindi rilievo tecnico più che politico e «riguardano il metodo di formazione della legge». In pratica, «una critica ai provvedimenti omnibus, in cui entra di tutto nel corso dell'iter parlamentare», un problema che «esiste da decenni». Evidentemente, quindi, la lettera di Napolitano chiama in causa non solo il governo e la maggioranza, ma anche il «lavoro dell'opposizione, che avrebbe potuto contribuire a migliorare la legge con una critica costruttiva e non cieca e bieca. L'accusa è all'intero Parlamento, c'è una corresponsabilità di tutti».
Dunque, il problema è capire quanto l'efficacia e l'applicabilità di una legge, principi a cui il «buon legislatore dovrebbe attenersi», siano cruciali per il buon funzionamento dell'intero ordinamento, e quindi degni della tutela del presidente della Repubblica, e quanto invece requisiti di cui si devono assumere la responsabilità politica esclusivamente il governo e la maggioranza. Nel primo caso l'iniziativa di Napolitano, sia pure irrituale, può essere fatta rientrare nel dettato costituzionale; nel secondo, decisamente no. Questo dal punto di vista costituzionale; dal punto di vista politico il dato è che regge il delicato equilibrio tra Quirinale e Palazzo Chigi, che sembrano aver raggiunto un compromesso per convivere senza pestarsi i piedi.
Un tentativo apprezzabile, pragmatico ed equilibrato, perché volto in perfetta buona fede a rendere la legge più efficace e applicabile, e infatti accolto con favore dal governo stesso, a cui viene offerta la possibilità di correggere le storture via via introdotte. «Quando parla di eterogeneità e di scarsa omogeneità si riferisce a principi non costituzionalmente imposti, ma ai quali un buon legislatore dovrebbe attenersi», ha spiegato a il Giornale il costituzionalista Achille Chiappetti. Le osservazioni del capo dello Stato hanno quindi rilievo tecnico più che politico e «riguardano il metodo di formazione della legge». In pratica, «una critica ai provvedimenti omnibus, in cui entra di tutto nel corso dell'iter parlamentare», un problema che «esiste da decenni». Evidentemente, quindi, la lettera di Napolitano chiama in causa non solo il governo e la maggioranza, ma anche il «lavoro dell'opposizione, che avrebbe potuto contribuire a migliorare la legge con una critica costruttiva e non cieca e bieca. L'accusa è all'intero Parlamento, c'è una corresponsabilità di tutti».
Dunque, il problema è capire quanto l'efficacia e l'applicabilità di una legge, principi a cui il «buon legislatore dovrebbe attenersi», siano cruciali per il buon funzionamento dell'intero ordinamento, e quindi degni della tutela del presidente della Repubblica, e quanto invece requisiti di cui si devono assumere la responsabilità politica esclusivamente il governo e la maggioranza. Nel primo caso l'iniziativa di Napolitano, sia pure irrituale, può essere fatta rientrare nel dettato costituzionale; nel secondo, decisamente no. Questo dal punto di vista costituzionale; dal punto di vista politico il dato è che regge il delicato equilibrio tra Quirinale e Palazzo Chigi, che sembrano aver raggiunto un compromesso per convivere senza pestarsi i piedi.
Tuesday, July 14, 2009
Attesa per il sermone di Rafsanjani: vietato illudersi
Durante tutta la crisi post-elettorale in Iran l'ex presidente "pragmatico" e ayatollah Rafsanjani si è mosso con discrezione dietro le quinte del regime per portare dalla sua parte - quindi contro Khamenei e Ahmadinejad - la maggioranza del clero che conta nella città santa di Qom. Rafsanjani presiede quel Consiglio degli Esperti che ha il potere di rimuovere la Guida Suprema. L'ex presidente non si è ancora complimentato con il presidente rieletto e ha disertato il sermone dell'ayatollah Khamenei. Ma quando per la prima volta ha finalmente rotto il suo silenzio le sue parole sono sembrate in sintonia con quelle di Khamenei, tanto da far pensare che il suo tentativo di fronda interna fosse fallito e che stesse per accettare un compromesso. Elogiando la decisione della Guida Suprema di prolungare i termini dell'indagine del Consiglio dei Guardiani sulle irregolarità del voto, Rafsanjani auspicava che le contestazioni fossero esaminate con accuratezza, onestà e correttezza, invitando però i candidati sconfitti a «rimuovere gli ostacoli per superare le divergenze», avvertendoli che «un atteggiamento sbagliato potrebbe portare a ulteriore odio e divisione tra i cittadini».
Questa settimana spetterà proprio a Rafsanjani condurre la preghiera del venerdì presso l'Università di Teheran, la stessa da dove, il 19 giugno scorso, Khamenei ha dato la sua benedizione alla rielezione di Ahmadinejad, ordinando la fine delle manifestazioni. Cresce quindi l'attesa per il sermone di colui che sarebbe (o sarebbe stato) il principale sponsor politico di Mousavi, e che ora ha l'occasione di chiarire la sua posizione pubblicamente. Gli attivisti dell'Onda verde sperano e già circolano su internet volantini nei quali si convoca il movimento per la preghiera di venerdì all'Università. Lo stesso Mousavi, l'altro candidato sconfitto Karroubi e l'ex presidente Khatami dovrebbero presenziare al sermone, anche se non ci sono ancora comunicazioni ufficiali. E' probabile che i tre non scioglieranno le proprie riserve prima di aver avuto dallo stesso Rafsanjani anticipazioni sul suo sermone.
Rilancerà, questa volta in pubblico, la sua sfida a Khamenei e ad Ahmadinejad, o sancirà la sua personale tregua? Niente illusioni. A giudicare dall'ultima, e unica finora, dichiarazione di Rafsanjani, e dalle parole usate dal sito di cui il figlio è direttore, Ayandeh News, che parla del sermone come di «un'occasione per la riappacificazione tra gli insoddisfatti e il sistema politico», i militanti dell'Onda verde rischiano di rimanere molto delusi. Piuttosto che rilanciare, è più probabile che Rafsanjani punti a ribadire l'adesione sua personale, e dei settori moderati e pragmatici a lui vicini, ai principi e ai valori della Repubblica islamica e a lanciare un appello alla riconciliazione, offrendo anche agli oppositori Mousavi e Karroubi un'occasione per rientrare nei ranghi. Difficile dire quanto possa essere duraturo il compromesso tra Rafsanjani e Khamenei che ispirerebbe un simile discorso.
E intanto, se Obama pensava di barattare con Mosca la disponibilità Usa sul nuovo trattato Start e sullo scudo anti-missile con il sostegno russo a nuove sanzioni contro Teheran, dovrà ricredersi. Mosca - fa sapere una fonte del Ministero degli Esteri russo attraverso l'agenzia Interfax - non intende accettare scambi. Non accetterà di sostenere nuove e più dure sanzioni contro Teheran in cambio di un nuovo trattato per la limitazione delle testate nucleari da siglare entro il prossimo mese di dicembre, quando scadrà il Trattato Start-1 del 1991. «Il legame tra le due cose è senza fondamento. Non si accettano negoziati su questi due temi così diversi per sostanza e forma». Una chiusura così totale che non può che avvalorare le voci sulla proposta di scambio tentata da Washington e a quanto pare già rispedita al mittente.
Questa settimana spetterà proprio a Rafsanjani condurre la preghiera del venerdì presso l'Università di Teheran, la stessa da dove, il 19 giugno scorso, Khamenei ha dato la sua benedizione alla rielezione di Ahmadinejad, ordinando la fine delle manifestazioni. Cresce quindi l'attesa per il sermone di colui che sarebbe (o sarebbe stato) il principale sponsor politico di Mousavi, e che ora ha l'occasione di chiarire la sua posizione pubblicamente. Gli attivisti dell'Onda verde sperano e già circolano su internet volantini nei quali si convoca il movimento per la preghiera di venerdì all'Università. Lo stesso Mousavi, l'altro candidato sconfitto Karroubi e l'ex presidente Khatami dovrebbero presenziare al sermone, anche se non ci sono ancora comunicazioni ufficiali. E' probabile che i tre non scioglieranno le proprie riserve prima di aver avuto dallo stesso Rafsanjani anticipazioni sul suo sermone.
Rilancerà, questa volta in pubblico, la sua sfida a Khamenei e ad Ahmadinejad, o sancirà la sua personale tregua? Niente illusioni. A giudicare dall'ultima, e unica finora, dichiarazione di Rafsanjani, e dalle parole usate dal sito di cui il figlio è direttore, Ayandeh News, che parla del sermone come di «un'occasione per la riappacificazione tra gli insoddisfatti e il sistema politico», i militanti dell'Onda verde rischiano di rimanere molto delusi. Piuttosto che rilanciare, è più probabile che Rafsanjani punti a ribadire l'adesione sua personale, e dei settori moderati e pragmatici a lui vicini, ai principi e ai valori della Repubblica islamica e a lanciare un appello alla riconciliazione, offrendo anche agli oppositori Mousavi e Karroubi un'occasione per rientrare nei ranghi. Difficile dire quanto possa essere duraturo il compromesso tra Rafsanjani e Khamenei che ispirerebbe un simile discorso.
E intanto, se Obama pensava di barattare con Mosca la disponibilità Usa sul nuovo trattato Start e sullo scudo anti-missile con il sostegno russo a nuove sanzioni contro Teheran, dovrà ricredersi. Mosca - fa sapere una fonte del Ministero degli Esteri russo attraverso l'agenzia Interfax - non intende accettare scambi. Non accetterà di sostenere nuove e più dure sanzioni contro Teheran in cambio di un nuovo trattato per la limitazione delle testate nucleari da siglare entro il prossimo mese di dicembre, quando scadrà il Trattato Start-1 del 1991. «Il legame tra le due cose è senza fondamento. Non si accettano negoziati su questi due temi così diversi per sostanza e forma». Una chiusura così totale che non può che avvalorare le voci sulla proposta di scambio tentata da Washington e a quanto pare già rispedita al mittente.
I piani Cia scoperta dell'acqua calda
Questo piano della Cia tenuto nascosto al Congresso per ordine del vicepresidente Cheney mi sembra la scoperta dell'acqua calda: l'invio di team di forze speciali all'estero per l'uccisione di alti esponenti di al Qaeda (nei casi in cui la cattura avesse comportato troppi rischi per gli uomini dell'intelligence). Tutti noi, credo, abbiamo sempre pensato a qualcosa del genere interrogandoci sui vari mezzi che gli Usa avrebbero dovuto utilizzare per combattere al Qaeda: operazioni mirate per catturare o uccidere i capi meglio dei bombardamenti sulle popolazioni, si è sempre detto. La sorpresa, semmai, è che il piano non diventò mai operativo, almeno secondo le fonti citate oggi dal New York Times, a causa della «miriade di ostacoli logistici, legali e diplomatici: come nascondere il ruolo americano? Che fare se gli agenti della Cia o loro collaboratori stranieri fossero stati catturati? Avvertire o meno i paesi alleati?». L'uso delle forze speciali per uccidere i capi di al Qaeda a me sembra più chirurgico e mirato dei missili sparati da aerei senza pilota, con tutti i conseguenti e inevitabili "effetti collaterali".
Il caso comunque rischia di imbarazzare soprattutto l'amministrazione Obama. I liberal del suo partito infatti (tra cui i presidenti delle commissioni sui servizi segreti del Senato e della Camera), fomentati dalla campagna di stampa del NYT, spingono per un'inchiesta sull'amministrazione Bush e sono delusi dagli scarsi cambiamenti di linea introdotti da Obama nella politica anti-terrorismo. Ma Obama non alcun interesse ad aprire questo nido di vespe, sia perché ha promesso che rispetto alla strategia anti-terrorismo dell'era Bush avrebbe «guardato al futuro», sia perché con un'inchiesta del genere avallerebbe implicitamente un'interpretazione riduttiva dei poteri dell'esecutivo - cosa che essendo lui ora il presidente non gli conviene - sia perché rischierebbe di intimidire gli agenti nello svolgimento di operazioni spesso necessariamente al limite della legalità, nonché quindi di delegittimare e indebolire la Cia in un momento in cui non è il caso di abbassare la guardia.
Il caso comunque rischia di imbarazzare soprattutto l'amministrazione Obama. I liberal del suo partito infatti (tra cui i presidenti delle commissioni sui servizi segreti del Senato e della Camera), fomentati dalla campagna di stampa del NYT, spingono per un'inchiesta sull'amministrazione Bush e sono delusi dagli scarsi cambiamenti di linea introdotti da Obama nella politica anti-terrorismo. Ma Obama non alcun interesse ad aprire questo nido di vespe, sia perché ha promesso che rispetto alla strategia anti-terrorismo dell'era Bush avrebbe «guardato al futuro», sia perché con un'inchiesta del genere avallerebbe implicitamente un'interpretazione riduttiva dei poteri dell'esecutivo - cosa che essendo lui ora il presidente non gli conviene - sia perché rischierebbe di intimidire gli agenti nello svolgimento di operazioni spesso necessariamente al limite della legalità, nonché quindi di delegittimare e indebolire la Cia in un momento in cui non è il caso di abbassare la guardia.
Monday, July 13, 2009
Il G8 chiude una pagina?
«... Di Obama mi ha anche colpito l'attenzione e la sensibilità con cui si è riferito alle figure che rappresentano ruoli diversi in Italia: il capo dello Stato e il presidente del Consiglio. Ruoli che, come sappiamo, in America si identificano nella stessa persona, l'inquilino della Casa Bianca, mentre così non è da noi e Obama ha dimostrato di esserne perfettamente consapevole».Così il presidente Napolitano, nel colloquio di ieri con il Corriere della Sera, in cui tra l'altro ha sottolineato come il G8 abbia rappresentato «indubbiamente un riconoscimento e un successo per il presidente del Consiglio, Berlusconi», e chiesto «un clima più civile, corretto e costruttivo nei rapporti tra governo e opposizione». Ma quel passaggio sulla distinzione tra i ruoli istituzionali di presidente della Repubblica e del Consiglio, di cui Obama si è dimostrato «perfettamente consapevole», è la spiegazione autentica di Napolitano dei diversi apprezzamenti rivolti dal presidente Usa a lui e a Berlusconi, in cui alcuni invece ancora una volta hanno voluto vedere una critica "per contrasto" nei confronti del premier.
Se persino Scalfari, su la Repubblica, ha dovuto ammettere il «successo» di Berlusconi, riconoscimenti sono giunti anche da altri giornali stranieri: «Da playboy a uomo di Stato», ha titolato il Financial Times. «Silvio Berlusconi sembra aver vinto la scommessa sul G8. In tre giorni ha zittito i critici e tranquillizzato gli alleati». Esagerato il Die Welt. «L' Italia ha dimostrato ancora di quali capolavori d' improvvisazione sia capace: forse bisogna considerare un cambio di paradigmi sulla sua posizione in Europa». E addirittura: «Se il mondo fosse in mani italiane, dovremmo preoccuparcene poco».
Con il G8 della scorsa settimana dovrebbe essere calato il sipario sia sul Berlusconi "gaffeur" (ce lo auguriamo), sia sulle continue accuse da parte dei suoi nemici di non rappresentare degnamente l'Italia all'estero. Difficile, dopo questo G8, che la politica estera possa essere usata come arma polemica contro Berlusconi, a meno che le critiche non siano saldamente fondate sul merito delle politiche anziché sull'immagine del premier.
Friday, July 10, 2009
Ingerire in nome della stabilità
Mi sembra che sia stato poco sottolineato il fatto che in due anni il governo cinese ha dovuto far fronte a due rivolte delle minoranze etniche che rappresentano gran parte della popolazione in due province enormi e ricche di risorse come il Tibet e lo Xinjiang. E ha dovuto far ricorso a repressioni sanguinose come non se ne erano viste da vent'anni, da Piazza Tienanmen. Se si considera la crescita delle proteste che non fanno notizia, quelle contro la corruzione e gli abusi delle autorità o quelle dei lavoratori per le loro condizioni (secondo un rapporto governativo 100mila l'anno, rispetto alle 80mila di tre anni fa - ogni 4 minuti una protesta di oltre 100 persone), bisogna concludere che la crescita della Cina sia tutt'altro che "armoniosa" e che anzi l'instabilità interna stia aumentando pericolosamente, per la Cina ma anche - per gli stessi motivi per cui è ritenuta ormai interlocutore irrinunciabile su tutti i temi globali - per la stabilità economica e politica del resto del mondo. C'è n'è abbastanza per preoccuparsi e per "ingerire" un po' negli affari interni cinesi? Le dimensioni del PIL e la percentuale della sua crescita sono davvero gli unici parametri che rendono la Cina indispensabile per la governance globale, o non dovrebbe contare anche (non dico la democrazia, roba da neocon ormai) la stabilità interna? Si è parlato di escludere l'Italia dal G8 per un premier che si gode la vita, ma nessuno mette in dubbio i titoli della Cina di far parte di un G14 nonostante sia sempre più evidente che è seduta su una polveriera. Il rientro frettoloso del presidente Hu Jintao non è solo un colpo all'immagine e alla credibilità dell'ideale di "società armoniosa", ma essendo "la prima volta nella storia della Repubblica popolare che un presidente abbandona un appuntamento ufficiale per rientrare in patria", come ha ricordato Il Foglio, è la prova che la crescente instabilità preoccupa come mai prima i vertici cinesi, anche se a quanto pare non i governi occidentali. La mancanza di democrazia e le politiche repressive sono sempre state giustificate dalla leadership cinese con l'esigenza di mantenere la stabilità, ma nonostante l'avanzato stato di "sinizzazione" e la politica di investimenti nello Xinjiang e in Tibet, ora proprio quelle politiche si rivelano causa di instabilità. E' una conferma - per i molti che sembrano ancora averne bisogno - che la democrazia è l'unica via per una "società armoniosa" e per la stabilità. Questo chi dovrebbe farlo capire ai cinesi?
UPDATE: Splendido post di 1972. Anche Enzo si sofferma sulla «periferia dell'impero» e sente puzza di ex Jugoslavia:
UPDATE: Splendido post di 1972. Anche Enzo si sofferma sulla «periferia dell'impero» e sente puzza di ex Jugoslavia:
Si può leggere in tanti modi la storia del XX secolo, ed uno di essi è certamente l'emergenza di forze centrifughe all'interno di strutture statali ortopedicamente assemblate. La lotta degli imperi comunisti centralizzati contro le tendenze disgregatrici si è svolta sempre attraverso i classici strumenti dello spostamento di popolazioni (colonizzazione dei territori periferici), della propaganda nazionalista e della repressione violenta. Ciascuno di questi tre elementi è presente nel caso uiguro.La Cina «che pretende di essere una grande potenza internazionale» in realtà non ha le carte in regola. L'instabilità dovuta ai conflitti etnici e sociali è in pericolosa crescita e per ora non irradia alcun modello coerente che possa competere con quello liberaldemocratica, né alcuna attraente way of life: «Ethnic conflict is perhaps the most intractable problem, even for democracies. For one-party states, it is almost insoluble».
Iran, quello che si è capito
Si è capito che Mousavi non è un cuor di leone, e che ha sciupato l'occasione di mettersi alla testa di un vero movimento democratico, rimanendo in un limbo pericoloso per lui e per il popolo iraniano, sicuramente inutile. Si è capito che Rafsanjani ha tramato fin quando è stato possibile contro Khamenei, ma quando ha capito che la partita era persa ha mollato dietro rassicurazioni sulla posizione della sua famiglia. Si è capito però che nonostante sappiano di andare incontro a morte quasi certa in molti a Teheran hanno ancora il coraggio di manifestare. Si è capito, insomma, che si è messo in moto un processo - sia tra la popolazione che all'interno dell'establishment - che è difficile dire esattamente dove porterà (e in quanto tempo), ma che è altrettanto difficile arrestare. Si è capito che il clero rimane più che mai diviso e che la base di legittimità del regime si è notevolmente ristretta, così come i gruppi che condividono il potere reale. Si è capito che agli occhi degli iraniani la Repubblica è sempre meno "islamica", che la religione è un velo d'ipocrisia che nascone gli interessi ben più "prosaici" della cricca al potere.
Passeggiare di notte? Chiedere al prefetto
Con qualche giorno di ritardo riprendiamo da Lakeside Capital:
Un cittadino che assista a reati perseguibili d'ufficio è autorizzato dalla legge (art. 383 c.p.p.) a procedere all'arresto del colpevole, con l'obbligo di consegnarlo senza ritardo alle autorità di giustizia.Il risultato è che paradossalmente per passeggiare di notte in più di due persone potrebbe essere necessaria un'autorizzazione del prefetto. Ecco quanto scrivevo in un post del febbraio scorso:
I cittadini sono liberi di riunirsi pacificamente e senza armi, e per le riunioni, anche in luogo pubblico, non è richiesto preavviso (è scritto nell'art. 17 della Costituzione).
(...)
Quindi sostanzialmente il governo ha varato una norma che consente ai cittadini di fare ciò che potevano già fare, solo che impone loro di strutturarsi in maniera ben definita, ricevere una autorizzazione e registrare la propria attività. Praticamente il governo ha regolamentato un'attività che già si poteva svolgere, ponendo dei paletti e dei controlli per fenomeni che, in alcune città, esistono già da anni.
Saranno anche liberticide queste ronde, ma perché limitano la libertà dei cittadini nello svolgere attività che, fino a prima della nuova norma, potevano tranquillamente già fare senza dover rendere conto a nessuno. Non certo perché creano gruppi paramilitari che minacciano la democrazia nel Belpaese.
Il dibattito di questi giorni sulle ronde spontanee mi sembra davvero surreale. Se un gruppo di cittadini vuol farsi una passeggiata notturna portando con sé i cellulari, non ci vedo niente di male. Non violano alcuna legge, ma proprio per questo fa ridere anche che si vogliano prevedere queste "ronde" per decreto. Qual è in questo caso la necessità e l'urgenza di prevedere per decreto qualcosa che già si può fare, se non quella di un'assurda burocratizzazione delle passeggiate notturne?
Thursday, July 09, 2009
Due schiaffoni a Repubblica (e uno al NYT)
Partiamo da quello al New York Times, che però sarà risuonato anche dalle parti di Largo Fochetti e del Pd. Mario Platero, sul Sole24 Ore di oggi: «Sul piano della cronaca stretta, l'immagine d'insieme al Quirinale, la passeggiata e la chiacchierata con Berlusconi, le dichiarazioni di apprezzamento per il lavoro della presidenza italiana stridono con le versioni che abbiamo ascoltato da un paio di quotidiani anglosassoni, il Guardian e il New York Times». Ed ecco come David Axelrod, il principale consigliere di Obama, fuga i dubbi di Platero. «Ma tu credi ancora al New York Times?». Boom! Arrivare a dire che l'Italia rischia di essere esclusa dal G8 «non è solo falso», conclude Platero, ma è «hysterical», che «in inglese non vuol dire soltanto isterico, ma anche da morir dal ridere».
Ma veniamo agli schiaffoni a la Repubblica: il primo è il riconoscimento della forte leadership del governo italiano sui temi del G8 giunto da Obama e Gordon Brown - ovvero dai «due giganti della sinistra occidentale», osserva Christian Rocca su Il Foglio; il secondo, che forse brucia di più, è il "no" ricevuto dalla Casa Bianca all'intervista al presidente americano che sarebbe "spettata" al quotidiano di Largo Fochetti. La Casa Bianca infatti, spiega Rocca, «un paio di giorni prima della visita del presidente in Italia è solita garantire un'intervista ai giornali che accreditano i loro inviati ai viaggi con l'Air Press One». A turno, una volta tocca al Corriere della Sera, un'altra a La Stampa, e così via. Questa volta toccava a la Repubblica, ma Obama ha preferito Avvenire, facendo andare su tutte le furie Eugenio Scalfari, che nella sua consueta quanto inutile lenzuolata domenicale ha manifestato tutto il suo fastidio per questa scelta: «Non vende molto l'Avvenire, ma rappresenta la Conferenza episcopale», ha spiegato ai suoi lettori.
E intanto la sinistra è rimasta completamente spiazzata dal suo mito Obama. Non che si potesse realisticamente aspettare la delegittimazione del governo che reggeva la presidenza del G8, ma certo i riconoscimenti al lavoro svolto e alla leadership italiana sono andati ben al di là del rituale e suonano come una decisa sconfessione di chi pretende di rappresentare un'Italia da escludere dal G8 e un premier delegittimato per le polemiche sulla sua vita privata. Chissà che nelle prossime ore non assisteremo a un riallineamento sulla posizione di Obama...
Ma veniamo agli schiaffoni a la Repubblica: il primo è il riconoscimento della forte leadership del governo italiano sui temi del G8 giunto da Obama e Gordon Brown - ovvero dai «due giganti della sinistra occidentale», osserva Christian Rocca su Il Foglio; il secondo, che forse brucia di più, è il "no" ricevuto dalla Casa Bianca all'intervista al presidente americano che sarebbe "spettata" al quotidiano di Largo Fochetti. La Casa Bianca infatti, spiega Rocca, «un paio di giorni prima della visita del presidente in Italia è solita garantire un'intervista ai giornali che accreditano i loro inviati ai viaggi con l'Air Press One». A turno, una volta tocca al Corriere della Sera, un'altra a La Stampa, e così via. Questa volta toccava a la Repubblica, ma Obama ha preferito Avvenire, facendo andare su tutte le furie Eugenio Scalfari, che nella sua consueta quanto inutile lenzuolata domenicale ha manifestato tutto il suo fastidio per questa scelta: «Non vende molto l'Avvenire, ma rappresenta la Conferenza episcopale», ha spiegato ai suoi lettori.
E intanto la sinistra è rimasta completamente spiazzata dal suo mito Obama. Non che si potesse realisticamente aspettare la delegittimazione del governo che reggeva la presidenza del G8, ma certo i riconoscimenti al lavoro svolto e alla leadership italiana sono andati ben al di là del rituale e suonano come una decisa sconfessione di chi pretende di rappresentare un'Italia da escludere dal G8 e un premier delegittimato per le polemiche sulla sua vita privata. Chissà che nelle prossime ore non assisteremo a un riallineamento sulla posizione di Obama...
Perché il PdL può dormire sonni (troppo) tranquilli
Dove va il Pd? Come pensa di competere con il centrodestra? Ecco come risponde D'Alema, oggi su La Stampa: «Qual è il progetto del Pd? Certo, non il dire che noi siamo più liberisti di Berlusconi, perché non può essere questo il principio ispiratore del centrosinistra». Ora, in un paese "ideale", dove la politica economica di centrodestra è prevalentemente orientata al libero mercato, alla riduzione delle tasse e dello stato, e alla responsabilità fiscale, avrebbe ragione D'Alema: non ci aspetteremmo che il centrosinistra sia «più liberista».
Ma considerando che l'attuale governo sta perseguendo una politica socialdemocratica (e il guaio è che il Pd è talmente statalista da non capirlo), l'uscita di D'Alema spiega perché in Italia non avremo mai una "rivoluzione liberale". Semplificando, se la competizione è tra chi è tentato di alzare le tasse, e le alza, e chi proprio per questo si può comodamente limitare a promettere che non le alzerà, i primi difficilmente vedranno Palazzo Chigi e noi non vedremo mai una consistente diminuzione della pressione fiscale: stesso discorso vale per la spesa e per tutti gli altri temi di una politica economica liberale.
Ma considerando che l'attuale governo sta perseguendo una politica socialdemocratica (e il guaio è che il Pd è talmente statalista da non capirlo), l'uscita di D'Alema spiega perché in Italia non avremo mai una "rivoluzione liberale". Semplificando, se la competizione è tra chi è tentato di alzare le tasse, e le alza, e chi proprio per questo si può comodamente limitare a promettere che non le alzerà, i primi difficilmente vedranno Palazzo Chigi e noi non vedremo mai una consistente diminuzione della pressione fiscale: stesso discorso vale per la spesa e per tutti gli altri temi di una politica economica liberale.
Wednesday, July 08, 2009
Cina altro che "armoniosa", cresce l'instabilità
In due anni il governo cinese ha dovuto far fronte a due importanti rivolte delle minoranze etniche che rappresentano gran parte della popolazione in due province enormi e ricche di risorse come lo Xinjiang e il Tibet. E ha dovuto far ricorso a repressioni sanguinose come non se ne erano viste da vent'anni, da quella di Piazza Tienanmen. Senza considerare la crescita delle proteste che non fanno notizia, quelle contro la corruzione e gli abusi delle autorità o quelle dei lavoratori per le loro condizioni: secondo un rapporto governativo oggi in Cina hanno luogo 100mila proteste l'anno, rispetto alle 80mila di tre anni fa (ogni 4 minuti una protesta a cui prendono parte più di 100 persone).
Questi dati dovrebbero far riflettere gli interlocutori occidentali del governo cinese e indurli a riconsiderare la loro fiducia nella crescita "armoniosa" della Cina. In realtà, dietro la tumultuosa crescita economica degli ultimi anni e la tenuta durante questa crisi globale, l'instabilità in Cina aumenta. E aumenta pericolosamente ai "confini" dell'impero di mezzo, nonostante l'avanzato stato di sinizzazione e la politica di investimenti nello Xinjiang e in Tibet. La mancanza di democrazia e le politiche repressive sono sempre state giustificate dalla leadership cinese con l'esigenza di mantenere la stabilità. Ma ora proprio quelle politiche si dimostrano incapaci di garantire l’ordine e la sicurezza e, al contrario, si rivelano causa di instabilità.
Uno smacco clamoroso alla credibilità dell'ideale di "società armoniosa" e di convivenza fra etnie propagandato da Hu Jintao. Su questo piano il Partito ha fallito, le tensioni tra etnie aumentano anziché diminuire, anche se il mondo sembra avere troppa fiducia nel pugno di ferro di Pechino per accorgersene. Il rientro frettoloso del presidente Hu Jintao dal G8 dell'Aquila è un colpo all’immagine della Cina e testimonia la gravità della situazione, l'inquietudine che probabilmente serpeggia all'interno degli stessi vertici del regime.
Oggi è stato il quarto giorno consecutivo di proteste e violenze. E mentre ci sono segnali che la protesta possa allargarsi ad altre città (dimostrazioni sono segnalate a Kashgar, Yili, Dawan e Tianshan), i vertici locali del partito hanno minacciato la pena di morte e Urumqi è blindata da migliaia di agenti delle forze di sicurezza in assetto anti-sommossa. Ma ciò che è più grave è che gli scontri potrebbero degenerare in un conflitto interetnico tra uiguri e han, che per molti aspetti potrebbe ricordare quelli della ex Jugoslavia. Uiguri che incendiano i negozi nei quartieri han e gruppi di han che danno la caccia agli uiguri, nelle strade e fino nelle loro case, violando il coprifuoco notturno. In centinaia gli uiguri sono scesi di nuovo in strada a Urumqi armati di bastoni, pietre e pugnali, affrontando le forze di polizia, mentre gli han erano asserragliati nei loro quartieri. Per gli uiguri non ci sono da parte dei governi e delle opinioni pubbliche occidentali le stesse mobilitazioni promosse per i tibetani. Forse perché la loro causa è ancora poco nota, o forse perché sono musulmani?
Accusata dai cinesi di essere «la mente» delle violenze e di separatismo, oggi Rebya Kadeer presidente del Congresso Mondiale degli uiguri, ha affidato al Wall Street Journal la sua versione, spiegando che a scatenare la protesta di questi giorni è stata «l'inazione delle autorità cinesi dopo l'uccisione di alcuni lavoratori uiguri in una fabbrica di giocattoli a Shaoguan, nella provincia meridionale del Guangdong». Ma il malcontento degli uiguri è più in generale dovuto ad «anni di repressione cinese», aggiunge. La dissidente riferisce che secondo fonti uigure all'interno del Turkestan orientale i morti sarebbero 400 e che sarebbero in corso rastrellamenti casa per casa; che la protesta si sta diffondendo ad altre città della regione e che solo nella città di Kashgar sarebbero stati uccisi 100 uiguri.
La repressione di questi giorni sta assumendo «accenti razziali», osserva Kadeer, accusando il governo cinese di «incoraggiare il nazionalismo tra i cinesi di etnia Han in sostituzione della fallita ideologia comunista». Nazionalismo «evidente nella folla di cinesi han che ha attaccato gli uiguri a Shaoguan». La propaganda nazionalista tra i cinesi han «rende molto difficile il cammino davanti a noi», spiega Kadeer sul WSJ. Il Congresso Mondiale degli uiguri, come il Dalai Lama, «sostiene l'introduzione pacifica dell'autodeterminazione e un reale rispetto dei diritti umani e della democrazia. I cinesi di etnia Han e gli uiguri devono instaurare un dialogo basato sulla fiducia, sul rispetto reciproco e sull'uguaglianza. Ma con le attuali politiche del governo cinese ciò è impossibile». Per riportare la calma nel Turkestan orientale, secondo Kadeer le autorità cinesi dovrebbero prima di tutto «indagare sulle uccisioni nella fabbrica di Shaoguan e portare i responsabili di fronte alla giustizia». Kadeer chiede inoltre l'apertura di «un'inchiesta indipendente e trasparente sui disordini nella città di Urumqi«.
Gli Stati Uniti «possono giocare un ruolo in questo processo», sostiene la leader del Congresso degli uiguri: «Devono condannare le violenze e aprire a Urumqi un consolato che possa servire da faro della libertà in un contesto di feroce repressione e monitorare le violazioni quotidiane dei diritti umani perpetrate contro gli uiguri».
Questi dati dovrebbero far riflettere gli interlocutori occidentali del governo cinese e indurli a riconsiderare la loro fiducia nella crescita "armoniosa" della Cina. In realtà, dietro la tumultuosa crescita economica degli ultimi anni e la tenuta durante questa crisi globale, l'instabilità in Cina aumenta. E aumenta pericolosamente ai "confini" dell'impero di mezzo, nonostante l'avanzato stato di sinizzazione e la politica di investimenti nello Xinjiang e in Tibet. La mancanza di democrazia e le politiche repressive sono sempre state giustificate dalla leadership cinese con l'esigenza di mantenere la stabilità. Ma ora proprio quelle politiche si dimostrano incapaci di garantire l’ordine e la sicurezza e, al contrario, si rivelano causa di instabilità.
Uno smacco clamoroso alla credibilità dell'ideale di "società armoniosa" e di convivenza fra etnie propagandato da Hu Jintao. Su questo piano il Partito ha fallito, le tensioni tra etnie aumentano anziché diminuire, anche se il mondo sembra avere troppa fiducia nel pugno di ferro di Pechino per accorgersene. Il rientro frettoloso del presidente Hu Jintao dal G8 dell'Aquila è un colpo all’immagine della Cina e testimonia la gravità della situazione, l'inquietudine che probabilmente serpeggia all'interno degli stessi vertici del regime.
Oggi è stato il quarto giorno consecutivo di proteste e violenze. E mentre ci sono segnali che la protesta possa allargarsi ad altre città (dimostrazioni sono segnalate a Kashgar, Yili, Dawan e Tianshan), i vertici locali del partito hanno minacciato la pena di morte e Urumqi è blindata da migliaia di agenti delle forze di sicurezza in assetto anti-sommossa. Ma ciò che è più grave è che gli scontri potrebbero degenerare in un conflitto interetnico tra uiguri e han, che per molti aspetti potrebbe ricordare quelli della ex Jugoslavia. Uiguri che incendiano i negozi nei quartieri han e gruppi di han che danno la caccia agli uiguri, nelle strade e fino nelle loro case, violando il coprifuoco notturno. In centinaia gli uiguri sono scesi di nuovo in strada a Urumqi armati di bastoni, pietre e pugnali, affrontando le forze di polizia, mentre gli han erano asserragliati nei loro quartieri. Per gli uiguri non ci sono da parte dei governi e delle opinioni pubbliche occidentali le stesse mobilitazioni promosse per i tibetani. Forse perché la loro causa è ancora poco nota, o forse perché sono musulmani?
Accusata dai cinesi di essere «la mente» delle violenze e di separatismo, oggi Rebya Kadeer presidente del Congresso Mondiale degli uiguri, ha affidato al Wall Street Journal la sua versione, spiegando che a scatenare la protesta di questi giorni è stata «l'inazione delle autorità cinesi dopo l'uccisione di alcuni lavoratori uiguri in una fabbrica di giocattoli a Shaoguan, nella provincia meridionale del Guangdong». Ma il malcontento degli uiguri è più in generale dovuto ad «anni di repressione cinese», aggiunge. La dissidente riferisce che secondo fonti uigure all'interno del Turkestan orientale i morti sarebbero 400 e che sarebbero in corso rastrellamenti casa per casa; che la protesta si sta diffondendo ad altre città della regione e che solo nella città di Kashgar sarebbero stati uccisi 100 uiguri.
La repressione di questi giorni sta assumendo «accenti razziali», osserva Kadeer, accusando il governo cinese di «incoraggiare il nazionalismo tra i cinesi di etnia Han in sostituzione della fallita ideologia comunista». Nazionalismo «evidente nella folla di cinesi han che ha attaccato gli uiguri a Shaoguan». La propaganda nazionalista tra i cinesi han «rende molto difficile il cammino davanti a noi», spiega Kadeer sul WSJ. Il Congresso Mondiale degli uiguri, come il Dalai Lama, «sostiene l'introduzione pacifica dell'autodeterminazione e un reale rispetto dei diritti umani e della democrazia. I cinesi di etnia Han e gli uiguri devono instaurare un dialogo basato sulla fiducia, sul rispetto reciproco e sull'uguaglianza. Ma con le attuali politiche del governo cinese ciò è impossibile». Per riportare la calma nel Turkestan orientale, secondo Kadeer le autorità cinesi dovrebbero prima di tutto «indagare sulle uccisioni nella fabbrica di Shaoguan e portare i responsabili di fronte alla giustizia». Kadeer chiede inoltre l'apertura di «un'inchiesta indipendente e trasparente sui disordini nella città di Urumqi«.
Gli Stati Uniti «possono giocare un ruolo in questo processo», sostiene la leader del Congresso degli uiguri: «Devono condannare le violenze e aprire a Urumqi un consolato che possa servire da faro della libertà in un contesto di feroce repressione e monitorare le violazioni quotidiane dei diritti umani perpetrate contro gli uiguri».
Splendida giornata per Berlusconi
Non poteva davvero sperare di meglio Berlusconi, che ha superato gli "scossoni" interni ed esteri di slancio. Il New York Times e il Guardian smentiti dalla Casa Bianca e dal presidente Obama in persona, che riconoscono la leadership del governo italiano. Ieri il giornale inglese aveva definito «terribile» l'organizzazione italiana del summit G8, senza metodo né agenda, arrivando a ipotizzare l'esclusione dell'Italia dal G8. Oggi anche il NYT ha denunciato la «carenza organizzativa» del governo italiano, rimproverando a Berlusconi di aver speso troppe delle sue «energie politiche a cercare di schivare le accuse della stampa». Ma l'editoriale del quotidiano Usa, per lo più scettico sulle possibilità di successo del vertice a causa della «debolezza politica di molti leader che vi partecipano», intendeva spronare Obama a esercitare la sua leadership, «trasformando la fiducia politica che si è guadagnato negli ultimi sei mesi in capitale diplomatico».
Ma ogni dubbio sull'organizzazione italiana del vertice è stato spazzato via prima da Mike Froman, lo "sherpa" americano del G8, che in una conferenza stampa a L'Aquila ha definito «splendido» il lavoro del governo italiano: «Gli italiani hanno definito l'agenda del vertice con largo anticipo ed hanno lavorato in modo metodico per svilupparla». Poi sono arrivate le parole di Obama, al termine dell'incontro con il presidente Giorgio Napolitano al Quirinale: «Il governo italiano ha dimostrato una forte leadership» sui temi del G8, ha riconosciuto.
L'articolo del Guardian inoltre è stato bocciato anche da uno dei suoi autorevoli editorialisti, Bill Emmott, notoriamente non un amico di Berlusconi. Emmott era direttore dell'Economist quando il settimanale pubblicò una copertina in cui definiva Berlusconi "unfit", inadatto a guidare l'Italia, a causa del conflitto d'interessi. L'ipotesi di un'esclusione dell'Italia dal G8 «non esiste», dice oggi a La Stampa. L'Italia è «perfettamente in grado di ospitare il vertice. L'eventuale perdita di credibilità del premier, ammesso che esista, non avrà alcun impatto». «Si capisce che non è un pezzo ben informato... Non è credibile», rincara la dose. Ma secondo Emmott non c'è un «complotto», quanto piuttosto «il tipico atteggiamento della stampa inglese, che tende a considerare tutti gli altri paesi europei come una comica». Il fatto, spiega, è che Berlusconi è «un bersaglio facile», i giornali lo vedono «indebolito dagli scandali» e scorgono «un'opportunità per affondare i colpi». Il problema vero è il G8, secondo Emmott, «un grande evento, seguito da migliaia di giornalisti, che in genere non dà notizie» e quindi ai giornali «non pare vero di avere per le mani uno scandalo a sfondo sessuale che coinvolge l'ospite del vertice».
Cantonate, quindi, non degne della fama di giornali autorevoli come il New York Times e il Guardian, che evidentemente si sono fatti trascinare dentro il "teatrino" della politica italiana seguendo gli attacchi contro Berlusconi alimentati dal gruppo la Repubblica-L'Espresso. Contro questo modo di strumentalizzare persino la politica estera, danneggiando l'immagine e gli interessi non di una parte politica, ma del Paese intero, ha preso posizione oggi il Corriere della Sera, attraverso l'editoriale di apertura di Sergio Romano, che scrive: il G8 «è l'occasione in cui gli italiani hanno interesse a ricordare che nei grandi incontri internazionali il governo, al di là di polemiche e vicende personali, piaccia o no, rappresenta l'intero Paese. Se ne esce a testa alta è una vittoria per tutti, se ne esce male siamo tutti sconfitti».
Nel merito, Romano non crede «che l'Italia, in questo momento, debba vergognarsi della sua politica internazionale». Vede certo «alcune debolezze», per «vecchi errori» e «obiettive condizioni di bilancio», ma «abbiamo sempre avuto, anche quando l'espressione non esisteva, un certo soft power che giova al nostro ruolo internazionale». Dalla Jugoslavia all'Afghanistan e al Libano, il nostro impegno internazionale è apprezzato da tutti. «Facile - osserva Romano - ironizzare sull'Italia che gioca contemporaneamente su molti tavoli e riesce a essere amica di tutti», ma «chiunque abbia occasione di andare in giro per il Mediterraneo e il Medio Oriente si accorge che abbiamo un credito e una simpatia che possono servire sia all'Unione mediterranea di Nicolas Sarkozy, sia alla nuova politica di Barack Obama verso l'Islam». Gli accordi con la Libia, per esempio, «sono utili per tutti, non soltanto per noi».
Per quanto riguarda in particolare Berlusconi e il suo "stile", Romano «ha molti dubbi sulla utilità della personalizzazione delle relazioni internazionali», ma riconosce «che i rapporti di Berlusconi con Putin e con Erdogan, negli anni in cui George W. Bush era poco amato in Russia e in Turchia, sono serviti a tenere aperti i canali di comunicazione e a raffreddare alcuni momenti di tensione». Così la pensa anche Charles Kupchan, professore della Georgetown University e studioso del Council on Foreign Relations, secondo cui lo «stile di vita» di Berlusconi preoccupa poco gli americani, più interessati al ruolo positivo che può svolgere nell'ammorbidire la Russia: «Berlusconi - dice oggi Kupchan a il Riformista - è stato il leader che ha spinto con più forza per mantenere delle relazioni salde e positive con la Russia, soprattutto dopo l'invasione della Georgia l'estate scorsa, che secondo altri era invece l'inizio di una nuova Guerra Fredda. Fa parte della sua convinzione dell'importanza di coinvolgere l'ex Unione Sovietica nella più larga comunità transatlantica. Ed è una politica assolutamente condivisibile».
Come sapete, la penso in modo leggermente diverso sui rapporti Usa-Russia, ma bisogna riconoscere che al momento sia Obama che Medvedev sembrano sinceramente impegnati a migliorare le relazioni, anche se non è ancora chiaro cosa sono pronti a concedere.
L'articolo del Guardian inoltre è stato bocciato anche da uno dei suoi autorevoli editorialisti, Bill Emmott, notoriamente non un amico di Berlusconi. Emmott era direttore dell'Economist quando il settimanale pubblicò una copertina in cui definiva Berlusconi "unfit", inadatto a guidare l'Italia, a causa del conflitto d'interessi. L'ipotesi di un'esclusione dell'Italia dal G8 «non esiste», dice oggi a La Stampa. L'Italia è «perfettamente in grado di ospitare il vertice. L'eventuale perdita di credibilità del premier, ammesso che esista, non avrà alcun impatto». «Si capisce che non è un pezzo ben informato... Non è credibile», rincara la dose. Ma secondo Emmott non c'è un «complotto», quanto piuttosto «il tipico atteggiamento della stampa inglese, che tende a considerare tutti gli altri paesi europei come una comica». Il fatto, spiega, è che Berlusconi è «un bersaglio facile», i giornali lo vedono «indebolito dagli scandali» e scorgono «un'opportunità per affondare i colpi». Il problema vero è il G8, secondo Emmott, «un grande evento, seguito da migliaia di giornalisti, che in genere non dà notizie» e quindi ai giornali «non pare vero di avere per le mani uno scandalo a sfondo sessuale che coinvolge l'ospite del vertice».
Cantonate, quindi, non degne della fama di giornali autorevoli come il New York Times e il Guardian, che evidentemente si sono fatti trascinare dentro il "teatrino" della politica italiana seguendo gli attacchi contro Berlusconi alimentati dal gruppo la Repubblica-L'Espresso. Contro questo modo di strumentalizzare persino la politica estera, danneggiando l'immagine e gli interessi non di una parte politica, ma del Paese intero, ha preso posizione oggi il Corriere della Sera, attraverso l'editoriale di apertura di Sergio Romano, che scrive: il G8 «è l'occasione in cui gli italiani hanno interesse a ricordare che nei grandi incontri internazionali il governo, al di là di polemiche e vicende personali, piaccia o no, rappresenta l'intero Paese. Se ne esce a testa alta è una vittoria per tutti, se ne esce male siamo tutti sconfitti».
Nel merito, Romano non crede «che l'Italia, in questo momento, debba vergognarsi della sua politica internazionale». Vede certo «alcune debolezze», per «vecchi errori» e «obiettive condizioni di bilancio», ma «abbiamo sempre avuto, anche quando l'espressione non esisteva, un certo soft power che giova al nostro ruolo internazionale». Dalla Jugoslavia all'Afghanistan e al Libano, il nostro impegno internazionale è apprezzato da tutti. «Facile - osserva Romano - ironizzare sull'Italia che gioca contemporaneamente su molti tavoli e riesce a essere amica di tutti», ma «chiunque abbia occasione di andare in giro per il Mediterraneo e il Medio Oriente si accorge che abbiamo un credito e una simpatia che possono servire sia all'Unione mediterranea di Nicolas Sarkozy, sia alla nuova politica di Barack Obama verso l'Islam». Gli accordi con la Libia, per esempio, «sono utili per tutti, non soltanto per noi».
Per quanto riguarda in particolare Berlusconi e il suo "stile", Romano «ha molti dubbi sulla utilità della personalizzazione delle relazioni internazionali», ma riconosce «che i rapporti di Berlusconi con Putin e con Erdogan, negli anni in cui George W. Bush era poco amato in Russia e in Turchia, sono serviti a tenere aperti i canali di comunicazione e a raffreddare alcuni momenti di tensione». Così la pensa anche Charles Kupchan, professore della Georgetown University e studioso del Council on Foreign Relations, secondo cui lo «stile di vita» di Berlusconi preoccupa poco gli americani, più interessati al ruolo positivo che può svolgere nell'ammorbidire la Russia: «Berlusconi - dice oggi Kupchan a il Riformista - è stato il leader che ha spinto con più forza per mantenere delle relazioni salde e positive con la Russia, soprattutto dopo l'invasione della Georgia l'estate scorsa, che secondo altri era invece l'inizio di una nuova Guerra Fredda. Fa parte della sua convinzione dell'importanza di coinvolgere l'ex Unione Sovietica nella più larga comunità transatlantica. Ed è una politica assolutamente condivisibile».
Come sapete, la penso in modo leggermente diverso sui rapporti Usa-Russia, ma bisogna riconoscere che al momento sia Obama che Medvedev sembrano sinceramente impegnati a migliorare le relazioni, anche se non è ancora chiaro cosa sono pronti a concedere.
Tuesday, July 07, 2009
L'accorato appello di Shirin Ebadi
Chiara e netta la richiesta di aiuto lanciata oggi dal premio Nobel Shirin Ebadi: se il governo iraniano non vi ascolta, richiamate il vostro ambasciatore. Durante la sua audizione dinanzi alla Commissione diritti umani del Senato, ha più volte pregato l'Italia, e i Paesi dell'Unione europea, di intervenire in modo più incisivo: «Chiedete al regime iraniano di fermare le violenze e di liberare gli arrestati». E «se il governo continua - ha proseguito la Ebadi - vi prego di richiamare il vostro ambasciatore e di abbassare - non di interrompere, ma solo di abbassare - il livello delle relazioni diplomatiche con l'Iran». Solo allora, ha spiegato, «il regime capirà che state protestando veramente» e non solo a parole. Il premio Nobel si è detta a favore di «sanzioni politiche» contro il regime, non economiche, e in astratto a favore del dialogo, facendo però notare che il regime «usa il dialogo solo per perdere tempo».
Il fatto che gli iraniani siano andati a votare in massa, ha spiegato ai membri della Commissione, non significa che le elezioni siano regolari. Le elezioni in Iran «non sono libere, perché l'idoneità dei candidati dev'essere approvata dal Consiglio dei Guardiani». Le manifestazioni contro i brogli elettorali sono state «assolutamente pacifiche, nemmeno un vetro è stato rotto», ha raccontato la Ebadi. Ha confermato che si è trattato di manifestazioni realmente di massa, con un milione di persone a Teheran, e che le proteste hanno interessato anche «altre grandi città», coinvolgendo - fatto raro - anche le minoranze come i curdi, gli azeri e i baluci. La violenza della repressione è «talmente feroce che alcuni esponenti importanti del clero hanno protestato, dicendo che il regime ha perso la sua legittimità e incoraggiando il popolo alla resistenza». Shirin Ebadi ha anche riferito che ora le manifestazioni si sono fermate a causa di questa «ferocia», ma che «la gente alle 10 di sera si affaccia dalle proprie finestre» e intona il grido "Allah è grande" in segno di protesta. "Allah è grande", ha spiegato, perché è uno slogan meno pericoloso di "Morte al dittatore".
Poi la fatidica domanda: meglio l'isolamento, o continuare ad avere relazioni con l'Iran pur esercitando pressioni? A questa domanda rivolta da uno dei senatori, Shirin Ebadi ha risposto dicendosi in teoria «d'accordo con il dialogo», ma «per quanti anni - ha chiesto - volete continuare a negoziare mentre nel frattempo la gente viene uccisa? D'accordo con il dialogo, ma fino a quando? Loro vengono, voi li ospitate e quando tornano ammazzano le persone. Che utilità ha tutto questo?» ha chiesto. Adesso, ha detto il premio Nobel, «dovete chiedere di fermare violenze, ma se non cessano dovete imporre sanzioni politiche». E a proposito di dialogo, quello che sembra un messaggio alla strategia di engagement perseguita nonostante tutto dall'amministrazione Obama: il regime, ha detto, «ha dimostrato che con il dialogo sta facendo solo perdere tempo».
Shirin Ebadi si è poi soffermata in particolare sul movimento delle donne in Iran, che «è molto forte, il più forte movimento femminista del Medio Oriente», anche perché le donne iraniane sono «le più istruite» e svolgono lavori e professioni importanti in tutti i settori. Per questo «non accettano leggi discriminatorie» ed è dall'inizio della rivoluzione che sono «in lotta per i loro diritti». Le donne hanno avuto un «ruolo molto importante» anche nelle proteste dei giorni scorsi contro i brogli elettorali e nell'attacco al dormitorio dell'università di Teheran, dove dei cinque studenti uccisi due erano ragazze.
Intanto, riguardo il fronte della protesta in Iran, secondo quanto riporta il Los Angeles Times, il movimento politico Kargozaran, che fa riferimento all'ayatollah Rafsanjani, che presiede il Consiglio degli Esperti, non riconosce i risultati elettorali ufficiali che hanno sancito la rielezione di Ahmadinejad: «Dichiariamo il risultato inaccettabile a causa delle condizioni inopportune in cui si è svolto il processo elettorale, per gli evidenti brogli e per la parzialità della maggior parte dei membri del Consiglio dei Guardiani che sostenevano uno specifico candidato», si legge nella nota diffusa di Kargozaran e riportata dal LAT.
Il fatto che gli iraniani siano andati a votare in massa, ha spiegato ai membri della Commissione, non significa che le elezioni siano regolari. Le elezioni in Iran «non sono libere, perché l'idoneità dei candidati dev'essere approvata dal Consiglio dei Guardiani». Le manifestazioni contro i brogli elettorali sono state «assolutamente pacifiche, nemmeno un vetro è stato rotto», ha raccontato la Ebadi. Ha confermato che si è trattato di manifestazioni realmente di massa, con un milione di persone a Teheran, e che le proteste hanno interessato anche «altre grandi città», coinvolgendo - fatto raro - anche le minoranze come i curdi, gli azeri e i baluci. La violenza della repressione è «talmente feroce che alcuni esponenti importanti del clero hanno protestato, dicendo che il regime ha perso la sua legittimità e incoraggiando il popolo alla resistenza». Shirin Ebadi ha anche riferito che ora le manifestazioni si sono fermate a causa di questa «ferocia», ma che «la gente alle 10 di sera si affaccia dalle proprie finestre» e intona il grido "Allah è grande" in segno di protesta. "Allah è grande", ha spiegato, perché è uno slogan meno pericoloso di "Morte al dittatore".
Poi la fatidica domanda: meglio l'isolamento, o continuare ad avere relazioni con l'Iran pur esercitando pressioni? A questa domanda rivolta da uno dei senatori, Shirin Ebadi ha risposto dicendosi in teoria «d'accordo con il dialogo», ma «per quanti anni - ha chiesto - volete continuare a negoziare mentre nel frattempo la gente viene uccisa? D'accordo con il dialogo, ma fino a quando? Loro vengono, voi li ospitate e quando tornano ammazzano le persone. Che utilità ha tutto questo?» ha chiesto. Adesso, ha detto il premio Nobel, «dovete chiedere di fermare violenze, ma se non cessano dovete imporre sanzioni politiche». E a proposito di dialogo, quello che sembra un messaggio alla strategia di engagement perseguita nonostante tutto dall'amministrazione Obama: il regime, ha detto, «ha dimostrato che con il dialogo sta facendo solo perdere tempo».
Shirin Ebadi si è poi soffermata in particolare sul movimento delle donne in Iran, che «è molto forte, il più forte movimento femminista del Medio Oriente», anche perché le donne iraniane sono «le più istruite» e svolgono lavori e professioni importanti in tutti i settori. Per questo «non accettano leggi discriminatorie» ed è dall'inizio della rivoluzione che sono «in lotta per i loro diritti». Le donne hanno avuto un «ruolo molto importante» anche nelle proteste dei giorni scorsi contro i brogli elettorali e nell'attacco al dormitorio dell'università di Teheran, dove dei cinque studenti uccisi due erano ragazze.
Intanto, riguardo il fronte della protesta in Iran, secondo quanto riporta il Los Angeles Times, il movimento politico Kargozaran, che fa riferimento all'ayatollah Rafsanjani, che presiede il Consiglio degli Esperti, non riconosce i risultati elettorali ufficiali che hanno sancito la rielezione di Ahmadinejad: «Dichiariamo il risultato inaccettabile a causa delle condizioni inopportune in cui si è svolto il processo elettorale, per gli evidenti brogli e per la parzialità della maggior parte dei membri del Consiglio dei Guardiani che sostenevano uno specifico candidato», si legge nella nota diffusa di Kargozaran e riportata dal LAT.
Il sano realismo dei diritti umani
Il biancio degli scontri di ieri tra polizia e manifestanti uiguri a Urumqi, nella provincia dello Xinjiang, è di 156 morti e 1434 arresti. Mentre ci sono segnali che la protesta possa allargarsi ad altre città (dimostrazioni sono segnalate a Kashgar, Yili, Dawan e Tianshan), a Urumqi diverse centinaia di persone, in maggioranza donne e ragazze, hanno sfidato la polizia tornando in strada per protestare contro la repressione e per chiedere il rilascio dei loro parenti. «Decine di migliaia di poliziotti e soldati - riporta il sito Asianews - sono stati ingaggiati per mantenere il controllo della situazione e per procedere a una serie indiscriminata di arresti e distruzioni», mentre Pechino «continua ad accusare i gruppi uiguri all'estero di aver organizzato e fomentato le rivolte». Rebiya Kadeer, l'esule uiguri accusata di essere dietro le sommosse, parlando a Washington ha detto che le violenze di questi giorni «rivelano profondi, seri problemi che il governo cinese non ha voluto affrontare o mitigare».
Nel suo editoriale di oggi, Bernardo Cervellera, direttore di Asianews, commenta le parole sui diritti umani pronunciate ieri dal presidente Napolitano alla presenza del presidente cinese Hu Jintao, proprio mentre dalla Cina giungevano le notizie degli scontri e dei morti a Urumqi. «Quanto detto da Napolitano si trova tale e quale in Charta 08, un documento stilato e sottoscritto da intellettuali, accademici, attivisti e membri del Partito comunista cinese che chiedono - in modo non violento - riforme democratiche nel Paese per fermare violenze e ingiustizie provocate dai successi dello sviluppo economico cinese senza alcun rispetto per la dignità dell'uomo».
«Anche comunità religiose che non hanno - come gli uiguri e i tibetani - delle rivendicazioni territoriali subiscono le stesse violenze alla loro dignità e libertà», denuncia Cervellera, riferendosi alle comunità protestanti «sotterranee» e alle «cosiddette chiese domestiche», ma anche alla comunità cattolica, che «non sta meglio». «I vescovi ufficiali - circa 70, riconosciuti da Pechino - sono ormai sotto un controllo ferreo perché segretamente riconciliati col papa. I vescovi sotterranei - non riconosciuti - sono tutti (circa 40) agli arresti domiciliari». Alcuni di loro risultano addirittura «scomparsi da tempo»: mons. Giacomo Su Zhimin (diocesi di Baoding, Hebei), 75 anni, arrestato e scomparso dal 1996; mons. Cosma Shi Enxiang (diocesi di Yixian, Hebei), 86 anni, arrestato e scomparso il 13 aprile 2001; mons. Giulio Jia Zhiguo, scomparso per l'ennesima volta il 30 marzo scorso.
E' questa la lista degli "scomparsi" che fa Cervellera, che conclude così il suo editoriale, cogliendo e sottolineando il nesso tra rispetto dei diritti umani, democrazia, e sicurezza: «Se a uiguri, tibetani, attivisti democratici, protestanti, cattolici, aggiungiamo gli scontenti della crisi economica, i disoccupati e i migranti, è evidente che la Cina è seduta su una polveriera che può scoppiare da un momento all'altro e anzi sta provocando continue rivolte e scontri con esercito e polizia... Non rispettando i diritti umani, la Cina rende il mondo più vicino alla guerra». Altro che idealismo naïf, sano realismo.
Nel suo editoriale di oggi, Bernardo Cervellera, direttore di Asianews, commenta le parole sui diritti umani pronunciate ieri dal presidente Napolitano alla presenza del presidente cinese Hu Jintao, proprio mentre dalla Cina giungevano le notizie degli scontri e dei morti a Urumqi. «Quanto detto da Napolitano si trova tale e quale in Charta 08, un documento stilato e sottoscritto da intellettuali, accademici, attivisti e membri del Partito comunista cinese che chiedono - in modo non violento - riforme democratiche nel Paese per fermare violenze e ingiustizie provocate dai successi dello sviluppo economico cinese senza alcun rispetto per la dignità dell'uomo».
«I folli risultati - si legge nel documento - sono una endemica corruzione dei quadri, un minare lo Stato di diritto, mancanza di tutela dei diritti della popolazione, perdita di etica, capitalismo grossolano, polarizzazione della società fra ricchi e poveri, sfruttamento e abuso dell'ambiente naturale, dell'ambiente umano e storico, un acutizzarsi di una lunga lista di conflitti sociali, in particolare un indurimento dell'animosità fra rappresentanti ufficiali e gente ordinaria».I promotori di Charta 08 osservano anche che «conflitti e crisi crescono di intensità» giorno per giorno, come confermano gli scontri fra la popolazione locale di etnia uiguri e la polizia nello Xinjiang. «Sebbene la Cina continui ad accusare gruppi di uiguri all'estero, tutti sanno che il problema è interno e dura da decenni», commenta padre Cervellera.
«Con la scusa di combattere il terrorismo islamico Pechino sta colonizzando la regione e opprime con leggi d'emergenza la popolazione e la sua religiosità... L'emarginazione sociale e politica a cui sono sottomessi gli uiguri nella loro terra è pari solo alla stessa emarginazione e accuse subite dai tibetani nel Qinghai o nella regione "autonoma" del Tibet».Le proteste di questi giorni, fa notare il direttore di Asianews, «ricalcano da vicino i fatti e le teorie sulla rivolta tibetana prima delle Olimpiadi. Anche nel marzo 2008 una manifestazione pacifica si è trasformata in uno scontro violento con l'esercito che ha fatto decine di morti, a cui sono seguiti migliaia di arresti e legge marziale». Ma la violenza verso minoranze uiguri e tibetane «non è diversa da quella subita da altri gruppi»: attivisti per i diritti umani, avvocati e contadini che combattono le prepotenze delle autorità e trovano «la stessa risposta del governo: il soffocamento e la repressione».
«Anche comunità religiose che non hanno - come gli uiguri e i tibetani - delle rivendicazioni territoriali subiscono le stesse violenze alla loro dignità e libertà», denuncia Cervellera, riferendosi alle comunità protestanti «sotterranee» e alle «cosiddette chiese domestiche», ma anche alla comunità cattolica, che «non sta meglio». «I vescovi ufficiali - circa 70, riconosciuti da Pechino - sono ormai sotto un controllo ferreo perché segretamente riconciliati col papa. I vescovi sotterranei - non riconosciuti - sono tutti (circa 40) agli arresti domiciliari». Alcuni di loro risultano addirittura «scomparsi da tempo»: mons. Giacomo Su Zhimin (diocesi di Baoding, Hebei), 75 anni, arrestato e scomparso dal 1996; mons. Cosma Shi Enxiang (diocesi di Yixian, Hebei), 86 anni, arrestato e scomparso il 13 aprile 2001; mons. Giulio Jia Zhiguo, scomparso per l'ennesima volta il 30 marzo scorso.
E' questa la lista degli "scomparsi" che fa Cervellera, che conclude così il suo editoriale, cogliendo e sottolineando il nesso tra rispetto dei diritti umani, democrazia, e sicurezza: «Se a uiguri, tibetani, attivisti democratici, protestanti, cattolici, aggiungiamo gli scontenti della crisi economica, i disoccupati e i migranti, è evidente che la Cina è seduta su una polveriera che può scoppiare da un momento all'altro e anzi sta provocando continue rivolte e scontri con esercito e polizia... Non rispettando i diritti umani, la Cina rende il mondo più vicino alla guerra». Altro che idealismo naïf, sano realismo.
Usa-Russia, reset al buio
Siglati gli accordi annunciati alla vigilia. Stati Uniti e Federazione Russa si impegnano reciprocamente a ridurre ad un numero tra 1.500 e 1.675 le testate nucleari strategiche nei loro arsenali e tra 500 e 1.100 il numero dei vettori balistici. I negoziati proseguiranno e il rinnovo del trattato Start, come previsto, avverrà a dicembre sulla base di questo documento che impegna solo politicamente le due superpotenze. Firmato anche l'accordo per il transito di materiale militare Usa verso l'Afghanistan, via Russia, fino a 4.500 voli l'anno. Divergenze profonde, invece, rimangono sul progetto dello scudo anti-missile e, ovviamente, sull'allargamento della Nato. Si possono ottenere «straordinari progressi» in vari campi «se lavoriamo insieme». Con questo messaggio ottimistico il presidente Usa Obama era atterrato a Mosca. «Un evento importante nella storia delle relazioni russo-statunitensi che aiuterà ad aprire nuove pagine», aveva contracambiato Medvedev. Il bottone di "reset" è stato premuto da entrambi i leader, ma cosa esattamente ciò comporti, quale sia il singificato di questo nuovo inizio, al di là della buona volontà e dell'ottimismo, probabilmente nessuno dei due lo sa.
CONTINUA
CONTINUA
Monday, July 06, 2009
Dopo i tibetani, gli uiguri
E Berlusconi demanda a Napolitano la "grana" dei diritti umani
Dopo i tibetani, gli uiguri. Cova sotto la cappa repressiva del regime il fuoco della rivolta delle minoranze, che periodicamente si riaccende. Il bilancio degli scontri ha proporzioni "cinesi": 140 morti e quasi mille feriti. E siccome gli uiguri non sono i tibetani, la loro protesta è stata improvvisa e incendiaria: in fiamme centinaia tra bus, taxi e auto della polizia, negozi distrutti. Anche nella regione dello Xinjiang il problema è la politica di sinizzazione di Pechino, identica a quella attuata in Tibet, e quindi i rapporti tesi con la crescente popolazione di etnia Han, e le discriminazioni politiche, economiche e sociali.
Lo Xinjiang è una vasta regione nordoccidentale, 1/6 del territorio cinese, in maggioranza abitata dagli uiguri, prevalentemente musulmani. Pechino incoraggia da decenni la migrazione di cinesi di etnia Han, che oggi rappresentano il 40% della popolazione, contro il 5% negli anni '40. Si calcola che ormai ve ne siano tra i 6 e 15 milioni.
Le autorità hanno accusato Rebya Kadeer, la leader del Congresso Mondiale degli uiguri, di aver organizzato le violenze e di volere la secessione. La Kadeer, il cui obiettivo è un'autonomia vera e il rispetto dei diritti umani, ha respinto le accuse e ha invece puntato l'indice sul regime di Pechino, reo di non aver condotto un'inchiesta credibile sull'assassinio dei due giovani uiguri che ha scatenato le violenze. Ma la dissidenza uigura è un universo complesso. Non c'è solo il movimento democratico e nonviolento di Rebya Kadeer. Ci sono anche spinte indipendentiste e forse anche infiltrazioni islamiste e di al Qaeda.
Intanto, si conferma la totale continuità dei governi italiani nei rapporti con la Cina. Il tema dei diritti umani è stato solo sfiorato nel vertice bilaterale di oggi tra il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il presidente cinese Hu Jintao, che si sono concentrati invece sui temi del G8, mentre - fanno sapere fonti di Palazzo Chigi - è stato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a parlare di diritti umani ad Hu Jintao. Divisione dei compiti, quindi, tra Palazzo Chigi e Quirinale. Onore a Napolitano, ma non sfuggirà che è stato un modo un po' vigliacco per svuotare il tema di ogni significato politico nei rapporti tra i due governi, relegandolo in un ambito più formale e retorico. La politica cinese è coerente con una «politica dell'armonia» e del «dialogo», ha detto Berlusconi, che pur riferendosi ai rapporti internazionali di Pechino e non agli affari interni, è stato comunque fin troppo generoso.
Dopo i tibetani, gli uiguri. Cova sotto la cappa repressiva del regime il fuoco della rivolta delle minoranze, che periodicamente si riaccende. Il bilancio degli scontri ha proporzioni "cinesi": 140 morti e quasi mille feriti. E siccome gli uiguri non sono i tibetani, la loro protesta è stata improvvisa e incendiaria: in fiamme centinaia tra bus, taxi e auto della polizia, negozi distrutti. Anche nella regione dello Xinjiang il problema è la politica di sinizzazione di Pechino, identica a quella attuata in Tibet, e quindi i rapporti tesi con la crescente popolazione di etnia Han, e le discriminazioni politiche, economiche e sociali.
Lo Xinjiang è una vasta regione nordoccidentale, 1/6 del territorio cinese, in maggioranza abitata dagli uiguri, prevalentemente musulmani. Pechino incoraggia da decenni la migrazione di cinesi di etnia Han, che oggi rappresentano il 40% della popolazione, contro il 5% negli anni '40. Si calcola che ormai ve ne siano tra i 6 e 15 milioni.
Le autorità hanno accusato Rebya Kadeer, la leader del Congresso Mondiale degli uiguri, di aver organizzato le violenze e di volere la secessione. La Kadeer, il cui obiettivo è un'autonomia vera e il rispetto dei diritti umani, ha respinto le accuse e ha invece puntato l'indice sul regime di Pechino, reo di non aver condotto un'inchiesta credibile sull'assassinio dei due giovani uiguri che ha scatenato le violenze. Ma la dissidenza uigura è un universo complesso. Non c'è solo il movimento democratico e nonviolento di Rebya Kadeer. Ci sono anche spinte indipendentiste e forse anche infiltrazioni islamiste e di al Qaeda.
Intanto, si conferma la totale continuità dei governi italiani nei rapporti con la Cina. Il tema dei diritti umani è stato solo sfiorato nel vertice bilaterale di oggi tra il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il presidente cinese Hu Jintao, che si sono concentrati invece sui temi del G8, mentre - fanno sapere fonti di Palazzo Chigi - è stato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a parlare di diritti umani ad Hu Jintao. Divisione dei compiti, quindi, tra Palazzo Chigi e Quirinale. Onore a Napolitano, ma non sfuggirà che è stato un modo un po' vigliacco per svuotare il tema di ogni significato politico nei rapporti tra i due governi, relegandolo in un ambito più formale e retorico. La politica cinese è coerente con una «politica dell'armonia» e del «dialogo», ha detto Berlusconi, che pur riferendosi ai rapporti internazionali di Pechino e non agli affari interni, è stato comunque fin troppo generoso.
Friday, July 03, 2009
Obama-Medvedev, prove di disgelo
E' evidente che se i rapporti tra Usa e Russia dovessero peggiorare, come alcuni commentatori prevedono nel prossimo futuro (anche il sottoscritto, a meno di cedimenti di Obama), la posizione italiana rischierebbe di entrare in affanno, alla luce del ruolo di mediatore del quale si è sempre sentito investito Berlusconi, affettivamente legato alla bella pagina di Pratica di Mare 2002. Se Usa e Russia si allontanano, saranno sempre meno opportuni i suoi slanci filo-russi e saranno più difficili da far digerire ai nostri alleati gli affari energetici con Mosca. Un rischio «spaccata» per l'Italia, l'abbiamo definito qualche post fa. Tuttavia, alla vigilia di questa visita del presidente Obama a Mosca, entrambe le parti sembrano interessate, e impegnate, a volgere al meglio i loro rapporti, anche se su molti temi le aspettative ancora divergono.
Nella sua prima intervista ai media russi, anticipata oggi dall'agenzia Itar-Tass, il presidente Obama conferma la sua volontà di dialogare «alla pari» con la Russia e il suo apprezzamento per il presidente Medvedev, definito un leader «profondo e lungimirante»: «Penso che stia facendo un buon lavoro per guidare la Russia nel XXI secolo». In cima all'agenda del vertice - il principale banco di prova dei rapporti tra Usa e Russia - c'è un accordo «quadro per il trattato post-Start», cioè per la riduzione degli arsenali nucleari. Obama assicura la controparte di cercare un equlibrio «che non lasci vantaggi a nessuno dei due Paesi». Per ora i leader di Usa e Russia puntano a siglare un documento contenente gli obiettivi in cifre della riduzione dei loro arsenali strategici, da perfezionare in un trattato «entro la fine di dicembre», anticipa Obama nell'intervista, dove spiega che «per noi, mandare un segnale forte di riduzione dei nostri arsenali sarebbe di aiuto a livello internazionale, darebbe alla gente il senso che ci stiamo muovendo verso una nuova era e che vogliamo andare oltre la Guerra Fredda». «La cosa principale che voglio comunicare alla leadership e al popolo russo - aggiunge Obama - è il rispetto dell'America per la Russia, che vogliamo trattare alla pari. Siamo entrambi superpotenze e dobbiamo gestire tale responsabilità in un modo che incoraggi la pace». Pari diritti e pari doveri, è il messaggio di Obama alla Russia, inteso a superare quel senso di superiorità che prevaleva nell'amministrazione Bush e che infastidiva Mosca. «Gli Usa dimostrano la disponibilità a costruire rapporti con la Russia più sicuri e più moderni e anche noi siamo pronti a farlo», aveva a sua volta aperto, ieri, il presidente russo.
Per un accordo sul disarmo l'amministrazione Obama sarebbe persino disposta a mettere in discussione il progetto di scudo antimissile nell'Europa dell'est. L'ipotesi era stata fatta balenare tempo fa da fonti anomine dell'amministrazione sul New York Times e oggi il consigliere diplomatico del Cremlino Prikhodko, in un briefing con i giornalisti, ha confermato il legame tra i due temi. E' ciò che vorrebbe la Russia: accordo sul disarmo in cambio dell'abbandono dello scudo anti-missile, ma che probabilmente gli Usa non sono ancora pronti a concedere.
Di importanza non secondaria nei rapporti tra Usa e Russia il tema dell'Afghanistan. Il presidente Obama considera ormai quella in Afghanistan la "sua guerra", una missione da vincere. Lo dimostrano i continui bombardamenti con i droni al confine con il Pakistan e la grande offensiva lanciata proprio in questi giorni dalle forze americane nella regione afghana di Helmand. Ebbene, Obama e Medvedev firmeranno un patto per il transito di materiale militare Usa verso l'Afghanistan, via Russia. Un transito «sia aereo che terrestre, ma soprattutto aereo», ha precisato Prikhodko. Una prova importante della collaborazione della Russia in Afghanistan che sicuramente è molto apprezzata a Washington. Il tema del programma nucleare iraniano non dovrebbe essere motivo di attrito. Almeno per ora. I russi sono contrari a nuove e più severe sanzioni contro l'Iran, ma Obama - deciso a perseguire la sua strategia dell'engagement, nonostante la contestata rielezione di Ahmadinejad e la dura repressione dei manifestanti - in questo momento non sembra intenzionato a chiederle.
Entrambe le parti sono «entusiaste» all'idea di premere il bottone di "reset", spiega Stephen Sestanovich, esperto del Council on Foreign Relations, il problema è che dietro quel gesto potrebbe non esserci molto di concreto. Per Washington "reset" significa trovare un accordo sul disarmo, ma Mosca pretende in cambio «impegni legali», o comunque una rinuncia esplicita, allo scudo antimissile e all'allargamento della Nato. Non si accontenta di veder rallentare il processo di allargamento e di veder diminuire il budget Usa per la difesa missilistica.
Anche secondo l'ex consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Zbigniew Brzezinski, è «evidente che entrambi i paesi hanno interesse a migliorare le loro relazioni». Su alcuni temi - come la riduzione dei reciproci arsenali nucleari; un compromesso sullo scudo anti-missile, e «sforzi congiunti» per rafforzare il trattato di non proliferazione nucleare - «la collaborazione non è solo possibile, ma anche vantaggiosa per entrambi». Purtroppo, osserva Brzezinski, non è affatto certo che la Russia intenda assumere un atteggiamento collaborativo sull'Iran. Le potenze sue rivali - Usa e Cina - soffrirebbero entrambe se una crisi tra Iran e Stati Uniti facesse salire i prezzi dell'energia, mentre la Russia ne trarrebbe vantaggio. La disponibilità della Russia sull'Iran potrebbe essere «più formale che reale».
Né vanno sottovalutati i «seri conflitti di interessi geopolitici» tra Usa e Russia nello spazio ex sovietico. Durante il vertice Putin e Medvedev cercheranno di capire se l'amministrazione Obama onorerà o meno gli accordi di partnership siglati dall'amministrazione Bush con Ucraina e Georgia. «Anche un segnale involontario in senso negativo - avverte Brzezinski - sarebbe interpretato dal Cremlino come una luce verde per una politica più muscolare nei confronti dei due paesi». Dev'essere fatto capire alla Russia che l'adesione alla Nato di Georgia e Ucraina «non è imminente», ma anche «che l'uso della forza o dei conflitti etnici per destabilizzarle avvelenerebbe le relazioni russo-americane». Chiarire questi aspetti è importante per far svanire al più presto ogni antistorica ambizione imperiale da parte dei russi. Secondo Brzezinski, in conclusione, l'approccio strategico dell'amministrazione Obama verso la Russia dev'essere volto a far comprendere ai russi «il loro interesse a diventare un partner genuinamente post-imperiale della comunità euro-atlantica».
Nella sua prima intervista ai media russi, anticipata oggi dall'agenzia Itar-Tass, il presidente Obama conferma la sua volontà di dialogare «alla pari» con la Russia e il suo apprezzamento per il presidente Medvedev, definito un leader «profondo e lungimirante»: «Penso che stia facendo un buon lavoro per guidare la Russia nel XXI secolo». In cima all'agenda del vertice - il principale banco di prova dei rapporti tra Usa e Russia - c'è un accordo «quadro per il trattato post-Start», cioè per la riduzione degli arsenali nucleari. Obama assicura la controparte di cercare un equlibrio «che non lasci vantaggi a nessuno dei due Paesi». Per ora i leader di Usa e Russia puntano a siglare un documento contenente gli obiettivi in cifre della riduzione dei loro arsenali strategici, da perfezionare in un trattato «entro la fine di dicembre», anticipa Obama nell'intervista, dove spiega che «per noi, mandare un segnale forte di riduzione dei nostri arsenali sarebbe di aiuto a livello internazionale, darebbe alla gente il senso che ci stiamo muovendo verso una nuova era e che vogliamo andare oltre la Guerra Fredda». «La cosa principale che voglio comunicare alla leadership e al popolo russo - aggiunge Obama - è il rispetto dell'America per la Russia, che vogliamo trattare alla pari. Siamo entrambi superpotenze e dobbiamo gestire tale responsabilità in un modo che incoraggi la pace». Pari diritti e pari doveri, è il messaggio di Obama alla Russia, inteso a superare quel senso di superiorità che prevaleva nell'amministrazione Bush e che infastidiva Mosca. «Gli Usa dimostrano la disponibilità a costruire rapporti con la Russia più sicuri e più moderni e anche noi siamo pronti a farlo», aveva a sua volta aperto, ieri, il presidente russo.
Per un accordo sul disarmo l'amministrazione Obama sarebbe persino disposta a mettere in discussione il progetto di scudo antimissile nell'Europa dell'est. L'ipotesi era stata fatta balenare tempo fa da fonti anomine dell'amministrazione sul New York Times e oggi il consigliere diplomatico del Cremlino Prikhodko, in un briefing con i giornalisti, ha confermato il legame tra i due temi. E' ciò che vorrebbe la Russia: accordo sul disarmo in cambio dell'abbandono dello scudo anti-missile, ma che probabilmente gli Usa non sono ancora pronti a concedere.
Di importanza non secondaria nei rapporti tra Usa e Russia il tema dell'Afghanistan. Il presidente Obama considera ormai quella in Afghanistan la "sua guerra", una missione da vincere. Lo dimostrano i continui bombardamenti con i droni al confine con il Pakistan e la grande offensiva lanciata proprio in questi giorni dalle forze americane nella regione afghana di Helmand. Ebbene, Obama e Medvedev firmeranno un patto per il transito di materiale militare Usa verso l'Afghanistan, via Russia. Un transito «sia aereo che terrestre, ma soprattutto aereo», ha precisato Prikhodko. Una prova importante della collaborazione della Russia in Afghanistan che sicuramente è molto apprezzata a Washington. Il tema del programma nucleare iraniano non dovrebbe essere motivo di attrito. Almeno per ora. I russi sono contrari a nuove e più severe sanzioni contro l'Iran, ma Obama - deciso a perseguire la sua strategia dell'engagement, nonostante la contestata rielezione di Ahmadinejad e la dura repressione dei manifestanti - in questo momento non sembra intenzionato a chiederle.
Entrambe le parti sono «entusiaste» all'idea di premere il bottone di "reset", spiega Stephen Sestanovich, esperto del Council on Foreign Relations, il problema è che dietro quel gesto potrebbe non esserci molto di concreto. Per Washington "reset" significa trovare un accordo sul disarmo, ma Mosca pretende in cambio «impegni legali», o comunque una rinuncia esplicita, allo scudo antimissile e all'allargamento della Nato. Non si accontenta di veder rallentare il processo di allargamento e di veder diminuire il budget Usa per la difesa missilistica.
Anche secondo l'ex consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Zbigniew Brzezinski, è «evidente che entrambi i paesi hanno interesse a migliorare le loro relazioni». Su alcuni temi - come la riduzione dei reciproci arsenali nucleari; un compromesso sullo scudo anti-missile, e «sforzi congiunti» per rafforzare il trattato di non proliferazione nucleare - «la collaborazione non è solo possibile, ma anche vantaggiosa per entrambi». Purtroppo, osserva Brzezinski, non è affatto certo che la Russia intenda assumere un atteggiamento collaborativo sull'Iran. Le potenze sue rivali - Usa e Cina - soffrirebbero entrambe se una crisi tra Iran e Stati Uniti facesse salire i prezzi dell'energia, mentre la Russia ne trarrebbe vantaggio. La disponibilità della Russia sull'Iran potrebbe essere «più formale che reale».
Né vanno sottovalutati i «seri conflitti di interessi geopolitici» tra Usa e Russia nello spazio ex sovietico. Durante il vertice Putin e Medvedev cercheranno di capire se l'amministrazione Obama onorerà o meno gli accordi di partnership siglati dall'amministrazione Bush con Ucraina e Georgia. «Anche un segnale involontario in senso negativo - avverte Brzezinski - sarebbe interpretato dal Cremlino come una luce verde per una politica più muscolare nei confronti dei due paesi». Dev'essere fatto capire alla Russia che l'adesione alla Nato di Georgia e Ucraina «non è imminente», ma anche «che l'uso della forza o dei conflitti etnici per destabilizzarle avvelenerebbe le relazioni russo-americane». Chiarire questi aspetti è importante per far svanire al più presto ogni antistorica ambizione imperiale da parte dei russi. Secondo Brzezinski, in conclusione, l'approccio strategico dell'amministrazione Obama verso la Russia dev'essere volto a far comprendere ai russi «il loro interesse a diventare un partner genuinamente post-imperiale della comunità euro-atlantica».
Da oggi Obama ha la sua guerra
Fin dalla campagna elettorale il presidente americano aveva spiegato che l'Afghanistan, non l'Iraq, doveva essere il fronte principale della guerra al terrorismo, e aveva promesso di dirottare le risorse in quella direzione per battere al Qaeda e i Talebani una volta per tutte. Da quando è in carica ha mantenuto la parola, inviando 17 mila soldati in più, affidando il cambio di strategia al generale Stanley McChrystal e, ora, avviando la più grande offensiva dalla battaglia di Falluja, in Iraq.
Da oggi in Afghanistan si gioca un'importante fetta della sua credibilità come "commander in chief" e l'esito influirà sul suo intero mandato. Come ha giustamente osservato Con Coughlin, sul Daily Telegraph, «da adesso in poi, dovremmo considerare l'Afghanistan come la guerra di Obama», poiché la grande offensiva nella regione di Helmand «rappresenta la prima impresa militare del presidente americano da quando è entrato alla Casa Bianca. Il suo esito avrà un impatto significativo su come la sua presidenza sarà percepita dagli alleati così come dai nemici».
Da oggi in Afghanistan si gioca un'importante fetta della sua credibilità come "commander in chief" e l'esito influirà sul suo intero mandato. Come ha giustamente osservato Con Coughlin, sul Daily Telegraph, «da adesso in poi, dovremmo considerare l'Afghanistan come la guerra di Obama», poiché la grande offensiva nella regione di Helmand «rappresenta la prima impresa militare del presidente americano da quando è entrato alla Casa Bianca. Il suo esito avrà un impatto significativo su come la sua presidenza sarà percepita dagli alleati così come dai nemici».
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