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Friday, November 05, 2004

«The End of the Sixties». Il Partito democratico guardi a Roosvelt e Truman

Il radicalismo liberal sorto dalla fine degli anni '60 è davvero defunto. Se ha contribuito a scuotere le istituzioni di un'America in fermento, oggi si conferma un fenomeno di snobismo manieristico, un sinonimo di irresponsabilità politica, e ha finito per inquinare la credibilità di governo del Partito democratico. I democratici devono guardare alla parentesi new democrat clintoniana, o ancora più indietro (Roosvelt e Truman), per liberarsi delle vecchie scorie liberal, tornando a rivolgersi al Paese non temendo di parlare di valori, di potenza e di sicurezza nazionale, ma soprattutto non assecondando la demagogia su tutto che sembra essersi imposessata della loro base. Meno Michael Moore, più senso della realtà e della nazione!

Hugh Hewitt ha avanzato questa analisi sul giornale neoconservatore Weekly Standard. Con John F. Kennedy, e la sconfitta di Nixon, l'America è entrata negli anni '60. L'11 settembre 2001 ne è uscita, ma solo con la rielezione di Bush e la sconfitta di John F. Kerry gli anni '60 sono stati sepolti. Sono stati sconfitti i retaggi di quegli anni: il radicalismo liberal, il pregiudizio nei confronti dell'uso del potere americano, il «complesso» del Vietnam da cui gli oppositori alla guerra in Iraq sono stati travolti, e la vecchia guardia di leader di Yale, Boston, della East Coast Europe-style. Kerry si è presentato come l'erede di quella tradizione politica, ma l'America è ora proiettata su altri temi e priorità, mentre parte della sinistra non si libera dei vecchi schemi. Hewitt però sa individuare due nuovi leader democratici svincolati dalla vecchia guardia: Ken Salazar e Barak Obama mandano un messaggio al GOP che non può essere ancora ignorato:
«Persuade the ethnic middle class that the policies of economic growth do genuinely work for them and not just their bankers, or understand that the next few years as a majoritarian party will be your last».
Ora può emergere una «nuova sinistra» che «confida nel potere americano messo a servizio della sicurezza in patria e della libertà all'estero». Joe Biden deve essere messo da parte per far posto a Joe Lieberman, serve il partito che fu di Scoop Jackson, poi ci sono Obama e Salazar, ma soprattutto «i fantasmi degli anni '60 devono essere finalmente esorcizzati, o almeno esiliati a Hollywood».

Per David Gelernter (Weekly Standard), la vittoria di Bush oggi è come la vittoria di Truman nel 1948. Non solo perché, come allora, ha rovesciato tutte le previsioni dei primi exit poll, ma anche perché entrambi sono ideatori di due dottrine epocali:
«Bush and Truman each redefined America's world mission for a new era by reapplying traditional American principles. (...) America really doesn't give a damn what Europe or the New York Times or Hollywood or the worldwide professoriate has to say. It tries hard to do right, and more often than not it succeeds.»
In un contesto elettorale dove Kerry era il "reazionario" e Bush il "rivoluzionario":
«Today the Democrats are the timid reactionary party with strong isolationist tendencies. Today "Democrat" equals "Reactionary Liberal." Republicans are the bold internationalist progressives - the "Tory Democrats" envisioned by Benjamin Disraeli, creator of modern conservatism, and by Margaret Thatcher and Ronald Reagan, its late-20th-century champions».
Anche la stampa liberal cerca scuotere il Partito democratico. «51 a 48» sottolinea l'editoriale di New Republic, che, per nulla fiducioso sulle reali intenzioni di Bush in questo secondo mandato, chiede ai liberal di non abbattersi e sdrammatizza: non è morto il liberalismo, è solo una sconfitta elettorale, il paese è spaccato in due metà:
«This country is bigger than its every president. This Constitution is not easy to destroy. This is not the apocalypse. But it is the most formidable challenge to American liberalism in our time».
Non tutta la sinistra è uguale però. I liberal devono abbandonare il «sinistrismo» e i pregiudizi negativi alla Michael Moore e alla Ted Kennedy sul potere americano.
Peter Beinart osserva che Bush non ha vinto un secondo mandato, ma solo evitato una catastrofe, che potrebbe comunque realizzarsi con l'Iraq, e raccomanda ai democratici di evitare due errori: «arruffianarsi» il voto culturalmente conservatore di Bush (è necessaria una nuova generazione di leader del sud più capaci di entrare in sintonia con i valori religiosi, ma senza smarrire i principi anche se in questa battaglia sono stati sconfitti); cedere all'antiamericanismo liberal.

Mentre Salon se la prende con Kerry, su Slate William Saletan ha davvero buoni consigli per risollevare i democratici: tornare ad essere «il partito della responsabilità», il partito che «ricompensa le persone comuni» che fanno il loro dovere. "Se pensate che sia un'anatema, siete la persona che Karl Rove vorrebbe alla guida del Partito democratico":
«Nearly 60 million people came out to vote for George W. Bush yesterday because they think that he represents their values and that you don't. Prove them wrong and you'll be the majority party again».
Il voto dei cristiani, osserva, «non è una minaccia, ma un'opportunità»: i lavoratori socialmente conservatori non credono nel libero mercato, ma nell'etica del lavoro. Mostrando questa contraddizione in Bush voteranno per il partito dell'etica del lavoro. Sulla sicurezza nazionale e la politica estera bisogna tornare a Roosvelt e Truman, quando i democratici non erano percepiti come dei deboli:
«Democrats in the Roosevelt-Truman years didn't have this problem. They called tyrants by their name, and they didn't sound like they were faking it. A party that believes in right and wrong at home must be assertive about right and wrong abroad».

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