«Usate la vostra libertà per promuovere la nostra»
Aung San Suu Kyi
Ieri annotavamo che se il popolo birmano è nelle mani della Cina, allora non c'è da stare tranquilli. E a giudicare dalle notizie giunte oggi dalla Birmania – dove nuove manifestazioni sono state represse con arresti, cariche e pallottole ad altezza d'uomo (forse 35 i morti) – non stanno avendo successo gli sforzi dei governi democratici. Numerose foto satellitari dell'American Association for the Advancement of Science mostrano decine di villaggi distrutti.
Stoppato da Russia e Cina il tentativo di approvare in Consiglio di Sicurezza Onu sanzioni economiche contro la Giunta militare di Yangon, Stati Uniti, Europa, Giappone e Australia stanno cercando di responsabilizzare la Cina, principale sponsor del regime birmano, per spingerla a esercitare pressioni. Ma Pechino finora non è andata oltre un invito alla «moderazione» e un lavorio diplomatico dietro le quinte, che finora non ha dato frutti. Come poteva darne, se la Cina non può comunque permettersi una vittoria, neanche simbolica, dei monaci buddisti?
Ciò a cui forse Pechino sta lavorando è un "rimpasto" nella Giunta birmana, ipotesi avvalorata dalle voci di queste ultime ore sui contrasti all'interno dell'esercito: generali più "moderati" al posto dell'odiato Than Shwe, ormai inviso alla comunità internazionale. Otterrebbe così di far cessare le proteste (soprattutto quelle occidentali) e tenere in vita il regime.
Il presidente Usa Bush, in un incontro non previsto a Washington con il ministro degli Esteri, Yang Jiechi, è tornato a chiedere alla Cina di «esercitare la sua influenza nella regione per incoraggiare la Birmania ad una pacifica transizione verso la democrazia». Ma come si può pensare che una dittatura spinga verso la democrazia un'altra dittatura, per di più ai propri confini? Purtroppo sembra che non ci sia nulla di concreto e immediato che i governi occidentali possano fare per i birmani. In quella parte del mondo, ai confini di Cina e India, neanche l'uso della forza è una minaccia credibile.
Mobilitato anche il premier britannico Gordon Brown, in teleconferenza con Bush per concordare «ulteriori azioni» contro al giunta militare. Entrambi l'hanno di nuovo intimata a cessare la repressione. Il nuovo primo ministro giapponese, Yasuo Fukuda, ha chiesto a Pechino di esercitare tutta la sua influenza per una soluzione pacifica della crisi. Nella stessa direzione si muove l'Europa. Il commissario europeo alle Relazioni esterne, Benita Ferrero-Waldner, ha spiegato che «sono soprattutto i paesi vicini quelli realmente tenuti a mostrarsi responsabili, in primo luogo la Cina, ma anche l'India e i Paesi dell'Asean».
Già, l'India. Dopo aver appoggiato nel 1988 il movimento democratico, Nuova Dehli ha sostenuto la Giunta militare di Yangon e ancora non ha dato cenno di aver rivisto la sua politica alla luce dei tragici eventi di questi giorni, limitandosi a chiedere «riconciliazione nazionale» e «riforme politiche». Eppure, una svolta democratica potrebbe far uscire la Birmania dalla sfera d'influenza cinese proprio a vantaggio dell'India.
L'unica speranza di esito positivo, dicevamo, sta in possibili, ma improbabili, divisioni all'interno dell'esercito. Alcuni soldati in effetti hanno riposto le armi inginocchiandosi in segno di rispetto davanti ai monaci e non sono mancati episodi in cui le truppe si sono rifiutate di sparare sulla folla. Alcuni dei raid notturni dell'esercito nei monasteri sono stati sventati dalla reazione della popolazione. In alcuni casi i soldati diretti ai monasteri hanno fatto marcia indietro, di fronte ad una folla armata di pentole e bastoni che li presidiava. «Anche musulmani, cristiani e hindu hanno difeso i monasteri», ha riferito un testimone.
Secondo fonti non confermate, un generale sarebbe addirittura agli arresti dopo che soldati ai suoi ordini si sono rifiutati di aprire il fuoco. Il sito d'informazione degli esuli birmani, Mizzima News parla di un possibile «dissidio fra generali» e di «agitazione» in alcuni reparti dell'esercito birmano. Addirittura, citando fonti vicine alle gerarchie, riferisce che il numero due della Giunta militare, il generale Maung Aye, e i suoi fedeli, sarebbero «contrari a sparare sulla folla», come ordinato dal generale Than Shwe.
Maung Aye avrebbe fissato un incontro con la leader democratica Aung San Suu Kyi, per questa ragione trasferita nella base militare di Yemon, alle porte di Yangon, cui avrebbe espresso il suo totale disaccordo sull'uso della violenza contro i manifestanti. Aerei per il trasporto di truppe e colonne militari si starebbero muovendo verso la capitale, ma «non è chiaro – si legge sul sito – se le truppe stiano marciando come rinforzi o per opporsi alle truppe che hanno sparato sui monaci». Tuttavia, non vorremmo che quello di Mizzima News fosse ottimismo mal riposto o il comprensibile tentativo di "parlare" ai generali per incoraggiarli a sollevarsi contro Than Shwe.
Tokyo ha intanto inoltrato una dura protesta al governo di Yangon per l'uccisione del giornalista Kenji Nagai. Un soldato birmano gli ha sparato intenzionalmente, come documenta un video, mentre riprendeva le manifestazioni, il cui bilancio potrebbe essere molto superiore a quello, di dieci vittime, ammesso dalle stesse autorità. L'ambasciatore australiano Bob Davis ha detto alla radio Abc che potrebbe raggiungere «diversi multipli» di dieci, secondo testimonianze da lui stesso raccolte di un alto numero di cadaveri portati via dalle strade.
Ieri abbiamo citato alcuni dei blog e dei siti che attraverso internet hanno fatto giungere immagini, video e notizie dalla Birmania. Ebbene, il regime ha cercato per giorni, invano, di ostacolarli, ma il flusso di immagini ha continuato a invadere il web e le tv di tutto il mondo. Così oggi i soldati birmani hanno fatto irruzione negli uffici del principale provider di servizi internet, Myanmar Info Tech, e il governo ha deciso di bloccare del tutto i collegamenti internet nel paese. Ufficialmente per «un problema tecnico».
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