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Thursday, September 01, 2005

I veri antiamericani sono anche anti-iracheni

Ma "stay on course" non significa chiudere gli occhi di fronte agli errori disastrosi della strategia americana. Lo sanno bene i neoconservatori

Sembra quasi che oggi per continuare a essere coerentemente antiamericani occorra essere anti-iracheni. E dunque, di fronte all'immane strage di un migliaio di sciiti a Baghdad provocata da una regia terroristica «diabolica» e da un'insicurezza ormai cronica nella popolazione irachena, non manca chi ancora parla di ritiro delle truppe e chi vede nella costituzione appena approvata solo una serie di contraddizioni anziché il testo più liberale e democratico del mondo arabo.

"Stay on course" non significa chiudere gli occhi di fronte agli errori disastrosi della strategia americana. Lo sanno bene i neoconservatori che da due anni, dalla rivista Weekly Standard, chiedono al presidente Bush la testa del segretario alla Difesa Donald Rumsfeld. Ciò che non si è capito, ripetono Bill Kristol, Robert Kagan, Michael Ledeen, è che il processo politico e i progressi sul problema della sicurezza sono due variabili indipendenti fra loro. Nel senso che gli attacchi dei terroristi e degli "insorti" non sono destinati a placarsi con l'avanzare della democratizzazione. Si tratta di una guerra regionale (sono coinvolti anche Stati come la Siria, l'Iran, l'Arabia Saudita) che i nemici della democrazia e della libertà sono intenzionati a combattere, e contro i quali la strategia del Pentagono è completamente inadeguata.

David Frum su Il Foglio si spiega meglio: «La nuova Costituzione irachena è la risposta giusta alla domanda sbagliata».
«Come documento non gli si può fare nessuna critica. E' una Costituzione democratica e federalista, che protegge i diritti degli individui e riconosce la tradizione islamica dell'Irak. Ma chiunque speri che questa Costituzione cambierà qualcosa nella guerra irachena sta compiendo un errore grave, forse addirittura fatale. La minaccia che incombe sull'Irak riguarda la sicurezza, e ciò di cui ha bisogno l'Irak è una strategia di sicurezza».
L'errore che si fa a Washington è nell'incapacità di comprendere che «l'insurrezione in Irak non è una guerra civile, una guerra di iracheni contro iracheni, ma una guerra regionale, che attraversa tutto il Medio Oriente... I più importanti avversari della Costituzione irachena non vivono in Irak».
«L'Irak non otterrà una maggiore stabilità con ulteriori concessioni alla minoranza sunnita. La otterrà soltanto con la chiusura dei propri confini, con una politica di pressione sull'Arabia Saudita e sull'Iran per far cessare gli aiuti agli insorti, con attacchi e bombardamenti aerei contro i campi terroristici nel territorio siriano, con un approccio più serio alla guerra da parte di Washington e con una più concreta mobilitazione delle risorse irachene da parte di Baghdad. Ci sarà tempo in seguito per fare eventuali emendamenti alla Costituzione. Per prima cosa bisogna ottenere la vittoria militare».
Recentemente ha riscosso grande attenzione la strategia alternativa, «a macchia d'olio», proposta dallo stratega militare Andy Krepinevich, dalle pagine di Foreign Affairs, approdata anche sulle pagine del New York Times grazie a David Brooks, e di cui ho parlato in questo post di qualche giorno fa.

In Italia ci ha raccontato questo dibattito il solito Christian Rocca (bel rientro!):
«La stragrande maggioranza del mondo politico e militare, di destra e di sinistra, si divide tra chi vincola il ritiro dall'Iraq alla creazione di un esercito iracheno in grado di difendere la giovane democrazia dall'attacco islamo-fascista e chi sostiene, invece, che una volta che gli iracheni avranno i numeri sufficienti per gestire la propria sicurezza, i confini e i pozzi di petrolio, la forza americana potrà finalmente essere liberata dai compiti di ordine pubblico e impiegata per sconfiggere sul piano militare i terroristi. La prima posizione è quella di Rumsfeld, di buona parte dei Democratici e della destra realista di scuola kissingeriana. La seconda è quella dei falchi neoconservatori...»
Un'altra e più generale critica che può essere mossa alla strategia americana in Iraq è quella di non aver investito a sufficienza e non aver avuto la sensibilità necessaria per conquistare rapidamente, all'inizio, "i cuori e le menti" degli iracheni utilizzando le "armi di attrazione di massa", le "bombe dell'informazione". L'opinione pubblica araba invece è stata lasciata in balìa della propaganda qaedista e gettata in pasto all'informazione distorta di Al Jazeera.

Per fare un solo esempio. Se il processo a Saddam Hussein fosse già cominciato, facendo venir fuori tutte le nefandezze commesse dal Baath contro il proprio popolo, i sunniti coinvolti nella stesura della costituzione avrebbero potuto esercitare di certo minori resistenze, soprattutto per quanto riguarda la messa al bando del partito saddamita.

La solita strigliata all'opinione pubblica italiana sull'ultima strage irachena ha tentato di darla Magdi Allam sul Corriere della Sera:
«Qui in Italia e altrove rendiamoci finalmente conto che coloro che massacrano indiscriminatamente i civili sono terroristi aggressivi, non "resistenti" reattivi. Non sono il prodotto di una guerra di occupazione "ingiusta", all'opposto sono i nemici del popolo iracheno che nella sua maggioranza è stato ben lieto di essersi liberato della dittatura e crede sempre più nella libertà e nella democrazia. Il partito dei catastrofisti si rassegni: saranno travolti, insieme ai terroristi, dalla determinazione del popolo iracheno. Che si è dato la Costituzione più liberale e democratica del mondo arabo. Che è riuscito a rendere appetibile la partecipazione al voto ai sunniti per il referendum del 15 ottobre, dopo il boicottaggio delle legislative lo scorso 30 gennaio. E ora la speranza è che nel segreto dell'urna anche i sunniti riescano a emanciparsi dalla paura del terrorismo che ha messo radici sul loro territorio...»
Il mito della sinistra americana paralizzata su posizioni pacifiste prova a smentirlo Thomas Cushman, docente di sociologia al Wellesley College, vicino Boston, e direttore di The Journal of Human Rights, il quale si lamenta che «durante tutta questa guerra, è sembrato che per i liberal la sola posizione legittima fosse una totale opposizione. Ma non è così».
«Nell'attuale situazione del conflitto iracheno, si possono ancora mettere in campo motivi umanitari a sua difesa? La mia risposta è sì. Gli Stati democratici che si impegnano in una guerra per abbattere un tiranno hanno il dovere di promuovere la ricostruzione sociale e la democratizzazione per facilitare l'ingresso della nuova società nella comunità delle nazioni civili, libere e e democratiche.
(...)
Noi che consideriamo questa guerra come un coraggioso esperimento di libertà e di democrazia, vogliamo sottolineare i successi che si sono riportati in Irak... Se siete liberal e considerate problematici gli atteggiamenti di Bush, ma non potete nemmeno sopportare la cinica opposizione della sinistra pacifista, troverete conforto nelle opinioni di chi si considera un liberal antitotalitarista. Il movimento pacifista non ha saputo sostenere il popolo iracheno, non soltanto non appoggiandolo nel suo rivoluzionario esperimento, ma creando deliberatamente un'immagine della guerra carica della sua negatività e della sua disperazione, anziché sottolineare i successi riportati e cercare di aiutare gli iracheni nella loro battaglia per la libertà.
(...)
Se le forze americane si ritirassero ora, sarebbe una vittoria per i fascisti che stanno cercando di impedire all'Irak di seguire la strada della libertà e la democrazia. Ritirarsi ora non darebbe soltanto una vittoria a queste forze, ma infliggerebbe anche un duro colpo agli ideali di democrazia e libertà della civiltà occidentale incoraggiando proprio quelle forze che cercano di distruggerli».

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