Come appariva già chiaro mesi fa, il pacchetto su welfare e pensioni su cui il governo ha chiuso l'accordo con i sindacati non era che un cedimento in attesa dello sfondamento che avrebbe preparato la sinistra massimalista e comunista a ottobre, sotto l'approvazione di una Legge Finanziaria su cui è già calata la condivisibile bocciatura di Mario Monti.
Errore, ancora una volta, dei presunti riformisti e dei pochi sedicenti liberali del centrosinistra, che abbarbicati a quell'accordo come a un salvagente stanno sulla difensiva e non porteranno a casa neanche quello. Se pure riusciranno a resistere agli attacchi della sinistra comunista, si renderanno responsabili di una controriforma che mette a rischio le pensioni future delle giovani generazioni e le impoverisce già oggi togliendo dalle buste paga dei lavoratori flessibili i soldi necessari a mandare in pensione i 58enni.
«Sul welfare la partita è aperta», minaccia Bertinotti, mentre Emma Bonino si scontra con il ministro della Solidarietà sociale, Ferrero: «Il protocollo non si può blindare, va migliorato». Dichiarazioni bollate come «irricevibili» dalla Bonino. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa Prodi, che si è assunto l'onere di trovare la «sintesi».
«Se qualcuno vorrà mettere mano al protocollo sappia che noi ci riterremo liberi di agire in Parlamento di proporre o sostenere modifiche, specie in materia di innalzamento dell'età pensionabile o del mantenimento, così com'è, della legge Maroni». La Bonino e i radicali (tranne Capezzone) difendono la controriforma delle pensioni che mantiene a 58 anni l'età pensionabile, che dal 2008 doveva passare a 60 anni, difendendo così unicamente il Governo Prodi.
Come ho già scritto, per riequilibrare una bilancia che pende da un lato, quello della sinistra massimalista e comunista, bisogna mettersi sul piatto opposto, non accomodarsi in mezzo.
Presentassero subito emendamenti per alzare ulteriormente l'età pensionabile o per mantenere così com'è la legge Maroni. Se il Governo dovesse andare sotto, o cadere, e quindi la riforma Maroni rimanesse in piedi, tutti saremmo grati alla Bonino, ai radicali e ai riformisti, che dimostrerebbero di tenere più alle proprie convinzioni che alle proprie poltrone. Ma sospettiamo che sia il contrario.
Sunday, September 30, 2007
La retorica cattolica ci lavora ai fianchi
«Il capitalismo non va considerato come l'unico modello valido di organizzazione economica»
Abbiamo già commentato le univoche, a nostro avviso, parole di Benedetto XVI sul capitalismo, ma probabilmente Emanuele Severino si spiega meglio.
Ma Benedetto XVI, e la Chiesa cattolica, ragionano in questo modo su tutto: è legittimo ciò che si subordina volentieri alla verità rivelata, e per di più a quella versione specifica tramandata dal cattolicesimo.
Abbiamo già commentato le univoche, a nostro avviso, parole di Benedetto XVI sul capitalismo, ma probabilmente Emanuele Severino si spiega meglio.
Il capitalismo è un agire complesso che però, in ogni sua intrapresa, ha come scopo il profitto, non l'amore del prossimo. Da tempo la Chiesa, pur riconoscendo che «il profitto è naturalmente legittimo», lo condanna quando e in quanto esso voglia essere lo scopo della organizzazione economica. Il profitto è «legittimo» se si mantiene «nella giusta misura»: non come scopo di tale organizzazione ma come mezzo con cui questa realizza lo scopo legittimo, ossia il «bene comune». Un mezzo per realizzare la carità cristiana, l'amore del prossimo.Ma «giusta misura» e «bene comune» sono quei concetti ragionevoli con i quali la retorica cattolica mina alla base qualsiasi attività umana che non voglia essere subordinata alla sua dottrina. Il capitalismo realizza e diffonde il benessere nelle società umane proprio perché lo scopo di tale organizzazione economica non è il «bene comune», ma il profitto indidividuale.
Prescrivendo al capitalismo di avere come scopo il «bene comune» cristianamente inteso, la Chiesa gli prescrive di assumere uno scopo diverso da quello che costituisce l`essenza stessa del capitalismo, ossia di diventare qualcosa di diverso da ciò che esso è... Se il capitalismo nella «giusta misura» assume come scopo non più il profitto ma il «bene comune», allora il capitalismo, dice il pontefice, «è necessario allo sviluppo economico» ma è anche diventato un diverso «modello di organizzazione», che, chiosiamo, del capitalismo e del profitto conserva soltanto il nome.Prescrivendo al capitalismo di avere come scopo il «bene comune», la Chiesa gli prescrive di non essere più capitalismo. E infatti, il Papa aggiunge che «il capitalismo non va considerato come l'unico modello valido di organizzazione economica». A quale altro capitalismo «valido» si riferisce Papa Ratzinger, si chiede quindi Severino, quando afferma che «il capitalismo non va considerato come l'unico modello valido»?
Ma Benedetto XVI, e la Chiesa cattolica, ragionano in questo modo su tutto: è legittimo ciò che si subordina volentieri alla verità rivelata, e per di più a quella versione specifica tramandata dal cattolicesimo.
Anche riguardo alla democrazia il pontefice potrebbe infatti dire che la libertà «è naturalmente legittima nella giusta misura» ed «è necessaria allo sviluppo» politico (dove però la giusta misura è data da una libertà non separata dalla verità cristianamente intesa). Sì che l'unico modello valido di organizzazione politica è la democrazia che non assume come scopo la libertà senza la verità cristiana ma quella il cui scopo è l'unione di libertà e di tale verità (dove il profitto non avente come scopo il «bene comune» sta alla libertà senza verità, così come il profitto avente quello scopo sta alla libertà unita alla verità).Dunque, fate attenzione, quando sentite il Papa o le autorità ecclesiastiche parlare di «giusta misura» e «bene comune». Sembrano ragionevoli, ma sotto c'è la sòla. Il tentativo non tanto di abolire il liberalismo o il capitalismo, ma di sottometterli alla propria autorità morale. Che in effetti è operazione ancor più subdola (e comoda) del contestarne direttamente ed esplicitamente la validità.
L'Ucraina cerca la sua Thatcher
Oggi al voto l'Ucraina e qui si fa il tifo per i due partiti democratici e filo-occidentali, per la coppia Yushenko-Timoshenko. Però si giocheranno la loro ultima occasione per non tradire la rivoluzione arancione, che sembra comunque aver cambiato la mentalità del paese: dovranno restare uniti e procedere con le privatizzazioni in modo trasparente. Questo si attendono i loro elettori.
Intervistata dal Corriere, Yulia Timoshenko, che in caso di vittoria sarà il primo ministro, assicura di voler «lottare per le riforme», di voler essere «la Thatcher di Kiev».
Intervistata dal Corriere, Yulia Timoshenko, che in caso di vittoria sarà il primo ministro, assicura di voler «lottare per le riforme», di voler essere «la Thatcher di Kiev».
«Volevo fare le riforme e lottare contro la corruzione, ma mi trovai sola e gli oligarchi di ogni colore ottennero il mio allontanamento... Che la gente sia delusa è vero. Ma in sei mesi non nasce un bambino, figuriamoci se il mio governo poteva cambiare l'Ucraina. Ora i tempi sono più maturi, io ho imparato a coprirmi le spalle e l'impegno a lottare contro la corruzione ha conservato il suo richiamo. Da noi i profittatori fanno il bello e il cattivo tempo, l'Ucraina non può restare nelle mani di gruppi di magnati che badano esclusivamente ai loro interessi privati. E poi ci serve una magistratura davvero indipendente. L'avventura di piazza Majdan ha cambiato la coscienza collettiva, oggi sono le élites politiche a dover inseguire la nuova consapevolezza popolare».Buoni raporti con Mosca, nella «reciproca sovranità», senza trascurare, serebbe «sciocco», i «legami storici e culturali». D'altra parte, l'ingresso nell'Ue e l'adesione alla Nato rimangono dei modelli, obiettivi a medio-lungo termine, «nei tempi che saranno necessari».
Saturday, September 29, 2007
Il regime spegne le voci della democrazia
Anche oggi alcune migliaia di persone hanno manifestato nella capitale della Birmania, rompendo così il silenzio surreale calato su tutto il paese e lo stato d'assedio imposto dai soldati, che hanno di nuovo caricato, arrestando, picchiando ferocemente i dimostranti, e sparando ancora sulla folla. Imprecisato il numero delle vittime. Intanto, nelle carceri circa trenta monaci buddisti hanno iniziato uno sciopero della fame. (Fonte: Mizzima News)
Pare tuttavia che stia avendo successo la repressione del regime, al di là delle speculazioni su possibili dissidi e spaccature all'interno della Giunta militare riguardo l'uso della forza contro i manifestanti - spaccature che, come abbiamo ipotizzato ieri, potrebbero preludere a un mero "rimpasto" di generali incoraggiato dalla Cina.
Hanno intimidito la popolazione con decine di morti lasciati sulle strade dai colpi sparati dai soldati sulla folla. Hanno militarizzato le due principali città, Yangon e Mandalay. Hanno blindato i monasteri e sigillato il paese in modo che nulla potesse uscire all'esterno. Soprattutto, hanno spento le voci della protesta tagliando le comunicazioni (internet e telefoni): da ore infatti non giungono più nuove immagini significative. Proprio le immagini avevano messo in ginocchio il regime davanti agli occhi di tutto il mondo.
Temiamo quindi che la crisi sia in corso di riassorbimento. E, cosa peggiore, nel silenzio assoluto il regime potrà attuare indisturbato la vera repressione, quella dagli effetti più a lungo termine, sui protagonisti di questi giorni di manifestazioni. Decapitando la leadership e decimando gli oppositori, la Giunta metterà il movimento democratico in condizione di non nuocere per anni.
Sul piano politico ci sarà da riflettere sull'impotenza dei governi occidentali. Il paradosso è che mai, negli ultimi anni, Stati Uniti ed Europa, e le loro opinioni pubbliche, senza differenze politiche sostanziali, avevano condannato una dittatura così unanimemente, mobilitandosi in modo così plateale, come hanno fatto in questa crisi a sostegno della protesta dei monaci e dei civili birmani.
Eppure, a fronte di tutto ciò, è emersa l'incapacità di influenzare il corso degli eventi a loro favore. Una dimostrazione di impotenza: nemmeno uniti Usa e Ue sono in grado di fermare la brutale repressione di una dittatura contro il suo popolo? Cos'è in definitiva questo multilateralismo? Meglio un multilateralismo impotente o un unilateralismo potente?
L'esito di questa crisi, da potenziale disastro di immagine per la Cina, rischia di elevarla definitivamente a status di potenza egemone, padrona, dell'Asia. Né il Giappone, né l'India, né l'Australia, né l'Asean sono stati in grado neanche di minacciare di opporsi a quanto stava accadendo. L'inviato dell'Onu arriva in Myanmar fuori tempo massimo, a giochi fatti, e la sua missione rischia di trasformarsi in uno strumento di legittimazione in mano ai militari.
Un errore è stato quello di affidarsi alla Cina come attore responsbile. Non favorirà alcuna transizione verso la democrazia in Birmania. Al massimo, spingerà un altro generale, oggi all'apparenza più "moderato", alla guida della Giunta, legando ancor di più a sé la Birmania. Ci auguriamo almeno che chi s'illudeva ancora che Pechino potesse giocare un simile ruolo abbia aperto gli occhi.
Le democrazie della regione devono assumere l'iniziativa. E in fretta. Acquisire consapevolezza dei loro valori e interessi strategici comuni, istituzionalizzare la propria partnership, anche sul piano militare. I governi democratici devono dotarsi del potere politico e della forza militare per poter agire, o minacciare in modo credibile di agire, in modo rapido ovunque nel mondo.
Pare tuttavia che stia avendo successo la repressione del regime, al di là delle speculazioni su possibili dissidi e spaccature all'interno della Giunta militare riguardo l'uso della forza contro i manifestanti - spaccature che, come abbiamo ipotizzato ieri, potrebbero preludere a un mero "rimpasto" di generali incoraggiato dalla Cina.
Hanno intimidito la popolazione con decine di morti lasciati sulle strade dai colpi sparati dai soldati sulla folla. Hanno militarizzato le due principali città, Yangon e Mandalay. Hanno blindato i monasteri e sigillato il paese in modo che nulla potesse uscire all'esterno. Soprattutto, hanno spento le voci della protesta tagliando le comunicazioni (internet e telefoni): da ore infatti non giungono più nuove immagini significative. Proprio le immagini avevano messo in ginocchio il regime davanti agli occhi di tutto il mondo.
Temiamo quindi che la crisi sia in corso di riassorbimento. E, cosa peggiore, nel silenzio assoluto il regime potrà attuare indisturbato la vera repressione, quella dagli effetti più a lungo termine, sui protagonisti di questi giorni di manifestazioni. Decapitando la leadership e decimando gli oppositori, la Giunta metterà il movimento democratico in condizione di non nuocere per anni.
Sul piano politico ci sarà da riflettere sull'impotenza dei governi occidentali. Il paradosso è che mai, negli ultimi anni, Stati Uniti ed Europa, e le loro opinioni pubbliche, senza differenze politiche sostanziali, avevano condannato una dittatura così unanimemente, mobilitandosi in modo così plateale, come hanno fatto in questa crisi a sostegno della protesta dei monaci e dei civili birmani.
Eppure, a fronte di tutto ciò, è emersa l'incapacità di influenzare il corso degli eventi a loro favore. Una dimostrazione di impotenza: nemmeno uniti Usa e Ue sono in grado di fermare la brutale repressione di una dittatura contro il suo popolo? Cos'è in definitiva questo multilateralismo? Meglio un multilateralismo impotente o un unilateralismo potente?
L'esito di questa crisi, da potenziale disastro di immagine per la Cina, rischia di elevarla definitivamente a status di potenza egemone, padrona, dell'Asia. Né il Giappone, né l'India, né l'Australia, né l'Asean sono stati in grado neanche di minacciare di opporsi a quanto stava accadendo. L'inviato dell'Onu arriva in Myanmar fuori tempo massimo, a giochi fatti, e la sua missione rischia di trasformarsi in uno strumento di legittimazione in mano ai militari.
Un errore è stato quello di affidarsi alla Cina come attore responsbile. Non favorirà alcuna transizione verso la democrazia in Birmania. Al massimo, spingerà un altro generale, oggi all'apparenza più "moderato", alla guida della Giunta, legando ancor di più a sé la Birmania. Ci auguriamo almeno che chi s'illudeva ancora che Pechino potesse giocare un simile ruolo abbia aperto gli occhi.
Le democrazie della regione devono assumere l'iniziativa. E in fretta. Acquisire consapevolezza dei loro valori e interessi strategici comuni, istituzionalizzare la propria partnership, anche sul piano militare. I governi democratici devono dotarsi del potere politico e della forza militare per poter agire, o minacciare in modo credibile di agire, in modo rapido ovunque nel mondo.
Friday, September 28, 2007
Crepe nella Giunta birmana. La Cina lavora a un rimpasto?
«Usate la vostra libertà per promuovere la nostra»
Aung San Suu Kyi
Ieri annotavamo che se il popolo birmano è nelle mani della Cina, allora non c'è da stare tranquilli. E a giudicare dalle notizie giunte oggi dalla Birmania – dove nuove manifestazioni sono state represse con arresti, cariche e pallottole ad altezza d'uomo (forse 35 i morti) – non stanno avendo successo gli sforzi dei governi democratici. Numerose foto satellitari dell'American Association for the Advancement of Science mostrano decine di villaggi distrutti.
Stoppato da Russia e Cina il tentativo di approvare in Consiglio di Sicurezza Onu sanzioni economiche contro la Giunta militare di Yangon, Stati Uniti, Europa, Giappone e Australia stanno cercando di responsabilizzare la Cina, principale sponsor del regime birmano, per spingerla a esercitare pressioni. Ma Pechino finora non è andata oltre un invito alla «moderazione» e un lavorio diplomatico dietro le quinte, che finora non ha dato frutti. Come poteva darne, se la Cina non può comunque permettersi una vittoria, neanche simbolica, dei monaci buddisti?
Ciò a cui forse Pechino sta lavorando è un "rimpasto" nella Giunta birmana, ipotesi avvalorata dalle voci di queste ultime ore sui contrasti all'interno dell'esercito: generali più "moderati" al posto dell'odiato Than Shwe, ormai inviso alla comunità internazionale. Otterrebbe così di far cessare le proteste (soprattutto quelle occidentali) e tenere in vita il regime.
Il presidente Usa Bush, in un incontro non previsto a Washington con il ministro degli Esteri, Yang Jiechi, è tornato a chiedere alla Cina di «esercitare la sua influenza nella regione per incoraggiare la Birmania ad una pacifica transizione verso la democrazia». Ma come si può pensare che una dittatura spinga verso la democrazia un'altra dittatura, per di più ai propri confini? Purtroppo sembra che non ci sia nulla di concreto e immediato che i governi occidentali possano fare per i birmani. In quella parte del mondo, ai confini di Cina e India, neanche l'uso della forza è una minaccia credibile.
Mobilitato anche il premier britannico Gordon Brown, in teleconferenza con Bush per concordare «ulteriori azioni» contro al giunta militare. Entrambi l'hanno di nuovo intimata a cessare la repressione. Il nuovo primo ministro giapponese, Yasuo Fukuda, ha chiesto a Pechino di esercitare tutta la sua influenza per una soluzione pacifica della crisi. Nella stessa direzione si muove l'Europa. Il commissario europeo alle Relazioni esterne, Benita Ferrero-Waldner, ha spiegato che «sono soprattutto i paesi vicini quelli realmente tenuti a mostrarsi responsabili, in primo luogo la Cina, ma anche l'India e i Paesi dell'Asean».
Già, l'India. Dopo aver appoggiato nel 1988 il movimento democratico, Nuova Dehli ha sostenuto la Giunta militare di Yangon e ancora non ha dato cenno di aver rivisto la sua politica alla luce dei tragici eventi di questi giorni, limitandosi a chiedere «riconciliazione nazionale» e «riforme politiche». Eppure, una svolta democratica potrebbe far uscire la Birmania dalla sfera d'influenza cinese proprio a vantaggio dell'India.
L'unica speranza di esito positivo, dicevamo, sta in possibili, ma improbabili, divisioni all'interno dell'esercito. Alcuni soldati in effetti hanno riposto le armi inginocchiandosi in segno di rispetto davanti ai monaci e non sono mancati episodi in cui le truppe si sono rifiutate di sparare sulla folla. Alcuni dei raid notturni dell'esercito nei monasteri sono stati sventati dalla reazione della popolazione. In alcuni casi i soldati diretti ai monasteri hanno fatto marcia indietro, di fronte ad una folla armata di pentole e bastoni che li presidiava. «Anche musulmani, cristiani e hindu hanno difeso i monasteri», ha riferito un testimone.
Secondo fonti non confermate, un generale sarebbe addirittura agli arresti dopo che soldati ai suoi ordini si sono rifiutati di aprire il fuoco. Il sito d'informazione degli esuli birmani, Mizzima News parla di un possibile «dissidio fra generali» e di «agitazione» in alcuni reparti dell'esercito birmano. Addirittura, citando fonti vicine alle gerarchie, riferisce che il numero due della Giunta militare, il generale Maung Aye, e i suoi fedeli, sarebbero «contrari a sparare sulla folla», come ordinato dal generale Than Shwe.
Maung Aye avrebbe fissato un incontro con la leader democratica Aung San Suu Kyi, per questa ragione trasferita nella base militare di Yemon, alle porte di Yangon, cui avrebbe espresso il suo totale disaccordo sull'uso della violenza contro i manifestanti. Aerei per il trasporto di truppe e colonne militari si starebbero muovendo verso la capitale, ma «non è chiaro – si legge sul sito – se le truppe stiano marciando come rinforzi o per opporsi alle truppe che hanno sparato sui monaci». Tuttavia, non vorremmo che quello di Mizzima News fosse ottimismo mal riposto o il comprensibile tentativo di "parlare" ai generali per incoraggiarli a sollevarsi contro Than Shwe.
Tokyo ha intanto inoltrato una dura protesta al governo di Yangon per l'uccisione del giornalista Kenji Nagai. Un soldato birmano gli ha sparato intenzionalmente, come documenta un video, mentre riprendeva le manifestazioni, il cui bilancio potrebbe essere molto superiore a quello, di dieci vittime, ammesso dalle stesse autorità. L'ambasciatore australiano Bob Davis ha detto alla radio Abc che potrebbe raggiungere «diversi multipli» di dieci, secondo testimonianze da lui stesso raccolte di un alto numero di cadaveri portati via dalle strade.
Ieri abbiamo citato alcuni dei blog e dei siti che attraverso internet hanno fatto giungere immagini, video e notizie dalla Birmania. Ebbene, il regime ha cercato per giorni, invano, di ostacolarli, ma il flusso di immagini ha continuato a invadere il web e le tv di tutto il mondo. Così oggi i soldati birmani hanno fatto irruzione negli uffici del principale provider di servizi internet, Myanmar Info Tech, e il governo ha deciso di bloccare del tutto i collegamenti internet nel paese. Ufficialmente per «un problema tecnico».
Aung San Suu Kyi
Ieri annotavamo che se il popolo birmano è nelle mani della Cina, allora non c'è da stare tranquilli. E a giudicare dalle notizie giunte oggi dalla Birmania – dove nuove manifestazioni sono state represse con arresti, cariche e pallottole ad altezza d'uomo (forse 35 i morti) – non stanno avendo successo gli sforzi dei governi democratici. Numerose foto satellitari dell'American Association for the Advancement of Science mostrano decine di villaggi distrutti.
Stoppato da Russia e Cina il tentativo di approvare in Consiglio di Sicurezza Onu sanzioni economiche contro la Giunta militare di Yangon, Stati Uniti, Europa, Giappone e Australia stanno cercando di responsabilizzare la Cina, principale sponsor del regime birmano, per spingerla a esercitare pressioni. Ma Pechino finora non è andata oltre un invito alla «moderazione» e un lavorio diplomatico dietro le quinte, che finora non ha dato frutti. Come poteva darne, se la Cina non può comunque permettersi una vittoria, neanche simbolica, dei monaci buddisti?
Ciò a cui forse Pechino sta lavorando è un "rimpasto" nella Giunta birmana, ipotesi avvalorata dalle voci di queste ultime ore sui contrasti all'interno dell'esercito: generali più "moderati" al posto dell'odiato Than Shwe, ormai inviso alla comunità internazionale. Otterrebbe così di far cessare le proteste (soprattutto quelle occidentali) e tenere in vita il regime.
Il presidente Usa Bush, in un incontro non previsto a Washington con il ministro degli Esteri, Yang Jiechi, è tornato a chiedere alla Cina di «esercitare la sua influenza nella regione per incoraggiare la Birmania ad una pacifica transizione verso la democrazia». Ma come si può pensare che una dittatura spinga verso la democrazia un'altra dittatura, per di più ai propri confini? Purtroppo sembra che non ci sia nulla di concreto e immediato che i governi occidentali possano fare per i birmani. In quella parte del mondo, ai confini di Cina e India, neanche l'uso della forza è una minaccia credibile.
Mobilitato anche il premier britannico Gordon Brown, in teleconferenza con Bush per concordare «ulteriori azioni» contro al giunta militare. Entrambi l'hanno di nuovo intimata a cessare la repressione. Il nuovo primo ministro giapponese, Yasuo Fukuda, ha chiesto a Pechino di esercitare tutta la sua influenza per una soluzione pacifica della crisi. Nella stessa direzione si muove l'Europa. Il commissario europeo alle Relazioni esterne, Benita Ferrero-Waldner, ha spiegato che «sono soprattutto i paesi vicini quelli realmente tenuti a mostrarsi responsabili, in primo luogo la Cina, ma anche l'India e i Paesi dell'Asean».
Già, l'India. Dopo aver appoggiato nel 1988 il movimento democratico, Nuova Dehli ha sostenuto la Giunta militare di Yangon e ancora non ha dato cenno di aver rivisto la sua politica alla luce dei tragici eventi di questi giorni, limitandosi a chiedere «riconciliazione nazionale» e «riforme politiche». Eppure, una svolta democratica potrebbe far uscire la Birmania dalla sfera d'influenza cinese proprio a vantaggio dell'India.
L'unica speranza di esito positivo, dicevamo, sta in possibili, ma improbabili, divisioni all'interno dell'esercito. Alcuni soldati in effetti hanno riposto le armi inginocchiandosi in segno di rispetto davanti ai monaci e non sono mancati episodi in cui le truppe si sono rifiutate di sparare sulla folla. Alcuni dei raid notturni dell'esercito nei monasteri sono stati sventati dalla reazione della popolazione. In alcuni casi i soldati diretti ai monasteri hanno fatto marcia indietro, di fronte ad una folla armata di pentole e bastoni che li presidiava. «Anche musulmani, cristiani e hindu hanno difeso i monasteri», ha riferito un testimone.
Secondo fonti non confermate, un generale sarebbe addirittura agli arresti dopo che soldati ai suoi ordini si sono rifiutati di aprire il fuoco. Il sito d'informazione degli esuli birmani, Mizzima News parla di un possibile «dissidio fra generali» e di «agitazione» in alcuni reparti dell'esercito birmano. Addirittura, citando fonti vicine alle gerarchie, riferisce che il numero due della Giunta militare, il generale Maung Aye, e i suoi fedeli, sarebbero «contrari a sparare sulla folla», come ordinato dal generale Than Shwe.
Maung Aye avrebbe fissato un incontro con la leader democratica Aung San Suu Kyi, per questa ragione trasferita nella base militare di Yemon, alle porte di Yangon, cui avrebbe espresso il suo totale disaccordo sull'uso della violenza contro i manifestanti. Aerei per il trasporto di truppe e colonne militari si starebbero muovendo verso la capitale, ma «non è chiaro – si legge sul sito – se le truppe stiano marciando come rinforzi o per opporsi alle truppe che hanno sparato sui monaci». Tuttavia, non vorremmo che quello di Mizzima News fosse ottimismo mal riposto o il comprensibile tentativo di "parlare" ai generali per incoraggiarli a sollevarsi contro Than Shwe.
Tokyo ha intanto inoltrato una dura protesta al governo di Yangon per l'uccisione del giornalista Kenji Nagai. Un soldato birmano gli ha sparato intenzionalmente, come documenta un video, mentre riprendeva le manifestazioni, il cui bilancio potrebbe essere molto superiore a quello, di dieci vittime, ammesso dalle stesse autorità. L'ambasciatore australiano Bob Davis ha detto alla radio Abc che potrebbe raggiungere «diversi multipli» di dieci, secondo testimonianze da lui stesso raccolte di un alto numero di cadaveri portati via dalle strade.
Ieri abbiamo citato alcuni dei blog e dei siti che attraverso internet hanno fatto giungere immagini, video e notizie dalla Birmania. Ebbene, il regime ha cercato per giorni, invano, di ostacolarli, ma il flusso di immagini ha continuato a invadere il web e le tv di tutto il mondo. Così oggi i soldati birmani hanno fatto irruzione negli uffici del principale provider di servizi internet, Myanmar Info Tech, e il governo ha deciso di bloccare del tutto i collegamenti internet nel paese. Ufficialmente per «un problema tecnico».
Addio Zanzara
Tentativo infame della Procura
Il gip ha disposto l'immediata scarcerazione di Alberto Stasi: prove insufficienti. Non solo insufficienti per una condanna, ma insufficienti persino per la semplice convalida di un arresto o per gli obblighi domiciliari: zero prove, quindi.
Tentativo infame della Procura di Vigevano, siamo quindi autorizzati a sospettare. Convinti della sua colpevolezza, pur senza uno straccio di prova hanno arrestato il ragazzo per poterlo interrogare in cella sperando che dopo una notte al fresco cedesse e cantasse. E ciò fa pensare che per ricorrere a questo espediente vuol dire che le indagini sono proprio a un punto morto.
Da notare l'atteggiamento della madre della vittima, che sembra ben diverso da quello dei genitori di Marta Russo: «Non volevo e non voglio che stia in carcere un innocente».
Tentativo infame della Procura di Vigevano, siamo quindi autorizzati a sospettare. Convinti della sua colpevolezza, pur senza uno straccio di prova hanno arrestato il ragazzo per poterlo interrogare in cella sperando che dopo una notte al fresco cedesse e cantasse. E ciò fa pensare che per ricorrere a questo espediente vuol dire che le indagini sono proprio a un punto morto.
Da notare l'atteggiamento della madre della vittima, che sembra ben diverso da quello dei genitori di Marta Russo: «Non volevo e non voglio che stia in carcere un innocente».
Thursday, September 27, 2007
Garlasco fiction
Del delitto di Garlasco e degli sviluppi delle indagini ancora non ho scritto. Aspetto che sia più chiaro cos'ha davvero in mano l'accusa, perché di quello che riportano i giornali non mi fido. Devono riempire paginoni con le poche notizie che filtrano arrivando per vie traverse, di terza, quarta e quinta mano. Certo, verrebbe voglia di ironizzare sulle rivelazioni a rilento della cosiddetta "scientifica". Avranno eseguito così tanti sopralluoghi che ormai dalle impronte nella villetta di direbbe che la povera ragazza sia stata vittima di un complotto ordito da Ris e procuratori.
Ma fa piacere che almeno qualcuno denunci quali pagliacciate i contribuenti della Rai siano costretti a finanziare. Come ogni autunno Porta a Porta riprende dal delitto irrisolto dell'estate. In modo sempre più morboso. Se poteva avere un qualche senso il plastico della villetta di Cogne, mi spiegate che senso ha portare in studio una copia della bicicletta che inchioderebbe Alberto Stasi? Se lo chiede Aldo Grasso, sul Corriere di oggi. «Avvoltoi», «senza vergogna».
L'incapacità dei magistrati e la sudditanza nei loro confronti dei cronisti giudiziari indigna Vittorio Feltri, su Libero.
E ancora, ecco qualche esempio di cronisti che diventano giallisti, da Stampa Rassegnata.
Ma fa piacere che almeno qualcuno denunci quali pagliacciate i contribuenti della Rai siano costretti a finanziare. Come ogni autunno Porta a Porta riprende dal delitto irrisolto dell'estate. In modo sempre più morboso. Se poteva avere un qualche senso il plastico della villetta di Cogne, mi spiegate che senso ha portare in studio una copia della bicicletta che inchioderebbe Alberto Stasi? Se lo chiede Aldo Grasso, sul Corriere di oggi. «Avvoltoi», «senza vergogna».
L'incapacità dei magistrati e la sudditanza nei loro confronti dei cronisti giudiziari indigna Vittorio Feltri, su Libero.
«È stato rovesciato anche un principio sacro. Ormai uno è colpevole (non innocente) fino a prova contraria. E se non è lui a fornire la prova contraria va dritto filato in galera. Il caso di Alberto Stasi è emblematico. Il giovanotto si trova in cella. Se non confessa, se non salta fuori l'arma del delitto, se non si accerta un movente plausibile chi se ne frega. Si andrà al processo comunque e buonanotte. Non c'è un redattore nel nostro Paese cosiddetto culla del diritto, nemmeno uno straccio di cronista che abbia difeso il ragazzo o almeno filtrato criticamente indizi (labili) sulla base dei quali è stato emesso il provvedimento di fermo. La stampa ha rinunciato ancora una volta ad esercitare il ruolo di cane da guardia del potere, dimenticando che quello giudiziario è un potere, esattamente come il governo e il parlamento. I giornalisti - che tristezza stanno sempre dalla parte del più forte e trascurano i deboli...»Si sta affermando nelle indagini su questi delitti una tendenza inquietante: quella di aggiustare orario del decesso e scena del delitto in modo da renderli compatibili con l'unico sospettato di cui si dispone. Annotatevelo in caso di bisogno: mai svelare il proprio alibi prima che la procura si sia espressa in modo definitivo sull'orario della morte della vittima.
E ancora, ecco qualche esempio di cronisti che diventano giallisti, da Stampa Rassegnata.
I birmani nelle mani della Cina?
Dopo i cinque (forse sei) morti di mercoledì scorso a Yangon, si estende e si inasprisce la repressione sui manifestanti che da oltre dieci giorni, guidati dai monaci buddisti, sfilano contro la Giunta militare al potere in Birmania da circa 45 anni. Due notti fa i soldati hanno arrestato centinaia di monaci (forse 800 in tutto il paese), picchiandoli e trascinandoli via con la forza dai loro monasteri, suscitando lo sdegno della popolazione. Secondo la radio Voce democratica della Birmania, che trasmette da Oslo, quattro sarebbero rimasti uccisi, probabilmente percossi a morte durante i raid. «Alcuni dei soldati si sono rifiutati di sparare sulla folla, e il colonnello che li guidava li ha picchiati, mentre altri hanno preso i monaci a bastonate. E' stato uno spettacolo terribile, tenuto conto che tradizionalmente nel paese i bonzi sono figure molto rispettate», riferisce una fonte dell'agenzia Misna.
Le autorità hanno ordinato ai principali ospedali di dimettere pazienti, segnale inquietante che indica come prevedano l'aggravarsi del bilancio della repressione. Nonostante tutto, anche ieri circa 10 mila manifestanti, soprattutto civili, sono tornati in strada nella capitale, Yangon, sfidando l'esercito nei pressi della pagoda Sule. Prima alcuni colpi di avvertimento, e l'intimazione alla folla di disperdersi nel più breve tempo possibile, pena «un'azione estrema». I dimostranti si sono allontanati, per poi radunarsi, in 70 mila, in una zona più periferica della città, dove però i militari hanno cominciato a sparare ad altezza d'uomo. Nove i morti secondo i media ufficiali.
Drammatica la testimonianza via e-mail di un cooperante italiano a Yangon all'agenzia Agi: «Il massacro pare sia cominciato. I militari hanno aperto il fuoco sui manifestanti, stavolta ad altezza d'uomo. Non sappiamo quanti siano rimasti per terra, ma chi ha potuto vedere dall'alto di alcuni palazzi del centro parla di decine e decine di persone». Lo spettro di una nuova Tienanmen rischia di materializzarsi.
Ma nel mirino della repressione è finita anche la stampa. I soldati birmani sono entrati nel Traders Hotel, albergo nel centro della capitale, e hanno cominciato a perquisirlo stanza per stanza a caccia di giornalisti stranieri. Nel corso degli scontri è rimasto ucciso un fotografo giapponese dell'agenzia Kyodo News. E a rimanere vittima degli spari dei soldati contro la folla sarebbe stato anche un giornalista tedesco. Rafforzate le misure di sicurezza intorno all'abitazione della leader democratica Aung San Suu Kyi, da anni agli arresti domiciliari.
Intanto, Usa e Ue sembrano finalmente compatti nel condannare la repressione e nell'intenzione di imporre nuove sanzioni nei confronti del Myanmar. Il presidente Bush le ha annunciate intervenendo all'Assemblea generale dell'Onu e dopo gli scontri di ieri la Casa Bianca ha intimato alla Giunta militare birmana di «fermare subito la violenza contro le proteste pacifiche». Anche il Comitato dei rappresentanti permanenti dell'Ue ha sottolineato «l'esigenza di rafforzare il sistema sanzionatorio attualmente in vigore». Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, invece, è come al solito paralizzato dai veti di Cina e Russia, che si nascondono dietro il principio di "non ingerenza", e ha partorito un generico invito «alla moderazione», in cui si chiede alla Giunta militare di ricevere un inviato delle Nazioni Unite. Nessun accordo su eventuali sanzioni.
Ma non si vede come tali appelli possano trovare riscontro a Yangon. Piuttosto, in queste ore, Usa e Ue stanno cercando di responsabilizzare la Cina, principale sponsor del regime birmano, per spingerla a esercitare pressioni. Pechino si è vista costretta a lanciare a «tutte le parti» un invito alla «moderazione», senza condannare la repressione in atto. L'imbarazzo è palpabile. A parte gli interessi commerciali e strategici, altre considerazioni sono alla base del sostegno ai militari birmani: se, infatti, i monaci buddisti riuscissero a rovesciare il regime, potrebbero essere di esempio ai buddisti del Tibet. In ogni caso, il conflitto tra i buddisti e la dittatura birmana fa tornare di attualità la questione del Tibet, vittima del genocidio perpetrato dal governo cinese. Pechino ha tutto da perdere in questa crisi: sia se la Giunta militare dovesse cadere, sia se avesse successo la repressione, per il suo sostegno al regime birmano ne soffrirebbe di immagine a un anno dalle Olimpiadi.
Tuttavia, anche l'India ha sempre sostenuto la Giunta militare di Yangon e ancora non ha dato cenno di aver rivisto la sua politica alla luce dei tragici eventi di questi giorni, anche se una svolta democratica potrebbe far uscire la Birmania dalla sfera d'influenza cinese proprio a vantaggio dell'India. I governi occidentali non possono davvero fare altro che emettere condanne e inasprire le sanzioni? Se il popolo birmano è nelle mani della Cina, non c'è da stare tranquilli. L'unica speranza di esito positivo sta in possibili, ma improbabili, divisioni all'interno dell'esercito. Purtroppo la verità è che siamo impotenti perché in quella parte del mondo, ai confini della Cina, neanche l'uso della forza è una minaccia credibile... Per ora.
P.S. Immagini e notizie dalla Birmania giungono anche grazie ai blog di giornalisti dissidenti, studenti birmani all'estero o in patria che si collegano nelle chat o dagli internet cafè, o postano video su YouTube: Ko Htike, Mr-Jade, Mizzima News, Rule of Lords, sono solo alcuni. Il regime cerca di ostacolare la rete ma non ci riesce e il flusso di immagini invade il web e le tv di tutto il mondo.
UPDATE ore 20,27: Il presidente Bush è tornato a parlare direttamente ai birmani e ai governi: «Esorto i soldati birmani e la polizia a non usare la forza contro i connazionali. Il mondo sta guardando il popolo birmano sceso in strada per chiedere libertà e gli americani sono solidali accanto a questi coraggiosi individui. Ogni nazione civile ha la responsabilità di difendere una popolazione sottoposta a un brutale regime militare come quello che governa la Birmania da troppo tempo».
Le autorità hanno ordinato ai principali ospedali di dimettere pazienti, segnale inquietante che indica come prevedano l'aggravarsi del bilancio della repressione. Nonostante tutto, anche ieri circa 10 mila manifestanti, soprattutto civili, sono tornati in strada nella capitale, Yangon, sfidando l'esercito nei pressi della pagoda Sule. Prima alcuni colpi di avvertimento, e l'intimazione alla folla di disperdersi nel più breve tempo possibile, pena «un'azione estrema». I dimostranti si sono allontanati, per poi radunarsi, in 70 mila, in una zona più periferica della città, dove però i militari hanno cominciato a sparare ad altezza d'uomo. Nove i morti secondo i media ufficiali.
Drammatica la testimonianza via e-mail di un cooperante italiano a Yangon all'agenzia Agi: «Il massacro pare sia cominciato. I militari hanno aperto il fuoco sui manifestanti, stavolta ad altezza d'uomo. Non sappiamo quanti siano rimasti per terra, ma chi ha potuto vedere dall'alto di alcuni palazzi del centro parla di decine e decine di persone». Lo spettro di una nuova Tienanmen rischia di materializzarsi.
Ma nel mirino della repressione è finita anche la stampa. I soldati birmani sono entrati nel Traders Hotel, albergo nel centro della capitale, e hanno cominciato a perquisirlo stanza per stanza a caccia di giornalisti stranieri. Nel corso degli scontri è rimasto ucciso un fotografo giapponese dell'agenzia Kyodo News. E a rimanere vittima degli spari dei soldati contro la folla sarebbe stato anche un giornalista tedesco. Rafforzate le misure di sicurezza intorno all'abitazione della leader democratica Aung San Suu Kyi, da anni agli arresti domiciliari.
Intanto, Usa e Ue sembrano finalmente compatti nel condannare la repressione e nell'intenzione di imporre nuove sanzioni nei confronti del Myanmar. Il presidente Bush le ha annunciate intervenendo all'Assemblea generale dell'Onu e dopo gli scontri di ieri la Casa Bianca ha intimato alla Giunta militare birmana di «fermare subito la violenza contro le proteste pacifiche». Anche il Comitato dei rappresentanti permanenti dell'Ue ha sottolineato «l'esigenza di rafforzare il sistema sanzionatorio attualmente in vigore». Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, invece, è come al solito paralizzato dai veti di Cina e Russia, che si nascondono dietro il principio di "non ingerenza", e ha partorito un generico invito «alla moderazione», in cui si chiede alla Giunta militare di ricevere un inviato delle Nazioni Unite. Nessun accordo su eventuali sanzioni.
Ma non si vede come tali appelli possano trovare riscontro a Yangon. Piuttosto, in queste ore, Usa e Ue stanno cercando di responsabilizzare la Cina, principale sponsor del regime birmano, per spingerla a esercitare pressioni. Pechino si è vista costretta a lanciare a «tutte le parti» un invito alla «moderazione», senza condannare la repressione in atto. L'imbarazzo è palpabile. A parte gli interessi commerciali e strategici, altre considerazioni sono alla base del sostegno ai militari birmani: se, infatti, i monaci buddisti riuscissero a rovesciare il regime, potrebbero essere di esempio ai buddisti del Tibet. In ogni caso, il conflitto tra i buddisti e la dittatura birmana fa tornare di attualità la questione del Tibet, vittima del genocidio perpetrato dal governo cinese. Pechino ha tutto da perdere in questa crisi: sia se la Giunta militare dovesse cadere, sia se avesse successo la repressione, per il suo sostegno al regime birmano ne soffrirebbe di immagine a un anno dalle Olimpiadi.
Tuttavia, anche l'India ha sempre sostenuto la Giunta militare di Yangon e ancora non ha dato cenno di aver rivisto la sua politica alla luce dei tragici eventi di questi giorni, anche se una svolta democratica potrebbe far uscire la Birmania dalla sfera d'influenza cinese proprio a vantaggio dell'India. I governi occidentali non possono davvero fare altro che emettere condanne e inasprire le sanzioni? Se il popolo birmano è nelle mani della Cina, non c'è da stare tranquilli. L'unica speranza di esito positivo sta in possibili, ma improbabili, divisioni all'interno dell'esercito. Purtroppo la verità è che siamo impotenti perché in quella parte del mondo, ai confini della Cina, neanche l'uso della forza è una minaccia credibile... Per ora.
P.S. Immagini e notizie dalla Birmania giungono anche grazie ai blog di giornalisti dissidenti, studenti birmani all'estero o in patria che si collegano nelle chat o dagli internet cafè, o postano video su YouTube: Ko Htike, Mr-Jade, Mizzima News, Rule of Lords, sono solo alcuni. Il regime cerca di ostacolare la rete ma non ci riesce e il flusso di immagini invade il web e le tv di tutto il mondo.
UPDATE ore 20,27: Il presidente Bush è tornato a parlare direttamente ai birmani e ai governi: «Esorto i soldati birmani e la polizia a non usare la forza contro i connazionali. Il mondo sta guardando il popolo birmano sceso in strada per chiedere libertà e gli americani sono solidali accanto a questi coraggiosi individui. Ogni nazione civile ha la responsabilità di difendere una popolazione sottoposta a un brutale regime militare come quello che governa la Birmania da troppo tempo».
Gli ultimi - e i soli - kamikaze di Prodi
Marco Pannella invita il Governo a «mettere subito al centro della discussione le norme, che non conosciamo, di attuazione del protocollo sul welfare». «Noi - dice, riferendosi credo anche ai deputati radicali e al ministro Bonino - siamo soddisfatti di quell'intesa, ma abbiamo detto che l'accettiamo se resta come è stata presentata. Ora vogliamo sapere di più di quelle norme di attuazione».
Qualcuno avverta Pannella che per riequilibrare una bilancia che pende da un lato, quello della sinistra massimalista e comunista, bisogna mettersi sul piatto opposto, non accomodarsi in mezzo.
I deputati radicali dovrebbero augurarsi che il governo cada prima che arrivi alla Camera il pacchetto sul welfare con la controriforma delle pensioni, perché se poi lo votassero non c'è pdl per l'innalzamento dell'età pensionabile che regga, avrebbero perso quel poco di faccia che gli è rimasta. Dovrebbero spiegarci, infatti, per quale altra ragione, se non la sopravvivenza di Prodi, avrebbero dovuto votare a favore dell'abbassamento dell'età pensionabile da 60 a 58 anni nel 2008 pagata con i contributi dei giovani lavoratori precari.
E proprio oggi, dopo aver inavvertitamente causato il passo falso del governo alla Camera con un emendamento assai discutibile, Beltrandi ha assicurato il voto della Rosa nel Pugno a un provvedimento sulla sicurezza stradale che definire poliziesco è dire poco. Il ministro Bianchi pretende di rendere le strade più sicure con un mero inasprimento delle pene, quindi a costo zero, piuttosto che con maggiori controlli, visto che siamo gli ultimi in Europa.
Qualcuno avverta Pannella che per riequilibrare una bilancia che pende da un lato, quello della sinistra massimalista e comunista, bisogna mettersi sul piatto opposto, non accomodarsi in mezzo.
I deputati radicali dovrebbero augurarsi che il governo cada prima che arrivi alla Camera il pacchetto sul welfare con la controriforma delle pensioni, perché se poi lo votassero non c'è pdl per l'innalzamento dell'età pensionabile che regga, avrebbero perso quel poco di faccia che gli è rimasta. Dovrebbero spiegarci, infatti, per quale altra ragione, se non la sopravvivenza di Prodi, avrebbero dovuto votare a favore dell'abbassamento dell'età pensionabile da 60 a 58 anni nel 2008 pagata con i contributi dei giovani lavoratori precari.
E proprio oggi, dopo aver inavvertitamente causato il passo falso del governo alla Camera con un emendamento assai discutibile, Beltrandi ha assicurato il voto della Rosa nel Pugno a un provvedimento sulla sicurezza stradale che definire poliziesco è dire poco. Il ministro Bianchi pretende di rendere le strade più sicure con un mero inasprimento delle pene, quindi a costo zero, piuttosto che con maggiori controlli, visto che siamo gli ultimi in Europa.
Partite truccate
I giocatori in campo si mettono d'accordo con gli avversari per un comodo pareggio, ma i tifosi non se ne accorgono e si scatenano. Giornali e blog di centrodestra, che non ne fanno passare una liscia a Prodi e alla sinistra, non si accorgono che il loro leader liscia il pallone a porta vuota.
Accade così in ben due casi eclatanti, segnalati prontamente da Piero Ostellino sul Corriere della Sera di oggi. Il Gip di Milano, Clementina Forleo, aveva trasmesso al Parlamento la richiesta di autorizzazione all'uso delle intercettazioni telefoniche sul caso Unipol/Bnl che vedevano Massimo D'Alema come interlocutore un po' troppo "interessato" alla scalata. Eppure, già prima dell'"incompetenza a decidere" su D'Alema dichiarata dalla Giunta per le autorizzazioni, che invece ha dato il via libera per Piero Fassino, erano stati addirittura i rappresentanti del centrodestra a sollevare l'eccezione di legittimità della richiesta con una motivazione quanto meno singolare. All'epoca, D'Alema era parlamentare europeo, è al Parlamento europeo che andrebbe trasmessa la richiesta.
Così come sul caso poco chiaro del trasferimento in altra sede del pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, deciso dal ministro della Giustizia, Clemente Mastella, su indicazione dei suoi ispettori. Pare che le indagini si avvicinassero troppo a Romano Prodi e ad altri esponenti del governo. Ma il centrodestra neanche si pone l'interrogativo.
Accade così in ben due casi eclatanti, segnalati prontamente da Piero Ostellino sul Corriere della Sera di oggi. Il Gip di Milano, Clementina Forleo, aveva trasmesso al Parlamento la richiesta di autorizzazione all'uso delle intercettazioni telefoniche sul caso Unipol/Bnl che vedevano Massimo D'Alema come interlocutore un po' troppo "interessato" alla scalata. Eppure, già prima dell'"incompetenza a decidere" su D'Alema dichiarata dalla Giunta per le autorizzazioni, che invece ha dato il via libera per Piero Fassino, erano stati addirittura i rappresentanti del centrodestra a sollevare l'eccezione di legittimità della richiesta con una motivazione quanto meno singolare. All'epoca, D'Alema era parlamentare europeo, è al Parlamento europeo che andrebbe trasmessa la richiesta.
Così come sul caso poco chiaro del trasferimento in altra sede del pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, deciso dal ministro della Giustizia, Clemente Mastella, su indicazione dei suoi ispettori. Pare che le indagini si avvicinassero troppo a Romano Prodi e ad altri esponenti del governo. Ma il centrodestra neanche si pone l'interrogativo.
«Se non si vuole che eventuali, e a volte persino auspicabili, accordi fra maggioranza e opposizione non siano interpretati come inciuci, sarebbe meglio, allora, che fossero sempre bene argomentati e, soprattutto, trasparenti. Nello stesso interesse delle parti in commedia. Se no, che razza di democrazia dell'alternanza è mai questa?»
Wednesday, September 26, 2007
Birmania. Scatta la repressione, il mondo resta a guardare
Come temevamo, oggi è iniziata la repressione ordinata dalla Giunta militare al potere in Birmania sui monaci buddisti e gli altri civili che stamani, di nuovo, avevano ricominciato a marciare pacificamente per le strade delle principali città del paese. Circondati i monasteri, arresti, cariche, spari, feriti, e morti, forse cinque.
Di fronte al rischio sempre più concreto di una nuova Tienanmen ci sembra davvero riduttivo essere «pronti» a nuove sanzioni, come annunciano Ue e Usa. La Cina continuerebbe a sostenere il regime di Yangoon. Occorre portare il caso al Consiglio di Sicurezza per dichiarare illegittimo il governo birmano. E' ora di porre fine al potere della Giunta militare in Birmania, con le buone o con le cattive.
Nel gennaio di quest'anno Russia e Cina hanno posto il veto in Consiglio di Sicurezza su una risoluzione che chiedeva semplicemente al regime del Myanmar di rispettare e diritti umani e avviare una transizione verso la democrazia. Difficile, quindi, aspettarsi oggi qualcosa di più dal Consiglio di Sicurezza che una generica e vuota condanna. Esattamente di questa impotenza ha parlato il presidente Bush ieri. Veltroni propone la missione di un inviato del Consiglio di Sicurezza, ma può bastare? Non ci sono forse gli estremi per progettare un intervento armato?
Di fronte al rischio sempre più concreto di una nuova Tienanmen ci sembra davvero riduttivo essere «pronti» a nuove sanzioni, come annunciano Ue e Usa. La Cina continuerebbe a sostenere il regime di Yangoon. Occorre portare il caso al Consiglio di Sicurezza per dichiarare illegittimo il governo birmano. E' ora di porre fine al potere della Giunta militare in Birmania, con le buone o con le cattive.
Nel gennaio di quest'anno Russia e Cina hanno posto il veto in Consiglio di Sicurezza su una risoluzione che chiedeva semplicemente al regime del Myanmar di rispettare e diritti umani e avviare una transizione verso la democrazia. Difficile, quindi, aspettarsi oggi qualcosa di più dal Consiglio di Sicurezza che una generica e vuota condanna. Esattamente di questa impotenza ha parlato il presidente Bush ieri. Veltroni propone la missione di un inviato del Consiglio di Sicurezza, ma può bastare? Non ci sono forse gli estremi per progettare un intervento armato?
Tuesday, September 25, 2007
Bush richiama l'Onu alla sua missione: la libertà
Il presidente Usa affronta il nodo della crisi di credibilità dell'Onu: disattesi i principi e i compiti originari
All'indomani della manifestazione più grande, nonostante le reiterate minacce di repressione urlate dai megafoni dei blindati della polizia e il "consiglio di guerra" della Giunta riunito, in Birmania una nuova imponente marcia di monaci e civili è partita oggi dalla millenaria pagoda di Shwedagon. Molte le bandiere, alcune con l'immagine del pavone, utilizzata dagli studenti nella rivolta del 1988 a favore della democrazia, e le immagini di Aung San Suu Kyi, la figura simbolo del movimento democratico e premio Nobel per la Pace. Nei giorni scorsi la folla si è recata a omaggiare la leader democratica, che non è riuscita a trattenere lacrime di commozione affacciandosi al portone della casa in cui è rinchiusa da anni agli arresti domiciliari.
Il timore è che agenti provocatori infiltrati possano far scoppiare disordini per fornire alla polizia e all'esercito il pretesto per innescare la repressione. In serata le autorità hanno vietato "assemblee" con più di cinque persone e decretato il coprifuoco nelle due maggiori città. Ma i manifestanti, giunti a questo punto, non possono fermarsi, non possono spegnere loro stessi i riflettori sulla protesta, altrimenti il regime approfitterà del momento per scatenare una repressione sanguinosa. Il rischio concreto è comunque di una nuova Tienanmen. Gli organi di informazione e i governi occidentali devono far percepire la loro presenza.
Come previsto, il presidente americano George W. Bush, coerente nello schierarsi al fianco di ogni popolo in lotta per la propria libertà, ha annunciato, intervenendo all'Assemblea generale dell'Onu, ulteriori sanzioni contro la Giunta militare birmana. Ha denunciato che in Birmania le «libertà fondamentali come quelle di espressione, di assemblea e di preghiera sono severamente ridotte», che «le minoranze etniche sono perseguitate», che «lavoro forzato di minorenni, traffico di persone, stupri sono fenomeni diffusi». E ha ricordato che «il regime ha imprigionato oltre un migliaio di detenuti politici, tra cui Aung San Suu Kyi, il cui partito è stato eletto in modo schiacciante nel 1990». Per tutto questo, ha annunciato Bush, «gli Stati Uniti rafforzeranno le sanzioni economiche nei confronti dei leader del regime e dei loro sostenitori. Imporremo un bando più esteso ai visti per i responsabili delle più gravi violazioni dei diritti umani, includendo nelle misure i loro familiari».
«Il desiderio di libertà del popolo birmano è ineludibile», ha aggiunto il presidente Usa, chiamando «l'Onu e gli altri Paesi del mondo a usare tutte le leve diplomatiche ed economiche per aiutare il popolo birmano a riconquistare la libertà».
Ma il discorso di oggi del presidente americano è stato un severo richiamo ai principi dichiarati nella carta costitutiva delle Nazioni Unite. Principi che oggi l'Onu sembra aver abbandonato, o non in grado di rendere vigenti. E' la causa principale della sua perdita di credibilità ed efficacia. Il titolo dell'intervento di Bush è emblematico: «A Mission of Liberation Around the World».
Peccato, davvero, che i radicali di Torre Argentina non se ne possano rallegrare, essendosi ormai, per inerzia e debolezza culturale, aggregati al mainstream della demonizzazione e dei pregiudizi anti-Bush. Mentre un altro presidente, etichettato come "uomo nero", sciagura per l'Europa, da Pannella & Bonino, Nicolas Sarkozy, ha avvisato che la Francia non accetterà la repressione delle manifestazioni in Birmania e annunciato che incontrerà domani a Parigi l'opposizione birmana in esilio.
Bush ha ricordato alle Nazioni Unite che «la sua prima missione è liberare i popoli dalla tirannia e dalla violenza». Ha citato i principi della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, violati e disattesi da decine degli stessi paesi membri dell'Onu. In primo luogo, le nazioni del mondo dovrebbero «lavorare insieme per fermare terroristi ed estremisti che uccidono innocenti con lo scopo di imporre la loro visione d'odio e di minacciare i popoli civilizzati con la loro ideologia». Ma anche per abbattere i «tiranni» che spesso del terrorismo sono sponsor: «Ogni nazione civile ha la responsabilità di ergersi in difesa dei popoli che soffrono sotto dittature». Quindi Bush ha citato i «regimi brutali che negano i diritti fondamentali»: non solo la Birmania, ma anche Iran, Cuba, Zimbabwe, Sudan, Bielorussia, Corea del Nord e Siria.
Bisogna poi incoraggiare e sostenere i paesi che «recentemente hanno fatto passi avanti verso la libertà» (Ucraina, Georgia, Kyrgyzistan, Mauritania, Liberia, Sierra Leone e Marocco) e i «coraggiosi cittadini di Libano, Afghanistan e Iraq, che hanno fatto la loro scelta per la democrazia e gli estremisti hanno risposto prendendoli come obiettivi di assassinio». L'Onu, ha ribadito Bush, deve rispondere «alla richiesta di aiuto che viene da questi popoli». Un riconoscimento anche ai «leader moderati palestinesi che lavorano per costruire libere istituzioni, combattere il terrorismo, rafforzare la legge e rispondere alle esigenze della popolazione».
La lotta per la libertà, ha poi continuato Bush, significa anche lotta per la libertà «dalla fame, dalle malattie, dall'ignoranza, dall'analfabetismo e dalla povertà».
All'indomani della manifestazione più grande, nonostante le reiterate minacce di repressione urlate dai megafoni dei blindati della polizia e il "consiglio di guerra" della Giunta riunito, in Birmania una nuova imponente marcia di monaci e civili è partita oggi dalla millenaria pagoda di Shwedagon. Molte le bandiere, alcune con l'immagine del pavone, utilizzata dagli studenti nella rivolta del 1988 a favore della democrazia, e le immagini di Aung San Suu Kyi, la figura simbolo del movimento democratico e premio Nobel per la Pace. Nei giorni scorsi la folla si è recata a omaggiare la leader democratica, che non è riuscita a trattenere lacrime di commozione affacciandosi al portone della casa in cui è rinchiusa da anni agli arresti domiciliari.
Il timore è che agenti provocatori infiltrati possano far scoppiare disordini per fornire alla polizia e all'esercito il pretesto per innescare la repressione. In serata le autorità hanno vietato "assemblee" con più di cinque persone e decretato il coprifuoco nelle due maggiori città. Ma i manifestanti, giunti a questo punto, non possono fermarsi, non possono spegnere loro stessi i riflettori sulla protesta, altrimenti il regime approfitterà del momento per scatenare una repressione sanguinosa. Il rischio concreto è comunque di una nuova Tienanmen. Gli organi di informazione e i governi occidentali devono far percepire la loro presenza.
Come previsto, il presidente americano George W. Bush, coerente nello schierarsi al fianco di ogni popolo in lotta per la propria libertà, ha annunciato, intervenendo all'Assemblea generale dell'Onu, ulteriori sanzioni contro la Giunta militare birmana. Ha denunciato che in Birmania le «libertà fondamentali come quelle di espressione, di assemblea e di preghiera sono severamente ridotte», che «le minoranze etniche sono perseguitate», che «lavoro forzato di minorenni, traffico di persone, stupri sono fenomeni diffusi». E ha ricordato che «il regime ha imprigionato oltre un migliaio di detenuti politici, tra cui Aung San Suu Kyi, il cui partito è stato eletto in modo schiacciante nel 1990». Per tutto questo, ha annunciato Bush, «gli Stati Uniti rafforzeranno le sanzioni economiche nei confronti dei leader del regime e dei loro sostenitori. Imporremo un bando più esteso ai visti per i responsabili delle più gravi violazioni dei diritti umani, includendo nelle misure i loro familiari».
«Il desiderio di libertà del popolo birmano è ineludibile», ha aggiunto il presidente Usa, chiamando «l'Onu e gli altri Paesi del mondo a usare tutte le leve diplomatiche ed economiche per aiutare il popolo birmano a riconquistare la libertà».
Ma il discorso di oggi del presidente americano è stato un severo richiamo ai principi dichiarati nella carta costitutiva delle Nazioni Unite. Principi che oggi l'Onu sembra aver abbandonato, o non in grado di rendere vigenti. E' la causa principale della sua perdita di credibilità ed efficacia. Il titolo dell'intervento di Bush è emblematico: «A Mission of Liberation Around the World».
Peccato, davvero, che i radicali di Torre Argentina non se ne possano rallegrare, essendosi ormai, per inerzia e debolezza culturale, aggregati al mainstream della demonizzazione e dei pregiudizi anti-Bush. Mentre un altro presidente, etichettato come "uomo nero", sciagura per l'Europa, da Pannella & Bonino, Nicolas Sarkozy, ha avvisato che la Francia non accetterà la repressione delle manifestazioni in Birmania e annunciato che incontrerà domani a Parigi l'opposizione birmana in esilio.
Bush ha ricordato alle Nazioni Unite che «la sua prima missione è liberare i popoli dalla tirannia e dalla violenza». Ha citato i principi della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, violati e disattesi da decine degli stessi paesi membri dell'Onu. In primo luogo, le nazioni del mondo dovrebbero «lavorare insieme per fermare terroristi ed estremisti che uccidono innocenti con lo scopo di imporre la loro visione d'odio e di minacciare i popoli civilizzati con la loro ideologia». Ma anche per abbattere i «tiranni» che spesso del terrorismo sono sponsor: «Ogni nazione civile ha la responsabilità di ergersi in difesa dei popoli che soffrono sotto dittature». Quindi Bush ha citato i «regimi brutali che negano i diritti fondamentali»: non solo la Birmania, ma anche Iran, Cuba, Zimbabwe, Sudan, Bielorussia, Corea del Nord e Siria.
Bisogna poi incoraggiare e sostenere i paesi che «recentemente hanno fatto passi avanti verso la libertà» (Ucraina, Georgia, Kyrgyzistan, Mauritania, Liberia, Sierra Leone e Marocco) e i «coraggiosi cittadini di Libano, Afghanistan e Iraq, che hanno fatto la loro scelta per la democrazia e gli estremisti hanno risposto prendendoli come obiettivi di assassinio». L'Onu, ha ribadito Bush, deve rispondere «alla richiesta di aiuto che viene da questi popoli». Un riconoscimento anche ai «leader moderati palestinesi che lavorano per costruire libere istituzioni, combattere il terrorismo, rafforzare la legge e rispondere alle esigenze della popolazione».
La lotta per la libertà, ha poi continuato Bush, significa anche lotta per la libertà «dalla fame, dalle malattie, dall'ignoranza, dall'analfabetismo e dalla povertà».
Partenza in salita. Nuovo numero di LibMagazine
E' on line il nuovo numero di LibMagazine, ricco di tanti contenuti interessanti. Innanzitutto, l'editoriale, "Partenza in salita", firmato da me e Francesco sulla marcia del 22 settembre promossa da Decidere.net. Del corsivo quotidiano oggi si è occupato Giuliano Gennaio.
Vi segnalo anche l'intervista ad Alberto Alesina sull'ultimo libro scritto insieme a Giavazzi, "Il liberismo è di sinistra", un articolo di Luca Martinelli su quanto sta accadendo in Birmania, la consueta rubrica di Luigi Castaldi, oggi particolarmente satirica, come anche il "chiodo" della settimana («Garlasco: l'arresto del fidanzato della vittima scagiona ormai definitivamente Daniele Capezzone. Delusione a Torre Argentina»). Infine, una recensione a firma Astrid Nausicaa Maragò sul film The Simpsons Movie, da poco nelle sale.
Ma scoprite da voi tutto il numero.
Vi segnalo anche l'intervista ad Alberto Alesina sull'ultimo libro scritto insieme a Giavazzi, "Il liberismo è di sinistra", un articolo di Luca Martinelli su quanto sta accadendo in Birmania, la consueta rubrica di Luigi Castaldi, oggi particolarmente satirica, come anche il "chiodo" della settimana («Garlasco: l'arresto del fidanzato della vittima scagiona ormai definitivamente Daniele Capezzone. Delusione a Torre Argentina»). Infine, una recensione a firma Astrid Nausicaa Maragò sul film The Simpsons Movie, da poco nelle sale.
Ma scoprite da voi tutto il numero.
Milano - Roma, in viaggio per le pensioni
Salvio di Maio, di DecidereMilano, ha realizzato questo piccolo documentario sulla manifestazione di sabato scorso al Pantheon, vista con gli occhi di chi non è voluto mancare pur abitando a Milano. Sapete già che non troverete folle oceaniche, ma lo spirito è quello giusto. Splendide immagini, musica, interviste. Grazie amici.
Birmani marciate, non siete soli
Il Presidente Usa annuncia sanzioni contro il regime
E' la manifestazione più imponente degli ultimi anni contro una dittatura. Partiti in poche centinaia, ai monaci buddisti che marciano contro la Giunta militare birmana, sotto una pioggia incessante, per le strade della capitale si sono uniti anche semplici cittadini. Ora sono in 300 mila a marciare armati di nonviolenza. E' una dinamica che ricorda la gandhiana marcia del sale.
I manifestanti, giunti a questo punto, non possono fermarsi, non possono spegnere loro stessi i riflettori sulla protesta, altrimenti il regime approfitterà del momento per scatenare una repressione sanguinosa.
Attenzione, però, perché qui si rischia comunque una nuova Tienanmen. Gli organi di informazione e i governi occidentali devono far percepire la loro presenza. Il presidente americano George W. Bush, coerente nello schierarsi al fianco di ogni popolo in lotta per la propria libertà, parlerà presto, già domani, all'Assemblea generale dell'Onu: annuncerà che ci saranno «sanzioni aggiuntive verso membri chiave del regime e a chi fornisce loro finanziamenti», ha detto il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Stephen Hadley. Anche «un divieto di visto per individui precisi attivi nel regime e le loro famiglie».
Il regime si trova di fronte a un dilemma: reprimere duramente la manifestazione guidata dai monaci buddisti, rischiando però di suscitare un moto di sdegno in tutta la nazione. Oppure, lasciar marciare i religiosi nella capitale e in qualche altra città, rischiando che il movimento prenda slancio e si diffonda ad altri strati sociali, come gli studenti e i dipendenti pubblici. Scongiuriamo anche la presidenza dell'Ue di intervenire, e di lanciare una proposta ai monaci e al regime birmano: la fine delle manifestazioni in cambio di un calendario certo per portare il paese a elezioni libere sotto il controllo dell'Onu.
Vi segnalo, sulla Birmania, lo splendido reportage di Enzo Reale, che sul suo blog segue gli eventi, e la cronaca della protesta, di Luca Martinelli, entrambi su LibMagazine.
E' la manifestazione più imponente degli ultimi anni contro una dittatura. Partiti in poche centinaia, ai monaci buddisti che marciano contro la Giunta militare birmana, sotto una pioggia incessante, per le strade della capitale si sono uniti anche semplici cittadini. Ora sono in 300 mila a marciare armati di nonviolenza. E' una dinamica che ricorda la gandhiana marcia del sale.
I manifestanti, giunti a questo punto, non possono fermarsi, non possono spegnere loro stessi i riflettori sulla protesta, altrimenti il regime approfitterà del momento per scatenare una repressione sanguinosa.
Attenzione, però, perché qui si rischia comunque una nuova Tienanmen. Gli organi di informazione e i governi occidentali devono far percepire la loro presenza. Il presidente americano George W. Bush, coerente nello schierarsi al fianco di ogni popolo in lotta per la propria libertà, parlerà presto, già domani, all'Assemblea generale dell'Onu: annuncerà che ci saranno «sanzioni aggiuntive verso membri chiave del regime e a chi fornisce loro finanziamenti», ha detto il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Stephen Hadley. Anche «un divieto di visto per individui precisi attivi nel regime e le loro famiglie».
Il regime si trova di fronte a un dilemma: reprimere duramente la manifestazione guidata dai monaci buddisti, rischiando però di suscitare un moto di sdegno in tutta la nazione. Oppure, lasciar marciare i religiosi nella capitale e in qualche altra città, rischiando che il movimento prenda slancio e si diffonda ad altri strati sociali, come gli studenti e i dipendenti pubblici. Scongiuriamo anche la presidenza dell'Ue di intervenire, e di lanciare una proposta ai monaci e al regime birmano: la fine delle manifestazioni in cambio di un calendario certo per portare il paese a elezioni libere sotto il controllo dell'Onu.
Vi segnalo, sulla Birmania, lo splendido reportage di Enzo Reale, che sul suo blog segue gli eventi, e la cronaca della protesta, di Luca Martinelli, entrambi su LibMagazine.
Modelli sanitari a confronto: gli Usa
Vi riassumo, brevemente, un documentato articolo di Alberto Mingardi, di qualche giorno fa, sui luoghi comuni che riguardano la sanità "made in Usa", che a ben vedere mostra segni di crisi non molto diversi da quelli della nostra sanità.
Il sistema sanitario americano «è senz'altro molto caro, fondamentalmente a causa degli alti costi di quella che l'economista Arnold Kling chiama "medicina premium", e che noi potremmo descrivere come la medicina tecnologicamente più avanzata al mondo. Il progresso della ricerca contribuisce a salvare delle vite, ma anche a fare lievitare i costi».
Il modello "assicurativo" americano «non era fuori controllo negli anni Cinquanta: lo è adesso. Parimenti, i programmi pubblici hanno costi in linea, e non inferiori, a quelli delle assicurazioni private. L'aumento dei costi della sanità è avvenuto negli ultimi vent'anni. Ovunque, i costi aumentano, perché i trattamenti sono diventati più raffinati e complessi... Negli Usa la spesa sanitaria pro capite supera i 5000$, la media nei Paesi Ocse è di circa 3000$. In termini aggregati la differenza è enorme, ma per persona la differenza è di soli 2000 dollari». Paghereste 2000 dollari in più l'anno per usufruire della sanità americana? Io sì.
La spesa sanitaria, negli Usa, «è quasi equamente divisa fra pubblico e privato. Nel 2006, la spesa complessiva è stata di oltre 2,1 mila miliardi di dollari, il 16% del PIL. Il 46% è stato speso attraverso programmi statali, il privato si è preso cura solo del 54%... Nel 2005 i beneficiari del programma "Medicare" (anziani e disabili) erano quasi 43 milioni, mentre "Medicaid" ha assistito oltre 45 milioni di americani "poveri"».
Le assicurazioni private «coprono il 68% degli americani (203 milioni di persone!), ma di questi solo 28 milioni acquistano la propria assicurazione da sé, sul mercato: il 60,2% di loro, al contrario, beneficia di un'assicurazione legata al posto di lavoro che occupa. Questi premi pagati dai datori di lavoro di fatto avvicinano sistema americano e sistema europeo più di quanto non possa sembrare: tale forma di assicurazione somiglia più al "diritto alla salute" garantito nei nostri Paesi, che ad un "bene" acquistabile dai consumatori... come in Europa, il beneficiario non ha alcun rapporto con il "prezzo" delle prestazioni che riceve».
In un mercato del lavoro flessibile come quello Usa, «questo legame fra assicurazione e posto di lavoro ha un impatto notevole sulla percentuale di non-assicurati. Buona parte di coloro che non hanno un'assicurazione sono "working poor" (troppo "ricchi" per beneficiare di Medicaid). Ma molti sono pure persone di età compresa fra i 18 e i 24 anni, che non sentono la necessità di una copertura assicurativa; persone che lavorano solo part time; uomini e donne non-assicurati fra un lavoro e l'altro».
«Ad ogni modo, non avere un'assicurazione non significa non venire curati. Dal 1986 - ricorda Mingardi - gli ospedali che accettano pazienti dei programmi Medicare o Medicaid sono obbligati a fornire cure sollecite in caso di emergenza a chiunque». Ci sono poi il pagamento diretto, programmi pubblici-privati, iniziative benefiche.
Conclude Mingardi: «E' un buon sistema, ma in crisi per gli stessi motivi che mettono a repentaglio la sostenibilità della nostra sanità: l'invecchiamento della popolazione, che va di pari passo con una domanda più complessa e importante da parte dei pazienti. I pazienti non sostengono direttamente i costi delle proprie cure, e questo ne comporta un'inflazione. Ma è difficile dedurne che un sistema che allontani ancora di più paziente e prezzo della cura, possa rivelarsi più sostenibile».
Il sistema sanitario americano «è senz'altro molto caro, fondamentalmente a causa degli alti costi di quella che l'economista Arnold Kling chiama "medicina premium", e che noi potremmo descrivere come la medicina tecnologicamente più avanzata al mondo. Il progresso della ricerca contribuisce a salvare delle vite, ma anche a fare lievitare i costi».
Il modello "assicurativo" americano «non era fuori controllo negli anni Cinquanta: lo è adesso. Parimenti, i programmi pubblici hanno costi in linea, e non inferiori, a quelli delle assicurazioni private. L'aumento dei costi della sanità è avvenuto negli ultimi vent'anni. Ovunque, i costi aumentano, perché i trattamenti sono diventati più raffinati e complessi... Negli Usa la spesa sanitaria pro capite supera i 5000$, la media nei Paesi Ocse è di circa 3000$. In termini aggregati la differenza è enorme, ma per persona la differenza è di soli 2000 dollari». Paghereste 2000 dollari in più l'anno per usufruire della sanità americana? Io sì.
La spesa sanitaria, negli Usa, «è quasi equamente divisa fra pubblico e privato. Nel 2006, la spesa complessiva è stata di oltre 2,1 mila miliardi di dollari, il 16% del PIL. Il 46% è stato speso attraverso programmi statali, il privato si è preso cura solo del 54%... Nel 2005 i beneficiari del programma "Medicare" (anziani e disabili) erano quasi 43 milioni, mentre "Medicaid" ha assistito oltre 45 milioni di americani "poveri"».
Le assicurazioni private «coprono il 68% degli americani (203 milioni di persone!), ma di questi solo 28 milioni acquistano la propria assicurazione da sé, sul mercato: il 60,2% di loro, al contrario, beneficia di un'assicurazione legata al posto di lavoro che occupa. Questi premi pagati dai datori di lavoro di fatto avvicinano sistema americano e sistema europeo più di quanto non possa sembrare: tale forma di assicurazione somiglia più al "diritto alla salute" garantito nei nostri Paesi, che ad un "bene" acquistabile dai consumatori... come in Europa, il beneficiario non ha alcun rapporto con il "prezzo" delle prestazioni che riceve».
In un mercato del lavoro flessibile come quello Usa, «questo legame fra assicurazione e posto di lavoro ha un impatto notevole sulla percentuale di non-assicurati. Buona parte di coloro che non hanno un'assicurazione sono "working poor" (troppo "ricchi" per beneficiare di Medicaid). Ma molti sono pure persone di età compresa fra i 18 e i 24 anni, che non sentono la necessità di una copertura assicurativa; persone che lavorano solo part time; uomini e donne non-assicurati fra un lavoro e l'altro».
«Ad ogni modo, non avere un'assicurazione non significa non venire curati. Dal 1986 - ricorda Mingardi - gli ospedali che accettano pazienti dei programmi Medicare o Medicaid sono obbligati a fornire cure sollecite in caso di emergenza a chiunque». Ci sono poi il pagamento diretto, programmi pubblici-privati, iniziative benefiche.
Conclude Mingardi: «E' un buon sistema, ma in crisi per gli stessi motivi che mettono a repentaglio la sostenibilità della nostra sanità: l'invecchiamento della popolazione, che va di pari passo con una domanda più complessa e importante da parte dei pazienti. I pazienti non sostengono direttamente i costi delle proprie cure, e questo ne comporta un'inflazione. Ma è difficile dedurne che un sistema che allontani ancora di più paziente e prezzo della cura, possa rivelarsi più sostenibile».
Monday, September 24, 2007
E' l'America, bellezza, e non puoi farci niente
L'America è un paese dove il dittatore di un paese ostile può atterrare a New York e parlare agli studenti in una delle più prestigiose università. Un segno di debolezza o di forza? Lascio a voi rispondere, ma se ci pensate un attimo non è così facile.
Dal rettore della Columbia, Lee Bollinger, che ha invitato Ahamdinejad esponendosi a vigorose polemiche («Avrei invitato anche Hitler», si è difeso), dobbiamo dire che abbiamo avuto una piacevole sorpresa. Gli ha parlato senza alcuna deferenza e peli sulla lingua, tanto da trasformare in una specie di trappola un invito che sembrava un'apertura di credito, un cedimento al nemico. Ma gli americani sono fatti così...
Lo ha definito un «gretto e crudele dittatore», sollevando un fragoroso applauso da parte del pubblico, e gli ha chiesto conto e ragione delle persecuzioni di donne, omosessuali, giornalisti come Akbar Ganjoi e altri intellettuali, e del negazionismo sull'Olocausto, «uno dei fatti storici più documentati della storia. E negarlo, come fa lei, denota una sconvolgente ignoranza. Quando la finirà con questo oltraggio?».
Lo ha davvero maltrattato: «Quando viene in un posto come questo, vi coprite di ridicolo». No, caro Mahmud, sei in America e al rettore della Columbia non puoi torcere un capello!
E di ridicolo Ahmadinejad si è coperto davvero, quando a uno studente che gli chiedeva conto delle persecuzioni contro gli omosessuali ha risposto che in Iran «non esistono gli omosessuali come in America». I ragazzi in sala ovviamente sono scoppiati a ridere. Che scena dev'essere stata... L'incontro si è trasformato in una lezione vera e propria... per il dittatore, o per gli studenti?
La differenza è che in Iran le proteste contro le ambasciate e i funzionari occidentali sono violente e comandate dal regime. In America sono spontanee e nonviolente. Gli studenti ovviamente si sono divisi tra contrari e favorevoli alla visita, dando vita a piccoli sit-in con cartelli e vivaci battibecchi davanti l'università. Proteste anche da parte della comunità ebraica e degli iraniani che vivono a New York, mentre alcuni studenti, già pensando al futuro, hanno sfilato contro l'ipotesi di una guerra contro l'Iran.
Dal rettore della Columbia, Lee Bollinger, che ha invitato Ahamdinejad esponendosi a vigorose polemiche («Avrei invitato anche Hitler», si è difeso), dobbiamo dire che abbiamo avuto una piacevole sorpresa. Gli ha parlato senza alcuna deferenza e peli sulla lingua, tanto da trasformare in una specie di trappola un invito che sembrava un'apertura di credito, un cedimento al nemico. Ma gli americani sono fatti così...
Lo ha definito un «gretto e crudele dittatore», sollevando un fragoroso applauso da parte del pubblico, e gli ha chiesto conto e ragione delle persecuzioni di donne, omosessuali, giornalisti come Akbar Ganjoi e altri intellettuali, e del negazionismo sull'Olocausto, «uno dei fatti storici più documentati della storia. E negarlo, come fa lei, denota una sconvolgente ignoranza. Quando la finirà con questo oltraggio?».
Lo ha davvero maltrattato: «Quando viene in un posto come questo, vi coprite di ridicolo». No, caro Mahmud, sei in America e al rettore della Columbia non puoi torcere un capello!
E di ridicolo Ahmadinejad si è coperto davvero, quando a uno studente che gli chiedeva conto delle persecuzioni contro gli omosessuali ha risposto che in Iran «non esistono gli omosessuali come in America». I ragazzi in sala ovviamente sono scoppiati a ridere. Che scena dev'essere stata... L'incontro si è trasformato in una lezione vera e propria... per il dittatore, o per gli studenti?
La differenza è che in Iran le proteste contro le ambasciate e i funzionari occidentali sono violente e comandate dal regime. In America sono spontanee e nonviolente. Gli studenti ovviamente si sono divisi tra contrari e favorevoli alla visita, dando vita a piccoli sit-in con cartelli e vivaci battibecchi davanti l'università. Proteste anche da parte della comunità ebraica e degli iraniani che vivono a New York, mentre alcuni studenti, già pensando al futuro, hanno sfilato contro l'ipotesi di una guerra contro l'Iran.
Ahmadinejad avrebbe voluto persino oltraggiare la memoria delle vittime dell'11 settembre, ma per fortuna non gli è stato concesso. E rimaniamo dell'idea che l'Iran sia uno di quei paesi che dovrebbe immediatamente essere espulso dall'Onu perché non rispetta la sua carta costitutiva.
La battaglia laica contro la partitocrazia
Corsivo di oggi per LibMagazine
Radicali, liberali, laici, socialisti della maggioranza seguiranno i movimenti dei senatori "liberaldemocratici" capeggiati da Dini? Non credo, sono troppo addormentati nel sonno "laicista". Attenzione: non ho problemi a definirmi laico o, se proprio insistono, laicista. Il problema è un altro. E' di analisi di fondo. E i radicali, i liberali, i laici, i socialisti sbagliano analisi di fondo. Non che Dini sia mosso da motivazioni ideali piuttosto che dal desiderio di guidare un governo pre-elettorale e, magari, fare da padrino al prossimo Parlamento che potrebbe portarlo al Quirinale.
Sbagliano analisi, dicevo, perché la principale battaglia di laicità oggi, quella da cui dipendono anche i rapporti tra Stato e Chiesa, è quella contro la partitocrazia e l'espansione abnorme dello Stato, che a tutti i livelli toglie spazio all'iniziativa e alla scelta individuale, a danno maggiore dei ceti meno abbienti, dei non garantiti, dei giovani.
I radicali l'hanno capito tempo addietro, ma sembrano esserselo scordato. La battaglia laica contro la partitocrazia può avere successo non tagliando immunità e auto blu (anche quello, certo), o manifestando un astioso orgoglio a Porta Pia, ma principalmente spezzando il binomio tasse-spesa pubblica, la vera e propria linfa che mantiene al potere le classi dirigenti di sinistra e di destra, che con il denaro dei contribuenti favoriscono le loro clientele (tra cui la Chiesa), e con una riforma istituzionale in senso presidenzialista e uninominale.
Una grande intuizione di Pannella il concetto di "partitocrazia", solo per poco più d'un decennio reso concreto da una politica che mirava ad aggredirne la linfa vitale. Persa un po' di vista, invece, sia negli anni '70 e nei primi anni '80, che oggi da ultimi giapponesi di Prodi. Addirittura, il documento che accompagna i 26 (o 42?) punti della campagna d'autunno radicale, alcuni certamente condivisibili e liberali, rifiuta di riconoscere la centralità della questione fiscale e statalista nella sopravvivenza della partitocrazia, di cui il deficit di laicità non è che un'escrescenza.
Dunque, per chi, radicale, liberale, laico, socialista, si trova nella maggioranza, uno spostamento come quello di Dini dovrebbe quanto meno essere di esempio, per tentare di raggiungere una posizione meno irrilevante rispetto ai futuri sviluppi nelle due coalizioni, verso uno spazio politico che c'è e che verrà occupato da chi sarà in grado di rappresentare le aspettative di libertà frustrate nell'elettorato.
Un discorso simile vale per i temerari di Decidere.net, che ad oggi sembrano aver troppo repentinamente e scontatamente scavallato l'incerto e fumoso confine tra sinistra e destra, rischiando così di risultare non più interlocutori della prima e già acquisiti dalla seconda.
Radicali, liberali, laici, socialisti della maggioranza seguiranno i movimenti dei senatori "liberaldemocratici" capeggiati da Dini? Non credo, sono troppo addormentati nel sonno "laicista". Attenzione: non ho problemi a definirmi laico o, se proprio insistono, laicista. Il problema è un altro. E' di analisi di fondo. E i radicali, i liberali, i laici, i socialisti sbagliano analisi di fondo. Non che Dini sia mosso da motivazioni ideali piuttosto che dal desiderio di guidare un governo pre-elettorale e, magari, fare da padrino al prossimo Parlamento che potrebbe portarlo al Quirinale.
Sbagliano analisi, dicevo, perché la principale battaglia di laicità oggi, quella da cui dipendono anche i rapporti tra Stato e Chiesa, è quella contro la partitocrazia e l'espansione abnorme dello Stato, che a tutti i livelli toglie spazio all'iniziativa e alla scelta individuale, a danno maggiore dei ceti meno abbienti, dei non garantiti, dei giovani.
I radicali l'hanno capito tempo addietro, ma sembrano esserselo scordato. La battaglia laica contro la partitocrazia può avere successo non tagliando immunità e auto blu (anche quello, certo), o manifestando un astioso orgoglio a Porta Pia, ma principalmente spezzando il binomio tasse-spesa pubblica, la vera e propria linfa che mantiene al potere le classi dirigenti di sinistra e di destra, che con il denaro dei contribuenti favoriscono le loro clientele (tra cui la Chiesa), e con una riforma istituzionale in senso presidenzialista e uninominale.
Una grande intuizione di Pannella il concetto di "partitocrazia", solo per poco più d'un decennio reso concreto da una politica che mirava ad aggredirne la linfa vitale. Persa un po' di vista, invece, sia negli anni '70 e nei primi anni '80, che oggi da ultimi giapponesi di Prodi. Addirittura, il documento che accompagna i 26 (o 42?) punti della campagna d'autunno radicale, alcuni certamente condivisibili e liberali, rifiuta di riconoscere la centralità della questione fiscale e statalista nella sopravvivenza della partitocrazia, di cui il deficit di laicità non è che un'escrescenza.
Dunque, per chi, radicale, liberale, laico, socialista, si trova nella maggioranza, uno spostamento come quello di Dini dovrebbe quanto meno essere di esempio, per tentare di raggiungere una posizione meno irrilevante rispetto ai futuri sviluppi nelle due coalizioni, verso uno spazio politico che c'è e che verrà occupato da chi sarà in grado di rappresentare le aspettative di libertà frustrate nell'elettorato.
Un discorso simile vale per i temerari di Decidere.net, che ad oggi sembrano aver troppo repentinamente e scontatamente scavallato l'incerto e fumoso confine tra sinistra e destra, rischiando così di risultare non più interlocutori della prima e già acquisiti dalla seconda.
Sunday, September 23, 2007
23 settembre
Caro Malvino, la marcia, divenuta manifestazione, è riuscita senz'altro al di sotto delle aspettative. Il riferimento ai 40 mila, che alcuni mesi fa, prendendosi un rischio d'impresa, Capezzone aveva evocato, non era certo sul piano numerico, né precisamente su quello della forma della marcia, ma del significato politico di "rottura", che pure qualcuno, come Alberto Mingardi (Libero, di oggi), ci ha visto nonostante i numeri esigui.
«Vabbe', insomma» è il commento di uno che si accontenta, e nego quest'immagine. Incasso ma persevero, perché nel mio quasi terzo di secolo da apprendista liberale non solo mi sono ritrovato minoritario, ma quasi sempre solo. E la solitudine fa fare brutti errori. Li ha fatti fare a molti che hanno creduto e credono in FI, li ha fatti fare a Pannella versione ultimo giapponese, forse li farà fare anche a Daniele.
Molti fattori hanno impedito a questa marcia di decollare, di essere percepita come evento anche da chi non fosse già direttamente in contatto con Decidere.net. Fattori esterni, ma certamente anche alcuni errori: di organizzazione e, diciamo, di tattica politica generale. Non lo nego, e Daniele e gli altri ne sono a conoscenza.
Solo che proprio non riesco, non solo a convincermi, neanche a trovare fondati gli errori che tu, non da oggi, indichi. Rispetto a tuoi precedenti post pretestuosi, almeno questo ultimo rischia di essere comunque utile e costruttivo, generoso come ti conosciamo.
1. "Prendo esempio dalla figura umana di Cristo" significa "io non commetto errori". No, non te la puoi cavare così. Prendere ad esempio sia pure un modello di perfezione - può essere Cristo o Totti - non significa per questo considerarsi perfetti come il modello. Se quindi vuoi dire che Daniele abbia un'alta stima di se stesso, anche troppa, e che abbia la tendenza a fare di testa sua, posso anche concordare. Ma qui Cristo non c'entra davvero. E' carattere, e lo spazio per dargli una mano c'è.
2. "Se Daniele Capezzone si fosse dimesso da segretario di Radicali italiani subito dopo le elezioni politiche". Sì, un errore ammesso da lui stesso (ops, ma non prendeva esempio dalla figura umana di Cristo?) davanti a una trentina di testimoni (noi due compresi), quasi un anno fa. Gli avrebbe evitato ciò che ha subito nel partito? Visto come sono andate le cose nei mesi successivi l'impressione è che il problema non fosse solo il cumulo della carica di parlamentare con la segreteria di Radicali italiani (come speravo che fosse), ma fossero la sua stessa linea e azione politica, la sua - pur minima - visibilità mediatica, persino la sua stessa "antropologia". Comunque, certamente le dimissioni "anticipate" lo avrebbero messo in una posizione meno attaccabile.
3. "Se dopo il congresso fosse rimasto minoranza all'interno di Radicali italiani, preparando il congresso successivo in netta opposizione all'appoggio giapponese del governo Prodi". Intendiamoci, cosa si intende per "preparare"? Un ex segretario come Capezzone, molto critico nei confronti della linea prevalente "governativa", non potrebbe permettersi di presentarsi al congresso se non puntando alla segreteria, non certo limitandosi a testimoniare una velleitaria posizione di dissenso. E candidarsi alla segreteria potrebbe voler dire due cose: perdere, e quindi dover comunque trarre le conseguenze (rimanere come minoranza, inseguito con i forconi dai seguaci di Pannella? Non molto produttivo, ammetterai); vincere, ma trovarsi a guidare un partito a cui a quel punto Pannella chiuderebbe i rubinetti dei crediti, esigendo i milioni di euro di debito accumulati. Tutto questo per che cosa, dunque?
Per convincere qualche altro radicale a seguirlo? Il delirio accaduto in casa radicale negli ultimi 10 mesi è sotto gli occhi di tutti, e con una limpidezza (merito dei radicali stessi) sconosciuta a ogni altro partito. Tutti hanno avuto modo di vedere, valutare e compiere le proprie scelte in piena consapevolezza. Tradotto: chi ha scelto, nonostante tutto, di rimanere rinchiuso nel bunker di Torre Argentina, non cambierà idea. A meno che non si pensi che Capezzone dovrebbe abbassarsi ai metodi della vecchia politica, con estenuante pressing sui radicali indecisi e pratiche scissioniste da Psi e nuovi Psi. Ha invece deciso di dar vita a qualcosa di diverso, un fatto nuovo, e metterlo a disposizione di chiunque volesse raccoglierlo. I fatti sono il migliore argomento per convincere i radicali indecisi se seguirlo o meno.
Se invece ritieni che rimanere nel partito e "preparare" il congresso, con l'effetto di non aver più neanche il tempo materiale per dare vita ad altro, servisse a conservare su di sé i riflettori dei media sadicamente interessati all'epica lotta con Pannella-Crono, be', ti invito a considerare che non si può campare mediaticamente sempre su quello. Prima o poi, il momento di rinunciarvi sarebbe arrivato.
4. "Se, con ciò, avesse rinunciato alla presidenza della Commissione attività produttive..." Si tratta di abbassare la testa di fronte a una logica partitocratica a tal punto che neanche i partiti della partitocrazia hanno osato mai pretendere. Mi risulta che mai nessuno si sia dimesso dalla presidenza di una commissione parlamentare in dissenso con il suo partito o con il governo. La presidenza di commissione è organo dell'assemblea. Nei fatti, in ragione di un accordo spartitorio tra i partiti della maggioranza, che tuttavia non può in nessun caso limitare la libertà del singolo su come interpetare il proprio mandato.
Altrimenti, perché non chiedere le dimissioni di Capezzone anche dal Parlamento, visto che non è più in accordo con il governo per il quale ha chiesto il voto agli elettori? Si apre il capitolo del vincolo di mandato. Se il rispetto del mandato da parte del deputato, o del presidente di commissione, si misurasse sulla linea del governo e del partito di appartenenza, allora sarebbe il trionfo della partitocrazia. Il Parlamento si ridurrebbe a un bivacco di manipoli più di quanto già non lo sia. E' all'elettore che spetta giudicare la coerenza dell'azione del parlamentare con il mandato ricevuto. Se Capezzone si dimettesse da presidente della Commissione gli sarebbe riconosciuto - giusto per lo spazio di un tg serale - un gesto "nobile", ma anche molto demagogico, capace di solleticare il palato di qualche romantico dell'anti-politica, ma davvero mi sfugge quale risultato politico possa produrre.
5. Sui tempi della nascita di Decidere.net, consentimi, è davvero troppo presto poter giudicare. Il populismo e la demagogia in cui scorre la vita politica italiana dura 12 mesi l'anno e ogni momento sarebbe stato quello sbagliato, comunque mai perfetto, con aspetti positivi e altri negativi, tra l'altro difficilissimo da valutare.
6. Portare al congresso dei radicali Decidere.net "come piattaforma di dibattito esterno al partito"? Cioè? Cosa dovrebbe dire Capezzone a quel Congresso: sono venuto ma vi indico la mia uscita di sicurezza; oppure, aderite alla mia "piattaforma di dibattito esterno"?
7. Tra i 13 punti "... un solo e pur vaghissimo punticino su una laicità che suonasse implicita come metodo..." Perché no? Ci poteva anche stare, ma non la vedo qualcosa di dirimente, motivo di un possibile fallimento né di abbandono. I 13 punti sono 13 punti sottoscritti da alcuni firmatari di un network, non di un partito. Servivano 13 cose concrete, immediatamente comprensibili, ma che segnassero una inequivocabile cesura rispetto alla linea attuale dei Radicali italiani, quella dell'"orgoglio laico" in chiave identitaria e... velleitaria.
I discorsi sulla laicità come metodo in economia e per tutto il resto, da non confondere con la falsa lacità della setta radicale, e sul liberalismo "né di destra, né di sinistra, né di centro, ma... ", eccetera, non sono incompatibili con i 13 punti. Probabilmente sono complementari. Ma credo anche che si tratti di discorsi dall'approccio più "culturale", che non possono essere ridotti a poche righe in un decalogo. Presuppongono un lavoro lungo. C'è la necessità, e anche lo spazio, in Decidere.net, di affrontare tali questioni, soprattutto se, come sembra, ci saranno i margini perché diventi qualcosa di più di un sito e di un network, con delle regole e delle sedi di dibattito. La forma attuale del network è insomma flessibile sia nel nome che nei contenuti.
8. Se sotto-sotto c'è, invece, la preclusione a priori verso ogni ipotesi di accordo, se e quando sarà il momento di decidere, con Forza Italia e il centrodestra, ciò sarebbe in contraddizione con l'idea dei liberali "né di destra né di sinistra" che però sanno "trovarsi" nell'una o nell'altra parte. E comunque è troppo presto per escludere qualsiasi tipo di ipotesi. D'altra parte, se qualcosa di liberale FI e la CdL non l'hanno fatta, quando erano al governo, ormai questo si può dire anche del centrosinistra. Liberali dovremmo esserlo noi. Se già lo fossero coloro con i quali dovessimo trovarci, a noi basterebbe votarli e occuparci d'altro.
In politica contano i fatti, ma le cause di un fatto che non va come previsto rimangono opinioni. E il solo aver previsto un fatto non vuol dire interpretarne correttamente cause ed effetti.
«Vabbe', insomma» è il commento di uno che si accontenta, e nego quest'immagine. Incasso ma persevero, perché nel mio quasi terzo di secolo da apprendista liberale non solo mi sono ritrovato minoritario, ma quasi sempre solo. E la solitudine fa fare brutti errori. Li ha fatti fare a molti che hanno creduto e credono in FI, li ha fatti fare a Pannella versione ultimo giapponese, forse li farà fare anche a Daniele.
Molti fattori hanno impedito a questa marcia di decollare, di essere percepita come evento anche da chi non fosse già direttamente in contatto con Decidere.net. Fattori esterni, ma certamente anche alcuni errori: di organizzazione e, diciamo, di tattica politica generale. Non lo nego, e Daniele e gli altri ne sono a conoscenza.
Solo che proprio non riesco, non solo a convincermi, neanche a trovare fondati gli errori che tu, non da oggi, indichi. Rispetto a tuoi precedenti post pretestuosi, almeno questo ultimo rischia di essere comunque utile e costruttivo, generoso come ti conosciamo.
1. "Prendo esempio dalla figura umana di Cristo" significa "io non commetto errori". No, non te la puoi cavare così. Prendere ad esempio sia pure un modello di perfezione - può essere Cristo o Totti - non significa per questo considerarsi perfetti come il modello. Se quindi vuoi dire che Daniele abbia un'alta stima di se stesso, anche troppa, e che abbia la tendenza a fare di testa sua, posso anche concordare. Ma qui Cristo non c'entra davvero. E' carattere, e lo spazio per dargli una mano c'è.
2. "Se Daniele Capezzone si fosse dimesso da segretario di Radicali italiani subito dopo le elezioni politiche". Sì, un errore ammesso da lui stesso (ops, ma non prendeva esempio dalla figura umana di Cristo?) davanti a una trentina di testimoni (noi due compresi), quasi un anno fa. Gli avrebbe evitato ciò che ha subito nel partito? Visto come sono andate le cose nei mesi successivi l'impressione è che il problema non fosse solo il cumulo della carica di parlamentare con la segreteria di Radicali italiani (come speravo che fosse), ma fossero la sua stessa linea e azione politica, la sua - pur minima - visibilità mediatica, persino la sua stessa "antropologia". Comunque, certamente le dimissioni "anticipate" lo avrebbero messo in una posizione meno attaccabile.
3. "Se dopo il congresso fosse rimasto minoranza all'interno di Radicali italiani, preparando il congresso successivo in netta opposizione all'appoggio giapponese del governo Prodi". Intendiamoci, cosa si intende per "preparare"? Un ex segretario come Capezzone, molto critico nei confronti della linea prevalente "governativa", non potrebbe permettersi di presentarsi al congresso se non puntando alla segreteria, non certo limitandosi a testimoniare una velleitaria posizione di dissenso. E candidarsi alla segreteria potrebbe voler dire due cose: perdere, e quindi dover comunque trarre le conseguenze (rimanere come minoranza, inseguito con i forconi dai seguaci di Pannella? Non molto produttivo, ammetterai); vincere, ma trovarsi a guidare un partito a cui a quel punto Pannella chiuderebbe i rubinetti dei crediti, esigendo i milioni di euro di debito accumulati. Tutto questo per che cosa, dunque?
Per convincere qualche altro radicale a seguirlo? Il delirio accaduto in casa radicale negli ultimi 10 mesi è sotto gli occhi di tutti, e con una limpidezza (merito dei radicali stessi) sconosciuta a ogni altro partito. Tutti hanno avuto modo di vedere, valutare e compiere le proprie scelte in piena consapevolezza. Tradotto: chi ha scelto, nonostante tutto, di rimanere rinchiuso nel bunker di Torre Argentina, non cambierà idea. A meno che non si pensi che Capezzone dovrebbe abbassarsi ai metodi della vecchia politica, con estenuante pressing sui radicali indecisi e pratiche scissioniste da Psi e nuovi Psi. Ha invece deciso di dar vita a qualcosa di diverso, un fatto nuovo, e metterlo a disposizione di chiunque volesse raccoglierlo. I fatti sono il migliore argomento per convincere i radicali indecisi se seguirlo o meno.
Se invece ritieni che rimanere nel partito e "preparare" il congresso, con l'effetto di non aver più neanche il tempo materiale per dare vita ad altro, servisse a conservare su di sé i riflettori dei media sadicamente interessati all'epica lotta con Pannella-Crono, be', ti invito a considerare che non si può campare mediaticamente sempre su quello. Prima o poi, il momento di rinunciarvi sarebbe arrivato.
4. "Se, con ciò, avesse rinunciato alla presidenza della Commissione attività produttive..." Si tratta di abbassare la testa di fronte a una logica partitocratica a tal punto che neanche i partiti della partitocrazia hanno osato mai pretendere. Mi risulta che mai nessuno si sia dimesso dalla presidenza di una commissione parlamentare in dissenso con il suo partito o con il governo. La presidenza di commissione è organo dell'assemblea. Nei fatti, in ragione di un accordo spartitorio tra i partiti della maggioranza, che tuttavia non può in nessun caso limitare la libertà del singolo su come interpetare il proprio mandato.
Altrimenti, perché non chiedere le dimissioni di Capezzone anche dal Parlamento, visto che non è più in accordo con il governo per il quale ha chiesto il voto agli elettori? Si apre il capitolo del vincolo di mandato. Se il rispetto del mandato da parte del deputato, o del presidente di commissione, si misurasse sulla linea del governo e del partito di appartenenza, allora sarebbe il trionfo della partitocrazia. Il Parlamento si ridurrebbe a un bivacco di manipoli più di quanto già non lo sia. E' all'elettore che spetta giudicare la coerenza dell'azione del parlamentare con il mandato ricevuto. Se Capezzone si dimettesse da presidente della Commissione gli sarebbe riconosciuto - giusto per lo spazio di un tg serale - un gesto "nobile", ma anche molto demagogico, capace di solleticare il palato di qualche romantico dell'anti-politica, ma davvero mi sfugge quale risultato politico possa produrre.
5. Sui tempi della nascita di Decidere.net, consentimi, è davvero troppo presto poter giudicare. Il populismo e la demagogia in cui scorre la vita politica italiana dura 12 mesi l'anno e ogni momento sarebbe stato quello sbagliato, comunque mai perfetto, con aspetti positivi e altri negativi, tra l'altro difficilissimo da valutare.
6. Portare al congresso dei radicali Decidere.net "come piattaforma di dibattito esterno al partito"? Cioè? Cosa dovrebbe dire Capezzone a quel Congresso: sono venuto ma vi indico la mia uscita di sicurezza; oppure, aderite alla mia "piattaforma di dibattito esterno"?
7. Tra i 13 punti "... un solo e pur vaghissimo punticino su una laicità che suonasse implicita come metodo..." Perché no? Ci poteva anche stare, ma non la vedo qualcosa di dirimente, motivo di un possibile fallimento né di abbandono. I 13 punti sono 13 punti sottoscritti da alcuni firmatari di un network, non di un partito. Servivano 13 cose concrete, immediatamente comprensibili, ma che segnassero una inequivocabile cesura rispetto alla linea attuale dei Radicali italiani, quella dell'"orgoglio laico" in chiave identitaria e... velleitaria.
I discorsi sulla laicità come metodo in economia e per tutto il resto, da non confondere con la falsa lacità della setta radicale, e sul liberalismo "né di destra, né di sinistra, né di centro, ma... ", eccetera, non sono incompatibili con i 13 punti. Probabilmente sono complementari. Ma credo anche che si tratti di discorsi dall'approccio più "culturale", che non possono essere ridotti a poche righe in un decalogo. Presuppongono un lavoro lungo. C'è la necessità, e anche lo spazio, in Decidere.net, di affrontare tali questioni, soprattutto se, come sembra, ci saranno i margini perché diventi qualcosa di più di un sito e di un network, con delle regole e delle sedi di dibattito. La forma attuale del network è insomma flessibile sia nel nome che nei contenuti.
8. Se sotto-sotto c'è, invece, la preclusione a priori verso ogni ipotesi di accordo, se e quando sarà il momento di decidere, con Forza Italia e il centrodestra, ciò sarebbe in contraddizione con l'idea dei liberali "né di destra né di sinistra" che però sanno "trovarsi" nell'una o nell'altra parte. E comunque è troppo presto per escludere qualsiasi tipo di ipotesi. D'altra parte, se qualcosa di liberale FI e la CdL non l'hanno fatta, quando erano al governo, ormai questo si può dire anche del centrosinistra. Liberali dovremmo esserlo noi. Se già lo fossero coloro con i quali dovessimo trovarci, a noi basterebbe votarli e occuparci d'altro.
In politica contano i fatti, ma le cause di un fatto che non va come previsto rimangono opinioni. E il solo aver previsto un fatto non vuol dire interpretarne correttamente cause ed effetti.
Papa Ratzinger si candida a leader dei no global
Il liberismo sarà anche "di sinistra", ma non è cattolico, almeno secondo Benedetto XvI. Su questo blog non abbiamo mai creduto che l'attacco di Papa Ratzinger al liberalismo si fermasse alle libertà personali, alla morale e al costume. Pur non potendo mettere in discussione in modo credibile il libero mercato, per mancanza di sistemi alternativi in grado di produrre benessere, lo si attacca per i suoi presunti eccessi, il consumismo, ricorrendo all'immmagine pauperistica del capitalista avido e senza scrupoli che affama le popolazioni indigine.
«L'emergenza della fame e quella ecologica - ha spiegato Benedetto XVI - stanno a denunciare, con crescente evidenza, che la logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra ricchi e poveri e un rovinoso sfruttamento del pianeta. Quando invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo e sostenibile».
La colpa della povertà e della fame nel mondo non sarebbe dunque di governi corrotti, di terribili dittature, dell'arretratezza culturale e civile in cui vivono centinaia di milioni di persone, in molti casi costrette a quell'aretratezza dalla propria religione, ma della logica del profitto. Eppure, ci dicono le statistiche, proprio la logica del profitto, il libero mercato, il capitalismo, la globalizzazione, stanno facendo compiere ai paesi in via di sviluppo che li adottano impressionanti passi da giganti e, nel lungo periodo, sono sempre di più i milioni di individui nel mondo che escono dalla soglia della miseria.
«Il capitalismo non va considerato come l'unico modello valido di organizzazione economica», dice il Papa: quale alternativa, dunque? Proponga pure. Governanti ed economisti dovrebbero forse affidarsi alla Madonna per trovare «strategie lungimiranti che favoriscano l'autentico progresso di tutti i popoli»?
«L'emergenza della fame e quella ecologica - ha spiegato Benedetto XVI - stanno a denunciare, con crescente evidenza, che la logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra ricchi e poveri e un rovinoso sfruttamento del pianeta. Quando invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo e sostenibile».
La colpa della povertà e della fame nel mondo non sarebbe dunque di governi corrotti, di terribili dittature, dell'arretratezza culturale e civile in cui vivono centinaia di milioni di persone, in molti casi costrette a quell'aretratezza dalla propria religione, ma della logica del profitto. Eppure, ci dicono le statistiche, proprio la logica del profitto, il libero mercato, il capitalismo, la globalizzazione, stanno facendo compiere ai paesi in via di sviluppo che li adottano impressionanti passi da giganti e, nel lungo periodo, sono sempre di più i milioni di individui nel mondo che escono dalla soglia della miseria.
«Il capitalismo non va considerato come l'unico modello valido di organizzazione economica», dice il Papa: quale alternativa, dunque? Proponga pure. Governanti ed economisti dovrebbero forse affidarsi alla Madonna per trovare «strategie lungimiranti che favoriscano l'autentico progresso di tutti i popoli»?
In Birmania marcia nonviolenta
Le notizie che giungono i questi giorni dalla Birmania ci riempiono al tempo stesso di ira, commozione, e speranza.
Sono centinaia i monaci buddisti in marcia sotto la pioggia per le strade della capitale contro la Giunta militare che da ben 45 anni guida il Paese. Anche la gente comune sta cominiciando a unirsi al loro passaggio.
Ieri pomeriggio il corteo è passato davanti alla casa di Aung San Suu Kyi, la figura simbolo del movimento democratico e premio Nobel per la Pace da anni agli arresti domiciliari.
Sull'Europa non riponiamo aspettative, ma per gli Stati Uniti è il momento di dimostrare la coerenza con cui perseguono l'espansione della democrazia.
1972, che sulla Birmania ha realizzato uno splendido reportage per LibMagazine, sta seguendo l'evolversi della situazione.
Sono centinaia i monaci buddisti in marcia sotto la pioggia per le strade della capitale contro la Giunta militare che da ben 45 anni guida il Paese. Anche la gente comune sta cominiciando a unirsi al loro passaggio.
Ieri pomeriggio il corteo è passato davanti alla casa di Aung San Suu Kyi, la figura simbolo del movimento democratico e premio Nobel per la Pace da anni agli arresti domiciliari.
Sull'Europa non riponiamo aspettative, ma per gli Stati Uniti è il momento di dimostrare la coerenza con cui perseguono l'espansione della democrazia.
1972, che sulla Birmania ha realizzato uno splendido reportage per LibMagazine, sta seguendo l'evolversi della situazione.
Camillo risponde per le rime
Su Il Foglio, l'altro giorno, Stefano Di Michele, Annalena Benini e Maurizio Crippa non hanno trovato altro modo per colpire e delegittimare Beppe Grillo che prendersela con i blog. Non abbiamo esitato a rispondere. Christian Rocca, con il suo Camillo uno dei più "anziani" blogger italiani, si è fatto sentire, pesantemente: «Che stronzate!» Siamo con lui.
Al tempo del popolo dei fax, era il popolo o il fax che faceva orrore? Ecco, il blog è una specie di telefono o di telefax che non squilla e non stampa. Discutere di che cosa si dica solitamente al telefono o di cosa mediamente si scriva sui fax mi pare bizzarro.
Saturday, September 22, 2007
Marcia per la tua pensione
Oggi alle ore 16, al Pantheon (Roma). In diretta web su DecidereRadio e DecidereTv. Collegamenti da Piazza del Pantheon e dal percorso della marcia. Vediamo se riesce l'impresa temeraria di portare in piazza qualche liberale per la riforma della pensioni (età pensionabile a 65 anni nel 2018), mentre non si parla che di Grillo. Contro la controriforma annunciata dal Governo Prodi che abbassa l'età pensionabile e rischia di tagliare fuori le nuove generazioni, tutto per far andare in pensione subito 120 mila 58enni, facendo pagare i costi dell'operazione ai giovani precari.
Sarkozy, adesso "si parrà la sua nobilitate"
Dovrà dimostrare la concretezza e la fermezza della Thatcher
Sarkozy è ancora il presidente della "rupture"? Si può cominciare a tracciare un primo bilancio della sua presidenza? Crediamo che sia ancora troppo presto, ma una delle regole ferree della politica ci dice che un progetto riformatore o per lo meno comincia a dispiegarsi nel primo anno di governo, oppure è molto alta la possibilità che abortisca e non veda mai la luce neanche negli anni successivi. Dall'autunno ormai alle porte il presidente francese dovrà dimostrare di non possedere doti di leadership solo in campagna elettorale, ma di essere un capace uomo di governo e un abile politico. Passare dal "decisionismo" alle decisioni, delle "grandi" riforme annunciate a quelle fatte.
«Sono stato eletto per risolvere i problemi, non per chiacchierare su questi ultimi!», ha dichiarato in una lunga intervista radiotelevisiva a reti unificate. Sarkozy in questi mesi non ha fatto passare giorno senza che fosse annunciata una «grande» riforma. Finora l'unico progetto di legge di rilievo presentato dal nuovo governo guidato da Fillon è la defiscalizzazione senza limiti degli straordinari. Tra le riforme annunciate il taglio delle tasse, l'abolizione delle 35 ore lavorative, nuove regole per un'immigrazione che sia «scelta» invece che «subita», la riforma della scuola.
Ma in Francia, come in Italia, i nodi in grado di infiammare lo scontro politico sono pensioni e mercato del lavoro, l'eccessivo peso dello Stato e la mancanza di meritocrazia. Su questi fronti Sarkozy ha preso impegni precisi sui quali verranno misurati il suo valore e la reale consistenza della sua "rupture". Se vuole tener fede a quegli impegni dovrà essere disposto a scendere in trincea. Dimostrarsi un grande "motivatore", sia nei confronti della sua squadra e della sua maggioranza, sia nei confronti del paese. Non sottrarsi allo scontro con le forze sociali e politiche della conservazione, sapendo però, di fronte all'opinione pubblica motivare le sue scelte con obiettivi nell'interesse generale.
Sarkozy ha annunciato di voler «ricostruire da zero la funzione pubblica, rifondare lo Stato». Fino ad oggi la pubblica amministrazione ha giocato un ruolo di «ostacolo al cambiamento», ma «il malessere è ovunque», «lo Stato non cessa di estendersi per diventare tentacolare». Occorre quindi un «nuovo patto tra funzionari e cittadini», una «rivoluzione culturale», ha annunciato. Intenzioni bellicose. Lo aspettano mesi caldissimi di scontro con i sindacati del settore e la lobby burocratica, in Francia forse più potenti che da noi.
Meno impiegati, meglio pagati e con migliori prospettive di carriera, ma secondo merito e con più mobilità tra le diverse strutture. L'obiettivo è di introdurre la «cultura del risultato» anche nell'apparato dello Stato, uscendo «dall'approccio ugualitarista e anonimo» dell'avanzamento di carriera uguale per tutti indipendentemente dai risultati.
Dunque, stipendio sulla base del merito invece che dell'anzianità, valutazioni non più affidate ai sindacati, formazione continua, ma – soprattutto – «l'individualizzazione della remunerazione per tenere conto delle capacità e dei risultati» e la libertà per ogni nuovo assunto di scegliere «tra lo statuto di funzionario e un contratto di diritto privato negoziato individualmente». Insomma, l'inizio della fine della contrattazione collettiva.
Flessibilità in uscita nel mercato del lavoro. Il progetto prevede l'unificazione dei contratti: un contratto a tempo indeterminato sin dall'inizio, ma con tutele progressive, cioè la possibilità per il datore di lavoro di licenziare il lavoratore nei primi tempi.
Sarkozy vuole anche porre fine all'eccezione costituita dai regimi pensionistici speciali, per i quali l'età pensionabile è fissata a 55 anni. Si tratta di trasporti pubblici urbani, ferrovie, gas, elettricità e così via. E' disponibile a discutere il "come" – scale, scaloni e scalini – ma sull'obiettivo non è disposto a transigere.
Rispetto al nostro Paese, il presidente francese ha a suo vantaggio un'eccezionale maggioranza politica, ampi poteri presidenziali, e una profonda crisi della sinistra. Ma non meno che nel nostro Paese, in Francia chi sente messi in discussione i suoi privilegi e diritti acquisiti è pronto a insorgere e ad alzare barricate, anche non solo metaforicamente. E gioco-forza, dalla riforma del pubblico impiego all'abolizione delle 35 ore, dalla fine delle baby-pensioni al contratto unico di inserimento, vengono aggredite le rendite di posizione di quelle categorie in grado di mettere letteralmente in ginocchio la Francia.
Bisogna vedere come Sarkozy reagirà all'autunno caldo e al fisiologico calo di popolarità che lo attende. Perché la prospettiva di un cambiamento attira sempre facili consensi, ma quando si vanno a toccare le ferite aperte il paziente si ribella, impreca, si divincola. La sfida da raccogliere per un vero leader politico, in fin dei conti, è sempre saper rischiare una certa impopolarità per non essere anti-popolare. Auguriamoci che Sarkozy questa sfida la accetti e che la vinca. Per la Francia, per l'Europa, ma anche un po' per noi: chissà che non ci venga il coraggio politico che non abbiamo.
Sarkozy è ancora il presidente della "rupture"? Si può cominciare a tracciare un primo bilancio della sua presidenza? Crediamo che sia ancora troppo presto, ma una delle regole ferree della politica ci dice che un progetto riformatore o per lo meno comincia a dispiegarsi nel primo anno di governo, oppure è molto alta la possibilità che abortisca e non veda mai la luce neanche negli anni successivi. Dall'autunno ormai alle porte il presidente francese dovrà dimostrare di non possedere doti di leadership solo in campagna elettorale, ma di essere un capace uomo di governo e un abile politico. Passare dal "decisionismo" alle decisioni, delle "grandi" riforme annunciate a quelle fatte.
«Sono stato eletto per risolvere i problemi, non per chiacchierare su questi ultimi!», ha dichiarato in una lunga intervista radiotelevisiva a reti unificate. Sarkozy in questi mesi non ha fatto passare giorno senza che fosse annunciata una «grande» riforma. Finora l'unico progetto di legge di rilievo presentato dal nuovo governo guidato da Fillon è la defiscalizzazione senza limiti degli straordinari. Tra le riforme annunciate il taglio delle tasse, l'abolizione delle 35 ore lavorative, nuove regole per un'immigrazione che sia «scelta» invece che «subita», la riforma della scuola.
Ma in Francia, come in Italia, i nodi in grado di infiammare lo scontro politico sono pensioni e mercato del lavoro, l'eccessivo peso dello Stato e la mancanza di meritocrazia. Su questi fronti Sarkozy ha preso impegni precisi sui quali verranno misurati il suo valore e la reale consistenza della sua "rupture". Se vuole tener fede a quegli impegni dovrà essere disposto a scendere in trincea. Dimostrarsi un grande "motivatore", sia nei confronti della sua squadra e della sua maggioranza, sia nei confronti del paese. Non sottrarsi allo scontro con le forze sociali e politiche della conservazione, sapendo però, di fronte all'opinione pubblica motivare le sue scelte con obiettivi nell'interesse generale.
Sarkozy ha annunciato di voler «ricostruire da zero la funzione pubblica, rifondare lo Stato». Fino ad oggi la pubblica amministrazione ha giocato un ruolo di «ostacolo al cambiamento», ma «il malessere è ovunque», «lo Stato non cessa di estendersi per diventare tentacolare». Occorre quindi un «nuovo patto tra funzionari e cittadini», una «rivoluzione culturale», ha annunciato. Intenzioni bellicose. Lo aspettano mesi caldissimi di scontro con i sindacati del settore e la lobby burocratica, in Francia forse più potenti che da noi.
Meno impiegati, meglio pagati e con migliori prospettive di carriera, ma secondo merito e con più mobilità tra le diverse strutture. L'obiettivo è di introdurre la «cultura del risultato» anche nell'apparato dello Stato, uscendo «dall'approccio ugualitarista e anonimo» dell'avanzamento di carriera uguale per tutti indipendentemente dai risultati.
Dunque, stipendio sulla base del merito invece che dell'anzianità, valutazioni non più affidate ai sindacati, formazione continua, ma – soprattutto – «l'individualizzazione della remunerazione per tenere conto delle capacità e dei risultati» e la libertà per ogni nuovo assunto di scegliere «tra lo statuto di funzionario e un contratto di diritto privato negoziato individualmente». Insomma, l'inizio della fine della contrattazione collettiva.
Flessibilità in uscita nel mercato del lavoro. Il progetto prevede l'unificazione dei contratti: un contratto a tempo indeterminato sin dall'inizio, ma con tutele progressive, cioè la possibilità per il datore di lavoro di licenziare il lavoratore nei primi tempi.
Sarkozy vuole anche porre fine all'eccezione costituita dai regimi pensionistici speciali, per i quali l'età pensionabile è fissata a 55 anni. Si tratta di trasporti pubblici urbani, ferrovie, gas, elettricità e così via. E' disponibile a discutere il "come" – scale, scaloni e scalini – ma sull'obiettivo non è disposto a transigere.
Rispetto al nostro Paese, il presidente francese ha a suo vantaggio un'eccezionale maggioranza politica, ampi poteri presidenziali, e una profonda crisi della sinistra. Ma non meno che nel nostro Paese, in Francia chi sente messi in discussione i suoi privilegi e diritti acquisiti è pronto a insorgere e ad alzare barricate, anche non solo metaforicamente. E gioco-forza, dalla riforma del pubblico impiego all'abolizione delle 35 ore, dalla fine delle baby-pensioni al contratto unico di inserimento, vengono aggredite le rendite di posizione di quelle categorie in grado di mettere letteralmente in ginocchio la Francia.
Bisogna vedere come Sarkozy reagirà all'autunno caldo e al fisiologico calo di popolarità che lo attende. Perché la prospettiva di un cambiamento attira sempre facili consensi, ma quando si vanno a toccare le ferite aperte il paziente si ribella, impreca, si divincola. La sfida da raccogliere per un vero leader politico, in fin dei conti, è sempre saper rischiare una certa impopolarità per non essere anti-popolare. Auguriamoci che Sarkozy questa sfida la accetti e che la vinca. Per la Francia, per l'Europa, ma anche un po' per noi: chissà che non ci venga il coraggio politico che non abbiamo.
Friday, September 21, 2007
Per colpire Grillo non demonizziamo i blog
Quella su Il Foglio di oggi contro i blog sembra una nuova crociata. Non accorgendosi che così, facendo di tutta l'erba un fascio, sembra quasi che tutta la blogosfera sia in mano a Beppe Grillo, il quale è uno dei blog, intorno al quale non ci sono poi così tanti blogger, ma per lo più gente che si limita a sfogarsi nei commenti. Insomma, si fa il suo gioco, si amplifica il suo potere mediatico.
Stefano Di Michele addirittura «stramaledice» i blog. In quanto tali, in quanto strumento tecnologico. Invoca «un bel fulmine celeste su questa nuova forma della politica buzzurra, della chiacchiera a vuoto, della pancia che strilla e rutta».
Se è illusorio aspettarsi che nei blog ci sia la parte migliore della società, perché però presumere che ci sia la peggiore? Perché per dimostrare la pochezza culturale e politica del "fenomeno Grillo" si deve gettare fango sullo strumento che usa e sui tanti altri che lo usano. I blog parlano: alcuni chiacchierano, altri - molti - hanno qualcosa di interessante da dire e alcuni fanno anche onesta informazione. Solo perché il blog più cliccato è di Beppe Grillo, e trasuda odio e nullità, non è detto che siano fatti così tutti i blog.
Anzi, la varietà della tipologia di blog che si incontrano in rete corrisponde alla varietà degli interessi e delle diverse personalità. Generalizzare è davvero difficile. C'è, eccome, il «trombonismo» dei blog, ma vogliamo parlare di quello sui giornali?!
Annalena Benini volge invece lo sguardo sulla blogosfera al femminile. Seppure in modo un po' snob, assolve l'«altissimo pettegolezzo sentimentale» di molte blogger, che trattano «l'amore le corna e le altre sciocchezze, le notti che non ci si aspettava e le lacrime che si aveva voglia di piangere, insieme a te non ci sto più e comunque sappiate tutti che lui porta le mutande coi rinforzi. Una condivisione strepitosa di segreti, il diario con il lucchetto senza più il lucchetto...»
Ma naturalmente non tutti i diari sono interessanti. E allora si lamenta, la Benini: «... una noia bestiale, tempo rubato allo shopping, al divano, al bucato, e alle ragazze. E la portinaia che smette di parlare alle spalle e comincia a inventarsi sermoni sul mondo... poi pretende che il mondo le dia ragione e anzi dica: wow, ma dove ti eri nascosta, tu meriti molto più di un blog, tu sì che sai come vanno le cose in questo paese». Vero, Annalena, ma a te chi te lo fa fare di leggere 'ste cose. Se si può cambiare canale, si può anche cliccare altrove, ma che male fanno?
I blogger «non scalmanati - ammette - quelli che si divertono a fare una vetrina di articoli interessanti, dischi usciti, libri fichi, e poi vivono una vita normale a parte le feste fra blogger, dicono che su Internet Grillo in realtà non lo sopporta nessuno [verissimo], ma ormai è fatta, è lui il simbolo dei blog». Ma «ormai è fatta, è lui il simbolo dei blog»? Permettimi, Annalena, col cazzo è fatta! Se è così, è anche un po' grazie a te, alle tv e ai giornali, compreso quello dove scrivi, che per anni è rimasto impermeabile alla produzione anche di discreto livello dei blog politici dell'area di centrodestra.
In fondo l'umanità che si riversa sul blog non è molto diversa da quella che incontriamo per strada. I blog saranno anche autoreferenziali, ma, davvero, mai come la stampa, con i giornali che si rimpallano messaggi cifrati comprensibili solo agli addetti ai lavori.
Forse l'articolo di Maurizio Crippa offre qualche spunto di riflessione in più, meno banale. E' vero che internet livella la «gerarchizzazione delle informazioni». La grande mole di dati che vi si può trovare rende più cruciale la capacità di selezionare il materiale rilevante, di separare il grano dal loglio, di setacciare le poche pepite d'oro, piuttosto che l'attività di mera ricerca. Tuttavia, anche sul web esistono dei criteri di autorevolezza, una reputazione della fonte, e quindi, in qualche modo, si riproduce una gerarchia delle informazioni che però l'utente è più libero di accettare o respingere. Internet invece, non «appiattisce il sapere», anzi lo diversifica in modo quasi esasperato, rendendo persino difficile catalogarlo.
Dunque, vogliamo ammettere che la gerarchia dei media tradizionali è troppo rigida, e che è senz'altro uno strumento, un'opportunità in più per tutti il fatto che un cittadino comune possa in qualsiasi momento sputtanare pubblicamente, sul suo blog, il giornalista o il politico che ha scritto, detto, o fatto una cazzata?
No, Crippa ha un'idea vecchia e stantia del Giornalista, colui che «processa» la notizia. Certo, non tutti i blog sentono la necessità di verificare le fonti, ricorrere a ricerche o a sofisticate analisi, ma ce ne sono molti che invece lo fanno, spesso con ottimi risultati.
E' sulla democrazia che bisogna capirsi. Se Grillo pensa che il suo blog sia la democrazia, sono fatti suoi, non dei blog. La democrazia è rappresentanza. Non credo alla democrazia diretta se non nelle forme limitate che conosciamo. Però indubbiamente il blog è partecipazione, comunicazione, informazione, controllo. Questo sì. E più ce n'è, meglio è, per tutti, per la democrazia. Pretendere di rovesciare un sistema a partire da un blog, pur con i suoi tanti visitatori, in fondo non è così diverso da chi pretende di rovesciare un governo in piazza. Se la cultura è illiberale, il mezzo può farci poco.
Stefano Di Michele addirittura «stramaledice» i blog. In quanto tali, in quanto strumento tecnologico. Invoca «un bel fulmine celeste su questa nuova forma della politica buzzurra, della chiacchiera a vuoto, della pancia che strilla e rutta».
Se è illusorio aspettarsi che nei blog ci sia la parte migliore della società, perché però presumere che ci sia la peggiore? Perché per dimostrare la pochezza culturale e politica del "fenomeno Grillo" si deve gettare fango sullo strumento che usa e sui tanti altri che lo usano. I blog parlano: alcuni chiacchierano, altri - molti - hanno qualcosa di interessante da dire e alcuni fanno anche onesta informazione. Solo perché il blog più cliccato è di Beppe Grillo, e trasuda odio e nullità, non è detto che siano fatti così tutti i blog.
Anzi, la varietà della tipologia di blog che si incontrano in rete corrisponde alla varietà degli interessi e delle diverse personalità. Generalizzare è davvero difficile. C'è, eccome, il «trombonismo» dei blog, ma vogliamo parlare di quello sui giornali?!
Annalena Benini volge invece lo sguardo sulla blogosfera al femminile. Seppure in modo un po' snob, assolve l'«altissimo pettegolezzo sentimentale» di molte blogger, che trattano «l'amore le corna e le altre sciocchezze, le notti che non ci si aspettava e le lacrime che si aveva voglia di piangere, insieme a te non ci sto più e comunque sappiate tutti che lui porta le mutande coi rinforzi. Una condivisione strepitosa di segreti, il diario con il lucchetto senza più il lucchetto...»
Ma naturalmente non tutti i diari sono interessanti. E allora si lamenta, la Benini: «... una noia bestiale, tempo rubato allo shopping, al divano, al bucato, e alle ragazze. E la portinaia che smette di parlare alle spalle e comincia a inventarsi sermoni sul mondo... poi pretende che il mondo le dia ragione e anzi dica: wow, ma dove ti eri nascosta, tu meriti molto più di un blog, tu sì che sai come vanno le cose in questo paese». Vero, Annalena, ma a te chi te lo fa fare di leggere 'ste cose. Se si può cambiare canale, si può anche cliccare altrove, ma che male fanno?
I blogger «non scalmanati - ammette - quelli che si divertono a fare una vetrina di articoli interessanti, dischi usciti, libri fichi, e poi vivono una vita normale a parte le feste fra blogger, dicono che su Internet Grillo in realtà non lo sopporta nessuno [verissimo], ma ormai è fatta, è lui il simbolo dei blog». Ma «ormai è fatta, è lui il simbolo dei blog»? Permettimi, Annalena, col cazzo è fatta! Se è così, è anche un po' grazie a te, alle tv e ai giornali, compreso quello dove scrivi, che per anni è rimasto impermeabile alla produzione anche di discreto livello dei blog politici dell'area di centrodestra.
In fondo l'umanità che si riversa sul blog non è molto diversa da quella che incontriamo per strada. I blog saranno anche autoreferenziali, ma, davvero, mai come la stampa, con i giornali che si rimpallano messaggi cifrati comprensibili solo agli addetti ai lavori.
Forse l'articolo di Maurizio Crippa offre qualche spunto di riflessione in più, meno banale. E' vero che internet livella la «gerarchizzazione delle informazioni». La grande mole di dati che vi si può trovare rende più cruciale la capacità di selezionare il materiale rilevante, di separare il grano dal loglio, di setacciare le poche pepite d'oro, piuttosto che l'attività di mera ricerca. Tuttavia, anche sul web esistono dei criteri di autorevolezza, una reputazione della fonte, e quindi, in qualche modo, si riproduce una gerarchia delle informazioni che però l'utente è più libero di accettare o respingere. Internet invece, non «appiattisce il sapere», anzi lo diversifica in modo quasi esasperato, rendendo persino difficile catalogarlo.
Dunque, vogliamo ammettere che la gerarchia dei media tradizionali è troppo rigida, e che è senz'altro uno strumento, un'opportunità in più per tutti il fatto che un cittadino comune possa in qualsiasi momento sputtanare pubblicamente, sul suo blog, il giornalista o il politico che ha scritto, detto, o fatto una cazzata?
No, Crippa ha un'idea vecchia e stantia del Giornalista, colui che «processa» la notizia. Certo, non tutti i blog sentono la necessità di verificare le fonti, ricorrere a ricerche o a sofisticate analisi, ma ce ne sono molti che invece lo fanno, spesso con ottimi risultati.
E' sulla democrazia che bisogna capirsi. Se Grillo pensa che il suo blog sia la democrazia, sono fatti suoi, non dei blog. La democrazia è rappresentanza. Non credo alla democrazia diretta se non nelle forme limitate che conosciamo. Però indubbiamente il blog è partecipazione, comunicazione, informazione, controllo. Questo sì. E più ce n'è, meglio è, per tutti, per la democrazia. Pretendere di rovesciare un sistema a partire da un blog, pur con i suoi tanti visitatori, in fondo non è così diverso da chi pretende di rovesciare un governo in piazza. Se la cultura è illiberale, il mezzo può farci poco.
Un approccio libertario per la riforma del matrimonio
In un paese in cui non si riesce a discutere laicamente né di unioni di fatto né di divorzio breve, non c'è da aspettarsi un'accoglienza serena per la proposta di una esponente dei cristianosociali bavaresi, Gabriele Pauli: propone un "matrimonio a termine", con tagliando obbligatorio al settimo anno.
Non da oggi mi chiedo: il calo del numero dei matrimoni non sarà forse dovuto alla rigidità dell'uscita dall'istituto e alle lunghezze burocratiche da affrontare, che spaventano quanti sarebbero interessati, spingendoli verso forme di convivenza alternativa. Piuttosto che i Pacs, non sarebbe più efficace rendere più flessibile il matrimonio, restituire ai cittadini, liberi e responsabili delle loro scelte, una libertà contrattuale più piena?
Potrebbero essere di questa specie le soluzioni per "salvare" il matrimonio. Considerazioni ragionevoli sono quelle di Alberto Mingardi, su Libero: «Ogni tanto le istituzioni hanno bisogno di venir smontate per essere salvate».
Mi convince quindi l'approccio libertario e contrattualistico di Mingardi, perché, come scrive, «sottrae decisioni cruciali a quello che molte volte è il momento delle minacce e dei risentimenti», ma soprattutto perché la burocrazia e il potere pubblico dovrebbero interferire meno possibile con la libertà contrattuale. E non sarà quello strisciante e costoso ostruzionismo previsto dalla legge a salvare un rapporto ed evitare un divorzio.
Non da oggi mi chiedo: il calo del numero dei matrimoni non sarà forse dovuto alla rigidità dell'uscita dall'istituto e alle lunghezze burocratiche da affrontare, che spaventano quanti sarebbero interessati, spingendoli verso forme di convivenza alternativa. Piuttosto che i Pacs, non sarebbe più efficace rendere più flessibile il matrimonio, restituire ai cittadini, liberi e responsabili delle loro scelte, una libertà contrattuale più piena?
Potrebbero essere di questa specie le soluzioni per "salvare" il matrimonio. Considerazioni ragionevoli sono quelle di Alberto Mingardi, su Libero: «Ogni tanto le istituzioni hanno bisogno di venir smontate per essere salvate».
«Semplicemente, nella nostra società sono di meno i legami "per la vita" che sopravvivono, perché finalmente entrambi i partner godono ormai di un ventaglio di scelte che tradizionalmente alle donne erano precluse. Sposarsi continua ad avere senso per godere di alcune tutele, e per il bisogno di simboli che soddisfa, ma è cambiato il panorama delle sanzioni sociali. Un tempo, anteporre il benessere di un individuo alla sopravvivenza di una famiglia era socialmente mal visto. Ora, al contrario, siamo molto più severi con l'ipocrisia, coi tentativi di preservare le forme a dispetto della sostanza, anche perché, quando sono tante le opzioni a disposizione di ciascuno, non può che essere la sostanza quello che conta».Il "per sempre" rimane una promessa, non può essere una garanzia. «Ci si può impegnare, quello sì», ma anche questo dipende dal carattere dei singoli. La proposta della Pauli «mira ad abbassare i costi della separazione (anziché "rompere" un'unione, si può semplicemente aspettare che "scada") e a dare nuova legittimità al matrimonio stesso. Un uomo e una donna non possono stare assieme, senza esserne convinti. La libertà è stare con chi vogliamo e con chi vuole».
Mi convince quindi l'approccio libertario e contrattualistico di Mingardi, perché, come scrive, «sottrae decisioni cruciali a quello che molte volte è il momento delle minacce e dei risentimenti», ma soprattutto perché la burocrazia e il potere pubblico dovrebbero interferire meno possibile con la libertà contrattuale. E non sarà quello strisciante e costoso ostruzionismo previsto dalla legge a salvare un rapporto ed evitare un divorzio.
Rai. Senza pudore Mr. Spocchia colpisce ancora
Ogni volta che il ministro dell'Economia prende la parola in aula dà sfoggio di una spudoratezza che sembra non contemplare limiti. Fu così per il suo intervento sul caso Visco-Speciale, quando il Governo rimediò una figuraccia deliberando un decreto incompleto. Così, ieri, nella discussione al Senato sulla sostituzione del consigliere del CdA Rai Petroni (in quota CdL), con il super-prodiano Fabiani.
L'attuale CdA Rai è stato nominato nel 2005 quando in maggioranza, in Parlamento, era il centrodestra e al governo Berlusconi. Allora fu trovato un equilibrio: Petruccioli (dei Ds) come presidente "di garanzia" e maggioranza del CdA in quota centrodestra. La sostituzione decisa dal Governo, senza neanche coinvolgere il Parlamento e la Commissione di Vigilanza, alla quale il ministro si è sottratto, ribalta quell'equilibrio politico. La stessa parte politica esprimerebbe così presidenza e maggioranza del CdA. Per noi la Rai dovrebbe essere privatizzata, se davvero non la si vuole lottizzata.
Sentire un ministro che ha appena rimosso dal CdA Rai un consigliere in quota all'opposizione, inserendo un fedelissimo del presidente del Consiglio, affermare al Senato che «il vero male di cui la Rai ha sofferto negli anni e ancora soffre è un rapporto con il potere politico che ne indebolisce la funzione civile, che limita la validità culturale e che la fa soffrire come impresa che opera nel mercato», e che sarebbe intervenuto «esclusivamente nella qualità di azionista, senza perseguire «alcuna finalità politica», è davvero un oltraggio alla nostra intelligenza.
Sempre più Mr. Spocchia che Padoa-Schioppa.
L'attuale CdA Rai è stato nominato nel 2005 quando in maggioranza, in Parlamento, era il centrodestra e al governo Berlusconi. Allora fu trovato un equilibrio: Petruccioli (dei Ds) come presidente "di garanzia" e maggioranza del CdA in quota centrodestra. La sostituzione decisa dal Governo, senza neanche coinvolgere il Parlamento e la Commissione di Vigilanza, alla quale il ministro si è sottratto, ribalta quell'equilibrio politico. La stessa parte politica esprimerebbe così presidenza e maggioranza del CdA. Per noi la Rai dovrebbe essere privatizzata, se davvero non la si vuole lottizzata.
Sentire un ministro che ha appena rimosso dal CdA Rai un consigliere in quota all'opposizione, inserendo un fedelissimo del presidente del Consiglio, affermare al Senato che «il vero male di cui la Rai ha sofferto negli anni e ancora soffre è un rapporto con il potere politico che ne indebolisce la funzione civile, che limita la validità culturale e che la fa soffrire come impresa che opera nel mercato», e che sarebbe intervenuto «esclusivamente nella qualità di azionista, senza perseguire «alcuna finalità politica», è davvero un oltraggio alla nostra intelligenza.
Sempre più Mr. Spocchia che Padoa-Schioppa.
Thursday, September 20, 2007
La rupture di Sarkozy tenta Veltroni
«Ogni giorno che passa diventa più chiaro a tutti - credo anche a Veltroni – che la mancanza di risposte reali, durature e ambiziose ai problemi diventa una palla al piede. Sarebbe autolesionistico. La scommessa di Veltroni si gioca sull'autenticità del suo riformismo. Quanto più sceglie obiettivi difficili, soluzioni coraggiose, tanto più potrebbe farcela».
Ne è convinto Nicola Rossi, che ha affidato queste considerazioni a Il Foglio. Sarà il tempo a dirci se Veltroni imboccherà con decisione la strada che intravede Rossi. Certo, è in salita. Serve una rottura totale con l'attuale governo, che però ad oggi Veltroni non può permettersi. E questo rende difficile l'eventualità che si vada alle urne subito, se Prodi dovesse cadere. Il nuovo leader del Pd avrebbe bisogno di molto tempo per convincere gli italiani che il suo nuovo partito e il centrosinistra - ci auguriamo di «nuovo conio» - non hanno più nulla a che fare con il prodismo.
Tuttavia, anche Il Foglio offre al riformismo di Veltroni un certo credito, ed è un'attenzione a mio avviso giustificata. E tra l'altro il sindaco sa bene che su quel fronte ha anche il fiato sul collo di Rutelli. «Prove di sarkosismo», le chiama: «Veltronomics». Attenzione soprattutto alla rete di rapporti, ai legami con gli studiosi del sito lavoce.info. Marco Causi, economista dei beni culturali, lo stesso Nicola Rossi, Enrico Morando (sulla parte fiscale), Tiziano Treu, Tito Boeri e Pietro Garibaldi.
Si cominciano a delineare le prime proposte fiscali, dopo l'inversione dello slogan in "Pagare meno, pagare tutti", e l'altro giorno è stata presentata quella sul contratto unico, «parente del contratto unico di Sarkozy»: un contratto a tempo indeterminato sin dall'inizio, ma con tutele progressive, cioè la possibilità per il datore di lavoro di licenziare il lavoratore nei primi tempi. Una proposta che può coniugare «una ragionevole flessibilità in uscita – senza evocare lo spettro dell'articolo 18 – e una semplificazione della complessa articolazione dei contratti prevista dalla legge Biagi».
Intanto, Sarkozy prosegue con la sua rupture, che in questo caso riguarda la pubblica amministrazione. Fino ad oggi ha giocato un ruolo di «ostacolo al cambiamento», ma «il malessere è ovunque», «lo Stato non cessa di estendersi per diventare tentacolare». Occorre quindi un «nuovo patto tra funzionari e cittadini», una «rivoluzione culturale», «ricostruire da zero la funzione pubblica, rifondare lo Stato». Intenzioni bellicose. Si annunciano mesi caldissimi di scontro con i sindacati del settore e la lobby burocratica, in Francia forse più potenti che da noi.
Meno impiegati, meglio pagati e con migliori prospettive di carriera, ma secondo merito e con più mobilità tra le diverse strutture. L'obiettivo è di introdurre la «cultura del risultato» anche nell'apparato dello Stato, uscendo «dall'approccio ugualitarista e anonimo», quello dell'avanzamento di carriera uguale per tutti indipendentemente dai risultati.
Dunque, stipendio sulla base del merito invece che dell'anzianità, valutazioni non più affidate ai sindacati, formazione continua, ma - soprattutto - «l'individualizzazione della remunerazione per tenere conto delle capacità e dei risultati» e la libertà per ogni nuovo assunto di scegliere «tra lo statuto di funzionario e un contratto di diritto privato negoziato individualmente». Insomma, l'inizio della fine della contrattazione collettiva. Autunno caldo per Sarkozy. E per Veltroni, se vorrà, e saprà, stargli al passo.
Ne è convinto Nicola Rossi, che ha affidato queste considerazioni a Il Foglio. Sarà il tempo a dirci se Veltroni imboccherà con decisione la strada che intravede Rossi. Certo, è in salita. Serve una rottura totale con l'attuale governo, che però ad oggi Veltroni non può permettersi. E questo rende difficile l'eventualità che si vada alle urne subito, se Prodi dovesse cadere. Il nuovo leader del Pd avrebbe bisogno di molto tempo per convincere gli italiani che il suo nuovo partito e il centrosinistra - ci auguriamo di «nuovo conio» - non hanno più nulla a che fare con il prodismo.
Tuttavia, anche Il Foglio offre al riformismo di Veltroni un certo credito, ed è un'attenzione a mio avviso giustificata. E tra l'altro il sindaco sa bene che su quel fronte ha anche il fiato sul collo di Rutelli. «Prove di sarkosismo», le chiama: «Veltronomics». Attenzione soprattutto alla rete di rapporti, ai legami con gli studiosi del sito lavoce.info. Marco Causi, economista dei beni culturali, lo stesso Nicola Rossi, Enrico Morando (sulla parte fiscale), Tiziano Treu, Tito Boeri e Pietro Garibaldi.
Si cominciano a delineare le prime proposte fiscali, dopo l'inversione dello slogan in "Pagare meno, pagare tutti", e l'altro giorno è stata presentata quella sul contratto unico, «parente del contratto unico di Sarkozy»: un contratto a tempo indeterminato sin dall'inizio, ma con tutele progressive, cioè la possibilità per il datore di lavoro di licenziare il lavoratore nei primi tempi. Una proposta che può coniugare «una ragionevole flessibilità in uscita – senza evocare lo spettro dell'articolo 18 – e una semplificazione della complessa articolazione dei contratti prevista dalla legge Biagi».
Intanto, Sarkozy prosegue con la sua rupture, che in questo caso riguarda la pubblica amministrazione. Fino ad oggi ha giocato un ruolo di «ostacolo al cambiamento», ma «il malessere è ovunque», «lo Stato non cessa di estendersi per diventare tentacolare». Occorre quindi un «nuovo patto tra funzionari e cittadini», una «rivoluzione culturale», «ricostruire da zero la funzione pubblica, rifondare lo Stato». Intenzioni bellicose. Si annunciano mesi caldissimi di scontro con i sindacati del settore e la lobby burocratica, in Francia forse più potenti che da noi.
Meno impiegati, meglio pagati e con migliori prospettive di carriera, ma secondo merito e con più mobilità tra le diverse strutture. L'obiettivo è di introdurre la «cultura del risultato» anche nell'apparato dello Stato, uscendo «dall'approccio ugualitarista e anonimo», quello dell'avanzamento di carriera uguale per tutti indipendentemente dai risultati.
Dunque, stipendio sulla base del merito invece che dell'anzianità, valutazioni non più affidate ai sindacati, formazione continua, ma - soprattutto - «l'individualizzazione della remunerazione per tenere conto delle capacità e dei risultati» e la libertà per ogni nuovo assunto di scegliere «tra lo statuto di funzionario e un contratto di diritto privato negoziato individualmente». Insomma, l'inizio della fine della contrattazione collettiva. Autunno caldo per Sarkozy. E per Veltroni, se vorrà, e saprà, stargli al passo.
Iran e Russia nell'agenda di Kouchner
Prima per l'Iran, poi per la Russia, passa la via della nuova politica estera francese. Il ministro degli Esteri (non del Commercio Estero) Kouchner sarà a Mosca martedì, ma ha già compiuto una serie di gesti simbolici: ha incontrato i rappresentanti della società civile, dell'opposizione e delle ong, e visitato i locali di Novaia Gazeta, il giornale di Anna Politkovskaia, la giornalista critica del Cremlino assassinata il 7 ottobre del 2006. «Anna è stata un modello di giornalismo e di combattente per i diritti umani», ha dichiarato Kouchner, ammettendo che il rapporto con la Russia «non è facile. La realpolitik non sempre va d'accordo con la purezza dei principi».
Natalie Nugayrède, di Le Monde, ha spiegato a Il Foglio che Kouchner non pronuncerà «parole particolarmente dure contro Putin in pubblico», perché è impegnato in negoziati «molto delicati» su Iran e futuro del Kosovo («la prima prova politica e morale che affronta l'Ue»), dossier su cui Francia e Russia hanno profonde divergenze, sconosciute finché all'Eliseo ha abitato Chirac.
Ma con la sua personalità e il suo percorso, osserva Nugayrède, «la politica estera francese parla più forte sui diritti dell'uomo». La Francia può anche permettersi un atteggiamento più fermo con Mosca: grazie a centrali nucleari e colossi energetici, dipende meno dal gas russo. Cosi, spiega Nougayrède, «la questione delle libertà pubbliche e della libertà di stampa è ormai una fonte di tensione tra Parigi e Mosca».
Natalie Nugayrède, di Le Monde, ha spiegato a Il Foglio che Kouchner non pronuncerà «parole particolarmente dure contro Putin in pubblico», perché è impegnato in negoziati «molto delicati» su Iran e futuro del Kosovo («la prima prova politica e morale che affronta l'Ue»), dossier su cui Francia e Russia hanno profonde divergenze, sconosciute finché all'Eliseo ha abitato Chirac.
Ma con la sua personalità e il suo percorso, osserva Nugayrède, «la politica estera francese parla più forte sui diritti dell'uomo». La Francia può anche permettersi un atteggiamento più fermo con Mosca: grazie a centrali nucleari e colossi energetici, dipende meno dal gas russo. Cosi, spiega Nougayrède, «la questione delle libertà pubbliche e della libertà di stampa è ormai una fonte di tensione tra Parigi e Mosca».
Quale Europa? Federale e liberale, un sogno
Sarà l'Europa a costringerci a liberalizzare il settore dell'energia? C'è da dubitarne, stando a come è stata accolta la proposta della Commissione Ue per la separazione proprietaria effettiva tra l'attività di produzione e quella di trasporto di gas ed elettricità. Sperazione che dovrebbe riguardare tutti gli attori: società pubbliche e private, europee e non europee, che intendano operare nell'Unione. Due le opzioni per realizzare l'unbundling: separazione patrimoniale con la scissione del gruppo in due parti distinte, oppure il mantenimento della nuda proprietà accompagnato però dall'affidamento della gestione della rete a un operatore indipendente, sotto il controllo delle Autorità regolamentari nazionali, indipendenti e con poteri rafforzati.
Né vengono risparmiati i paesi terzi: la Russia di Gazprom come l'Algeria di Sonatrach, per intendersi. Anche ad essi la Commissione vuole che siano applicate esattamente le stesse regole: per poter comprare partecipazioni più o meno consistenti nelle reti di trasporto dell'energia dovranno quindi ottenere una certificazione ad hoc, dimostrando di essere a tutti gli effetti "unbundled", cioè di non cumulare attività di produzione e trasporto di energia. Questi i punti salienti del terzo pacchetto per la liberalizzazione e integrazione del mercato europeo dell'energia presentato ieri a Bruxelles dal presidente della Commissione José Barroso insieme a Andris Piebalgs e Neelie Kroes, responsabili rispettivamente all'Energia e alla Concorrenza.
Fonte: Il Sole 24 Ore
Ma che probabilità ci sono che la proposta divenga normativa? Scarse. Francia e Germania sono contrari per proteggere i loro presunti campioni nazionali, così come l'Italia dell'Eni. Per non parlare della Russia, da cui sono già giunte minacce di ritorsioni. Vedete, non sembra, nessuno farà questo "link", ma una questione del genere va a toccare il tasto dolente di cosa vuole essere l'Europa, e della sua riforma costituzionale, del rapporto tra i vari poteri. La proposta della Commissione Ue presuppone un'"altra" Europa rispetto a quella che abbiamo oggi.
Cosa vogliamo che sia, in ultima analisi, la Commissione Ue? Un Governo europeo? Allora occorre che venga eletta direttamente dai cittadini europei e che i governi nazionali facciano molti passi indietro. Oppure, solo il braccio amministrativo dei governi nazionali? Allora proposte simili sono del tutto velleitarie. E' la differenza che passa tra un'Europa federale (nel primo caso) e intergovernativa (nel secondo).
Sempre sul Sole 24 Ore troviamo una lucida analisi di Innocenzo Cipolletta. Perché, si chiede, l'Europa non cresce, nonostante ve ne siano le condizioni? «L'Europa dovrebbe essere la molla della crescita mondiale, con consumi elevati e una forte domanda di investimenti, entrambi stimolati dall'innovazione tecnologica, che impone un forte ricambio dei beni disponibili e induce a nuove infrastrutture». Potrebbe - dovrebbe - essere questo il nuovo ruolo dell'Europa nell'economia globale.
«Perché non avviene? Perché in Europa la domanda interna langue e non produce stimoli ai nuovi consumi e ai nuovi investimenti?». L'Europa, osserva Cipolletta, è «l'area caratterizzata dal più elevato tasso di risparmio delle famiglie, a cui si confronta un disavanzo pubblico che lo compensa in larga misura: qui sta la chiave della malattia europea. Una larga parte della domanda interna europea non è decisa dagli individui (famiglie e imprese) con meccanismi di mercato, ma è intermediata dallo Stato (centrale o locale), che finisce per ostacolare modifiche nella struttura dei consumi e degli investimenti, a causa di strutture di offerta, pubbliche o private, ma con una larga influenza sulla politica, che ormai sono cristallizzate nel tempo. Basti pensare ai vasti settori dell'istruzione, della sanità, della distribuzione dell'energia, dei trasporti, fino all'agricoltura...»
I singoli paesi europei continuano a credere in uno sviluppo «trainato dalle esportazioni» in un mondo in cui il loro ruolo «è fondamentalmente cambiato... Per mantenere questo modello, finiscono per proteggere i loro (presunti) campioni nazionali, caricando oneri sui consumatori. Così facendo, deprimono la domanda interna e la cristallizzano in vecchi modelli, facendo venir meno quella spinta all'innovazione e alla crescita che potrebbe assicurare all'Europa un futuro più autonomo e realmente più competitivo, nel senso di capacità di anticipare consumi e tecnologie che sono trainati non tanto da generici investimenti in ricerca, quanto dalla libertà della domanda interna che indirizza e premia le innovazioni».
Da sottoscrivere.
Né vengono risparmiati i paesi terzi: la Russia di Gazprom come l'Algeria di Sonatrach, per intendersi. Anche ad essi la Commissione vuole che siano applicate esattamente le stesse regole: per poter comprare partecipazioni più o meno consistenti nelle reti di trasporto dell'energia dovranno quindi ottenere una certificazione ad hoc, dimostrando di essere a tutti gli effetti "unbundled", cioè di non cumulare attività di produzione e trasporto di energia. Questi i punti salienti del terzo pacchetto per la liberalizzazione e integrazione del mercato europeo dell'energia presentato ieri a Bruxelles dal presidente della Commissione José Barroso insieme a Andris Piebalgs e Neelie Kroes, responsabili rispettivamente all'Energia e alla Concorrenza.
Fonte: Il Sole 24 Ore
Ma che probabilità ci sono che la proposta divenga normativa? Scarse. Francia e Germania sono contrari per proteggere i loro presunti campioni nazionali, così come l'Italia dell'Eni. Per non parlare della Russia, da cui sono già giunte minacce di ritorsioni. Vedete, non sembra, nessuno farà questo "link", ma una questione del genere va a toccare il tasto dolente di cosa vuole essere l'Europa, e della sua riforma costituzionale, del rapporto tra i vari poteri. La proposta della Commissione Ue presuppone un'"altra" Europa rispetto a quella che abbiamo oggi.
Cosa vogliamo che sia, in ultima analisi, la Commissione Ue? Un Governo europeo? Allora occorre che venga eletta direttamente dai cittadini europei e che i governi nazionali facciano molti passi indietro. Oppure, solo il braccio amministrativo dei governi nazionali? Allora proposte simili sono del tutto velleitarie. E' la differenza che passa tra un'Europa federale (nel primo caso) e intergovernativa (nel secondo).
Sempre sul Sole 24 Ore troviamo una lucida analisi di Innocenzo Cipolletta. Perché, si chiede, l'Europa non cresce, nonostante ve ne siano le condizioni? «L'Europa dovrebbe essere la molla della crescita mondiale, con consumi elevati e una forte domanda di investimenti, entrambi stimolati dall'innovazione tecnologica, che impone un forte ricambio dei beni disponibili e induce a nuove infrastrutture». Potrebbe - dovrebbe - essere questo il nuovo ruolo dell'Europa nell'economia globale.
«Perché non avviene? Perché in Europa la domanda interna langue e non produce stimoli ai nuovi consumi e ai nuovi investimenti?». L'Europa, osserva Cipolletta, è «l'area caratterizzata dal più elevato tasso di risparmio delle famiglie, a cui si confronta un disavanzo pubblico che lo compensa in larga misura: qui sta la chiave della malattia europea. Una larga parte della domanda interna europea non è decisa dagli individui (famiglie e imprese) con meccanismi di mercato, ma è intermediata dallo Stato (centrale o locale), che finisce per ostacolare modifiche nella struttura dei consumi e degli investimenti, a causa di strutture di offerta, pubbliche o private, ma con una larga influenza sulla politica, che ormai sono cristallizzate nel tempo. Basti pensare ai vasti settori dell'istruzione, della sanità, della distribuzione dell'energia, dei trasporti, fino all'agricoltura...»
I singoli paesi europei continuano a credere in uno sviluppo «trainato dalle esportazioni» in un mondo in cui il loro ruolo «è fondamentalmente cambiato... Per mantenere questo modello, finiscono per proteggere i loro (presunti) campioni nazionali, caricando oneri sui consumatori. Così facendo, deprimono la domanda interna e la cristallizzano in vecchi modelli, facendo venir meno quella spinta all'innovazione e alla crescita che potrebbe assicurare all'Europa un futuro più autonomo e realmente più competitivo, nel senso di capacità di anticipare consumi e tecnologie che sono trainati non tanto da generici investimenti in ricerca, quanto dalla libertà della domanda interna che indirizza e premia le innovazioni».
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