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Friday, January 07, 2005

Iraq, 30 gennaio. Verso una svolta?

Bambini iracheni festeggiano l'apertura di una scuolaHa ragione Il Foglio a ricordare, a poche settimane dal voto del 30 gennaio nel nuovo Iraq, che la partita è di quelle decisive per i nuovi assetti in Medio Oriente, per la guerra al terrorismo, per l'avanzamento della democrazia e i diritti nel mondo.
«La partita è chiara: da una parte tutte le forze politiche che si erano opposte al regime di Saddam, appoggiate dagli Usa, vogliono garantire un voto popolare. Dall'altra un complesso di forze, appoggiate dalla Siria e dall'Iran, punta a impedirlo, terrorizza e massacra chiunque lavori per garantire quel diritto». Leggi
E dovrà essere chiaro all'opinione pubblica occidentale chi e cosa avrà contribuito al successo o all'insuccesso di quel voto, come è chiaro oggi che se qualcosa di buono nascerà, sarà stato nonostante l'Onu corrotta di Kofi Annan e la Vecchia Europa di Chirac.

Ieri è di nuovo intervenuto sul New York Times il principe degli editorialisti liberal, Thomas Friedman per ribadire un concetto già espresso con forza in «Count Me a "Blair Democrat"»:
«Deve essere chiaro che i cosiddetti insorti non stanno combattendo per liberare l'Iraq dall'America, piuttosto per imporre di nuovo la dittatura della minoranza sunnita e baathista sulla maggioranza degli iracheni».
In Italia, purtroppo, i conti con la realtà sono un lusso che la sinistra non si è mai potuta permettere.

Ieri Il Foglio ha tracciato uno scenario ottimista - nonostante tutto - sugli esiti del voto del 30 gennaio. Le strutture e le regole sancite dalla legge provvisoria irachena rendono possibile una reale influenza e partecipazione politica a tutti i gruppi etnici e religiosi, minoritari che siano (Leggi anche sul Washington Post). I gruppi che abbandonino le vie violente non vengono esclusi dal processo politico. Questo dovrebbe permettere maggiore durezza con chi usa il terrorismo per aquisire posizioni di vantaggio, mentre la vera sfida sarà l'affluenza generale alle urne e non di una sola delle componenti.

Un lungo e pragmatico saggio del neocons Reuel Marc Gerecht sul settimanale Weekly Standard fa un'esauriente punto della situazione su tutti i fronti della lotta per il Medio Oriente. Iraq first naturalmente, con al centro il problema sunnita, poi l'Iran, con quattro opzioni. Ammettere la sconfitta sul nucleare iraniano, abbandonare tutte le dottrine di sicurezza finora elaborate e «incrociare le dita»; ripercorrere, come per l'iraq, la strada dell'Onu; minacciare, tramite gli alleati europei, un «colpo preventivo»; attuare il «colpo preventivo», anche se non mancano difficoltà e incognite. Gli ultimi due problemi nell'agenda del 2005 sono l'Iniziativa per il Grande Medio Oriente e il conflitto israelo-palestinese.

Non mancano, attenzione, autorevoli opinioni volte al pessimismo. L'amministrazione Bush ha perso la fiducia degli iracheni, per questo ha perso anche la guerra. E' James Dobbins, su Foreign Affairs, che avanza la proposta ulivista (segnalo, ma non condivido):
«By losing the trust of the Iraqi people, the Bush administration has already lost the war. Moderate Iraqis can still win it, but only if they wean themselves from Washington and get support from elsewhere. To help them, the United States should reduce and ultimately eliminate its military presence, train Iraqis to beat the insurgency on their own, and rally Iran and European allies to the cause». Leggi
Molto critico anche Michael O'Hanlon, della Brookings Institution, che accusa: manca un piano.
«The tragedy of Iraq—that one of the most brilliant invasion successes in modern military history was followed almost immediately by one of the most incompetently planned occupations—holds a critical lesson for civil-military relations in the United States. The Constitution requires military leaders to follow the commander in chief's orders. But it does not require them to remain mute when poor plans are being prepared nor to remain in uniform when they are asked to undertake actions they know to be unwise or ill-planned». Leggi
Case for War. Merita una segnalazione anche questo interessante articolo di Max Boot uscito sul Los Angeles Times. Due film sulle due guerre combattute dagli Stati Uniti, Osama (sull'Afghanistan) e Voices of Iraq, meriterebbero l'oscar, mentre vengono ignorati da Holliwood e dalle sue madrine che di quello che accade nel mondo non vedono altro che «i disegni diabolici della Halliburton e dei neocons».

Tutti gli aggiornamenti sul cammino di avvicinamento alle elezioni irachene sul sito del Dip. of State. La pagina speciale sull'Iraq e l'aggiornamento a gennaio 2005 del rapporto quadrimestrale al Congresso su come vengono spesi i fondi per la ricostruzione irachena.

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