Coglie l'essenziale David Brooks sul New York Times, che vede nel discorso inaugurale del presidente Bush la migliore risposta a chi detesta l'America per il suo presunto materialismo, mentre gli ideali sarebbero una farsa. Invece no, è il contrario, l'America vera è l'America degli ideali. Fra un paio d'anni, il discorso di Bush, deriso oggi perché vago e distaccato dalla realtà, sarà ancora «realistico e attuale nel mondo, portatore di conseguenze ogni giorno».
Un discorso che «trascende» la guerra al terrorismo, per divenire «standard» sul quale giudicare l'azione sua e dei suoi successori... «le sue parole accompagneranno Bush e i futuri presidenti...», sarà «difficile» per i governi americani sostenere dittature come hanno fatto in America Latina, ignorare o frustrare la speranza di libertà dei popoli oppressi. Dare credito al discorso di Bush, che ha fissato questi standard per la politica estera americana, conviene a tutti coloro cui stanno a cuore la democrazia e la libertà, anche ai detrattori di George W., per denunciare i suoi errori da una visuale corretta.
«Da ora in avanti, i confini fissati da qualsiasi processo di pace non saranno meno importanti della natura dei regimi in quel processo».Nessuna crociata globale, ma impegno per le riforme, per scegliere la libertà, con strade diverse da nazione a nazione. Gli americani sono «idealisti che affrontano il problema». Gli Stati Uniti sono «ricchi e potenti» non perché i cittadini sono «più simpatici o migliori», ma perché gli ideali sui quali si fondano sono ancora «attuali e veri».
Coglie l'essenziale anche William Kristol, che ha scritto sul Weekly Standard:
«Basato su Strauss e ispirato da Paine, appellandosi a Lincoln e alludendo a Truman, iniziando con la Costituzione e concludendo con la Dichiarazione, attraversato dall'eco di frasi bibliche, è stato un discorso potente e sottile. Dimostrerà anche di essere un discorso storico».«Se alle parole seguiranno le azioni, e se il successo saluterà i suoi sforzi», si aprirà una nuova era nella politica estera americana. Una nuova era che si fonda «sugli sforzi e i successi» di Truman e Reagan. Nell'annunciare il sostegno a istituzioni e movimenti democratici, con lo scopo ultimo della fine della tirannia nel mondo, c'è Truman, quando il 12 marzo 1947 spiegò al Congresso la sua dottrina:
«Credo che debba essere la politica degli Stati Uniti sostenere i popoli liberi che stanno resistendo al tentativo di oppressione da parte di minoranze armate o pressioni esterne».Ma il «contenimento» poteva andar bene per la guerra fredda, poi Reagan andò oltre e parlò di sconfiggere il comunismo. Ci riuscì e ora Bush collega le «profonde convinzioni» del popolo americano ai suoi «vitali interessi». Nonostante i suoi detrattori abbiano subito cercato di vedervi l'annuncio di nuove guerre e di una politica imperialista, l'obiettivo della fine della tirannia è un «lavoro di generazioni» e non il principale compito degli eserciti.
Altro merito di Bush l'aver parlato chiaro al mondo. Ci sono alleati democratici ai quali ha chiesto aiuto. Governi dalle braccia troppo lunghe, ai quali Bush ha chiesto di intraprendere riforme per il progresso e la giustizia - in quel caso l'America sarà al loro fianco - e ha annunciato che eserciterà pressioni, sosterrà dissidenti e riformatori di quei Paesi. Poi ci sono regimi fuori-legge, e per questi ha citato Lincoln:
«Coloro che negano la libertà agli altri non meritano di averla per se stessi; e, sotto la legge di un Dio giusto, non possono mantenerla a lungo».In questi casi l'obiettivo è regime change, con la forza se necessario.
Per Doyle McManus, Los Angeles Times, nella lotta senza fine sulla politica estera americana, il discorso di Bush («This is real neoconservatism», ha commentato Robert Kagan) rappresenta una vittoria schiacciante per i neoconservatori, gli idealisti, che vengono così «spinti fuori dall'ombra».
Lo cito solo perché è uno storico autorevole. Sul Guardian, Eric Hobsbawm sostiene che l'idea di esportare le democrazia è «pericolosa». Non mi convince per niente perché è la solita solfa del "non-sono-ancora-pronti", "mancano-i-presupposti-necessari" etc. Invece è utile «Idealism and Its Discontents», articolo nel quale Victor Davis Hanson, su National Review, smonta per punti la definizione "neoconservatore" come insulto.
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