Oggi su il Riformista:
Caro direttore, mi perdoni la schiettezza, ma la sua "preoccupazione", di "scivolare dal testamento biologico all'eutanasia", anche se in astratto comprensibile, mi sembra davvero fuori luogo qui ed ora. Non siamo in Olanda. Qui, oggi, stiamo correndo il pericolo di una deriva di senso opposto. Sta per essere approvata una legge che costringerebbe un cittadino pienamente capace di intendere e di volere, quindi in grado di esprimere una volontà attuale e consapevole, ad essere alimentato e idratato artificialmente contro la sua volontà. E se alimentazione e idratazione artificiali non sono trattamenti medici, allora non c'è alcun bisogno che siano praticate da medici e in strutture sanitarie. Tra l'altro, se non ci si può rifiutare di essere alimentati e idratati, lo stato non dovrebbe mantenere a sue spese chiunque pur essendo in grado smettesse di procurarsi da sé acqua e cibo? Ma tornando alla sua preoccupazione. Mi permetta, ma né lei né Dahrendorf (dalle parole riportate) avete spiegato quali sarebbero le "conseguenze collettive" di una scelta individuale che riguardi solo se stessi. Nel caso dell'aborto, c'è comunque in gioco una vita nascente. Ma nel porre fine alla propria vita in uno stato terminale irreversibile o in uno stato vegetativo, non riesco a vedere pericoli né danni per gli altri. Ove ce ne fossero, i danneggiati ricorrano alla magistratura. E' così che funziona in uno stato liberale: se c'è un danno, ci dev'essere per forza un danneggiato. Senza danneggiato, non c'è danno. Anche se in talune particolari circostanze, la mia morte fosse una "scelta" e non un "evento", dove esattamente potrebbe entrare in conflitto con la libertà di tutti? Nel suo articolo non trovo la risposta. Grazie.
Friday, February 27, 2009
Nella morsa di due statalismi
Ho avuto la sfortuna di passare su Annozero proprio mentre Tremonti esibiva il suo campionario di enormità vetero-stataliste. Da moralizzatore, come un Travaglio della finanza. Mentre è proprio di questi tempi di crisi di cui l'Italia dovrebbe approfittare per fare quelle riforme strutturali di cui ha bisogno per afferrare con dinamismo la ripresa, Tremonti ha sostenuto invece che «se in un momento di incertezza e paura ti metti a fare le riforme a caso, non fai le riforme sociali, fai la recessione sociale». Sostituite il termine «recessione» con «macelleria», e vedrete che la retorica con cui Tremonti respinge l'ipotesi delle riforme non è così dissimile da quella che userebbe Bertinotti.
Tremonti saluta con entusiasmo il mondo che a suo avviso si aprirà all'indomani della crisi. Un mondo in cui le opere pubbliche, le opere di utilità collettiva, assumeranno la centralità che oggi hanno i beni di consumo. Basta con tutto questo consumismo frivolo! Basta televisori lcd, più case del popolo!
E' contrario a una riforma delle pensioni come patto intergenerazionale per finanziare un sistema di sussidi di disoccupazione universale. Nonostante la spesa previdenziale in Italia sia una delle più elevate in occidente e impedisca di destinare risorse adeguate ad altre spese sociali altrettanto importanti - come gli ammortizzatori sociali e una politica di sostegno al lavoro femminile - per Tremonti il nostro sistema è «uno dei più solidi, il migliore rispetto a tutti questi sistemi "americanoidi"... che ci hanno raccontato in giro». Cito a memoria, ma il senso è questo: «Per fortuna in Italia c'è ancora l'Inps. In America se Wall Street va male, vai a finire in una roulotte a mangiare KitKat».
Se le stesse cose avesse osato pronunciarle un ministro dell'economia di centrosinistra si sarebbe aperta una polemica politica lunga una settimana. Tremonti dice queste cose quasi tutti i giorni ma in pochi si scandalizzano. Ed è questa una delle ragioni per cui sebbene la sua politica economica sia ben poco market-oriented, gli elettori continuano a vedere in Berlusconi il male minore.
Nel centrodestra in pochi si scandalizzano, perché Tremonti è pur sempre un autorevole esponente della compagine governativa che sostengono. Per il Ministero dell'economia purtroppo non ha rivali interni. Per ora. Ma perché quelle cose non suscitano scandalo nel Pd e nei suoi referenti economico-finanziari, mediatici e intellettuali? Semplice. Perché in fondo condividono le cose che dice il ministro, il loro stomaco se ne è nutrito per decenni. Il massimo del sentimento che provano nel sentire Tremonti è invidia: "Perché noi, dicendo le stesse cose, perdiamo le elezioni?" Per necessità devono fingersi "libero-mercatisti", anche se non ne sono convinti e non ne sono nemmeno capaci. E gli elettori se ne sono accorti.
Dunque ecco la situazione in cui siamo. Immaginatevi uno spettro che va da un massimo di libero mercato (100%) ad un massimo di statalismo (0%). Se il Pd non sa andare oltre un 30%, a Berlusconi basta fermarsi ad un misero 40% per coprire tutto il mercato politico-elettorale. Avrà con sé i voti dei più liberisti, dei moderati, e grazie alle sparate di Tremonti anche dei nostalgici dello statalismo socialdemocratico. Non c'è competizione.
Diciamo che una differenza c'è tra l'approccio statalista di Tremonti e quello dei governi di centrosinistra. Diciamo che Tremonti è appena un po' più pragmatico. Un po' più attento a non aggredire il ceto medio e la piccola impresa; non abbassa le tasse ma nemmeno le alza; non taglia la spesa, ma la contiene. Quello dell'attuale governo è uno statalismo più rigoroso e decisionista, che interpreta in tre ambiti fondamentali dello stato le aspettative dei cittadini: basta opere pubbliche bloccate da veti ambientali e da interessi particolaristici; basta fannulloni nella pubblica amministrazione; basta cittadini ostaggi degli scioperi. E qualcosa di buono si vede: la riforma Brunetta; l'approccio della Gelmini sull'università; la regolamentazione degli scioperi; il nucleare comunque la si pensi.
Quello dei governi di centrosinistra invece si è rivelato finora uno statalismo lassista, rissoso e inconcludente. Sembra che il compito della politica sia spendere. Non importa come vengono utilizzati i soldi pubblici, o che i servizi funzionino, l'importante è poter dire di aver aumentato il budget a questo o a quel programma. Vivi e lascia vivere. A rimetterci siamo tutti, stretti nella morsa di due statalismi.
UPDATE: A proposito, da leggere questo magnifico articolo di Alberto Mingardi: «Sembrava essersi compiuta un'evoluzione, a sinistra: ora abbiamo davanti un'involuzione della destra».
Tremonti saluta con entusiasmo il mondo che a suo avviso si aprirà all'indomani della crisi. Un mondo in cui le opere pubbliche, le opere di utilità collettiva, assumeranno la centralità che oggi hanno i beni di consumo. Basta con tutto questo consumismo frivolo! Basta televisori lcd, più case del popolo!
E' contrario a una riforma delle pensioni come patto intergenerazionale per finanziare un sistema di sussidi di disoccupazione universale. Nonostante la spesa previdenziale in Italia sia una delle più elevate in occidente e impedisca di destinare risorse adeguate ad altre spese sociali altrettanto importanti - come gli ammortizzatori sociali e una politica di sostegno al lavoro femminile - per Tremonti il nostro sistema è «uno dei più solidi, il migliore rispetto a tutti questi sistemi "americanoidi"... che ci hanno raccontato in giro». Cito a memoria, ma il senso è questo: «Per fortuna in Italia c'è ancora l'Inps. In America se Wall Street va male, vai a finire in una roulotte a mangiare KitKat».
«Non dobbiamo ragionare stile Goldman Sachs, per cui la riforma la fai con i numeri. I numeri della matematica sono una cosa, quelli della vita sono diversi. Il sistema delle pensioni non lo cambi come i prodotti finanziari, come questi "schizzati" che ti dicono che si fa con i modelli matematici».Queste banalità dice Tremonti in tv, le stesse che ti direbbe un qualsiasi militante comunista parlando di modello americano al pub. E non ci si può aspettare nulla di diverso da chi è convinto che questo sia il momento della «verità», quindi non il momento «per leggere i libri d'economia, ma la Bibbia».
Se le stesse cose avesse osato pronunciarle un ministro dell'economia di centrosinistra si sarebbe aperta una polemica politica lunga una settimana. Tremonti dice queste cose quasi tutti i giorni ma in pochi si scandalizzano. Ed è questa una delle ragioni per cui sebbene la sua politica economica sia ben poco market-oriented, gli elettori continuano a vedere in Berlusconi il male minore.
Nel centrodestra in pochi si scandalizzano, perché Tremonti è pur sempre un autorevole esponente della compagine governativa che sostengono. Per il Ministero dell'economia purtroppo non ha rivali interni. Per ora. Ma perché quelle cose non suscitano scandalo nel Pd e nei suoi referenti economico-finanziari, mediatici e intellettuali? Semplice. Perché in fondo condividono le cose che dice il ministro, il loro stomaco se ne è nutrito per decenni. Il massimo del sentimento che provano nel sentire Tremonti è invidia: "Perché noi, dicendo le stesse cose, perdiamo le elezioni?" Per necessità devono fingersi "libero-mercatisti", anche se non ne sono convinti e non ne sono nemmeno capaci. E gli elettori se ne sono accorti.
Dunque ecco la situazione in cui siamo. Immaginatevi uno spettro che va da un massimo di libero mercato (100%) ad un massimo di statalismo (0%). Se il Pd non sa andare oltre un 30%, a Berlusconi basta fermarsi ad un misero 40% per coprire tutto il mercato politico-elettorale. Avrà con sé i voti dei più liberisti, dei moderati, e grazie alle sparate di Tremonti anche dei nostalgici dello statalismo socialdemocratico. Non c'è competizione.
Diciamo che una differenza c'è tra l'approccio statalista di Tremonti e quello dei governi di centrosinistra. Diciamo che Tremonti è appena un po' più pragmatico. Un po' più attento a non aggredire il ceto medio e la piccola impresa; non abbassa le tasse ma nemmeno le alza; non taglia la spesa, ma la contiene. Quello dell'attuale governo è uno statalismo più rigoroso e decisionista, che interpreta in tre ambiti fondamentali dello stato le aspettative dei cittadini: basta opere pubbliche bloccate da veti ambientali e da interessi particolaristici; basta fannulloni nella pubblica amministrazione; basta cittadini ostaggi degli scioperi. E qualcosa di buono si vede: la riforma Brunetta; l'approccio della Gelmini sull'università; la regolamentazione degli scioperi; il nucleare comunque la si pensi.
Quello dei governi di centrosinistra invece si è rivelato finora uno statalismo lassista, rissoso e inconcludente. Sembra che il compito della politica sia spendere. Non importa come vengono utilizzati i soldi pubblici, o che i servizi funzionino, l'importante è poter dire di aver aumentato il budget a questo o a quel programma. Vivi e lascia vivere. A rimetterci siamo tutti, stretti nella morsa di due statalismi.
UPDATE: A proposito, da leggere questo magnifico articolo di Alberto Mingardi: «Sembrava essersi compiuta un'evoluzione, a sinistra: ora abbiamo davanti un'involuzione della destra».
Quelli che volevano a tutti i costi una legge
Trovo francamente ridicolo che tra coloro che adesso chiedono una "moratoria" sul testamento biologico, una pausa di riflessione, proponendo di rinviare la discussione e il voto sul ddl a dopo le europee, ci sia chi negli ultimi anni e fino a ieri ha fatto di questa legge la priorità della sua azione politica e parlamentare, subordinando ad essa e ai temi della bioetica tutte le altre questioni. E a tratti persino in modo morboso, continuando ad alzare i toni dello scontro anche quando le sentenze riaffermavano un diritto già esistente e pienamente esercitabile al rifiuto delle cure.
"Volevamo una legge, è vero, ma non questa qui", risponderebbero i Marino del Pd e i radicali. Ma possibile che solo ora che la legge sta per essere approvata si siano accorti di non avere la maggioranza e che quindi, inevitabilmente, non verrebbe fuori la legge che piace a loro? E' davvero sconcertante, perché vuol dire che fino ad oggi sono andati avanti con gli occhi bendati, animati da furore ideologico - seppure volto alle migliori intenzioni - senza minimamente chiedersi quali sarebbero stati in questo contesto gli effetti concreti della loro cocciutaggine. Quest'ultima iniziativa denota tutta la loro confusione mentale e strategica.
E' triste, ma per far naufragare il ddl ormai non rimane che sperare nell'estremismo di Mantovano.
"Volevamo una legge, è vero, ma non questa qui", risponderebbero i Marino del Pd e i radicali. Ma possibile che solo ora che la legge sta per essere approvata si siano accorti di non avere la maggioranza e che quindi, inevitabilmente, non verrebbe fuori la legge che piace a loro? E' davvero sconcertante, perché vuol dire che fino ad oggi sono andati avanti con gli occhi bendati, animati da furore ideologico - seppure volto alle migliori intenzioni - senza minimamente chiedersi quali sarebbero stati in questo contesto gli effetti concreti della loro cocciutaggine. Quest'ultima iniziativa denota tutta la loro confusione mentale e strategica.
E' triste, ma per far naufragare il ddl ormai non rimane che sperare nell'estremismo di Mantovano.
Thursday, February 26, 2009
Un rapporto che non corregge la linea di H. Clinton
L'annuale rapporto sui diritti umani del Dipartimento di Stato Usa non «corregge» affatto, come titola qualche giornale, la linea adottata da H. Clinton nella sua visita in Cina. Il rapporto dice molto più della precedente amministrazione, essendo stato redatto ben prima dell'insediamento di Obama, che della nuova. E non ci si poteva nemmeno aspettare che la Clinton ammorbidisse o edulcorasse il rapporto sulla Cina. Il fatto che lo abbia firmato senza modificarlo non significa nulla. Un suo intervento a lavoro ormai chiuso avrebbe suscitato troppo clamore, sarebbe apparso censorio. E inutilmente, visto che il nuovo segretario potrà impostare come meglio crede i prossimi rapporti senza bruschi interventi ex post che per forza di cose danno troppo nell'occhio.
Anzi, non è da escludere che sia avvenuto il contrario. E cioè che da parte dello staff sia stato usato un tono più severo per creare un po' di imbarazzo alla nuova amministrazione. La sostanza comunque non cambia ed è quella che conosciamo tutti. «I diritti umani in Cina restano precari e in alcuni casi sono peggiorati», recita il rapporto. Repressioni in Tibet, detenzione di dissidenti, omicidi e torture, dentro il sistema giudiziario ma anche extra-legali. Il rapporto inoltre smentisce definitivamente l'idea che le Olimpiadi dell'estate scorsa abbiano contribuito a migliorare il record cinese sui diritti umani. Anzi, registra che il numero delle violazioni e degli abusi hanno conosciuto un'impennata proprio in concomitanza con i Giochi olimpici. «La promozione dei diritti umani è un passaggio essenziale della nostra politica estera... insisteremo per un rispetto maggiore dei diritti umani concentrandoci sulle altre nazioni del mondo», si legge nella prefazione al documento. Un'affermazione che si adatta a qualsiasi linea.
Vedremo nel prossimo futuro, quindi, quale sarà l'approccio dell'amministrazione Obama sui diritti umani. Certo, non aspettiamoci la retorica idealista ed enfatica di Bush. E soprattutto nel primo anno la crisi e la necessità di finanziare il debito condizionerà molto il rapporto con la Cina. Non è neanche corretto misurare solo con la retorica l'impegno sui diritti umani. Certo, anche solo la retorica serve, quanto meno per non scoraggiare i dissidenti, ma da questo punto di vista l'esperienza Bush insegna che spesso alle parole non corrispondono i fatti. Con la Cina, per esempio, rispetto alle parole conta molto più il sostegno concreto a Taiwan e la volontà del presidente Obama di affrontare e risolvere il problema del debito.
Da leggere questa interessante analisi di Asianews sul vescovo di Pechino, Giuseppe Li Shan, che dopo essere stato ordinato vescovo della capitale con l'approvazione del Vaticano, per la sua nota fedeltà a Roma, adesso sembra alleato, consenziente o succube, del regime comunista, e con la sua conversione a 180° sta creando non pochi imbarazzi alla Santa Sede.
Anzi, non è da escludere che sia avvenuto il contrario. E cioè che da parte dello staff sia stato usato un tono più severo per creare un po' di imbarazzo alla nuova amministrazione. La sostanza comunque non cambia ed è quella che conosciamo tutti. «I diritti umani in Cina restano precari e in alcuni casi sono peggiorati», recita il rapporto. Repressioni in Tibet, detenzione di dissidenti, omicidi e torture, dentro il sistema giudiziario ma anche extra-legali. Il rapporto inoltre smentisce definitivamente l'idea che le Olimpiadi dell'estate scorsa abbiano contribuito a migliorare il record cinese sui diritti umani. Anzi, registra che il numero delle violazioni e degli abusi hanno conosciuto un'impennata proprio in concomitanza con i Giochi olimpici. «La promozione dei diritti umani è un passaggio essenziale della nostra politica estera... insisteremo per un rispetto maggiore dei diritti umani concentrandoci sulle altre nazioni del mondo», si legge nella prefazione al documento. Un'affermazione che si adatta a qualsiasi linea.
Vedremo nel prossimo futuro, quindi, quale sarà l'approccio dell'amministrazione Obama sui diritti umani. Certo, non aspettiamoci la retorica idealista ed enfatica di Bush. E soprattutto nel primo anno la crisi e la necessità di finanziare il debito condizionerà molto il rapporto con la Cina. Non è neanche corretto misurare solo con la retorica l'impegno sui diritti umani. Certo, anche solo la retorica serve, quanto meno per non scoraggiare i dissidenti, ma da questo punto di vista l'esperienza Bush insegna che spesso alle parole non corrispondono i fatti. Con la Cina, per esempio, rispetto alle parole conta molto più il sostegno concreto a Taiwan e la volontà del presidente Obama di affrontare e risolvere il problema del debito.
Da leggere questa interessante analisi di Asianews sul vescovo di Pechino, Giuseppe Li Shan, che dopo essere stato ordinato vescovo della capitale con l'approvazione del Vaticano, per la sua nota fedeltà a Roma, adesso sembra alleato, consenziente o succube, del regime comunista, e con la sua conversione a 180° sta creando non pochi imbarazzi alla Santa Sede.
Wednesday, February 25, 2009
Meglio una legge incostituzionale che solo brutta
Qualcosa si sta muovendo nella maggioranza a proposito del ddl sul testamento biologico? Così farebbe pensare lo stop della Commissione Affari costituzionali del Senato, che avrebbe dovuto dare questo pomeriggio il proprio parere sul testo Calabrò, parere rinviato invece al pomeriggio di martedì prossimo. D'altra parte, l'incostituzionalità del ddl balza agli occhi e non pochi dubbi sarebbero stati sollevati in commissione non solo dall'opposizione ma anche da una parte della maggioranza. Il presidente della Commissione Igiene e Sanità, Tomassini, ha detto che comunque loro vanno avanti con l'esame degli emendamenti e che non si fermerebbero neanche di fronte a un eventuale parere negativo.
Ieri, parole di buon senso erano state pronunciate ai microfoni del Tg3 dal presidente della Commissione Antimafia, il democristiano doc Giuseppe Pisanu, che si rifiuta di votare una legge simile: «Con la pretesa di disciplinare per legge il fine vita, si afferma la forza dello Stato sul valore della persona umana. Ma questo è in contrasto con l'articolo 2 della Costituzione, che prevede il primato della persona sullo Stato... Secondo me non dovrebbe esserci alcuna legge. Ed in casi delicati, come quello di cui parliamo, dovrebbero essere affidati alla volontà del paziente, se è in grado di intendere e volere, oppure alla valutazione, in scienza e coscienza, dei parenti e del medico, come sempre è avvenuto».
Già, «come sempre è avvenuto», senza scandalo di nessuno finché la questione non è stata politicizzata. Anche Pisanu quindi si iscrive al partito "nessuna legge".
Ma non è il caso di illudersi troppo. Ormai il latte è versato. Hanno voluto così fortemente una legge entrambi i fronti che, come spesso accade, avremo comunque una cattiva legge, che limita drasticamente gli spazi di libertà che fino a ieri erano sicuramente esercitati e, dopo i casi Welby ed Englaro, anche garantiti.
A questo punto, meglio che la legge sia il più palesemente possibile incostituzionale. Il mio timore infatti è che qualche improvvido emendamento (come quelli davvero pessimi del Pd e di Rutelli) possa introdurre qualche eccezione o altra diavoleria che senza rendere la legge meno brutta, cattiva e illiberale di quella che è, la renda però passabile di fronte a un eventuale giudizio della Corte costituzionale. A proposito, mi sembra saggia la posizione di Beppino Englaro sul da farsi dopo l'approvazione della legge. Mi pare che sia stato lui il solo a suggerire di percorrere la via della Consulta prima di buttarsi sul referendum, che purtroppo è uno strumento reso inutilizzabile.
Ieri, parole di buon senso erano state pronunciate ai microfoni del Tg3 dal presidente della Commissione Antimafia, il democristiano doc Giuseppe Pisanu, che si rifiuta di votare una legge simile: «Con la pretesa di disciplinare per legge il fine vita, si afferma la forza dello Stato sul valore della persona umana. Ma questo è in contrasto con l'articolo 2 della Costituzione, che prevede il primato della persona sullo Stato... Secondo me non dovrebbe esserci alcuna legge. Ed in casi delicati, come quello di cui parliamo, dovrebbero essere affidati alla volontà del paziente, se è in grado di intendere e volere, oppure alla valutazione, in scienza e coscienza, dei parenti e del medico, come sempre è avvenuto».
Già, «come sempre è avvenuto», senza scandalo di nessuno finché la questione non è stata politicizzata. Anche Pisanu quindi si iscrive al partito "nessuna legge".
Ma non è il caso di illudersi troppo. Ormai il latte è versato. Hanno voluto così fortemente una legge entrambi i fronti che, come spesso accade, avremo comunque una cattiva legge, che limita drasticamente gli spazi di libertà che fino a ieri erano sicuramente esercitati e, dopo i casi Welby ed Englaro, anche garantiti.
A questo punto, meglio che la legge sia il più palesemente possibile incostituzionale. Il mio timore infatti è che qualche improvvido emendamento (come quelli davvero pessimi del Pd e di Rutelli) possa introdurre qualche eccezione o altra diavoleria che senza rendere la legge meno brutta, cattiva e illiberale di quella che è, la renda però passabile di fronte a un eventuale giudizio della Corte costituzionale. A proposito, mi sembra saggia la posizione di Beppino Englaro sul da farsi dopo l'approvazione della legge. Mi pare che sia stato lui il solo a suggerire di percorrere la via della Consulta prima di buttarsi sul referendum, che purtroppo è uno strumento reso inutilizzabile.
Monday, February 23, 2009
H. Clinton in Cina per estendere la "partnership strategica". A che prezzo?
Il segretario di Stato americano Hillary Clinton riprende i rapporti con la Cina laddove li aveva lasciati il marito Bill da presidente nel 1998. Se con la crisi è d'obbligo riallacciare la "partnership strategica" sulle questioni economiche, l'ambizioso obiettivo della nuova amministrazione sembra essere quello di estendere la cooperazione con Pechino anche alle questioni di sicurezza. Alla base di questa scelta la convinzione che la crescita, l'apertura e l'interdipendenza economica favoriscano anche la libertà politica e le riforme democratiche, e che inducano inevitabilmente la Cina a comportarsi da "attore responsabile" del sistema internazionale.
Una tesi messa in dubbio però da eventi anche molto recenti: la repressione in Tibet; il manifesto dei dissidenti Charta '08; gli scandali sanitari e alimentari; la scarsa collaborazione di Pechino in crisi come quella birmana o del Darfur. Soprattutto, non è ancora chiaro in che direzione l'esperimento del Partito comunista cinese – capitalismo senza democrazia – condurrà la Cina. Ancora più oscuro l'obiettivo della forsennata modernizzazione delle forze armate su cui Pechino investe sempre più risorse.
L'idea della "partnership strategica" sembra la stessa, ma i tempi sono cambiati. Se negli anni '90 il presidente Bill Clinton poteva muovere ottimisticamente i primi passi di questa partnership su un piano di indiscussa supremazia americana, nel contesto di oggi si tratta di fare di necessità virtù. Insomma, si va verso una partnership Usa-Cina "alla pari". Non è certo una buona notizia per la democrazia e i diritti umani.
L'amministrazione Bush è senz'altro criticabile per aver sostenuto solo a parole, e molto meno nei fatti, la democrazia e i diritti umani in paesi come la Cina e la Russia, ma è probabile che dalla nuova amministrazione non sentiremo più neanche le parole. Da un'indagine condotta dal Chicago Council on Global Affairs risulta che dopo gli otto anni di presidenza Bush, diversamente da quanto si possa credere, la reputazione dell'America in Asia è migliorata, il "soft power" Usa si è rafforzato, e l'atteggiamento dei cinesi stessi è più favorevole.
La Clinton ha evitato di parlare di diritti umani nei suoi colloqui con i leader cinesi. Pochi mesi fa, da senatrice, chiedeva al presidente Bush di boicottare la cerimonia di apertura dei Giochi olimpici in segno di protesta per la repressione in Tibet e la scelta di Pechino di non esercitare la sua influenza sul governo sudanese per fermare il genocidio in Darfur. Alla vigilia del suo arrivo in Cina, l'annunciato cambio di approccio: i diritti umani non possono essere un ostacolo al dialogo tra i due paesi. «Le amministrazioni Usa e i governi cinesi che si sono succeduti hanno fatto passi avanti e indietro su questi temi, e dobbiamo continuare a fare pressioni. Ma le nostre pressioni non possono interferire con la crisi economica globale, i cambiamenti climatici, e le questioni di sicurezza», elevate quindi dalla Clinton a priorità nel dialogo con Pechino.
Tuttavia, oggi, a coloro che hanno a cuore i diritti umani e la democrazia come fattori di sicurezza, è richiesto un po' di sano pragmatismo. Non si può infatti negare l'amara realtà: la nazione più di ogni altra paladina dei diritti umani e della democrazia è in difficoltà. A causa di scelte politiche sbagliate o imprudenti del passato dipende dai suoi creditori. La Banca centrale cinese è il primo detentore di titoli pubblici americani. A settembre, la Cina ha scalzato il Giappone come primo creditore di Washington. Parliamo di somme stratosferiche.
Inevitabile che la questione del rifinanziamento del debito pubblico Usa fosse al centro della missione della Clinton, che ha portato a Pechino un messaggio chiaro: «Apprezziamo molto la costante fiducia del governo cinese verso i titoli del Tesoro americano. Sono certa che sia una fiducia ben riposta. America e Cina si riprenderanno dalla crisi economica e insieme guideremo la crescita mondiale».
Certo, si potrebbe obiettare che gli Stati Uniti dipendono dalla Cina per i loro debiti come la Cina dipende dai mercati americani per le sue esportazioni. Ma una guerra commerciale che aggravasse la depressione non aiuterebbe il progresso dei diritti umani e delle riforme politiche in Cina. I cinesi temono che l'esplosione del debito pubblico Usa possa provocare una caduta del dollaro, che decurterebbe il valore delle loro riserve, ma se non comprano i Buoni del Tesoro Usa emessi per pagare il piano anti-crisi e i salvataggi bancari, il mercato americano, sbocco principale delle esportazioni cinesi, non sarà più in grado di sostenere l'economia del gigante asiatico. Insomma, Stati Uniti e Cina si sorreggono a vicenda.
Non rimane che sperare che gli Stati Uniti affrontino con urgenza il problema del debito pubblico, riducendo la loro dipendenza dai creditori (e rivali) esteri e recuperando spazi di manovra nella loro politica estera e di sicurezza.
Riguardo i temi della sicurezza, ai quali l'amministrazione Obama vorrebbe estendere la cooperazione con Pechino, la Cina non è la Russia. Da produttore di gas e petrolio quest'ultima ha interesse a svolgere un ruolo destabilizzante per tenere alti i prezzi delle sue risorse, mentre Pechino ha tutto l'interesse a lavorare per la stabilità, per tenere bassi i prezzi delle risorse energetiche necessarie alla sua crescita tumultuosa.
Ma quale sarà il prezzo politico che la Cina chiederà agli Usa? Continuare a sostenere il debito americano è essenziale anche per l'economia cinese, ma la sua collaborazione su dossier come Afghanistan, Corea del Nord, e soprattutto Iran, potrebbe richiedere non solo il silenzio sui diritti umani, ma anche il sacrificio di Taiwan, un altro dei temi che pare la Clinton abbia tralasciato nei suoi colloqui pechinesi. Gli Stati Uniti vorrebbero che Pechino riducesse i propri investimenti in gas e petrolio iraniano per stringere la morsa su Teheran e costringere gli ayatollah ad abbandonare il programma nucleare. Da sempre i cinesi vorrebbero che gli americani cessassero di vendere armi a Taiwan.
Ma la crescente asimmetria di forze tra Taipei e Pechino, ovviamente a favore di quest'ultima, preoccupa gli analisti di difesa. Il direttore della National Intelligence, Dennis Blair, ha recentemente assicurato che Washington continuerà a fornire a Taiwan le necessarie armi difensive, in linea con il Taiwan Relations Act, per bilanciare il continuo rafforzamento del potenziale bellico cinese. Ma è indubbio che in assenza di un impegno forte da parte degli Stati Uniti a sostenere la democrazia e la sicurezza di Taiwan, le relazioni tra Pechino e Taipei sono destinate a peggiorare. Se venisse meno o si indebolisse il ruolo americano di garanzia e riequilibrio delle forze nello stretto, la Cina sarebbe in grado di soggiogare il popolo taiwanese e piegarlo alle sue volontà. Benzina sul fuoco del nazionalismo cinese e pericolosissima luce verde alle ambizioni imperialiste. Una linea rossa da non oltrepassare.
Una tesi messa in dubbio però da eventi anche molto recenti: la repressione in Tibet; il manifesto dei dissidenti Charta '08; gli scandali sanitari e alimentari; la scarsa collaborazione di Pechino in crisi come quella birmana o del Darfur. Soprattutto, non è ancora chiaro in che direzione l'esperimento del Partito comunista cinese – capitalismo senza democrazia – condurrà la Cina. Ancora più oscuro l'obiettivo della forsennata modernizzazione delle forze armate su cui Pechino investe sempre più risorse.
L'idea della "partnership strategica" sembra la stessa, ma i tempi sono cambiati. Se negli anni '90 il presidente Bill Clinton poteva muovere ottimisticamente i primi passi di questa partnership su un piano di indiscussa supremazia americana, nel contesto di oggi si tratta di fare di necessità virtù. Insomma, si va verso una partnership Usa-Cina "alla pari". Non è certo una buona notizia per la democrazia e i diritti umani.
L'amministrazione Bush è senz'altro criticabile per aver sostenuto solo a parole, e molto meno nei fatti, la democrazia e i diritti umani in paesi come la Cina e la Russia, ma è probabile che dalla nuova amministrazione non sentiremo più neanche le parole. Da un'indagine condotta dal Chicago Council on Global Affairs risulta che dopo gli otto anni di presidenza Bush, diversamente da quanto si possa credere, la reputazione dell'America in Asia è migliorata, il "soft power" Usa si è rafforzato, e l'atteggiamento dei cinesi stessi è più favorevole.
La Clinton ha evitato di parlare di diritti umani nei suoi colloqui con i leader cinesi. Pochi mesi fa, da senatrice, chiedeva al presidente Bush di boicottare la cerimonia di apertura dei Giochi olimpici in segno di protesta per la repressione in Tibet e la scelta di Pechino di non esercitare la sua influenza sul governo sudanese per fermare il genocidio in Darfur. Alla vigilia del suo arrivo in Cina, l'annunciato cambio di approccio: i diritti umani non possono essere un ostacolo al dialogo tra i due paesi. «Le amministrazioni Usa e i governi cinesi che si sono succeduti hanno fatto passi avanti e indietro su questi temi, e dobbiamo continuare a fare pressioni. Ma le nostre pressioni non possono interferire con la crisi economica globale, i cambiamenti climatici, e le questioni di sicurezza», elevate quindi dalla Clinton a priorità nel dialogo con Pechino.
Tuttavia, oggi, a coloro che hanno a cuore i diritti umani e la democrazia come fattori di sicurezza, è richiesto un po' di sano pragmatismo. Non si può infatti negare l'amara realtà: la nazione più di ogni altra paladina dei diritti umani e della democrazia è in difficoltà. A causa di scelte politiche sbagliate o imprudenti del passato dipende dai suoi creditori. La Banca centrale cinese è il primo detentore di titoli pubblici americani. A settembre, la Cina ha scalzato il Giappone come primo creditore di Washington. Parliamo di somme stratosferiche.
Inevitabile che la questione del rifinanziamento del debito pubblico Usa fosse al centro della missione della Clinton, che ha portato a Pechino un messaggio chiaro: «Apprezziamo molto la costante fiducia del governo cinese verso i titoli del Tesoro americano. Sono certa che sia una fiducia ben riposta. America e Cina si riprenderanno dalla crisi economica e insieme guideremo la crescita mondiale».
Certo, si potrebbe obiettare che gli Stati Uniti dipendono dalla Cina per i loro debiti come la Cina dipende dai mercati americani per le sue esportazioni. Ma una guerra commerciale che aggravasse la depressione non aiuterebbe il progresso dei diritti umani e delle riforme politiche in Cina. I cinesi temono che l'esplosione del debito pubblico Usa possa provocare una caduta del dollaro, che decurterebbe il valore delle loro riserve, ma se non comprano i Buoni del Tesoro Usa emessi per pagare il piano anti-crisi e i salvataggi bancari, il mercato americano, sbocco principale delle esportazioni cinesi, non sarà più in grado di sostenere l'economia del gigante asiatico. Insomma, Stati Uniti e Cina si sorreggono a vicenda.
Non rimane che sperare che gli Stati Uniti affrontino con urgenza il problema del debito pubblico, riducendo la loro dipendenza dai creditori (e rivali) esteri e recuperando spazi di manovra nella loro politica estera e di sicurezza.
Riguardo i temi della sicurezza, ai quali l'amministrazione Obama vorrebbe estendere la cooperazione con Pechino, la Cina non è la Russia. Da produttore di gas e petrolio quest'ultima ha interesse a svolgere un ruolo destabilizzante per tenere alti i prezzi delle sue risorse, mentre Pechino ha tutto l'interesse a lavorare per la stabilità, per tenere bassi i prezzi delle risorse energetiche necessarie alla sua crescita tumultuosa.
Ma quale sarà il prezzo politico che la Cina chiederà agli Usa? Continuare a sostenere il debito americano è essenziale anche per l'economia cinese, ma la sua collaborazione su dossier come Afghanistan, Corea del Nord, e soprattutto Iran, potrebbe richiedere non solo il silenzio sui diritti umani, ma anche il sacrificio di Taiwan, un altro dei temi che pare la Clinton abbia tralasciato nei suoi colloqui pechinesi. Gli Stati Uniti vorrebbero che Pechino riducesse i propri investimenti in gas e petrolio iraniano per stringere la morsa su Teheran e costringere gli ayatollah ad abbandonare il programma nucleare. Da sempre i cinesi vorrebbero che gli americani cessassero di vendere armi a Taiwan.
Ma la crescente asimmetria di forze tra Taipei e Pechino, ovviamente a favore di quest'ultima, preoccupa gli analisti di difesa. Il direttore della National Intelligence, Dennis Blair, ha recentemente assicurato che Washington continuerà a fornire a Taiwan le necessarie armi difensive, in linea con il Taiwan Relations Act, per bilanciare il continuo rafforzamento del potenziale bellico cinese. Ma è indubbio che in assenza di un impegno forte da parte degli Stati Uniti a sostenere la democrazia e la sicurezza di Taiwan, le relazioni tra Pechino e Taipei sono destinate a peggiorare. Se venisse meno o si indebolisse il ruolo americano di garanzia e riequilibrio delle forze nello stretto, la Cina sarebbe in grado di soggiogare il popolo taiwanese e piegarlo alle sue volontà. Benzina sul fuoco del nazionalismo cinese e pericolosissima luce verde alle ambizioni imperialiste. Una linea rossa da non oltrepassare.
Avanti con il "vice-disastro"
Triste e patetico Franceschini. Se la Costituzione potesse tutelare la sua immagine, gli avrebbe già fatto causa. Il giuramento sulla Costituzione, accanto all'anziano e commosso padre ex partigiano, è la rappresentazione mediatica della linea che il nuovo già vecchio segretario ha intenzione di intraprendere nei prossimi mesi: antiberlusconismo, Resistenza, antifascismo. Una linea che forse riporterà alle urne i militanti più scalmanati ma certo non convincerà gli stessi elettori di sinistra che nutrono sempre più perplessità su un Pd incapace di risintonizzarsi sulle frequenze della realtà.
La definizione più appropriata del nuovo segretario del Pd è opera di Matteo Renzi, presidente della provincia di Firenze e oggi, dopo il successo alle primarie, candidato a sindaco della città: «Se Veltroni è stato un disastro, non si elegge il vicedisastro per gestire la transizione».
Non si sono fatte le primarie, spiega Renzi a La Stampa, perché piacciono «finché le puoi gestire». Quando si scopre, come nel suo caso, che «non sempre vincono gli aficionados del gruppo dirigente, allora si comincia a dubitarne». In politica, aggiunge, «ci vuole coraggio. A me hanno detto "tu rifai il presidente della provincia", come a dire "ti piazziamo". Io ho deciso di giocare tutte le mie carte sul Comune dicendo che se perdo torno al mio lavoro, ma non mi faccio "piazzare" da nessuno. E' stato apprezzato». Oggi la cooptazione «non funziona più, i meccanismi sono cambiati. O prendiamo il vento nuovo o saremo spazzati via».
La definizione più appropriata del nuovo segretario del Pd è opera di Matteo Renzi, presidente della provincia di Firenze e oggi, dopo il successo alle primarie, candidato a sindaco della città: «Se Veltroni è stato un disastro, non si elegge il vicedisastro per gestire la transizione».
Non si sono fatte le primarie, spiega Renzi a La Stampa, perché piacciono «finché le puoi gestire». Quando si scopre, come nel suo caso, che «non sempre vincono gli aficionados del gruppo dirigente, allora si comincia a dubitarne». In politica, aggiunge, «ci vuole coraggio. A me hanno detto "tu rifai il presidente della provincia", come a dire "ti piazziamo". Io ho deciso di giocare tutte le mie carte sul Comune dicendo che se perdo torno al mio lavoro, ma non mi faccio "piazzare" da nessuno. E' stato apprezzato». Oggi la cooptazione «non funziona più, i meccanismi sono cambiati. O prendiamo il vento nuovo o saremo spazzati via».
L'Iran vicino alla bomba
Preoccupanti le recenti ammissioni dell'Aiea, che in un rapporto datato 19 febbraio sostiene che Teheran possiede ormai una quantità sufficiente di uranio arricchito per realizzare un ordigno atomico e potrebbero bastargli pochi mesi per diventare una potenza nucleare, raggiungendo quella soglia detta "nuclear breakout capability", la capacità potenziale di costruire un ordigno nucleare.
Valutazioni condivise da un esperto di lungo corso del programma nucleare iraniano, David Albright, presidente dell'Institute for Science and International Security. Intervistato da Bernard Gwertzman, del Council on Foreign Relations, ha confermato che il 2009 potrebbe essere l'anno decisivo per l'atomica iraniana. Entro quest'anno l'Iran accumulerà sufficiente uranio arricchito per raggiungere il primo livello di "breakout capability".
Paradossalmente - ha aggiunto - potrebbe non aver uranio sufficiente per il programma nucleare civile. Ma anche se rimanessero senza uranio, ne avrebbero comunque a sufficienza per produrre una decina di bombe. E' un problema - avverte - perché una volta che l'Iran raggiungesse la capacità potenziale di fabbricare un ordigno, potrebbe decidere di arrivare ad avere armi nucleari abbastanza velocemente. In qualche mese. E se ci riuscissero, non lo farebbero certo nella ben nota centrale di Natanz. Più probabilmente sposterebbero l'uranio arricchito in un impianto di cui non sapremmo nulla. E in questo impianto segreto, gli iraniani produrrebbero l'uranio a gradazione per le bombe. Quindi, se volessimo colpire militarmente, non sapremmo dove bombardare.
Dunque, il tema del 2009 sembra essere quando, e non se, l'Iran raggiungerà la soglia cosiddetta "breakout capability". Potrebbe essere molto presto. E ciò - conclude David Albright - dovrebbe spingere gli Stati Uniti a imporre sanzioni più dure, ma anche ad aprire con l'Iran negoziati diretti ad ampio spettro.
Valutazioni condivise da un esperto di lungo corso del programma nucleare iraniano, David Albright, presidente dell'Institute for Science and International Security. Intervistato da Bernard Gwertzman, del Council on Foreign Relations, ha confermato che il 2009 potrebbe essere l'anno decisivo per l'atomica iraniana. Entro quest'anno l'Iran accumulerà sufficiente uranio arricchito per raggiungere il primo livello di "breakout capability".
Paradossalmente - ha aggiunto - potrebbe non aver uranio sufficiente per il programma nucleare civile. Ma anche se rimanessero senza uranio, ne avrebbero comunque a sufficienza per produrre una decina di bombe. E' un problema - avverte - perché una volta che l'Iran raggiungesse la capacità potenziale di fabbricare un ordigno, potrebbe decidere di arrivare ad avere armi nucleari abbastanza velocemente. In qualche mese. E se ci riuscissero, non lo farebbero certo nella ben nota centrale di Natanz. Più probabilmente sposterebbero l'uranio arricchito in un impianto di cui non sapremmo nulla. E in questo impianto segreto, gli iraniani produrrebbero l'uranio a gradazione per le bombe. Quindi, se volessimo colpire militarmente, non sapremmo dove bombardare.
Dunque, il tema del 2009 sembra essere quando, e non se, l'Iran raggiungerà la soglia cosiddetta "breakout capability". Potrebbe essere molto presto. E ciò - conclude David Albright - dovrebbe spingere gli Stati Uniti a imporre sanzioni più dure, ma anche ad aprire con l'Iran negoziati diretti ad ampio spettro.
Israele alla ricerca di un governo di centro-destra
La Livni continua a resistere alle avances di Netanyahu, incaricato dal presidente Peres di formare un governo di larghe intese. Il partito centrista Kadima, infatti, è uscito vittorioso dalle elezioni politiche della scorsa settimana, ma per un solo seggio, e per la prima volta nella storia di Israele il primo ministro potrebbe non essere il leader del partito che ha più seggi alla Knesset, il Parlamento israeliano.
Bisognerà vedere se le resistenze della Livni sono finalizzate a far fallire il tentativo di Netanyahu e a convincere il presidente Peres a revocargli l'incarico, affidandolo alla stessa leader di Kadima, oppure fanno parte di un "balletto" per non perdere la faccia con i suoi elettori, e di un gioco delle parti per ottenere un compromesso più favorevole a Kadima negli equilibri del nuovo esecutivo.
Di sicuro la Livni è riuscita a far sopravvivere Kadima dopo i disastri di Olmert attingendo voti dai partiti alla sua sinistra, convincendo i loro elettori che i voti per lei erano voti contro Netanyahu, ma senza dubbio Hamas e la guerra del 2006 in Libano hanno spostato l'elettorato israeliano a destra. Visto con gli occhi degli israeliani, i ritiri unilaterali dal Sud del Libano e dalla Striscia di Gaza hanno prodotto più vulnerabilità e non la pace.
Secondo David Makovsky, del Washington Institute for Near East Policy, Netanyahu avrebbe in mente una "pace economica" con i palestinesi. I suoi consiglieri spiegano privatamente che le sue idee su come sviluppare le istituzioni palestinesi - senza istituzioni palestinesi forti e legittimate non può esservi una pace duratura - coincidono con quelle dell'inviato del Quartetto, Tony Blair. Un accordo di pace definitivo con i palestinesi rimane improbabile nei prossimi 5 anni, anche perché ci vorrà tempo per rafforzare le istituzioni palestinesi. Ma nel frattempo l'idea è di demarcare il confine tra Israele e la Cisgiordania. Anche se tutte le questioni non potranno essere risolte, una demarcazione dei confini porrebbe fine all'ambiguità sugli insediamenti, definendo quali territori faranno parte di Israele e quali di un futuro Stato palestinese.
Secondo Michael Oren, l'opinione pubblica israeliana è disillusa. Ha capito che il conflitto non riguarda più il 1967, ma piuttosto il 1948. In altre parole, il conflitto non è più per le terre, ma minaccia l'esistenza stessa di Israele. Il principio "terra in cambio di pace" è stato screditato quando il disimpegno di Israele dal Sud del Libano e da Gaza ha prodotto il lancio di razzi, non la pace. In questo momento Israele vuole evitare attriti con gli Stati Uniti per facilitare la cooperazione sul tema del nucleare iraniano. Sulla questione iraniana infatti i rapporti tra Stati Uniti e Israele potrebbero conoscere il momento di maggiore tensione della storia recente tra i due paesi. Obama è orientato a rilanciare i negoziati, forse diretti, con l'Iran, ma in Israele sono tutti altamente scettici. E questo scetticismo è una delle poche cose su cui concordano tutti i principali attori politici in Israele.
Bisognerà vedere se le resistenze della Livni sono finalizzate a far fallire il tentativo di Netanyahu e a convincere il presidente Peres a revocargli l'incarico, affidandolo alla stessa leader di Kadima, oppure fanno parte di un "balletto" per non perdere la faccia con i suoi elettori, e di un gioco delle parti per ottenere un compromesso più favorevole a Kadima negli equilibri del nuovo esecutivo.
Di sicuro la Livni è riuscita a far sopravvivere Kadima dopo i disastri di Olmert attingendo voti dai partiti alla sua sinistra, convincendo i loro elettori che i voti per lei erano voti contro Netanyahu, ma senza dubbio Hamas e la guerra del 2006 in Libano hanno spostato l'elettorato israeliano a destra. Visto con gli occhi degli israeliani, i ritiri unilaterali dal Sud del Libano e dalla Striscia di Gaza hanno prodotto più vulnerabilità e non la pace.
Secondo David Makovsky, del Washington Institute for Near East Policy, Netanyahu avrebbe in mente una "pace economica" con i palestinesi. I suoi consiglieri spiegano privatamente che le sue idee su come sviluppare le istituzioni palestinesi - senza istituzioni palestinesi forti e legittimate non può esservi una pace duratura - coincidono con quelle dell'inviato del Quartetto, Tony Blair. Un accordo di pace definitivo con i palestinesi rimane improbabile nei prossimi 5 anni, anche perché ci vorrà tempo per rafforzare le istituzioni palestinesi. Ma nel frattempo l'idea è di demarcare il confine tra Israele e la Cisgiordania. Anche se tutte le questioni non potranno essere risolte, una demarcazione dei confini porrebbe fine all'ambiguità sugli insediamenti, definendo quali territori faranno parte di Israele e quali di un futuro Stato palestinese.
Secondo Michael Oren, l'opinione pubblica israeliana è disillusa. Ha capito che il conflitto non riguarda più il 1967, ma piuttosto il 1948. In altre parole, il conflitto non è più per le terre, ma minaccia l'esistenza stessa di Israele. Il principio "terra in cambio di pace" è stato screditato quando il disimpegno di Israele dal Sud del Libano e da Gaza ha prodotto il lancio di razzi, non la pace. In questo momento Israele vuole evitare attriti con gli Stati Uniti per facilitare la cooperazione sul tema del nucleare iraniano. Sulla questione iraniana infatti i rapporti tra Stati Uniti e Israele potrebbero conoscere il momento di maggiore tensione della storia recente tra i due paesi. Obama è orientato a rilanciare i negoziati, forse diretti, con l'Iran, ma in Israele sono tutti altamente scettici. E questo scetticismo è una delle poche cose su cui concordano tutti i principali attori politici in Israele.
Thursday, February 19, 2009
Spiegateci com'è stato possibile
Il dibattito di questi giorni sulle ronde spontanee mi sembra davvero surreale. Se un gruppo di cittadini vuol farsi una passeggiata notturna portando con sé i cellulari, non ci vedo niente di male. Non violano alcuna legge, ma proprio per questo fa ridere anche che si vogliano prevedere queste "ronde" per decreto. Qual è in questo caso la necessità e l'urgenza di prevedere per decreto qualcosa che già si può fare, se non quella di un'assurda burocratizzazione delle passeggiate notturne?
Invece di sprecare tempo e sforzi in questi inutili dibattiti, bisognerebbe cercare di capire com'è possibile che non riusciamo ad espellere un immigrato nemmeno dopo una condanna per reati comuni. Il rumeno che ha confessato lo stupro della Caffarella aveva un curriculum criminale di un certo rilievo: due arresti per rapina con lesioni e furto aggravato; una denuncia per ricettazione; una condanna a cinque mesi di carcere, emessa l'8 febbraio 2008. Non secoli fa.
Eppure, un giudice onorario del tribunale civile di Bologna (ma scriviamo il nome del genio, che se lo merita: Mariangela Gentile) ha pensato bene di annullare il provvedimento di espulsione del prefetto di Roma, ritenendo che arresti, denuncia e condanna non fossero elementi sufficienti «a integrare l'ipotesi della minaccia concreta, effettiva e grave ai diritti fondamentali della persona ovvero all'incolumità pubblica, e tali da determinare l'ulteriore permanenza sul territorio incompatibile con la civile e sicura convivenza». Un anno dopo il soggetto stuprava una ragazzina di 14 anni, delitto che speriamo con tutto il cuore rimanga a vita sulla coscienza della signora Mariangela.
Spiegateci com'è stato possibile. Innanzitutto, è discutibile che a giudici non di carriera venga attribuito il potere di annullare provvedimenti che riguardano direttamente la sicurezza dei cittadini. Dovrebbero occuparsi solo di materia civile o, quanto meno, dovrebbero essere eletti dalle comunità locali.
Il quadro che ne esce in ogni caso è di una estrema farraginosità burocratica delle espulsioni dei criminali stranieri dal nostro territorio. Siamo ben oltre il tema dell'immigrazione clandestina, e forse non servono neanche nuove leggi o nuovi reati. Non m'importa come, ma servono sicuramente procedure meno confuse per cacciare a calci in culo e all'istante anche chi ruba solo una caramella. Basta fare i duri a parole.
Invece di sprecare tempo e sforzi in questi inutili dibattiti, bisognerebbe cercare di capire com'è possibile che non riusciamo ad espellere un immigrato nemmeno dopo una condanna per reati comuni. Il rumeno che ha confessato lo stupro della Caffarella aveva un curriculum criminale di un certo rilievo: due arresti per rapina con lesioni e furto aggravato; una denuncia per ricettazione; una condanna a cinque mesi di carcere, emessa l'8 febbraio 2008. Non secoli fa.
Eppure, un giudice onorario del tribunale civile di Bologna (ma scriviamo il nome del genio, che se lo merita: Mariangela Gentile) ha pensato bene di annullare il provvedimento di espulsione del prefetto di Roma, ritenendo che arresti, denuncia e condanna non fossero elementi sufficienti «a integrare l'ipotesi della minaccia concreta, effettiva e grave ai diritti fondamentali della persona ovvero all'incolumità pubblica, e tali da determinare l'ulteriore permanenza sul territorio incompatibile con la civile e sicura convivenza». Un anno dopo il soggetto stuprava una ragazzina di 14 anni, delitto che speriamo con tutto il cuore rimanga a vita sulla coscienza della signora Mariangela.
Spiegateci com'è stato possibile. Innanzitutto, è discutibile che a giudici non di carriera venga attribuito il potere di annullare provvedimenti che riguardano direttamente la sicurezza dei cittadini. Dovrebbero occuparsi solo di materia civile o, quanto meno, dovrebbero essere eletti dalle comunità locali.
Il quadro che ne esce in ogni caso è di una estrema farraginosità burocratica delle espulsioni dei criminali stranieri dal nostro territorio. Siamo ben oltre il tema dell'immigrazione clandestina, e forse non servono neanche nuove leggi o nuovi reati. Non m'importa come, ma servono sicuramente procedure meno confuse per cacciare a calci in culo e all'istante anche chi ruba solo una caramella. Basta fare i duri a parole.
Serve un bagno di realtà
Lasciarsi «assalire dalla realtà», scegliere «la realtà e non i sacerdoti di una "correttezza" politica sempre più vuota». E' il saggio consiglio che oggi, sul Corriere, Pierluigi Battista dà al Pd. Sapranno farne tesoro? Ne dubito fortemente.
Tutto il resto è noia
Non guardavo qualche scorcio di Sanremo dai tempi dei Jalisse (vi ricordate che scempio, vero?). Non ricordo neanche più che anno era. Quest'anno, complice la desistenza degli altri canali, mi è capitato di rivederlo. La coppia Bonolis-Laurenti è come sempre a tratti esilerante. L'esibizione della mitica Pfm ieri sera è stato un altro bel momento. Dicono che lo sia stato anche il monologo di Benigni. Tutto il resto, che poi dovrebbe essere la sostanza e la ragione di vita di Sanremo, è noia. Appena scendono sul palco i cantanti in gara è meglio cambiare canale. Anche la pubblicità è meglio.
Wednesday, February 18, 2009
Fine corsa per una classe dirigente dissociata dalla realtà
Il brusco epilogo della corsa veltroniana (e forse anche del Pd) era scritto in quel magnifico, indispensabile libro di Andrea Romano, "Compagni di scuola", sulla classe dirigente dell'ex Pci. E' un testo fondamentale per capire il male profondo della sinistra italiana negli ultimi 20 anni.
Veltroni ha certamente commesso molti errori. Il più madornale l'aver imbarcato il giustizialismo dipietresco dopo aver annunciato che il Pd sarebbe andato "da solo". Un errore che ha sviluppato tutte le sue conseguenze negative proprio nel momento in cui il Pd avrebbe avuto più bisogno di agire libero da condizionamenti, cioè all'indomani delle elezioni.
Il fallimento di Veltroni non sta infatti nella sconfitta elettorale dello scorso aprile (ampiamente prevedibile e comunque a lui non imputabile), ma in quello che è venuto dopo. E' dall'opposizione, infatti, che i grandi leader combattono la battaglia per il rinnovamento del loro partito. Così ha fatto Blair, per citare solo l'esempio più vicino a noi e più eclatante. Ebbene, è qui che Veltroni ha fallito, gettando la maschera indossata in campagna elettorale, dimostrando di essere "riformista", e di aver usato la retorica del "nuovo", solo per necessità tattica, e non per convinzione profonda.
Una convizione e una determinazione - che sarebbero state necessarie per aprire all'interno del partito uno scontro di idee e di leadership aperto e trasparente - che d'altra parte da Veltroni non ci si poteva aspettare, proprio alla luce della sua biografia politica, perché anch'egli fa parte di quella classe dirigente, descritta nel libro di Romano, nata e cresciuta nel mito di Enrico Berlinguer. Un mito che continua a trasmettere come validi una quantità di principi bocciati e falsificati dalla storia, ritardando così qualsiasi cambiamento della sinistra.
Viste le brutte, Veltroni ha ripiegato nell'antiberlusconismo e nella presunta superiorità morale della sinistra, rifugio sicuro per tutte le stagioni ma coacervo di istinti e riflessi che non fanno una cultura di governo.
Su tutti i temi le posizioni del Pd di questi mesi, in cui Veltroni avrebbe dovuto inaugurare una stagione di rinnovamento interno, hanno ricalcato quelle dell'Ulivo all'opposizione tra il 2001 e il 2006. Solo che ormai la gente, anche il cosiddetto "popolo della sinistra", non ci crede più. Tanto che secondo autorevoli istituti di ricerca, alle scorse elezioni politiche per la prima volta si sarebbe verificato un consistente travaso di voti dal Pd direttamente al PdL, cioè dall'Ulivo a Berlusconi. Il problema è che in ogni dibattito che si apre, dai leader all'ultimo dei funzionari del partito tutti o quasi si schierano per la difesa dello status quo, al fianco di istituzioni del tutto screditate. E quanto più lo fanno con il massimo dell'enfasi e della retorica, tanto più agli occhi dei cittadini anche di sinistra appaiono dissociati dalla realtà.
Se si parla di riforma della scuola e dell'università, il Pd si appiattisce sulle posizioni conservatrici dei docenti e dei rettori, o dei sindacati degli insegnanti, in nome di principi altisonanti disattesi nella pratica. Ma tutti sanno che scuola e università non funzionano; se si parla di riforma della contrattazione collettiva, di lavoro o di pensioni, di pubblica amministrazione, il Pd appare imbarazzato e immobilizzato dalle posizioni anacronistiche della Cgil; se si parla di riforma della giustizia, si appiattisce sulle posizioni della magistratura, un'altra istituzione che i cittadini certo non amano.
Anche sul caso Englaro, anziché assumere una posizione nel merito, il Pd ha preferito nascondere le sue divisioni interne e il suo imbarazzo dietro una pretestuosa (e discutibile) difesa della Costituzione, impersonata addirittura da quella vecchia cariatide di Scalfaro. I cittadini non sono stupidi e si rendono conto che la carta ha bisogno di essere riformata, mentre il Pd appare come il cocciuto difensore della sua immodificabilità.
Grida vendetta sentir dire da Veltroni, che ha testardamente voluto l'alleanza con Di Pietro, senza scioglierla neanche quando ormai erano chiari i danni che arrecava al Pd, che la sinistra non deve più essere «salottiera, giustizialista e conservatrice».
Ma c'è un passaggio del suo discorso di commiato che rivela tutta l'inadeguatezza e i limiti persino culturali dell'ex segretario. Quando ha spiegato che Berlusconi «ha avuto i mezzi e la possibilità anche di stravolgere i valori della società stessa, costruendo un sistema di disvalori contro i quali bisogna combattere con coraggio», dimostra non solo di non aver compreso i motivi delle sconfitte elettorali, ma anche di avere una struttura mentale ancora fortemente ideologizzata che gli impedisce di rendersi conto di come funzioni davvero una società. Non è la politica a imporre, o a dover tentare di imporre alla società valori elaborati a tavolino, in una sorta di ingegneria sociale. Sono i valori che emergono dalla e nella società e in democrazia la politica li rappresenta.
E' ora di finirla con questa balla ideologica di Berlusconi che avrebbe "creato" un sistema di (dis)valori. Casomai li rapppresenta. E' questa supponenza e idealizzazione della politica che non permette al Pd di capire a fondo il concetto di rappresentanza e, di conseguenza, di risultare credibile come rappresentante.
Veltroni ha certamente commesso molti errori. Il più madornale l'aver imbarcato il giustizialismo dipietresco dopo aver annunciato che il Pd sarebbe andato "da solo". Un errore che ha sviluppato tutte le sue conseguenze negative proprio nel momento in cui il Pd avrebbe avuto più bisogno di agire libero da condizionamenti, cioè all'indomani delle elezioni.
Il fallimento di Veltroni non sta infatti nella sconfitta elettorale dello scorso aprile (ampiamente prevedibile e comunque a lui non imputabile), ma in quello che è venuto dopo. E' dall'opposizione, infatti, che i grandi leader combattono la battaglia per il rinnovamento del loro partito. Così ha fatto Blair, per citare solo l'esempio più vicino a noi e più eclatante. Ebbene, è qui che Veltroni ha fallito, gettando la maschera indossata in campagna elettorale, dimostrando di essere "riformista", e di aver usato la retorica del "nuovo", solo per necessità tattica, e non per convinzione profonda.
Una convizione e una determinazione - che sarebbero state necessarie per aprire all'interno del partito uno scontro di idee e di leadership aperto e trasparente - che d'altra parte da Veltroni non ci si poteva aspettare, proprio alla luce della sua biografia politica, perché anch'egli fa parte di quella classe dirigente, descritta nel libro di Romano, nata e cresciuta nel mito di Enrico Berlinguer. Un mito che continua a trasmettere come validi una quantità di principi bocciati e falsificati dalla storia, ritardando così qualsiasi cambiamento della sinistra.
Viste le brutte, Veltroni ha ripiegato nell'antiberlusconismo e nella presunta superiorità morale della sinistra, rifugio sicuro per tutte le stagioni ma coacervo di istinti e riflessi che non fanno una cultura di governo.
Su tutti i temi le posizioni del Pd di questi mesi, in cui Veltroni avrebbe dovuto inaugurare una stagione di rinnovamento interno, hanno ricalcato quelle dell'Ulivo all'opposizione tra il 2001 e il 2006. Solo che ormai la gente, anche il cosiddetto "popolo della sinistra", non ci crede più. Tanto che secondo autorevoli istituti di ricerca, alle scorse elezioni politiche per la prima volta si sarebbe verificato un consistente travaso di voti dal Pd direttamente al PdL, cioè dall'Ulivo a Berlusconi. Il problema è che in ogni dibattito che si apre, dai leader all'ultimo dei funzionari del partito tutti o quasi si schierano per la difesa dello status quo, al fianco di istituzioni del tutto screditate. E quanto più lo fanno con il massimo dell'enfasi e della retorica, tanto più agli occhi dei cittadini anche di sinistra appaiono dissociati dalla realtà.
Se si parla di riforma della scuola e dell'università, il Pd si appiattisce sulle posizioni conservatrici dei docenti e dei rettori, o dei sindacati degli insegnanti, in nome di principi altisonanti disattesi nella pratica. Ma tutti sanno che scuola e università non funzionano; se si parla di riforma della contrattazione collettiva, di lavoro o di pensioni, di pubblica amministrazione, il Pd appare imbarazzato e immobilizzato dalle posizioni anacronistiche della Cgil; se si parla di riforma della giustizia, si appiattisce sulle posizioni della magistratura, un'altra istituzione che i cittadini certo non amano.
Anche sul caso Englaro, anziché assumere una posizione nel merito, il Pd ha preferito nascondere le sue divisioni interne e il suo imbarazzo dietro una pretestuosa (e discutibile) difesa della Costituzione, impersonata addirittura da quella vecchia cariatide di Scalfaro. I cittadini non sono stupidi e si rendono conto che la carta ha bisogno di essere riformata, mentre il Pd appare come il cocciuto difensore della sua immodificabilità.
Grida vendetta sentir dire da Veltroni, che ha testardamente voluto l'alleanza con Di Pietro, senza scioglierla neanche quando ormai erano chiari i danni che arrecava al Pd, che la sinistra non deve più essere «salottiera, giustizialista e conservatrice».
Ma c'è un passaggio del suo discorso di commiato che rivela tutta l'inadeguatezza e i limiti persino culturali dell'ex segretario. Quando ha spiegato che Berlusconi «ha avuto i mezzi e la possibilità anche di stravolgere i valori della società stessa, costruendo un sistema di disvalori contro i quali bisogna combattere con coraggio», dimostra non solo di non aver compreso i motivi delle sconfitte elettorali, ma anche di avere una struttura mentale ancora fortemente ideologizzata che gli impedisce di rendersi conto di come funzioni davvero una società. Non è la politica a imporre, o a dover tentare di imporre alla società valori elaborati a tavolino, in una sorta di ingegneria sociale. Sono i valori che emergono dalla e nella società e in democrazia la politica li rappresenta.
E' ora di finirla con questa balla ideologica di Berlusconi che avrebbe "creato" un sistema di (dis)valori. Casomai li rapppresenta. E' questa supponenza e idealizzazione della politica che non permette al Pd di capire a fondo il concetto di rappresentanza e, di conseguenza, di risultare credibile come rappresentante.
Tuesday, February 17, 2009
Pd in stato vegetativo, immobilismo del paese
E' successo di nuovo. Come un anno fa alle elezioni politiche, anche questa volta per giorni, durante la campagna elettorale e fino alla vigilia del voto, ce l'hanno messa tutta i grandi giornali, i sondaggisti, la leadership del Pd, per avvalorare lo scenario di un testa-a-testa, quando non di una irresistibile cavalcata di Soru verso la leadership nazionale di un rinnovato Pd. Il sogno si è spezzato nelle urne e le attese si sono nuovamente dimostrate niente più che un wishful thinking. Il guaio è che al gioco, cominciato per galvanizzare e non disperdere il proprio elettorato, hanno cominciato a crederci pure loro. Il che la dice lunga sulla distanza dal paese reale della classe dirigente del Pd e dell'establishment giornalistico-intellettuale-industriale che la circonda.
Con una certa sfrontatezza, devo dire, leggo che si giustifica la sconfitta con lo strapotere mediatico di Berlusconi. Davvero hanno perso anche il senso del ridicolo. Tutti sanno che Soru è il re dei media in Sardegna e non ci si può venire a raccontare che non abbia avuto spazi e modi per reagire al protagonismo del premier. Varrà quel che vale, ma fino alla settimana scorsa non conoscevo neanche il nome del suo avversario. Inoltre, la recriminazione è ancor più sospetta se viene da chi qualche giorno fa sosteneva la tesi che il presenzialismo di Berlusconi rischiava di oscurare Cappellacci danneggiandolo.
La realtà è che nonostante la crisi e persino gli scarsi successi in tema di sicurezza, il governo sembra ancora in luna di miele con il paese e il Pd sempre meno credibile. Non c'è da gioire, purtroppo. E' un dramma per il paese l'assenza di un'opposizione credibile e ancor di più il fatto che non c'è alcun segno di risveglio. Il Pd sembra in stato vegetativo. Basti vedere le reazioni all'indomani della batosta. Non si discute di linee politiche, di idee e proposte, ma si torna a parlare di alleanze. Non hanno ancora capito che il loro problema è quel che dicono e che fanno, non l'album delle figurine con cui si presentano. E' il contenuto, non il contenitore.
D'Alema apre a Rifondazione, Bertinotti fa capolino, e forse il Pd non resisterà alla tentazione di abbandonarsi di nuovo alla "vecchia stagione", quella del fronte unitario anti-berlusconiano, dai democristiani ai comunisti. Forse capace di strappare una striminzita maggioranza per una mezza legislatura, ma certo non di governare. L'errore di Veltroni è di non aver accompagnato con i fatti le intuizioni del Lingotto, la giusta decisione di far correre il Pd da solo. Prima ha imbarcato Di Pietro; poi non ha saputo arricchire la scelta tattica con una visione politico-culturale strategica, con dei nuovi contenuti, che fossero davvero, convintamente, riformisti e liberali e quindi in grado, piano piano, con pazienza e costanza, di far recuperare terreno al partito sul piano della credibilità.
Ma purtroppo, anche quando gli esponenti del Pd dicono una mezza cosa giusta, dalle loro facce traspare che non sono convinti. Fanno i riformisti per necessità e non per convinzione. E siccome è tutta gente che ha un lungo passato politico alle spalle, i cittadini non la bevono.
Lo vediamo in modo sintomatico nel dibattito sulla crisi. Le proposte del Pd sono confuse e l'impressione che se ne ricava è che rimproverino al governo di spendere poco. Tanto che la cifra evocata da Veltroni è doppia rispetto a quella annunciata dal governo, con buona pace dei vincoli di bilancio. Non viene la spinta e la richiesta di riforme strutturali, per modernizzare la nostra economia e il nostro stato sociale, ma si chiede al governo di gonfiare i fondi per sussidi alle imprese e aiuti sociali.
E l'effetto drammatico di un'opposizione poco competitiva dal punto di vista riformista, è che toglie al governo qualsiasi stimolo e incentivo per mettere in agenda riforme che abbiano anche solo un minimo di impopolarità. Quindi, lungo lo spettro innovazione-conservazione c'è un problema di schiacciamento dei due partiti sul secondo dei due poli. E' una logica di mercato. Se il prodotto Pd non contende a Berlusconi i voti dei cittadini-consumatori sul campo dell'innovazione, questi non ha alcun interesse ad arrischiarsi sul minato terreno delle riforme. Per conservare il suo consenso gli basta dare appena un poco di più l'immagine della governabilità e del decisionismo.
Ancor prima che nel merito delle questioni, Berlusconi vince perché al contrario della sinistra dà agli italiani l'impressione che ci sia qualcuno a guidare la macchina.
Con una certa sfrontatezza, devo dire, leggo che si giustifica la sconfitta con lo strapotere mediatico di Berlusconi. Davvero hanno perso anche il senso del ridicolo. Tutti sanno che Soru è il re dei media in Sardegna e non ci si può venire a raccontare che non abbia avuto spazi e modi per reagire al protagonismo del premier. Varrà quel che vale, ma fino alla settimana scorsa non conoscevo neanche il nome del suo avversario. Inoltre, la recriminazione è ancor più sospetta se viene da chi qualche giorno fa sosteneva la tesi che il presenzialismo di Berlusconi rischiava di oscurare Cappellacci danneggiandolo.
La realtà è che nonostante la crisi e persino gli scarsi successi in tema di sicurezza, il governo sembra ancora in luna di miele con il paese e il Pd sempre meno credibile. Non c'è da gioire, purtroppo. E' un dramma per il paese l'assenza di un'opposizione credibile e ancor di più il fatto che non c'è alcun segno di risveglio. Il Pd sembra in stato vegetativo. Basti vedere le reazioni all'indomani della batosta. Non si discute di linee politiche, di idee e proposte, ma si torna a parlare di alleanze. Non hanno ancora capito che il loro problema è quel che dicono e che fanno, non l'album delle figurine con cui si presentano. E' il contenuto, non il contenitore.
D'Alema apre a Rifondazione, Bertinotti fa capolino, e forse il Pd non resisterà alla tentazione di abbandonarsi di nuovo alla "vecchia stagione", quella del fronte unitario anti-berlusconiano, dai democristiani ai comunisti. Forse capace di strappare una striminzita maggioranza per una mezza legislatura, ma certo non di governare. L'errore di Veltroni è di non aver accompagnato con i fatti le intuizioni del Lingotto, la giusta decisione di far correre il Pd da solo. Prima ha imbarcato Di Pietro; poi non ha saputo arricchire la scelta tattica con una visione politico-culturale strategica, con dei nuovi contenuti, che fossero davvero, convintamente, riformisti e liberali e quindi in grado, piano piano, con pazienza e costanza, di far recuperare terreno al partito sul piano della credibilità.
Ma purtroppo, anche quando gli esponenti del Pd dicono una mezza cosa giusta, dalle loro facce traspare che non sono convinti. Fanno i riformisti per necessità e non per convinzione. E siccome è tutta gente che ha un lungo passato politico alle spalle, i cittadini non la bevono.
Lo vediamo in modo sintomatico nel dibattito sulla crisi. Le proposte del Pd sono confuse e l'impressione che se ne ricava è che rimproverino al governo di spendere poco. Tanto che la cifra evocata da Veltroni è doppia rispetto a quella annunciata dal governo, con buona pace dei vincoli di bilancio. Non viene la spinta e la richiesta di riforme strutturali, per modernizzare la nostra economia e il nostro stato sociale, ma si chiede al governo di gonfiare i fondi per sussidi alle imprese e aiuti sociali.
E l'effetto drammatico di un'opposizione poco competitiva dal punto di vista riformista, è che toglie al governo qualsiasi stimolo e incentivo per mettere in agenda riforme che abbiano anche solo un minimo di impopolarità. Quindi, lungo lo spettro innovazione-conservazione c'è un problema di schiacciamento dei due partiti sul secondo dei due poli. E' una logica di mercato. Se il prodotto Pd non contende a Berlusconi i voti dei cittadini-consumatori sul campo dell'innovazione, questi non ha alcun interesse ad arrischiarsi sul minato terreno delle riforme. Per conservare il suo consenso gli basta dare appena un poco di più l'immagine della governabilità e del decisionismo.
Ancor prima che nel merito delle questioni, Berlusconi vince perché al contrario della sinistra dà agli italiani l'impressione che ci sia qualcuno a guidare la macchina.
Monday, February 16, 2009
Creazionismo keynesiano
Venerdì scorso è stato finalmente approvato dal Senato americano, poche ore dopo il voto favorevole della Camera, il piano di stimolo all'economia fortemente voluto dal presidente Obama, che dovrebbe apporre la sua firma già oggi. La versione definitiva stanzia 787 miliardi di dollari. Al Senato tre senatori repubblicani hanno votato con i democratici, permettendo alla maggioranza di raggiungere i 60 voti necessari per bloccare l'ostruzionismo, ma è sostanzialmente fallita l'ambizione bipartisan di Obama. Alla Camera invece l'opposizione dei repubblicani è stata compatta: 246 sì e 183 no. Dei 787 miliardi, circa il 38% andrà in sgravi fiscali per singoli individui e imprese, il 24% in programmi pubblici e infrastrutture e il 38% in aiuti "sociali".
Ma i critici del piano respingono questa ripartizione, sostenendo che in realtà non c'è nulla di "stimolo" all'economia. Si tratta al 100% di spesa pubblica. E «non funzionerà». Ne è convinta Veronique de Rugy («l'ultimo insulto ai contribuenti»), che riportando su Reason.com alcuni studi sulle crisi del passato conclude che se il piano funzionasse «sarebbe il primo caso nella storia».
Il primo problema del piano è che rimborsi fiscali temporanei non vengono usati dalla gente per aumentare i consumi, ma per ripianare debiti già contratti e anche se i produttori dovessero registrare un aumento delle vendite, sanno che è solo temporaneo e non assumeranno più impiegati né apriranno nuove fabbriche. Il secondo problema sta nella presunzione che il governo sappia spendere 800 miliardi meglio del settore privato. «Investiremo in ciò che funziona», assicura il presidente Obama, ma «la politica più che i principi economici guidano l'intervento del governo. I politici dipendono dai lobbisti, dai sindacati, le corporazioni, i gruppi di pressione, i governi statali e locali, quando decidono come spendere il denaro dei contribuenti». Ma il problema più grande è che «il governo non può iniettare capitali nell'economia senza prima prelevarli dall'economia stessa. La spesa pubblica non aumenta la ricchezza nazionale o gli standard di vita; semplicemente la ridistribuisce. La torta è divisa diversamente, ma non è più grande».
Stuzzicante la provocazione di Max Borders, che su Tech Central Station parla di Creazionismo keynesiano. Come i creazionisti vedono nella natura un "disegno intelligente", così i dirigisti credono che un gruppo ristretto di intelligenze possa disegnare e governare dall'alto l'economia. Se non che, aggiungiamo noi, i primi almeno ricorrono a un'intelligenza divina, sovrumana.
Se di solito con il termine «fondamentalisti del mercato» si intende accusare di dogmatismo chi crede che il mercato funzioni meglio dello stato, paragonando così la fiducia nei meccanismi di mercato alla fede nella Creazione, è invece la fiducia nelle capacità del governo a somigliare alla fede in Dio. «Sostituite Dio con il Governo. La congregazione con il Congresso. Il Messiah con il Presidente. I creazionisti con i keynesiani». Secondo Borders, «l'economia non può essere gestita o riparata da un'elite tecnocratica», perché è complessa e si comporta «come un ecosistema e gli ecosistemi non possono essere aggiustati nello stesso modo delle macchine».
Ma i critici del piano respingono questa ripartizione, sostenendo che in realtà non c'è nulla di "stimolo" all'economia. Si tratta al 100% di spesa pubblica. E «non funzionerà». Ne è convinta Veronique de Rugy («l'ultimo insulto ai contribuenti»), che riportando su Reason.com alcuni studi sulle crisi del passato conclude che se il piano funzionasse «sarebbe il primo caso nella storia».
Il primo problema del piano è che rimborsi fiscali temporanei non vengono usati dalla gente per aumentare i consumi, ma per ripianare debiti già contratti e anche se i produttori dovessero registrare un aumento delle vendite, sanno che è solo temporaneo e non assumeranno più impiegati né apriranno nuove fabbriche. Il secondo problema sta nella presunzione che il governo sappia spendere 800 miliardi meglio del settore privato. «Investiremo in ciò che funziona», assicura il presidente Obama, ma «la politica più che i principi economici guidano l'intervento del governo. I politici dipendono dai lobbisti, dai sindacati, le corporazioni, i gruppi di pressione, i governi statali e locali, quando decidono come spendere il denaro dei contribuenti». Ma il problema più grande è che «il governo non può iniettare capitali nell'economia senza prima prelevarli dall'economia stessa. La spesa pubblica non aumenta la ricchezza nazionale o gli standard di vita; semplicemente la ridistribuisce. La torta è divisa diversamente, ma non è più grande».
Stuzzicante la provocazione di Max Borders, che su Tech Central Station parla di Creazionismo keynesiano. Come i creazionisti vedono nella natura un "disegno intelligente", così i dirigisti credono che un gruppo ristretto di intelligenze possa disegnare e governare dall'alto l'economia. Se non che, aggiungiamo noi, i primi almeno ricorrono a un'intelligenza divina, sovrumana.
Se di solito con il termine «fondamentalisti del mercato» si intende accusare di dogmatismo chi crede che il mercato funzioni meglio dello stato, paragonando così la fiducia nei meccanismi di mercato alla fede nella Creazione, è invece la fiducia nelle capacità del governo a somigliare alla fede in Dio. «Sostituite Dio con il Governo. La congregazione con il Congresso. Il Messiah con il Presidente. I creazionisti con i keynesiani». Secondo Borders, «l'economia non può essere gestita o riparata da un'elite tecnocratica», perché è complessa e si comporta «come un ecosistema e gli ecosistemi non possono essere aggiustati nello stesso modo delle macchine».
«L'algoritmo darwiniano in economia non lascia all'intercessione di un Keynes o di un Krugman più spazio di quanto la natura abbia avuto bisogno della mano di Nostro Signore per produrre il bulbo oculare o il flagello dei batteri... Come chiameresti qualcuno che crede che l'economia possa essere diretta, riparata o gestita da un "disegno intelligente"? Come definiresti una persona che onestamente pensa che, con un tratto di penna legislativo, il governo possa "creare posti di lavoro"? Come si chiama una persona che crede che aiuti a pioggia dall'alto avranno come esito un qualche magico "effetto moltiplicatore" che aumenterà la ricchezza geometricamente, come i pani e i pesci?»Sono «creazionisti keynesiani». E il piano di stimolo approvato dal Congresso è «poco più che un atto di fede che nasconde un'espansione senza precedenti del potere dello stato».
«La natura inefficiente dell'allocazione burocratica delle risorse, in assenza di indicatori come i prezzi di mercato, renderà gli aumenti di produttività che si potranno ottenere, riportando la gente al lavoro più velocemente, al massimo un "risciacquo". La spesa pubblica sottrae risorse agli usi produttivi e le impiega in attività meno produttive. Il cosiddetto "effetto moltiplicatore" non funziona. Alcuni economisti hanno dimostrato che, in tempi difficili, disponendo di risorse aggiuntive molte persone ripianano i loro debiti piuttosto che consumare più beni e servizi. Invece di pompare soldi nel sistema - spostandoli da altre parti o stampandoli dal nulla - dovremmo pensare a regole adeguate (che conferiscano prevedibilità al mercato) e a corretti incentivi (che incoraggino gli imprenditori a competere per i soldi dei consumatori, non per la loro generosità)».Max Borders conclude citando l'economista Arnold Kling:
«L'aritmetica è qualcosa di sorprendente. Se le persone ad avere un ruolo significativo saranno 500, e lo stimolo di quasi 800 miliardi, vuol dire che in media ciascuno di loro sarà responsabile di oltre un miliardo e mezzo del nostro denaro, da spendere più saggiamente di quanto saremmo in grado di fare noi. Posso immaginare un saggio tecnocrate prendere cento mila dollari, o forse anche un milione, dalle famiglie americane e spenderlo in modo più avveduto di quanto avrebbero fatto quelle famiglie. Ma 1,5 miliardi? Credo che non ci sia essere umano così intelligente da saper allocare velocemente e in modo saggio 1,5 miliardi di dollari».
La mano sullo scudetto
Se gli italiani non s'indignano neanche più per il calcio, allora vuol dire che siamo messi davvero male. A parte gli scherzi, scrivo questo post perché mi sorprende che gli errori (?) arbitrali commessi ieri a favore dell'Inter non abbiano suscitato reazioni commisurate alla loro gravità. Si trattava di una partita chiave non solo perché un derby, ma anche perché l'Inter poteva effettivamente chiudere, come ha fatto, la pratica scudetto. E l'ha chiusa nel modo peggiore. "Rubando", come si dice in gergo.
E' un vero scandalo che un gol come quello di Adriano, realizzato con un tocco di mano volontarissimo, possa essere convalidato. L'arbitro inoltre non era troppo distante dall'azione e poteva godere di una visuale ottima. Se fosse capitato in una partitella tra amici, ci si sarebbe messi a ridere tutti insieme tanto era evidente la "furbata". Se fosse capitato in un campionato giovanile o dilettanti, l'arbitro non ne sarebbe uscito indenne. Anziché esultare Mourinho, Moratti e lo stesso Adriano dovrebbero scusarsi pubblicamente, se avessero qualche minima nozione di fair play.
E' come se ci fossimo ormai assuefatti a vedere il gioco che più entusiasma gli italiani ostaggio di errori più o meno sospetti e clamorosi aiutini. L'Inter è la squadra più forte di questo campionato - più che altro per manifesta inferiorità delle pretendenti - ma ad ogni partita decisiva sembra di assistere a un copione già scritto. E' un po' troppo per rimanere zitti e credere che si tratti di pura casualità. Purtroppo mi pare che in Italia il calcio sia sempre più specchio fedele del paese: il gioco è truccato.
E' un vero scandalo che un gol come quello di Adriano, realizzato con un tocco di mano volontarissimo, possa essere convalidato. L'arbitro inoltre non era troppo distante dall'azione e poteva godere di una visuale ottima. Se fosse capitato in una partitella tra amici, ci si sarebbe messi a ridere tutti insieme tanto era evidente la "furbata". Se fosse capitato in un campionato giovanile o dilettanti, l'arbitro non ne sarebbe uscito indenne. Anziché esultare Mourinho, Moratti e lo stesso Adriano dovrebbero scusarsi pubblicamente, se avessero qualche minima nozione di fair play.
E' come se ci fossimo ormai assuefatti a vedere il gioco che più entusiasma gli italiani ostaggio di errori più o meno sospetti e clamorosi aiutini. L'Inter è la squadra più forte di questo campionato - più che altro per manifesta inferiorità delle pretendenti - ma ad ogni partita decisiva sembra di assistere a un copione già scritto. E' un po' troppo per rimanere zitti e credere che si tratti di pura casualità. Purtroppo mi pare che in Italia il calcio sia sempre più specchio fedele del paese: il gioco è truccato.
Thursday, February 12, 2009
La solita finta condanna, una quasi-assoluzione
Le zone grigie a volte servono
Il tabaccaio prende un anno e otto mesi. La Lega organizza un presidio di solidarietà al grido: "Siamo tutti tabaccai". Che volete, cari leghisti, non si è detto che la vita è sacra? Sono le contraddizioni che emergono quando si assolutizzano i valori.
Un errore di percezione della situazione in cui si trovava. Per questo il tabaccaio è stato condannato. Omicidio non volontario, ma solo colposo: «Legittima difesa putativa in seguito ad un errore di percezione». Invece, per quello che è il nostro ordinamento - basti pensare che l'accusa chiedeva 9 anni e mezzo (ci sono assassini che se ne fanno meno) - la sentenza andrebbe accolta positivamente. Gli è andata bene al tabaccaio. Purtroppo è una di quelle finte condanne all'italiana. E' vero che parlare di «errore di percezione» al terzo tentativo di rapina sembra una beffa, ma impugnare una pistola e sparare difficilmente è compatibile con la colpa; sembra avere a che fare più con la volontà.
Dunque, o legittima difesa, o omicidio volontario: una terza via sembrerebbe non esserci. Per fortuna dell'onesto tabaccaio, c'è stata, sia pure grazie all'ipocrisia tutta italiana, una "zona grigia". Un anno e otto mesi, derubricando a colposo un atto evidentemente volontario come prendere a pistolettate due persone, mi sa tanto di una sentenza di assoluzione. E' come se i giudici popolari avessero voluto dire: non possiamo assolverti perché siamo vincolati alle leggi esistenti, ma siamo con te, tutto ciò che potevamo fare per aiutarti l'abbiamo fatto.
In pochi noteranno il nesso con il caso Englaro, ma ciò che prevede il nostro ordinamento sulla legittima difesa è un altro di quei casi in cui il valore della vita prevale sul binomio libertà-responsabilità.
A mio modo di vedere - che però non corrisponde alle leggi esistenti - l'anziano tabaccaio avrebbe dovuto prendersi solo una condanna per aver utilizzato l'arma fuori dalla tabaccheria senza averne i permessi necessari. Per il resto, se il tutto avviene nel medesimo arco temporale dal punto di vista emotivo della vittima, dovremmo rimanere nella legittima difesa. E' vero che i rapinatori stavano scappando, e questo farebbe pensare a un pericolo ormai scampato. Ma avendo subito tre rapine in un mese, e vedendosi puntare una pistola in faccia, a chiunque verrebbe da pensare che il pericolo non sia affatto scampato, ma che si potrebbe ripresentare tale e quale persino il giorno dopo. E, particolare che laicamente mi sembra non del tutto irrilevante, la rapina si era consumata, cioè i rapinatori fuggivano portandosi dietro la refurtiva.
Il tabaccaio prende un anno e otto mesi. La Lega organizza un presidio di solidarietà al grido: "Siamo tutti tabaccai". Che volete, cari leghisti, non si è detto che la vita è sacra? Sono le contraddizioni che emergono quando si assolutizzano i valori.
Un errore di percezione della situazione in cui si trovava. Per questo il tabaccaio è stato condannato. Omicidio non volontario, ma solo colposo: «Legittima difesa putativa in seguito ad un errore di percezione». Invece, per quello che è il nostro ordinamento - basti pensare che l'accusa chiedeva 9 anni e mezzo (ci sono assassini che se ne fanno meno) - la sentenza andrebbe accolta positivamente. Gli è andata bene al tabaccaio. Purtroppo è una di quelle finte condanne all'italiana. E' vero che parlare di «errore di percezione» al terzo tentativo di rapina sembra una beffa, ma impugnare una pistola e sparare difficilmente è compatibile con la colpa; sembra avere a che fare più con la volontà.
Dunque, o legittima difesa, o omicidio volontario: una terza via sembrerebbe non esserci. Per fortuna dell'onesto tabaccaio, c'è stata, sia pure grazie all'ipocrisia tutta italiana, una "zona grigia". Un anno e otto mesi, derubricando a colposo un atto evidentemente volontario come prendere a pistolettate due persone, mi sa tanto di una sentenza di assoluzione. E' come se i giudici popolari avessero voluto dire: non possiamo assolverti perché siamo vincolati alle leggi esistenti, ma siamo con te, tutto ciò che potevamo fare per aiutarti l'abbiamo fatto.
In pochi noteranno il nesso con il caso Englaro, ma ciò che prevede il nostro ordinamento sulla legittima difesa è un altro di quei casi in cui il valore della vita prevale sul binomio libertà-responsabilità.
A mio modo di vedere - che però non corrisponde alle leggi esistenti - l'anziano tabaccaio avrebbe dovuto prendersi solo una condanna per aver utilizzato l'arma fuori dalla tabaccheria senza averne i permessi necessari. Per il resto, se il tutto avviene nel medesimo arco temporale dal punto di vista emotivo della vittima, dovremmo rimanere nella legittima difesa. E' vero che i rapinatori stavano scappando, e questo farebbe pensare a un pericolo ormai scampato. Ma avendo subito tre rapine in un mese, e vedendosi puntare una pistola in faccia, a chiunque verrebbe da pensare che il pericolo non sia affatto scampato, ma che si potrebbe ripresentare tale e quale persino il giorno dopo. E, particolare che laicamente mi sembra non del tutto irrilevante, la rapina si era consumata, cioè i rapinatori fuggivano portandosi dietro la refurtiva.
Monday, February 09, 2009
Ciao Eluana, scusaci di tutto
Eluana Englaro si è spenta. Come se avesse presagito i fantasmi che la stavano rincorrendo per imprigionarla di nuovo. Pochi giorni dopo la sospensione delle cure. Si diceva che senza nutrizione e idratazione potesse sopravvivere anche due settimane, ma così non è stato. Non sono un medico, ma evidentemente a tenerla in vita erano altri farmaci, piuttosto che quella nutrizione e idratazione artificiali su cui ci siamo accapigliati. Ma può essere stata persino una fatalità, senza alcun legame con la sospensione dei trattamenti. O forse, un qualche Dio misericordioso ha voluto dare un segno della sua presenza.
Da registrare la strana furia ideologica di un ministro, Sacconi, che per giorni ha messo in giro voci false su presunte irregolarità della clinica "La Quiete". Ebbene, proprio pochi minuti prima della morte di Eluana è stato smentito sia dalla Regione Friuli (di centrodestra), sia dalla Procura di Udine.
Dagli accertamenti eseguiti su disposizione della Regione Friuli Venezia Giulia non sono emersi elementi tali da indurre a un intervento sulla struttura, hanno concluso il presidente Renzo Tondo, gli assessori regionali Kosic (Sanità) e Seganti (Autonomie Locali), e i dirigenti del settore sanitario.
«Al momento non abbiamo alcun elemento che ci faccia convincere che la sentenza debba essere interrotta. Eseguire la sentenza è un obbligo di legge», dichiarava il procuratore generale della Corte d'Appello di Trieste, Deidda. «Allo stato non abbiamo notizia di alcuna irregolarità, e la sentenza va eseguita», precisava. Mentre anche i carabinieri dei Nas smentivano l'ipotesi di un sequestro cautelativo delle stanze in cui era ospitata Eluana.
Dà ancora una volta il peggio di sé il Vaticano, come con Welby. Le prime parole non sono per l'anima di Eluana, per il dolore dei famigliari, ma contro chi si è reso colpevole solo di averne rispettato la volontà: «Dio li perdoni», tuona il cardinale Barragan.
Ed Eluana perdoni la Chiesa e lo Stato, se può.
Da registrare la strana furia ideologica di un ministro, Sacconi, che per giorni ha messo in giro voci false su presunte irregolarità della clinica "La Quiete". Ebbene, proprio pochi minuti prima della morte di Eluana è stato smentito sia dalla Regione Friuli (di centrodestra), sia dalla Procura di Udine.
Dagli accertamenti eseguiti su disposizione della Regione Friuli Venezia Giulia non sono emersi elementi tali da indurre a un intervento sulla struttura, hanno concluso il presidente Renzo Tondo, gli assessori regionali Kosic (Sanità) e Seganti (Autonomie Locali), e i dirigenti del settore sanitario.
«Al momento non abbiamo alcun elemento che ci faccia convincere che la sentenza debba essere interrotta. Eseguire la sentenza è un obbligo di legge», dichiarava il procuratore generale della Corte d'Appello di Trieste, Deidda. «Allo stato non abbiamo notizia di alcuna irregolarità, e la sentenza va eseguita», precisava. Mentre anche i carabinieri dei Nas smentivano l'ipotesi di un sequestro cautelativo delle stanze in cui era ospitata Eluana.
Dà ancora una volta il peggio di sé il Vaticano, come con Welby. Le prime parole non sono per l'anima di Eluana, per il dolore dei famigliari, ma contro chi si è reso colpevole solo di averne rispettato la volontà: «Dio li perdoni», tuona il cardinale Barragan.
Ed Eluana perdoni la Chiesa e lo Stato, se può.
Lo spettro del protezionismo nel pacchetto anti-crisi di Obama
Nonostante il Senato americano abbia ammorbidito la misura Buy American, non si placa il dibattito sullo spettro del protezionismo. La clausola di chiara marca protezionista, inserita dalla Camera dei rappresentanti a maggioranza democratica nel pacchetto di stimolo fiscale proposto dal presidente Obama, stabilisce che nella costruzione delle opere finanziate dal piano anti-crisi debbano essere usati acciaio, ferro e prodotti industriali solo americani.
L'emendamento approvato dai senatori chiede che sia «applicata in modo compatibile con gli obblighi sottoscritti dagli Stati Uniti negli accordi internazionali», ma non è servito a tranquillizzare i maggiori partner commerciali degli Usa: Europa, Canada, Messico e Cina. Respinto, invece, l'emendamento abrogativo di McCain: nella clausola «ci sono echi del disastroso Smoot-Hawley Tariff Act», ha denunciato l'ex candidato alla presidenza. L'intero pacchetto dovrebbe essere approvato domani nella sua versione ridotta (si fa per dire) a 827 miliardi di dollari.
Dure critiche al Buy American sono giunte dall'economista Eswar Prasad, della Brookings Institution, think tank vicino ai Democratici, che accusa la clausola di porre «convenienze politiche di breve termine e gli interessi economici di pochi al di sopra dei benefici molto più ampi che il libero mercato offre ai consumatori» e di «mettere da parte la cooperazione internazionale e il multilateralismo» verso cui si era impegnata la nuova amministrazione. «Erigere barriere potrebbe distruggere il commercio mondiale, se gli altri paesi si vendicassero con delle proprie misure protezioniste. E queste barriere finiranno per assestare un ulteriore colpo all'economia americana e mondiale».
Proteggere le industrie interne dalla competizione estera è una «tentazione istintiva», ma è una scelta che «si ritorcerà contro, se darà avvio a una guerra commerciale con gli altri paesi». Provocherà «più perdite di posti di lavoro, prezzi più alti su molti prodotti e una recessione più prolungata», avverte Prasad. In questo particolare momento di crisi e sfiducia «non possiamo permetterci di scatenare una guerra commerciale». Gli Stati Uniti «dovrebbero essere di esempio, fissando gli standard del libero commercio», e non guidare il mondo «lungo un sentiero di protezionismo autodistruttivo, dandosi la zappa sui piedi».
Di «zappa sui piedi» parla anche Walter Russell Mead, intervistato dal Council on Foreign Relations, che ha posto l'accento sulle ripercussioni in politica estera: «Se in questo momento di crisi sbattiamo la porta in faccia alla Cina, o la Cina pensa che è ciò che noi e gli europei stiamo facendo, sarà un errore di politica estera molto più pericoloso di qualsiasi cosa abbia fatto Bush... la cosa più pericolosa che potremmo fare».
Sul Financial Times, l'economista Jagdish Bhagwati ha criticato il «basso profilo, anzi invisibile», tenuto dal presidente Obama. Fortunatamente, ha reagito al Buy American, «lasciando pochi dubbi sui suoi reali sentimenti e le sue preferenze». A Fox News ha dichiarato che «non possiamo mandare un messaggio protezionista» e a ABC News che non vuole niente nel piano di stimolo «che scateni una guerra commerciale».
Ma il protezionismo è «un pericoloso virus che esige una risposta appassionata», secondo Bhagwati, che con la memoria torna allo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930, di cui il Buy American sembra l'odierna versione. Se viene approvato, «aspettatevi di veder scoppiare guerre commerciali», avverte. «Nulla impedirebbe a India e Cina di alzare i dazi sui prodotti di esportazione americani». E a quel punto è facile prevedere la «ritorsione» degli «infuriati congressmen americani». Il presidente Obama «non può permettersi che si ripeta questo schema: deve combattere il protezionismo o vedrà il virus diffondersi senza controllo». Dovrebbe porre il veto sul Buy American, se non vuole essere ricordato come Herbert Hoover, ha scritto sul Wall Street Journal Burton G. Malkiel, professore di economia a Princeton.
L'emendamento approvato dai senatori chiede che sia «applicata in modo compatibile con gli obblighi sottoscritti dagli Stati Uniti negli accordi internazionali», ma non è servito a tranquillizzare i maggiori partner commerciali degli Usa: Europa, Canada, Messico e Cina. Respinto, invece, l'emendamento abrogativo di McCain: nella clausola «ci sono echi del disastroso Smoot-Hawley Tariff Act», ha denunciato l'ex candidato alla presidenza. L'intero pacchetto dovrebbe essere approvato domani nella sua versione ridotta (si fa per dire) a 827 miliardi di dollari.
Dure critiche al Buy American sono giunte dall'economista Eswar Prasad, della Brookings Institution, think tank vicino ai Democratici, che accusa la clausola di porre «convenienze politiche di breve termine e gli interessi economici di pochi al di sopra dei benefici molto più ampi che il libero mercato offre ai consumatori» e di «mettere da parte la cooperazione internazionale e il multilateralismo» verso cui si era impegnata la nuova amministrazione. «Erigere barriere potrebbe distruggere il commercio mondiale, se gli altri paesi si vendicassero con delle proprie misure protezioniste. E queste barriere finiranno per assestare un ulteriore colpo all'economia americana e mondiale».
Proteggere le industrie interne dalla competizione estera è una «tentazione istintiva», ma è una scelta che «si ritorcerà contro, se darà avvio a una guerra commerciale con gli altri paesi». Provocherà «più perdite di posti di lavoro, prezzi più alti su molti prodotti e una recessione più prolungata», avverte Prasad. In questo particolare momento di crisi e sfiducia «non possiamo permetterci di scatenare una guerra commerciale». Gli Stati Uniti «dovrebbero essere di esempio, fissando gli standard del libero commercio», e non guidare il mondo «lungo un sentiero di protezionismo autodistruttivo, dandosi la zappa sui piedi».
Di «zappa sui piedi» parla anche Walter Russell Mead, intervistato dal Council on Foreign Relations, che ha posto l'accento sulle ripercussioni in politica estera: «Se in questo momento di crisi sbattiamo la porta in faccia alla Cina, o la Cina pensa che è ciò che noi e gli europei stiamo facendo, sarà un errore di politica estera molto più pericoloso di qualsiasi cosa abbia fatto Bush... la cosa più pericolosa che potremmo fare».
Sul Financial Times, l'economista Jagdish Bhagwati ha criticato il «basso profilo, anzi invisibile», tenuto dal presidente Obama. Fortunatamente, ha reagito al Buy American, «lasciando pochi dubbi sui suoi reali sentimenti e le sue preferenze». A Fox News ha dichiarato che «non possiamo mandare un messaggio protezionista» e a ABC News che non vuole niente nel piano di stimolo «che scateni una guerra commerciale».
Ma il protezionismo è «un pericoloso virus che esige una risposta appassionata», secondo Bhagwati, che con la memoria torna allo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930, di cui il Buy American sembra l'odierna versione. Se viene approvato, «aspettatevi di veder scoppiare guerre commerciali», avverte. «Nulla impedirebbe a India e Cina di alzare i dazi sui prodotti di esportazione americani». E a quel punto è facile prevedere la «ritorsione» degli «infuriati congressmen americani». Il presidente Obama «non può permettersi che si ripeta questo schema: deve combattere il protezionismo o vedrà il virus diffondersi senza controllo». Dovrebbe porre il veto sul Buy American, se non vuole essere ricordato come Herbert Hoover, ha scritto sul Wall Street Journal Burton G. Malkiel, professore di economia a Princeton.
Con il "terzo partito" di Panebianco, ma con un "ma"
Ho letto e condiviso l'editoriale di oggi di Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera. Vorrei solo far notare a Panebianco che la posizione del "terzo partito" - di cui mi sento di far parte, ritenendo da molto tempo che sia meglio nessuna legge - non è però equidistante dagli altri due partiti. Al partito schierato «a difesa del diritto a morire» si possono imputare al massimo un errore strategico e una debolezza culturale. L'aver continuato a politicizzare il caso, invocando l'intervento del legislatore anche dopo le recenti sentenze favorevoli (sui casi Welby ed Englaro) rivela un malinteso sul ruolo dello Stato nel garantire la libertà dei cittadini, una sorta di "statolatria", che li porta a credere che non basti una "libertà da", una libertà come assenza di impedimenti e divieti. Quante persone, a differenza di quanto accadeva per il divorzio o l'aborto, vengono incriminate oggi per aver "staccato la spina" a un proprio parente? No, quel partito vuole per forza una legge che sancisca la "libertà di", anche a prezzo di ottenere l'effetto opposto.
Non si può però far finta di non vedere che le posizioni dei due partiti, se convergono nell'idealizzare lo Stato e la Democrazia, non sono simmetriche. L'esito legislativo per cui si batte uno dei due non è la morte di tutti i pazienti nelle condizioni di Eluana, ma la libera scelta lasciata alla persona e ai suoi cari, assistiti dai medici, come nella vita di tutti i giorni va e, anche secondo Panebianco, giustamente, dovremmo lasciare che vada. Dunque, perché non sembri prendere una facile via di fuga dallo scontro in atto, il "terzo partito" dovrebbe comunque ribellarsi a un ddl che nega questa scelta anche alle persone coscienti, com'era Welby, laddove si riferisce a persone non autosufficienti.
Non si può però far finta di non vedere che le posizioni dei due partiti, se convergono nell'idealizzare lo Stato e la Democrazia, non sono simmetriche. L'esito legislativo per cui si batte uno dei due non è la morte di tutti i pazienti nelle condizioni di Eluana, ma la libera scelta lasciata alla persona e ai suoi cari, assistiti dai medici, come nella vita di tutti i giorni va e, anche secondo Panebianco, giustamente, dovremmo lasciare che vada. Dunque, perché non sembri prendere una facile via di fuga dallo scontro in atto, il "terzo partito" dovrebbe comunque ribellarsi a un ddl che nega questa scelta anche alle persone coscienti, com'era Welby, laddove si riferisce a persone non autosufficienti.
Saturday, February 07, 2009
Quando il dibattito è disonesto
L'editoriale di oggi di Ernesto Galli Della Loggia dà modo di tornare su due aspetti mai sufficientemente sottolineati nei dibattiti, televisivi o sui giornali, sul caso Englaro. Galli Della Loggia tratta i due principali argomenti usati da coloro che si oppongono a lasciar morire Eluana: la sua volontà non è certa (in quanto «ricostruita ex post su base totalmente indiziaria»); la morte per sospensione del nutrimento e dell'idratazione è comunque dolorosa e disumana.
Qui occorre mettersi d'accordo perché il dibattito sia onesto intellettualmente. Tutti quelli che oggi si preoccupano tanto della reale volontà di Eluana, sono gli stessi che solo due anni fa passavano sopra la volontà, non «ricostruita», ma personale e consapevole, di Welby. Tutti coloro per i quali lo scandalo oggi è la sospensione del "cibo" e dell'"acqua", sono gli stessi che si opponevano alla richiesta di Welby di essere staccato da un ventilatore meccanico che lo teneva in vita pompandogli aria nei polmoni, considerando il distacco al pari di un omicidio.
E' la prova della disonestà intellettuale di questi interlocutori. Non si può fingere di preoccuparsi della reale volontà del soggetto, anche se si sarebbe comunque contrari alla sospensione dei trattamenti qualora sia il soggetto stesso ad esprimersi in prima persona; non si può sollevare la questione della natura, umanitaria e non terapeutica, dell'alimentazione e dell'idratazione, pur essendo contrari anche al distacco delle macchine.
E' ovviamente lecito essere contrari a lasciar morire Eluana o chiunque altro, ma bisogna dirla tutta e non usare argomenti pretestuosi, sollevare obiezioni che quand'anche fossero superate non sposterebbero di un millimetro le proprie conclusioni. Si dica chiaro e tondo che il nostro corpo non ci appartiene. Appartiene allo stato, o a Dio, che lo gestiscono attraverso i loro "sacerdoti". Certo, mi rendo conto che questa sarebbe una posizione un tantino più impopolare che alimentare dubbi sulla volontà di Eluana, riferita dal padre e dalla famiglia in modo univoco, o fare appello alla sensibilità del pubblico per il "cibo" e l'"acqua" negati. Purtroppo, non ho mai sentito o letto nessuno denunciare questi trucchi retorici.
Un'ulteriore prova sta nel fatto che anche lo stesso ddl varato dal governo non si preoccupa mimimamente della reale volontà dei soggetti. Laddove il divieto di sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione riguarda tutti coloro «non in grado di provvedere a se stessi», ci si riferisce sia a soggetti incoscienti che coscienti e capaci di intendere e volere ma, per esempio, non in grado di muoversi e, appunto, di provvedere autonomamente a se stessi. Anche se Eluana potesse esprimersi oggi, questo decreto le negherebbe l'accoglimento delle sue richieste.
Infine, Galli Della Loggia propone di «non produrre la morte di alcuno negandogli l'idratazione e l'alimentazione», ma attraverso «la non somministrazione» di quei farmaci che «non possono arrecare alcun giovamento ma al massimo assicurare l'indefinita prosecuzione» dello stato vegetativo. Galli Della Loggia non è un medico. Anch'io non lo sono, ma a intuito credo che sospendendo quei farmaci, e non l'alimentazione e l'idratazione, Eluana andrebbe incontro ad una morte ben più traumatica. Per infezione, per trombosi, o per soffocamento.
Da cattolico, a denunciare l'errore del governo, e della Chiesa, è il filosofo Giovanni Reale, intervistato dal Corriere: il decreto «si oppone all'idea di libertà su cui è radicato il concetto occidentale dell'uomo. E lo dico da cattolico». La Chiesa stessa, ricorda, dice che «si può rinunciare all'utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo. Ed è proprio questo il caso di Eluana: qui non c'è stata proporzione e non c'è nessuna ragionevole speranza di esito positivo. E allora? Perché questo accanirsi contro di lei?».
Eluana, e come lei Welby, avanzano la stessa condivisibile richiesta dal punto di vista umano: «Lasciate che la natura faccia il suo corso, non fatemi restare vittima di una tecnologia che costruisce qualcosa di sostitutivo e artificiale rispetto alla natura. È un'affermazione identica a quella che si dice abbia fatto Giovanni Paolo II: lasciatemi tornare alla casa del padre». L'errore che stanno commettendo la Chiesa e la politica è di politicizzare «qualcosa che con la politica non c'entra niente».
Qui occorre mettersi d'accordo perché il dibattito sia onesto intellettualmente. Tutti quelli che oggi si preoccupano tanto della reale volontà di Eluana, sono gli stessi che solo due anni fa passavano sopra la volontà, non «ricostruita», ma personale e consapevole, di Welby. Tutti coloro per i quali lo scandalo oggi è la sospensione del "cibo" e dell'"acqua", sono gli stessi che si opponevano alla richiesta di Welby di essere staccato da un ventilatore meccanico che lo teneva in vita pompandogli aria nei polmoni, considerando il distacco al pari di un omicidio.
E' la prova della disonestà intellettuale di questi interlocutori. Non si può fingere di preoccuparsi della reale volontà del soggetto, anche se si sarebbe comunque contrari alla sospensione dei trattamenti qualora sia il soggetto stesso ad esprimersi in prima persona; non si può sollevare la questione della natura, umanitaria e non terapeutica, dell'alimentazione e dell'idratazione, pur essendo contrari anche al distacco delle macchine.
E' ovviamente lecito essere contrari a lasciar morire Eluana o chiunque altro, ma bisogna dirla tutta e non usare argomenti pretestuosi, sollevare obiezioni che quand'anche fossero superate non sposterebbero di un millimetro le proprie conclusioni. Si dica chiaro e tondo che il nostro corpo non ci appartiene. Appartiene allo stato, o a Dio, che lo gestiscono attraverso i loro "sacerdoti". Certo, mi rendo conto che questa sarebbe una posizione un tantino più impopolare che alimentare dubbi sulla volontà di Eluana, riferita dal padre e dalla famiglia in modo univoco, o fare appello alla sensibilità del pubblico per il "cibo" e l'"acqua" negati. Purtroppo, non ho mai sentito o letto nessuno denunciare questi trucchi retorici.
Un'ulteriore prova sta nel fatto che anche lo stesso ddl varato dal governo non si preoccupa mimimamente della reale volontà dei soggetti. Laddove il divieto di sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione riguarda tutti coloro «non in grado di provvedere a se stessi», ci si riferisce sia a soggetti incoscienti che coscienti e capaci di intendere e volere ma, per esempio, non in grado di muoversi e, appunto, di provvedere autonomamente a se stessi. Anche se Eluana potesse esprimersi oggi, questo decreto le negherebbe l'accoglimento delle sue richieste.
Infine, Galli Della Loggia propone di «non produrre la morte di alcuno negandogli l'idratazione e l'alimentazione», ma attraverso «la non somministrazione» di quei farmaci che «non possono arrecare alcun giovamento ma al massimo assicurare l'indefinita prosecuzione» dello stato vegetativo. Galli Della Loggia non è un medico. Anch'io non lo sono, ma a intuito credo che sospendendo quei farmaci, e non l'alimentazione e l'idratazione, Eluana andrebbe incontro ad una morte ben più traumatica. Per infezione, per trombosi, o per soffocamento.
Da cattolico, a denunciare l'errore del governo, e della Chiesa, è il filosofo Giovanni Reale, intervistato dal Corriere: il decreto «si oppone all'idea di libertà su cui è radicato il concetto occidentale dell'uomo. E lo dico da cattolico». La Chiesa stessa, ricorda, dice che «si può rinunciare all'utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo. Ed è proprio questo il caso di Eluana: qui non c'è stata proporzione e non c'è nessuna ragionevole speranza di esito positivo. E allora? Perché questo accanirsi contro di lei?».
Eluana, e come lei Welby, avanzano la stessa condivisibile richiesta dal punto di vista umano: «Lasciate che la natura faccia il suo corso, non fatemi restare vittima di una tecnologia che costruisce qualcosa di sostitutivo e artificiale rispetto alla natura. È un'affermazione identica a quella che si dice abbia fatto Giovanni Paolo II: lasciatemi tornare alla casa del padre». L'errore che stanno commettendo la Chiesa e la politica è di politicizzare «qualcosa che con la politica non c'entra niente».
Il teatrino della politica sul corpo di Eluana
Si era capito già ieri dal susseguirsi degli eventi e delle dichiarazioni. La lettera di Napolitano non ha aiutato. Ha irrigidito la posizione del governo. Ma soprattutto non ha aiutato i pochi ministri che sia pure timidamente in quel consiglio dei ministri avrebbero potuto esprimere le loro preplessità sul decreto.
Dai retroscena di oggi sui giornali troviamo conferme. Con il no preventivo di Napolitano nero su bianco, la natura del dibattito in Cdm è cambiata: dal caso Englaro e dal diritto alla vita alla difesa delle prerogative del governo, che soprassedendo avrebbe avvalorato una sorta di controllo preventivo del capo dello Stato in materia di decretazione. Una pretesa che traspare dalla lettera di Napolitano e di cui non c'è ombra nella carta costituzionale. Anzi, non è neanche pacifico che il presidente possa negare la firma su un atto come il decreto, che la costituzione pone "sotto la responsabilità" del governo. In questo caso la firma, come quella del guardasigilli sui provvedimenti di grazia del presidente, sarebbe un "atto dovuto", notarile.
E' vero anche che era stato il governo, tramite il solito Letta, a insistere per avere un parere preventivo del capo dello Stato. E visto che non sembrava accontentarsi di un parere più volte comunicato telefonicamente, Napolitano ha con le migliori intenzioni, ma imprudentemente, deciso per la lettera, personale e riservata a Berlusconi. Che fosse una trappola o meno non è possibile dirlo con certezza, ma è certo che Berlusconi ha deciso di usare la lettera come arma per pretendere dai suoi ministri più scettici non più tanto o solo un sì al decreto, ma soprattutto la totale fedeltà all'esecutivo. Ciò non costituisce comunque un alibi per quei pochi ministri che in questi giorni non hanno avuto il coraggio di contrastare con la stessa forza le pressioni di Sacconi e del Vaticano sul premier.
Il presidente Napolitano è rimasto vittima delle insidie che si nascondono dietro ogni dinamica di Palazzo informale e non alla luce del sole. Meglio avrebbe fatto a limitarsi a far trapelare le sue perplessità, ma senza anticipare che non avrebbe firmato. Probabilmente il governo avrebbe approvato comunque il decreto, ma forse non all'unanimità, e oggi le divisioni al suo interno sarebbero potute emergere.
La cosa più triste è che nonostante la delicatezza del caso su cui doveva decidere, il governo non ha rinunciato ai calcoli e ai tatticismi politici, ad astuzie meschine, al solo fine di scaricare su Napolitano (e poi sulle Camere) addirittura la responsabilità della morte di Eluana. L'impressione disgustosa che si ha, infatti, è che Berlusconi abbia fatto bene i suoi calcoli, potendo contare con certezza sul rifiuto della firma da parte del presidente. In ogni caso, né il decreto (che non sarebbe stato emanato) né il ddl (che non sarà approvato in tempo) sarebbero intervenuti sul caso Englaro. Il governo avrà in ogni caso accontentato il Vaticano e assunto una posizione-manifesto per il diritto alla vita, scaricando su Napolitano prima, che ha negato la sua firma al decreto, sulle Camere poi, che non avranno approvato in tempo utile il ddl, la responsabilità della morte di Eluana. Ed è probabile che, se la morte di Eluana sopraggiungerà prima della conclusione dell'iter del ddl, le Camere decidano di tornare all'esame di una legge organica in Commissione.
Dai retroscena di oggi sui giornali troviamo conferme. Con il no preventivo di Napolitano nero su bianco, la natura del dibattito in Cdm è cambiata: dal caso Englaro e dal diritto alla vita alla difesa delle prerogative del governo, che soprassedendo avrebbe avvalorato una sorta di controllo preventivo del capo dello Stato in materia di decretazione. Una pretesa che traspare dalla lettera di Napolitano e di cui non c'è ombra nella carta costituzionale. Anzi, non è neanche pacifico che il presidente possa negare la firma su un atto come il decreto, che la costituzione pone "sotto la responsabilità" del governo. In questo caso la firma, come quella del guardasigilli sui provvedimenti di grazia del presidente, sarebbe un "atto dovuto", notarile.
E' vero anche che era stato il governo, tramite il solito Letta, a insistere per avere un parere preventivo del capo dello Stato. E visto che non sembrava accontentarsi di un parere più volte comunicato telefonicamente, Napolitano ha con le migliori intenzioni, ma imprudentemente, deciso per la lettera, personale e riservata a Berlusconi. Che fosse una trappola o meno non è possibile dirlo con certezza, ma è certo che Berlusconi ha deciso di usare la lettera come arma per pretendere dai suoi ministri più scettici non più tanto o solo un sì al decreto, ma soprattutto la totale fedeltà all'esecutivo. Ciò non costituisce comunque un alibi per quei pochi ministri che in questi giorni non hanno avuto il coraggio di contrastare con la stessa forza le pressioni di Sacconi e del Vaticano sul premier.
Il presidente Napolitano è rimasto vittima delle insidie che si nascondono dietro ogni dinamica di Palazzo informale e non alla luce del sole. Meglio avrebbe fatto a limitarsi a far trapelare le sue perplessità, ma senza anticipare che non avrebbe firmato. Probabilmente il governo avrebbe approvato comunque il decreto, ma forse non all'unanimità, e oggi le divisioni al suo interno sarebbero potute emergere.
La cosa più triste è che nonostante la delicatezza del caso su cui doveva decidere, il governo non ha rinunciato ai calcoli e ai tatticismi politici, ad astuzie meschine, al solo fine di scaricare su Napolitano (e poi sulle Camere) addirittura la responsabilità della morte di Eluana. L'impressione disgustosa che si ha, infatti, è che Berlusconi abbia fatto bene i suoi calcoli, potendo contare con certezza sul rifiuto della firma da parte del presidente. In ogni caso, né il decreto (che non sarebbe stato emanato) né il ddl (che non sarà approvato in tempo) sarebbero intervenuti sul caso Englaro. Il governo avrà in ogni caso accontentato il Vaticano e assunto una posizione-manifesto per il diritto alla vita, scaricando su Napolitano prima, che ha negato la sua firma al decreto, sulle Camere poi, che non avranno approvato in tempo utile il ddl, la responsabilità della morte di Eluana. Ed è probabile che, se la morte di Eluana sopraggiungerà prima della conclusione dell'iter del ddl, le Camere decidano di tornare all'esame di una legge organica in Commissione.
Friday, February 06, 2009
Rottura con il passato. Berlusconi sceglie lo stato etico
Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l'individuo è sovrano.
John Stuart Mill
Un Vaticano scatenato come mai prima, una politica in parte inginocchiata, in parte intrisa di una irriducibile ideologia statalista. Un governo che si fa coerente interprete dello stato etico in cui viviamo da 80 anni e violenta il corpo martoriato di una cittadina inerme.
Con il decreto approvato oggi in Cdm, e il disegno di legge che probabilmente verrà presentato alle Camere lunedì, per la prima volta Berlusconi ha deciso di coinvolgere formalmente il suo governo in una battaglia sulle questioni etiche, segnando la fine di quella libertà di coscienza che aveva da sempre rivendicato essere la linea del suo partito su quei temi. Una rottura con il passato che proprio alla vigilia della nascita del PdL può rivelarsi un macigno. Un partito che mira al 40% dei voti e ad essere maggioritario nel Paese non può su questi temi nascere su posizioni estremiste estranee alla maggioranza degli italiani e persino dei suoi elettori.
Il presidente Napolitano ha commesso un solo errore in questa vicenda. Inviando la lettera con il suo no preventivo al decreto mentre era in corso la riunione del Consiglio dei ministri - iniziativa in effetti assai discutibile sotto il profilo istituzionale - ha di fatto ricompattato il governo, perché a quel punto, soprassadendo, l'esecutivo avrebbe avvalorato un potere di vaglio preventivo sulla decretazione d'urgenza da parte del presidente della Repubblica. Quanto meno, è stato questo l'argomento usato per convincere i ministri più riottosi.
Per il resto il presidente ha giustamente rilevato la mancanza dei requisiti di urgenza e necessità per l'emanazione del decreto. Se infatti si sostenesse che i requisiti si siano determinati in conseguenza del caso Englaro, allora si ammetterebbe che si tratta di un decreto ad personam, confermando la sua incostituzionalità; ma viceversa, nessun fatto nuovo sarebbe emerso sulle questioni di fine vita tale da rendere un decreto urgente e necessario. A meno che il governo non sia disposto ad ammettere di essersi accorto solo oggi che nelle strutture sanitarie pubbliche migliaia di pazienti vengono "uccisi".
Ma può il presidente della Repubblica eccepire sulla costituzionalità di un decreto e rifiutarsi di firmarlo? Oppure sui decreti, in quanto atti governativi («sotto la sua responsabilità», recita l'art. 77 riferendosi al governo), la firma presidenziale è da considerarsi un "atto dovuto", notarile? La questione è quanto meno controversa.
Quanto al mancato rispetto della sentenza della Cassazione, a mio avviso è un argomento irrilevante. Il governo e il Parlamento sarebbero infatti pienamente legittimati a legiferare per riempire un vuoto normativo, o correggere una legge, che avessero determinato una certa sentenza.
Ma ciò che nessuna formulazione del decreto avrebbe mai potuto superare, pena la sua inefficacia allo scopo che si erano prefissi i proponenti, è il contrasto della norma con gli artt. 3, 13 e 32 della Costituzione.
Nella seconda bozza del decreto, hanno sostenuto Berlusconi e Sacconi, sono stati accolti i rilievi tecnico-giuridici avanzati dal costituzionalista Onida. Il quale però ha negato, e ha spiegato che porre come limite temporale del divieto di sospendere alimentazione e idratazione artificiali l'approvazione di una legge sul testamento biologico da parte del Parlamento non è comunque sufficiente a rendere costituzionale l'intervento del governo. La prima bozza, infatti, era «costituzionalmente impropria» non solo perché di fatto anticipava la volontà del Parlamento sul testamento biologico, ma soprattutto perché «contrastante con l'art. 32 della Costituzione», nel punto in cui prevedeva che l'alimentazione e l'idratazione non potessero essere in nessun caso rifiutate dai soggetti interessati.
Questo contrasto con la Costituzione è inevitabilmente rimasto anche nella bozza di decreto approvata dal CdM:
Dunque, non è affatto vero che per il governo e per i sostenitori del divieto di sospensione dei trattamenti il problema consista nell'incertezza sulla reale volontà di Eluana. Anche se potesse esprimersi oggi, questo decreto le negherebbe l'accoglimento delle sue richieste. Ed è ciò che rende il decreto incostituzionale. Non solo il decreto, ma qualsiasi legge che escludesse del tutto la possibilità per un cittadino di rifiutare alimentazione e idratazione, sia naturali che per mezzi artificiali, sarebbe incostituzionale.
Riguardo la pesante ingerenza del Vaticano, il portavoce Padre Lombardi ha smentito «nel modo più categorico» la conversazione telefonica tra il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, e il presidente del Consiglio italiano, riportata questa mattina da un quotidiano. Ma Lombardi non può non essersi accorto che su un altro autorevole quotidiano, il Corriere della Sera, si faceva riferimento ai colloqui che solo ieri Berlusconi avrebbe avuto con monsignor Betori, già segretario generale della Cei, e con il cardinale Bagnasco, presidente della Cei. Evidentemente, dobbiamo supporre, questi colloqui non era in grado di smentirli.
John Stuart Mill
Un Vaticano scatenato come mai prima, una politica in parte inginocchiata, in parte intrisa di una irriducibile ideologia statalista. Un governo che si fa coerente interprete dello stato etico in cui viviamo da 80 anni e violenta il corpo martoriato di una cittadina inerme.
Con il decreto approvato oggi in Cdm, e il disegno di legge che probabilmente verrà presentato alle Camere lunedì, per la prima volta Berlusconi ha deciso di coinvolgere formalmente il suo governo in una battaglia sulle questioni etiche, segnando la fine di quella libertà di coscienza che aveva da sempre rivendicato essere la linea del suo partito su quei temi. Una rottura con il passato che proprio alla vigilia della nascita del PdL può rivelarsi un macigno. Un partito che mira al 40% dei voti e ad essere maggioritario nel Paese non può su questi temi nascere su posizioni estremiste estranee alla maggioranza degli italiani e persino dei suoi elettori.
Il presidente Napolitano ha commesso un solo errore in questa vicenda. Inviando la lettera con il suo no preventivo al decreto mentre era in corso la riunione del Consiglio dei ministri - iniziativa in effetti assai discutibile sotto il profilo istituzionale - ha di fatto ricompattato il governo, perché a quel punto, soprassadendo, l'esecutivo avrebbe avvalorato un potere di vaglio preventivo sulla decretazione d'urgenza da parte del presidente della Repubblica. Quanto meno, è stato questo l'argomento usato per convincere i ministri più riottosi.
Per il resto il presidente ha giustamente rilevato la mancanza dei requisiti di urgenza e necessità per l'emanazione del decreto. Se infatti si sostenesse che i requisiti si siano determinati in conseguenza del caso Englaro, allora si ammetterebbe che si tratta di un decreto ad personam, confermando la sua incostituzionalità; ma viceversa, nessun fatto nuovo sarebbe emerso sulle questioni di fine vita tale da rendere un decreto urgente e necessario. A meno che il governo non sia disposto ad ammettere di essersi accorto solo oggi che nelle strutture sanitarie pubbliche migliaia di pazienti vengono "uccisi".
Ma può il presidente della Repubblica eccepire sulla costituzionalità di un decreto e rifiutarsi di firmarlo? Oppure sui decreti, in quanto atti governativi («sotto la sua responsabilità», recita l'art. 77 riferendosi al governo), la firma presidenziale è da considerarsi un "atto dovuto", notarile? La questione è quanto meno controversa.
Quanto al mancato rispetto della sentenza della Cassazione, a mio avviso è un argomento irrilevante. Il governo e il Parlamento sarebbero infatti pienamente legittimati a legiferare per riempire un vuoto normativo, o correggere una legge, che avessero determinato una certa sentenza.
Ma ciò che nessuna formulazione del decreto avrebbe mai potuto superare, pena la sua inefficacia allo scopo che si erano prefissi i proponenti, è il contrasto della norma con gli artt. 3, 13 e 32 della Costituzione.
Nella seconda bozza del decreto, hanno sostenuto Berlusconi e Sacconi, sono stati accolti i rilievi tecnico-giuridici avanzati dal costituzionalista Onida. Il quale però ha negato, e ha spiegato che porre come limite temporale del divieto di sospendere alimentazione e idratazione artificiali l'approvazione di una legge sul testamento biologico da parte del Parlamento non è comunque sufficiente a rendere costituzionale l'intervento del governo. La prima bozza, infatti, era «costituzionalmente impropria» non solo perché di fatto anticipava la volontà del Parlamento sul testamento biologico, ma soprattutto perché «contrastante con l'art. 32 della Costituzione», nel punto in cui prevedeva che l'alimentazione e l'idratazione non potessero essere in nessun caso rifiutate dai soggetti interessati.
Questo contrasto con la Costituzione è inevitabilmente rimasto anche nella bozza di decreto approvata dal CdM:
«In attesa dell'approvazione di una completa ed organica disciplina legislativa in materia di fine vita, l'alimentazione e idratazione in quanto forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze, non possono in alcun caso essere sospese da chi assiste soggetti non in grado di provvedere a se stessi».Attenzione a laddove si dice «non in grado di provvedere a se stessi», perché con questa espressione ci si riferisce sia a soggetti incoscienti che coscienti e capaci di intendere e volere ma, per esempio, non in grado di muoversi e, appunto, di provvedere autonomamente a se stessi.
Dunque, non è affatto vero che per il governo e per i sostenitori del divieto di sospensione dei trattamenti il problema consista nell'incertezza sulla reale volontà di Eluana. Anche se potesse esprimersi oggi, questo decreto le negherebbe l'accoglimento delle sue richieste. Ed è ciò che rende il decreto incostituzionale. Non solo il decreto, ma qualsiasi legge che escludesse del tutto la possibilità per un cittadino di rifiutare alimentazione e idratazione, sia naturali che per mezzi artificiali, sarebbe incostituzionale.
Riguardo la pesante ingerenza del Vaticano, il portavoce Padre Lombardi ha smentito «nel modo più categorico» la conversazione telefonica tra il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, e il presidente del Consiglio italiano, riportata questa mattina da un quotidiano. Ma Lombardi non può non essersi accorto che su un altro autorevole quotidiano, il Corriere della Sera, si faceva riferimento ai colloqui che solo ieri Berlusconi avrebbe avuto con monsignor Betori, già segretario generale della Cei, e con il cardinale Bagnasco, presidente della Cei. Evidentemente, dobbiamo supporre, questi colloqui non era in grado di smentirli.
Thursday, February 05, 2009
Un decreto-stupro. Il governo salvi se stesso, non violenti Eluana
C'è da immaginare che in queste ore stia infuriando la battaglia tra i membri del governo favorevoli e quelli contrari a un decreto legge per impedire a Eluana Englaro di andarsene come avrebbe desiderato. Sono davvero rimasto sgomento quando stamani ho appreso le ultime parole di Berlusconi: «Stiamo lavorando per intervenire».
Cos'era cambiato dalle parole pronunciate solo ieri, quando a una domanda sul caso Englaro aveva risposto esattamente il contrario: «Non voglio intervenire»? Se Berlusconi - sempre disinteressato ai temi etici, quasi infastidito, e sempre attento ai sondaggi - scegliesse di dar corso a questa idea del decreto, sarebbe solo per fare un favore al Vaticano.
E' indubbio infatti che in queste ore siano state fortissime le pressioni esercitate dai più alti ambienti ecclesiastici tramite il solito canale - quel Gianni Letta apprezzato in modo bipartisan, ma che ho sempre ritenuto un pericoloso Richelieu, per la sua capacità di influenzare il "principe" frenandone gli slanci più riformatori.
Da una parte tutto il peso del Vaticano, dall'altra i pochi membri del governo e della maggioranza di buon senso. In mezzo, decisivo, Berlusconi. Speriamo che anche questa volta prevalga in lui l'istinto che lo porta a inseguire il consenso popolare. Un'altra certezza infatti, è da che parte stia l'opinione pubblica. Una maggioranza schiacciante di italiani ritiene che il papà di Eluana abbia tutto il diritto di compiere la volontà della figlia. E, in ogni caso, dubito che ci sia più di qualche fanatico che ritenga che il governo debba entrare nella vicenda dolorosissima, e privatissima, di una famiglia.
Tra l'altro, ogni paragone con il caso Terry Schiavo non regge. Era simile dal punto di vista clinico, ma di mezzo c'era una famiglia spaccata, una ricostruzione non univoca della sua volontà e una enorme somma di denaro, oltre un milione di dollari mi pare.
Certo, se la prepotenza del Vaticano avesse la meglio sull'attaccamento di Berlusconi al consenso popolare, ci sarebbe davvero di che preoccuparsi per l'indipendenza del nostro paese dallo Stato del Vaticano. Ma se Berlusconi avrà la forza di dire no, di soprassedere, dovrà ringraziare oltre al suo istinto anche il presidente Napolitano, Fini, forse anche Bossi, e un pugno di persone di buon senso di cui si è circondato, che gli avranno impedito di commettere un grave errore, umano e politico. Un decreto siffatto sarebbe incostituzionale, perché costringere una persona ad alimentarsi contro la sua volontà, per vie naturali o artificialmente, comporterebbe esiti di una violenza inaudita (vicini alla tortura) sul corpo di quella stessa persona, che contrasterebbero con tutti i più banali principi della carta costituzionale.
Inoltre, il governo ne ricaverebbe un grande danno d'immagine. Qualsiasi mistificazione mediatica non riuscirebbe a nascondere l'evidenza dei fatti: lo Stato contro una famiglia, la famiglia. Il governo contro un papà e una mamma sfiniti dal dolore che vogliono solo far riposare in pace la loro bambina, da 17 anni imprigionata nel suo corpo divenuto un vegetale. Una simile prepotenza ripugnerebbe chiunque, perché chiunque penserebbe a se stesso e alla sua famiglia in quella situazione. Di fronte a questo Leviatano, a questo Golia, si leverebbe Beppino Englaro, un uomo determinato, lucido, che conosce i suoi diritti, che sa comunicare davanti alle telecamere tutto il suo amore per la figlia e per la libertà. Neanche il più popolare dei governi uscirebbe indenne da un simile confronto.
Tra poche ore sapremo se ancora una volta dovremo vergognarci del nostro stato e avremo un motivo in più per espatriare. Che cosa noi italiani dobbiamo arrivare a fare per riaffermare che siamo padroni del nostro corpo? Chi, se non lo siamo noi stessi, è il padrone dei nostri corpi? Speriamo che non ci voglia uno Jan Palach italiano per ricordarci tragicamente che uno stato può toglierti tutte le libertà, ma non la libertà sul tuo corpo e la tua coscienza.
Cos'era cambiato dalle parole pronunciate solo ieri, quando a una domanda sul caso Englaro aveva risposto esattamente il contrario: «Non voglio intervenire»? Se Berlusconi - sempre disinteressato ai temi etici, quasi infastidito, e sempre attento ai sondaggi - scegliesse di dar corso a questa idea del decreto, sarebbe solo per fare un favore al Vaticano.
E' indubbio infatti che in queste ore siano state fortissime le pressioni esercitate dai più alti ambienti ecclesiastici tramite il solito canale - quel Gianni Letta apprezzato in modo bipartisan, ma che ho sempre ritenuto un pericoloso Richelieu, per la sua capacità di influenzare il "principe" frenandone gli slanci più riformatori.
Da una parte tutto il peso del Vaticano, dall'altra i pochi membri del governo e della maggioranza di buon senso. In mezzo, decisivo, Berlusconi. Speriamo che anche questa volta prevalga in lui l'istinto che lo porta a inseguire il consenso popolare. Un'altra certezza infatti, è da che parte stia l'opinione pubblica. Una maggioranza schiacciante di italiani ritiene che il papà di Eluana abbia tutto il diritto di compiere la volontà della figlia. E, in ogni caso, dubito che ci sia più di qualche fanatico che ritenga che il governo debba entrare nella vicenda dolorosissima, e privatissima, di una famiglia.
Tra l'altro, ogni paragone con il caso Terry Schiavo non regge. Era simile dal punto di vista clinico, ma di mezzo c'era una famiglia spaccata, una ricostruzione non univoca della sua volontà e una enorme somma di denaro, oltre un milione di dollari mi pare.
Certo, se la prepotenza del Vaticano avesse la meglio sull'attaccamento di Berlusconi al consenso popolare, ci sarebbe davvero di che preoccuparsi per l'indipendenza del nostro paese dallo Stato del Vaticano. Ma se Berlusconi avrà la forza di dire no, di soprassedere, dovrà ringraziare oltre al suo istinto anche il presidente Napolitano, Fini, forse anche Bossi, e un pugno di persone di buon senso di cui si è circondato, che gli avranno impedito di commettere un grave errore, umano e politico. Un decreto siffatto sarebbe incostituzionale, perché costringere una persona ad alimentarsi contro la sua volontà, per vie naturali o artificialmente, comporterebbe esiti di una violenza inaudita (vicini alla tortura) sul corpo di quella stessa persona, che contrasterebbero con tutti i più banali principi della carta costituzionale.
Inoltre, il governo ne ricaverebbe un grande danno d'immagine. Qualsiasi mistificazione mediatica non riuscirebbe a nascondere l'evidenza dei fatti: lo Stato contro una famiglia, la famiglia. Il governo contro un papà e una mamma sfiniti dal dolore che vogliono solo far riposare in pace la loro bambina, da 17 anni imprigionata nel suo corpo divenuto un vegetale. Una simile prepotenza ripugnerebbe chiunque, perché chiunque penserebbe a se stesso e alla sua famiglia in quella situazione. Di fronte a questo Leviatano, a questo Golia, si leverebbe Beppino Englaro, un uomo determinato, lucido, che conosce i suoi diritti, che sa comunicare davanti alle telecamere tutto il suo amore per la figlia e per la libertà. Neanche il più popolare dei governi uscirebbe indenne da un simile confronto.
Tra poche ore sapremo se ancora una volta dovremo vergognarci del nostro stato e avremo un motivo in più per espatriare. Che cosa noi italiani dobbiamo arrivare a fare per riaffermare che siamo padroni del nostro corpo? Chi, se non lo siamo noi stessi, è il padrone dei nostri corpi? Speriamo che non ci voglia uno Jan Palach italiano per ricordarci tragicamente che uno stato può toglierti tutte le libertà, ma non la libertà sul tuo corpo e la tua coscienza.
Tuesday, February 03, 2009
Il sequestro di un individuo in una persona
Difficile parlare di Eluana, ma anche non parlarne. Credo che un rispettoso silenzio sia sempre una virtù, ma che in questo caso - che il papà di Eluana ha voluto socraticamente portare alla conoscenza dell'opinione pubblica e dibattere con le autorità civili del suo paese - le parole non siano fuori luogo.
Eluana sta per morire una seconda volta e quindi questi non possono che essere giorni tristissimi per la famiglia di Eluana. Un po' di sollievo può certamente recarlo la consapevolezza di essere riusciti a far valere la volontà della loro figlia. Morire due volte è triste, ma lo è anche tutto ciò che c'è stato in mezzo, ciò che ha passato: il sequestro di un individuo in una persona. Perché quando tra i due termini non c'è equilibrio, c'è sofferenza e talvolta la condizione umana diventa insopportabile.
Guardando a quei quattro fanatici che ieri notte hanno provato a sbarrare la strada a Eluana, e ai tanti che ci sono riusciti per questi lunghi anni, confesso che per un istante ho temuto: se sono disposti ad accanirsi in questo modo su corpi inermi e sofferenze inaudite, figuriamoci cosa sarebero disposti a fare per limitare la libertà di chi è in grado di agire autonomamente. Invece no, mi sono detto. Sono fanatici ma anche vigliacchi. Sono forti con i deboli, ma deboli con i forti. Sono certo che non avrebbero il coraggio di sbarrare la strada a uno di noi, a qualcuno nel pieno possesso delle sue facoltà fisiche e psichiche. Si attaccano a Eluana perché Eluana non può mandarli affanculo.
E' ignoranza allo stato puro quella che fa dire a Eugenia Roccella che c'è una «incompatibilità oggettiva tra il Servizio sanitario nazionale e l'applicazione del decreto della Corte d'appello di Milano». Come se il Ssn fosse sovrano e non soggetto alle leggi di questo paese. Si faccia vedere da uno bravo, Eugenia.
Berlusconi ha taciuto, come sempre sui temi etici. Mentre Fini ha dimostrato buon senso, senso della realtà ma anche e soprattutto sintonia con la sensibilità della maggior parte degli elettori anche di centrodestra:
Non è il momento di parlare di leggi. Ma una cosa è certa: la libertà non è un bene acquisito una volta per sempre, ma una conquista giorno per giorno. Ci sarà da guadagnarcela, persino a dispetto di quelli che in buona fede, per protagonismo o idolatria dello stato e della politica, si battono per una legge comunque, basta che porti il loro nome tra le firme in calce.
Eluana sta per morire una seconda volta e quindi questi non possono che essere giorni tristissimi per la famiglia di Eluana. Un po' di sollievo può certamente recarlo la consapevolezza di essere riusciti a far valere la volontà della loro figlia. Morire due volte è triste, ma lo è anche tutto ciò che c'è stato in mezzo, ciò che ha passato: il sequestro di un individuo in una persona. Perché quando tra i due termini non c'è equilibrio, c'è sofferenza e talvolta la condizione umana diventa insopportabile.
Guardando a quei quattro fanatici che ieri notte hanno provato a sbarrare la strada a Eluana, e ai tanti che ci sono riusciti per questi lunghi anni, confesso che per un istante ho temuto: se sono disposti ad accanirsi in questo modo su corpi inermi e sofferenze inaudite, figuriamoci cosa sarebero disposti a fare per limitare la libertà di chi è in grado di agire autonomamente. Invece no, mi sono detto. Sono fanatici ma anche vigliacchi. Sono forti con i deboli, ma deboli con i forti. Sono certo che non avrebbero il coraggio di sbarrare la strada a uno di noi, a qualcuno nel pieno possesso delle sue facoltà fisiche e psichiche. Si attaccano a Eluana perché Eluana non può mandarli affanculo.
E' ignoranza allo stato puro quella che fa dire a Eugenia Roccella che c'è una «incompatibilità oggettiva tra il Servizio sanitario nazionale e l'applicazione del decreto della Corte d'appello di Milano». Come se il Ssn fosse sovrano e non soggetto alle leggi di questo paese. Si faccia vedere da uno bravo, Eugenia.
Berlusconi ha taciuto, come sempre sui temi etici. Mentre Fini ha dimostrato buon senso, senso della realtà ma anche e soprattutto sintonia con la sensibilità della maggior parte degli elettori anche di centrodestra:
«Invidio chi ha certezze sul caso Englaro. Personalmente non ne ho, né religiose né scientifiche. Ho solo dubbi, uno su tutti: qual è e dov'è il confine tra un essere vivente e un vegetale? Penso che solo i genitori di Eluana abbiano il diritto di fornire una risposta. E avverto il dovere di rispettarla».E' questa la voce di una destra per la quale i valori non sono idoli astratti sui cui altari sacrificare la libertà.
Non è il momento di parlare di leggi. Ma una cosa è certa: la libertà non è un bene acquisito una volta per sempre, ma una conquista giorno per giorno. Ci sarà da guadagnarcela, persino a dispetto di quelli che in buona fede, per protagonismo o idolatria dello stato e della politica, si battono per una legge comunque, basta che porti il loro nome tra le firme in calce.
Da non perdere
Christian Rocca torna a trattare la complessa questione giuridica stato di diritto-sicurezza nazionale. L'aveva già fatto, ma è sempre utile tornarci, per i pochi - ahimé - interessati a capire e a non accontentarsi delle banalità che si sentono e si leggono sui mainstream media.
Il problema della detenzione dei terroristi non nasce con l'11 settembre, né per la cattiveria di Bush, anche se dopo l'11 settembre e con Bush ha assunto una enorme visibilità. E' un problema giuridico complesso, perché ai terroristi è difficilmente applicabile lo status di belligeranti secondo la Convenzione di Ginevra. Una «convenzione» sulla quale - come dice il nome stesso - tutte le parti in conflitto (gli stati) devono convenire.
Enzo Reale torna su Charta 08, l'appello per le riforme democratiche in Cina sottoscritto da migliaia di cittadini cinesi, sia famosi dissidenti che gente comune.
Il problema della detenzione dei terroristi non nasce con l'11 settembre, né per la cattiveria di Bush, anche se dopo l'11 settembre e con Bush ha assunto una enorme visibilità. E' un problema giuridico complesso, perché ai terroristi è difficilmente applicabile lo status di belligeranti secondo la Convenzione di Ginevra. Una «convenzione» sulla quale - come dice il nome stesso - tutte le parti in conflitto (gli stati) devono convenire.
Enzo Reale torna su Charta 08, l'appello per le riforme democratiche in Cina sottoscritto da migliaia di cittadini cinesi, sia famosi dissidenti che gente comune.
«Non è tanto la diffusione del testo tra la popolazione quanto la coerenza e la novità dei principi esposti a rappresentare un punto di rottura destinato a produrre conseguenze, lentamente ma inesorabilmente... per i nemici o gli scettici della democrazia, c'è sempre una scusa per ritardare la fine dell'autoritarismo: o perché le cose vanno troppo bene e vuoi mica toccarle, o perché vanno male e allora perché infierire, o perché ci pensa il Partito a riformarsi e siamo ancora tutti qui ad aspettare».E il regime studia le tattiche migliori per reprimere il fenomeno sul nascere. Ne è un esempio il comunicato appeso nella bacheca dell'Università di Legge di Pechino. Su 1972.
Neanche per i tedeschi il caso è chiuso
Oltre che per gli ebrei, anche per i tedeschi il caso non si è chiuso con le scuse dei lefebvriani (al Papa, non agli ebrei), e con le parole di Ratzinger, che pur condannando il negazionismo (e vorrei vedere) non spiegano come mai un vescovo negazionista sia stato riammesso nella Chiesa cattolica, e ai più alti livelli della gerarchia.
Evidentemente se lo deve essere chiesto anche il cancelliere tedesco, Angela Merkel, arrivando alla conclusione che i chiarimenti del Vaticano sono «insufficienti».
Evidentemente se lo deve essere chiesto anche il cancelliere tedesco, Angela Merkel, arrivando alla conclusione che i chiarimenti del Vaticano sono «insufficienti».
«Se una decisione del Vaticano fa emergere l'impressione che l'Olocausto possa essere negato, questa deve essere chiarita. Da parte del Vaticano e del Papa deve essere affermato molto chiaramente che non ci può essere alcuna negazione sull'argomento. Dal mio punto di vista questi chiarimenti non ci sono ancora stati in modo sufficiente».Chissà se a Berlino, in qualche cassetto o su qualche scaffale, hanno qualche dossier su Ratzi...
Monday, February 02, 2009
Primo atto di Obamanomics, ma un'opposizione c'è ancora
Dal primo, fondamentale, atto legislativo della presidenza Obama impareremo qualcosa di più dell'obamanomics che da tutti i dibattiti e i discorsi del lungo anno elettorale alle nostre spalle. Il pacchetto anti-crisi sembra arrivare all'esame del Congresso in un clima di generale unanimismo. L'entusiasmo che circonda il nuovo presidente e l'urgenza di rimedi, quali essi siano, contro la recessione, contribuiscono ad alimentare una forte pressione sui legislatori, chiamati "vox populi" ad una rapida approvazione del piano, anche a scapito di un dibattito aperto.
Ma sotto questa apparente coltre di conformismo, un'opposizione c'è ancora. Quella dei repubblicani alla Camera, compatta come poche volte nonostante le sirene bipartisan di Obama. E quella di pochi e autorevoli think tank. La scorsa settimana il Cato Institute ha fatto pubblicare sulle pagine dei principali quotidiani d'America un manifesto, sottoscritto da centinaia di economisti, per smentire l'azzardata affermazione presidenziale secondo cui gli economisti di ogni scuola di pensiero sosterrebbero la necessità di un aumento della spesa pubblica per stimolare l'economia: «Presidente, con tutto il dovuto rispetto, non è vero. Noi dissentiamo».
Sul Wall Street Journal, Alan Reynolds ha colto alcune contraddizioni del piano: «Stranamente la maggior parte della spesa è indirizzata a settori dell'economia dove la disoccupazione è più bassa». Reynolds ha calcolato che se anche il piano funzionasse, ciascuno dei posti di lavoro salvato o creato costerebbe 275 mila dollari, addirittura 646 mila per ciascun posto nel pubblico impiego. Inoltre, 290 degli 825 miliardi di dollari stanziati non saranno spesi prima del 2011, quando persino per le più pessimistiche previsioni l'economia si starà riprendendo.
In uno studio sugli effetti dello «shock fiscale», Andrew Mountford, della University of London, e Harald Uhlig, dell'università di Chicago, sostengono che «la migliore politica fiscale per stimolare l'economia sarebbe un taglio fiscale finanziato in deficit», e che «i costi di lungo termine dell'espansione della spesa pubblica sono probabilmente maggiori dei benefici nel breve termine».
Lawrence B. Lindsey, dell'American Enterprise Institute, osserva che con la stessa somma di denaro il governo avrebbe potuto mettere 1.500 dollari direttamente nelle tasche di un lavoratore medio e una somma simile in quelle del suo datore di lavoro. «Un errore da 800 miliardi», è il giudizio di Martin Feldstein, che contesta non l'entità della somma, ma l'inefficacia delle misure. L'esperienza dimostra che i soldi in più che entrano nelle tasche dei cittadini da tagli alle tasse temporanei e forfettari vengono per lo più risparmiati o usati per ripianare debiti già contratti. Per incentivare famiglie e imprese ad accrescere consumi, investimenti e quindi occupazione, i tagli fiscali dovrebbero essere permanenti.
E' questo il cuore del piano alternativo elaborato da J. D. Foster e William Beach, della Heritage Foundation, e sostenuto con forza dal senatore repubblicano della Carolina del Sud Jim DeMint, che attacca il piano del presidente: «E' il peggiore pezzo di legislazione economica negli ultimi 100 anni... E' basato sulla speranza, non sulla realtà». Degli 825 miliardi, denuncia, una minima parte è destinata alle infrastrutture ai tagli fiscali per le imprese. Degli 825 miliardi, denuncia, una minima parte è destinata alle infrastrutture e ai tagli fiscali per le imprese. A beneficiare del pacchetto saranno in realtà la base elettorale e le clientele dei Democratici. Altro che un'economia più simile a quelle europee, i Democratici «vogliono legare un razzo alla nostra economia e lanciarla direttamente a Bruxelles!»
Solo l'"Opzione americana", mettere più di mille miliardi nelle mani di lavoratori e imprese, «può salvare la nostra economia da una inesorabile deriva verso una socialdemocrazia di tipo europeo».
Lo scenario negativo paventato dagli economisti della Brookings è interessante anche in chiave italiana, perché descrive esattamente ciò che tiene il nostro paese al palo. La spesa necessaria per stabilizzare i mercati finanziari e rilanciare l'economia, avvertono, provocherà «un grande aumento del nostro debito pubblico».
Ma sotto questa apparente coltre di conformismo, un'opposizione c'è ancora. Quella dei repubblicani alla Camera, compatta come poche volte nonostante le sirene bipartisan di Obama. E quella di pochi e autorevoli think tank. La scorsa settimana il Cato Institute ha fatto pubblicare sulle pagine dei principali quotidiani d'America un manifesto, sottoscritto da centinaia di economisti, per smentire l'azzardata affermazione presidenziale secondo cui gli economisti di ogni scuola di pensiero sosterrebbero la necessità di un aumento della spesa pubblica per stimolare l'economia: «Presidente, con tutto il dovuto rispetto, non è vero. Noi dissentiamo».
Sul Wall Street Journal, Alan Reynolds ha colto alcune contraddizioni del piano: «Stranamente la maggior parte della spesa è indirizzata a settori dell'economia dove la disoccupazione è più bassa». Reynolds ha calcolato che se anche il piano funzionasse, ciascuno dei posti di lavoro salvato o creato costerebbe 275 mila dollari, addirittura 646 mila per ciascun posto nel pubblico impiego. Inoltre, 290 degli 825 miliardi di dollari stanziati non saranno spesi prima del 2011, quando persino per le più pessimistiche previsioni l'economia si starà riprendendo.
In uno studio sugli effetti dello «shock fiscale», Andrew Mountford, della University of London, e Harald Uhlig, dell'università di Chicago, sostengono che «la migliore politica fiscale per stimolare l'economia sarebbe un taglio fiscale finanziato in deficit», e che «i costi di lungo termine dell'espansione della spesa pubblica sono probabilmente maggiori dei benefici nel breve termine».
Lawrence B. Lindsey, dell'American Enterprise Institute, osserva che con la stessa somma di denaro il governo avrebbe potuto mettere 1.500 dollari direttamente nelle tasche di un lavoratore medio e una somma simile in quelle del suo datore di lavoro. «Un errore da 800 miliardi», è il giudizio di Martin Feldstein, che contesta non l'entità della somma, ma l'inefficacia delle misure. L'esperienza dimostra che i soldi in più che entrano nelle tasche dei cittadini da tagli alle tasse temporanei e forfettari vengono per lo più risparmiati o usati per ripianare debiti già contratti. Per incentivare famiglie e imprese ad accrescere consumi, investimenti e quindi occupazione, i tagli fiscali dovrebbero essere permanenti.
E' questo il cuore del piano alternativo elaborato da J. D. Foster e William Beach, della Heritage Foundation, e sostenuto con forza dal senatore repubblicano della Carolina del Sud Jim DeMint, che attacca il piano del presidente: «E' il peggiore pezzo di legislazione economica negli ultimi 100 anni... E' basato sulla speranza, non sulla realtà». Degli 825 miliardi, denuncia, una minima parte è destinata alle infrastrutture ai tagli fiscali per le imprese. Degli 825 miliardi, denuncia, una minima parte è destinata alle infrastrutture e ai tagli fiscali per le imprese. A beneficiare del pacchetto saranno in realtà la base elettorale e le clientele dei Democratici. Altro che un'economia più simile a quelle europee, i Democratici «vogliono legare un razzo alla nostra economia e lanciarla direttamente a Bruxelles!»
Solo l'"Opzione americana", mettere più di mille miliardi nelle mani di lavoratori e imprese, «può salvare la nostra economia da una inesorabile deriva verso una socialdemocrazia di tipo europeo».
«Invece di espandere il governo, dove gli sprechi e la corruzione imperano, espandiamo il settore privato, dove fiorisce l'innovazione. Invece di dare il potere e il controllo della nostra economia ai politici e ai burocrati, diamo agli americani e alle piccole imprese la libertà di spendere e investire i loro soldi».Sebbene con un diverso approccio, diversi argomenti e, soprattutto, diversi toni, anche alla clintoniana Brookings Institution si rendono conto dei rischi derivanti da un aumento incontrollato della spesa pubblica. Se stabilizzare i mercati finanziari per assicurare un'ampia e accessibile offerta di credito e attenuare la recessione sono gli obiettivi del momento, il presidente Obama non può scordarsi che la sfida decisiva nel lungo termine è assicurare al paese una crescita economica duratura e un bilancio sostenibile nel tempo, controllando la crescita dei costi sanitari e previdenziali e riformando il sistema fiscale. Le soluzioni ai problemi di breve termine non dovranno rendere più difficile centrare gli obiettivi di lungo termine.
Lo scenario negativo paventato dagli economisti della Brookings è interessante anche in chiave italiana, perché descrive esattamente ciò che tiene il nostro paese al palo. La spesa necessaria per stabilizzare i mercati finanziari e rilanciare l'economia, avvertono, provocherà «un grande aumento del nostro debito pubblico».
«Dovremo prendere in prestito soldi dai mercati di capitali interni ed esteri per finanziare questo debito. Ma senza un serio impegno alla moderazione della spesa, alla fine i prestatori dubiteranno della credibilità dei nostri conti e reagiranno riducendo il credito o applicando tassi di interesse più alti. Se non viene affrontato il problema del bilancio nel lungo termine, gli interessi assorbiranno una quota crescente delle nostre risorse e, insieme ai costi crescenti della sanità e della previdenza sociale, ci impediranno di spendere nei programmi per i poveri, i giovani, e per migliorare le infrastrutture. La nostra dipendenza dai creditori esteri e la risultante ipoteca sulle future entrate diminuiranno gli standard di vita delle generazioni future».Gli economisti della Brookings chiedono a Obama di «non perdere di vista queste scomode verità».
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