Con tutti i limiti di ogni generalizzazione si può affermare che la storia dello Stato d'Israele, dalla sua nascita, nel 1948, ad oggi, sia stata un'incredibile storia di esemplare uso moderato della forza. Ad occhi abituati a guardare il conflitto mediorientale attraverso le lenti del pregiudizio europeo, ciò potrà apparire paradossale. Eppure, è un miracolo che uno Stato la cui esistenza stessa è minacciata da sessant'anni, fin dalla sua costituzione, e la cui forza militare è così superiore ai suoi nemici, non si sia reso responsabile di stragi e massacri di vaste proporzioni e abbia preservato al proprio interno istituzioni solidamente democratiche. Addirittura, unico caso di uno stato che abbandoni unilateralmente territori occupati in seguito a una guerra difensiva vinta.
La domanda che ci dobbiamo porre è: fino a quando? Quanto potrà resistere l'"eccezionalismo" israeliano? Il rischio è che, prima o poi, la "logica delle cose", quella che fino ad oggi non ha avuto la meglio, prevalga sulla "logica degli uomini".
Israele che arresta i ministri di Hamas può aver scandalizzato qualche anima candida. Ma se questi fanno parte di un'organizzazione ufficialmente terroristica? A Israele non serve la solidarietà pelosa e ambigua dell'Europa di questi anni. Senza sbraitare a vuoto, e sarebbe già qualcosa, verso Hamas e i mullah iraniani, si possono compiere due atti semplici ma di immensa portata politica. Il primo è l'adesione di Israele all'Unione europea, come i radicali sostengono ormai da anni, sentendosi proporre da Giuliano Amato la partnership, proprio contro ogni ipotesi di membership. Il tipico esempio di quel tanto di riformismo che impedisce ogni riforma.
Il secondo è far entrare Israele nella Nato, integrandolo in tutto e per tutto nel sistema di sicurezza occidentale. L'idea è di due analisti della Heritage Foundation, John Hulsman e Nile Gardiner. D'altronde, già possiede tutti i requisiti per l'adesione all'Alleanza Atlantica: è una democrazia, ha un libero mercato, è pienamente in grado di contribuire efficacemente alla difesa comune, con il 10% del Pil di spese militari, 167mila uomini e donne in armi e 358mila in riserva. Sarebbe, l'ingresso nella Nato, un valido deterrente nei confronti delle pericolose tentazioni iraniane.
L'unico a riprendere questa proposta è l'attuale sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti (Margherita): «Qual è il modo migliore per rispondere alla minaccia nucleare iraniana se non includere Israele nella Nato?». Vernetti dimostra così di aver compreso ciò che i radicali sostengono da tempo con la proposta di Israele nell'Ue: coinvolgere Israele, unica democrazia del Medio Oriente, in un sistema multilaterale di sicurezza, mirare a una sua maggiore integrazione con l'Europa e l'Occidente, significa a) prevenire possibili derive autoritarie e militariste cui un paese in guerra da sessant'anni può essere soggetto; b) ribadire il diritto di Israele a esistere e porre di fronte al mondo islamico il dato della sua esistenza come irrinunciabile per l'Europa e l'Occidente; c) assumere un ruolo di maggiore responsabilità nel processo di pace e prefigurare assetti di integrazione su base regionale tra Israele e i suoi vicini, incoraggiando i processi democratici degli altri paesi arabi.
La proposta è stata subissata da un coro di "no". «Irrealistica» per D'Alema, «imprudente» per Bobo Craxi, quasi una provocazione per la sinistra neocomunista.
Implicita la polemica di Vernetti con la politica della cosiddetta "equivicinanza" nei confronti di israeliani e palestinesi, rientrata alla Farnesina con Massimo D'Alema, che si pone come l'erede più autorevole della tradizionale politica filopalestinese degli anni '80, craxiana e andreottiana. D'Alema ha costituito una sorta di "direttorio" dell'"equivicinanza", chiamando vicino a sé un viceministro con delega al Medio Oriente, Ugo Intini, e un sottosegretario, Bobo Craxi, le cui vite politiche sono entrambe strettamente legate proprio alla politica filoaraba che fu di Bettino Craxi. Al contempo, dando vita sotto la sua egida quasi a un laboratorio di unità socialista subalterna alla Quercia.
E' sempre utile, quando si cita un sottosegretario, specificare tra parentesi in quale partito milita. Per esempio, un Vernetti, con la sua proposta, potrebbe venire confuso con un esponente della Rosa nel Pugno. Le sue, anche sull'Afghanistan, sono idee di una sinistra liberale e antitotalitaria. Non si può dire altrettanto del viceministro Intini (Rosa nel Pugno), che con la sua intervista, di pochi giorni fa al Corriere della Sera, dimostra di essere "equivicino" a D'Alema, se non, addirittura, ad Arafat.
Intini non si appunterebbe sulla giacca un fiocco blu per il soldato israeliano rapito, come proposto dal quotidiano israeliano Ha'aretz, perché troppi fiocchi neri dovrebbe appuntarsi tutti i giorni. Sottinteso: per le vittime del fuoco israeliano.
La sua è una politica "vecchia" maniera. Ci vogliono dialogo e diplomazia per risolvere la questione mediorientale. Ci auguriamo, quindi, che sia più dotato e più fortunato dei suoi predecessori. D'altra parte oggi, spiega, «si dice di Hamas quello che si è detto per anni di Arafat: che era a capo dei terroristi e non voleva riconoscere Israele. Invece poi ci furono gli accordi di Oslo. La Storia può ripetersi». Speriamo proprio, al contrario, che quella brutta storia non si ripeta. Dov'è stato Intini in questi anni, per non aver visto che di ambiguità in ambiguità, passando da un'intifada all'altra, Arafat ha finito per screditarsi completamente, ed essere isolato dai principali attori internazionali, su tutti Israele e Stati Uniti? Non ha visto, Intini, che dopo la sua morte Arafat è caduto rapidamente nel dimenticatoio?
Arafat viene oggi ricordato come un leader cinico e corrotto che ha usato il terrorismo, finendo per venirne usato a sua volta, e che ha fallito nel costruire quello che doveva essere un embrione di Stato palestinese. Vedere ancora oggi in Arafat un modello di interlocutore che Hamas può far suo è un abbaglio clamoroso. Intini dimostra così di non aver compreso minimamente la natura fondamentalista di Hamas e di ignorare cosa sia avvenuto dagli accordi di Oslo in poi. L'irriducibile doppiezza di Arafat, l'essere rimasto, in definitiva, un terrorista, mai trasformatosi in statista, sono i fattori che l'hanno reso parte del problema, non della soluzione. Intini sembra ancora legato all'idea romantica di un Arafat prima combattente, poi negoziatore - idea completamente superata dai fatti - e comodamente adagiato su una visione del conflitto israelo-palestinese che risale a vent’anni fa.
Il problema, nell'anno 2006 dopo-Cristo, è davvero trovare una «patria» ai palestinesi? Può tutto essere ricondotto a un episodio di decolonizzazione? Quella dei palestinesi può essere ritenuta una guerra di liberazione nazionale?
Prosegue Intini nell'intervista: «Gli omicidi mirati aumentano la spirale dell'odio e della violenza. Da uno Stato democratico ci si aspetta più prudenza e moderazione di quanto ci si aspetti da organizzazioni terroristiche». Perché aspettarsi da organizzazioni terroristiche qualcosa di diverso da stragi di civili? Intini è acuto: sa che è molto più facile, si fa più bella figura, "moderare" uno stato democratico, più portato a prestare ascolto ai paesi "amici". Non si rende conto, Intini, che concentrando su Israele le richieste di "moderazione" si sta in realtà chiedendo agli israeliani di combattere il terrorismo con mani e piedi legati? Come si fa a preoccuparsi più degli omicidi mirati di capi terroristici, che delle stragi di civili innocenti sugli autobus?
La conclusione è grottesca. Secondo Intini, il muro alzato da Israele (che poi muro non è, se non in brevissimi tratti) sarebbe cosa ben peggiore del Muro di Berlino, nonostante questo servisse a ingabbiare i cittadini di Berlino Est, e non a proteggerli da attacchi esterni. Motivo? Il "muro" israeliano è costruito «dentro il territorio altrui». Ma il viceministro ignora che la Suprema Corte israliana ha da tempo riconosciuto l'illegittimità delle parti del "muro" che superino i confini e il governo ha provveduto a spostare il tracciato.
Avevo già manifestato, con questo articolo per Notizie Radicali, le mie profonde perplessità in merito alle posizioni di politica estera espresse da Intini, lo scorso 3 marzo su il Riformista: in 4.192 battute non comparivano mai parole come "democrazia", "libertà", "diritti", né s'intravedevano gli iracheni o gli iraniani. Le critiche mosse dal capolista della Rosa nel Pugno all'amministrazione Bush per la sua politica in Medio Oriente andavano iscritte senza indugi alla scuola realista, mentre la promozione della democrazia - non la stabilità, o "equivicinanze" fra dittature e democrazie - dovrebbe essere, almeno per i liberalsocialisti, il parametro guida nella politica internazionale.
Intini stavolta si è meritato l'ironia di Andrea Marcenaro, nella sua Andrea's Version, su Il Foglio del 30 giugno:
Era struggente, ieri, «l'amico di Israele» Ugo Intini che respingeva con fastidio l'invito di Haaretz ad appuntarsi sulla giacca un fiocco blu fino a che il soldato israeliano rapito dal terrorismo palestinese non venga liberato. Che scemenza, ha risposto, «se mai bisognerebbe metterne uno nero tutti i giorni». Lei pone sullo stesso piano attacchi terroristici e omicidi mirati?, gli è stato chiesto. «Ovviamente no – è stata la risposta – però gli omicidi mirati aumentano la spirale dell'odio». Cioè, ovviamente sì. «E si sparla oggi di un Hamas terrorista come per anni si è sparlato di Arafat». Così, dopo aver trattato con sprezzante sufficienza il ritiro unilaterale israeliano da Gaza, «sempre meglio di nessun ritiro», il viceministro degli Affari esteri con delega al medio oriente si è avventurato nell'elogio della superiorità del Muro di Berlino rispetto alla barriera antiattentati innalzata da Israele: «Uno era almeno al confine tra due stati, l'altro è costruito in territorio altrui». E si è capita lì la lungimiranza di Michele Serra che lo chiamò a suo tempo Ugo "Palmiro" Intini. Certo che Ugo "Palmiro Yasser" Intini sarebbe stato perfetto.
9 comments:
Non ho nulla contro le "sante parole".
;-)
Linkato.
Saluti
Condivido. :)
ps: era ora... ;)
Era ora? Cioé?
Ottimo Jim.
io penso che il dalemiano concetto di "equidistanza" abbia delle ragioni storiche. oggi come oggi, se proprio dovessi scegliere, farei ovviamente meno fatica a dirmi filoisraeliano che filopalestinese, ma non credo che si possa decontestualizzare la storia relativamente recente che ha portato alla formazione dello stato di israele. nessuna giustificazione al terrorismo, nessuna legittimazione di hamas, oggi la priorità è trovare una soluzione concreta per realizzare e pacificare due stati indipendenti e sovrani, e probabilmente potrennero essere valide pragmaticamente le misure descritte come la partecipazione di israele all'Ue e alla nato. però quando intini o d'alema (che non è tacciabile di essere influenzato da una cultura craxista) si prodigano nel sostenere ragioni dell'equidistanza, secondo me, valutano il contesto di una situazione innaturale
Ammazza Jim, sempre più polemico mi stai diventando. :)
Meno male che c'è Mario. :P
Non ero polemico, non avevo davvero capito ;-)
Concordo e vorrei sapere una cosa:
Israele ha chiesto ufficialmente o no l'ingresso nella UE?
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