La sentenza choc che dà luogo a non procedere nei confronti dei reclutatori di kamikaze non è dovuta ad un deliberato uso politico della giustizia, né a toghe rosse, né a casellismo, ma, cosa ben più grave, dimostra l'assenza di cultura giuridica in chi è investito di applicare la legge, come l'ignavia e l'ipocrisia in cui naviga il dibattito politico, che rifiuta di guardare alla realtà dello stato - se di guerra o di pace, o di quasi-guerra - in cui il Paese si trova.
Affrontiamo i rapporti internazionali in termini classici. Il fondamentalismo islamico (il terrorismo è solo un metodo di combattimento), con uno dei sui più alti esponenti, Osama Bin Laden, ha dichiarato guerra agli Stati Uniti nel 1998, e portato a compimento attacchi contro le ambasciate americane di Kenya e Tanzania e contro la nave militare USS Cole. Il suo primo attacco sul territorio nemico risale al settembre 2001. In conseguenza alla reazione americana in Afghanistan, sostenuta dagli alleati europei, concretamente solo nella ricostruzione post-bellica, è stata dichiarata guerra ai Paesi europei, tra cui l'Italia (tanto che Bin Laden dopo gli attentati di Madrid offrì una tregua "europea"). Il primo attacco è avvenuto a Madrid l'11 marzo scorso.
Prima conclusione: siamo dunque in guerra, non in una generica lotta ad un'organizzazione criminale. Una guerra asimmetrica, poiché esiste un esercito nemico, ma senza divisa e privo di riferimenti ad un'unica statualità che se ne attribuisca la responsabilità politica. L'Italia ha in Iraq un contingente militare legittimo. Le Nazioni Unite hanno legittimato e incoraggiato la presenza di truppe di peacekeeping, la cui presenza è richiesta dal governo iracheno dichiarato legittimo sempre dall'Onu. Dunque l'attacco subito dal nostro quartier generale a Nassiryia è un atto di guerra.
Gli obblighi contratti con l'appartenenza alla Nato, trattato internazionale il cui rispetto è costituzionalmente vincolato, ci dovrebbero far considerare gli attacchi alle truppe americane e britanniche in Iraq, la cui presenza è anch'essa legittimata dall'Onu, al pari di attacchi contro nostre truppe.
Se nel nostro Paese agiscono individui o gruppi che fanno spionaggio o reclutamento per un esercito nemico che sarà poi dislocato in Iraq o altrove, anche nel nostro Paese o in Paesi nostri alleati, questi individui o gruppi non andrebbero perseguiti dalla magistratura ordinaria, ma sono "affare" dei servizi segreti militari e delle forze armate. Come in qualsiasi situazione di guerra esistono dunque i presupposti per l'imprigionamento dei combattenti, o dei fiancheggiatori, del nemico.
E' inoltre legittimo non applicare nei confronti di questi prigionieri la Convenzione di Ginevra, mai sottoscritta da rappresentanti legali del fondamentalismo islamico, anche se il loro trattamento deve comunque avvenire nel rispetto della dignità e dei diritti umani sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite e dalla nostra Costituzione.
A maggior ragione nel caso in cui si rigetti questa tesi, il giudice di Milano avrebbe dovuto egli stesso assumersi la responsabilità di garantire la sicurezza dei cittadini, come diritto prevalente, sia nel nostro Paese, sia di quelli in missione all'estero. E proprio se non siamo in guerra, non fa differenza se gli attacchi siano diretti contro civili o militari.
Essendo un servitore delle leggi dello Stato, che in primo luogo tutelano l'incolumità fisica dei cittadini (civili o in divisa), non fa differenza, di fronte alla preparazione concreta di atti violenti contro i nostri contingenti o il nostro territorio, se egli personalmente li giudichi un atto di resistenza, o di guerra, o di criminalità comune. A meno di non ammettere che quel magistrato possa dichiarare illegittima la presenza di nostri contingenti che operano con il mandato delle Nazioni Unite e il consenso di governi locali legittimi. Un soldato che si rifiutasse di eseguire gli ordini perché convinto di interpretare come legittimo il comportamento di coloro contro i quali dovrebbe agire, sarebbe certamente sottoposto a procedimento disciplinare.
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