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Friday, May 29, 2009

Tra Usa e Russia, l'Italia rischia la spaccata/2

L'ipotesi di un «complotto internazionale» contro Berlusconi, evocata oggi su Libero da Fausto Carioti, riprendendo il solito confuso editoriale di Lucia Annunziata, a me pare ridicola, per usare un eufemismo. Se ne parlerà pure tra i «fedelissimi» del premier, ma ai miei occhi resta tale. Un «complotto» che nascerebbe negli Usa, e comunque nel mondo anglosassone in generale.

Che alcune nostre politiche, e alcune recenti mosse avventate, infastidiscano i nostri alleati americani è fuor di dubbio. La ricostruzione di Carioti sul fastidio che a Washington provocano le intese tra Eni e Gazprom, l'ultima sul gasdotto South Stream, è ineccepibile. Tuttavia, mi chiedo: la politica dell'Eni sarebbe diversa senza Berlusconi al governo, o addirittura con un governo di centrosinistra? Era forse diversa durante il governo Prodi? A quanto mi risulta, che «l'intesa con la Russia non fosse solo economica, ma - per ammissione dei protagonisti - politica», era evidente anche con il governo di centrosinistra, quando altri «protagonisti», Prodi e D'Alema, parlavano esplicitamente di «partnership strategica» con Mosca.

Non inganni l'ostentata amicizia tra Berlusconi e Putin. E' reale, ma dietro di essa ci sono politiche rigorosamente bipartisan. Non è "l'Eni di Berlusconi" ad accordarsi con Gazprom, ma è "l'Eni italiana" punto. Nei confronti della Russia (come della Cina), al di là del "feeling" tra Berlusconi e Putin esiste una continuità sufficientemente bipartisan della politica italiana da non giustificare da parte di Washington complotti contro Berlusconi.

Sarà anche vero che a livello europeo si voleva tenere in gioco l'Ucraina e che, almeno a parole, si punta sul gasdotto Nabucco che esclude i russi, ma poi mi pare che tranne Gran Bretagna e Francia (meno dipendenti degli altri dal gas russo), gli altri paesi europei trattino con Mosca come fa l'Italia, ciascuno avendo a cuore il proprio particolare.

Mi sembra inoltre esagerato parlare di «appoggio dato da Berlusconi all'operazione militare russa in Georgia». E' vero che nelle prime ore la reazione del governo italiano apparve fin troppo comprensiva nei confronti di Mosca, ma subito dopo il tiro fu corretto. In questo genere di crisi, e in generale quando si creano tensioni tra Washington e Mosca, Berlusconi è sempre andato alla ricerca di visiblità internazionale, vantando un ruolo di mediazione forse sopravvalutato, forse velleitario, ma appunto di mediazione. Durante la crisi georgiana la nostra posizione inizialmente troppo filorussa e la nostra iniziativa di mediazione furono sfumate e riassorbite nell'alveo di un'iniziativa a livello europeo a guida francese.

Infine, sull'Iran, esclusi dal 5+1, vedo nelle mosse italiane maldestri tentativi per recuperare un posto in prima fila nei negoziati, più che una tentazione "doppiogiochista". Nei confronti dell'Iran, di Hezbollah e su tutta la politica mediorientale, il governo Prodi-D'Alema si è mosso in modo molto più ambiguo e tale da suscitare, quello sì, l'irritazione della Casa Bianca.

Vedremo ora quale sarà l'atteggiamento italiano nei confronti del trasferimento di detenuti di Guantanamo in Europa, un altro tema spinoso. Insomma, c'è senz'altro più d'un motivo di tensione e di freddezza nei rapporti tra Italia e Stati Uniti, ma non vedo aria di «complotti». Tra l'altro, è poco verosimile che a Washington si siano mossi per rimuovere "l'ostacolo Berlusconi" senza prima individuare una valida e praticabile alternativa, cioè un altro leader politico italiano - di centrodestra o di centrosinistra - in grado sia di ottenere il consenso degli italiani sia di ribaltare la politica dell'Eni. E' difficile in Italia trovare un politico fino a tal punto filo-americano. Fini? Tremonti? D'Alema? Non ne vedo.

Sarei invece più portato a pensare che nei rapporti freddi con la nuova amministrazione Usa Berlusconi paghi semmai l'amicizia con George W. Bush, altrettanto solida e ostentata di quella con Putin. E' più verosimile, a mio avviso, che l'amicizia tra Berlusconi e Bush, cementata dalla posizione italiana durante la crisi irachena, abbia supplito in questi anni alla scarsa rilevanza internazionale di fondo del nostro paese, illudendoci di essere alleati preziosi per Washington, addirittura necessari, mentre oggi, con Obama, siamo tornati a contare poco o nulla, è tornata l'Italia «che più di tanto non ha da dare agli Stati Uniti».

Un'analisi perfetta è quella di Daniele Raineri oggi su Il Foglio. I rapporti tra Usa e Russia stanno peggiorando su tutti i fronti (nonostante il bottone di reset offerto da Obama e H. Clinton ai russi): su tutti Iran (i russi si stanno impegnando a minare la credibilità della deterrenza di un raid aereo contro gli impianti nucleari di Teheran, neanche un succoso do-ut-des li ha indotti a desistere) e Afghanistan (Mosca sogna la disfatta Usa e Nato per recuperare influenza sulla regione). Quindi, con Usa e Russia che si allontanano, come ebbi modo di scrivere mesi fa, l'Italia rischia la spaccata: «Il nostro tradizionale ruolo di cerniera, il Cav. con lo Stetson da cowboy e il Cav. con il colbacco in testa, non è più possibile. O da questa o da quella parte. In attesa di capire che cosa faremo, la Casa Bianca non si fa sentire», conclude Raineri.

Ma purtroppo Berlusconi è sentimentalmente legato allo spirito del vertice Nato-Russia di Pratica di Mare, un'era politica ormai lontana anni luce. L'errore di Berlusconi (e di Frattini) è stato non comprenderlo mesi fa, quando cambiare linea gli sarebbe valso qualche bella figura sulla democrazia e i diritti umani e qualche punto "simpatia" con qualsiasi amministrazione Usa, sia che avesse vinto Obama che avesse vinto McCain. Invece, mi sembra che tuttora il Cav. non si sia accorto che tra Washington e Mosca è cambiata aria.

In tutto questo, però, i complotti lasciamoli ai no global e occupiamoci di politica.

Uscirne più forti si può, ma con le riforme

«E' possibile uscire da questa crisi più forti», ha dichiarato questa mattina il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, ma sarà possibile a delle precise condizioni. «Ogni paese - ha spiegato - affronta la recessione con le sue forze, le sue debolezze, la sua storia». Purtroppo, «negli ultimi vent'anni la nostra è stata una storia di produttività stagnante, bassi investimenti, bassi salari, bassi consumi, tasse alte». Quindi, non basterà aspettare con le mani in mano che la tempesta passi, «una risposta incisiva all'emergenza è possibile solo se accompagnata da comportamenti e da riforme che rialzino la crescita dal basso sentiero degli ultimi decenni».

In particolare, «dobbiamo, da subito, puntare a conseguire una più alta crescita nel medio periodo». Dobbiamo considerare, ha avvertito, che «il nostro paese si ritroverà non solo con più debito pubblico, ma anche con un capitale privato depauperato dal forte calo degli investimenti e dall'aumento della disoccupazione. Se dovessimo limitarci a tornare su un sentiero di bassa crescita come quello degli ultimi 15 anni, muovendo per di più da condizioni nettamente peggiori, sarebbe arduo riassorbire il debito pubblico e diverrebbe più cogente la necessità di politiche restrittive per garantirne la sostenibilità».

Per scongiurare questo scenario, ha detto Draghi, serve innanzitutto «assicurare il riequilibrio prospettico dei conti pubblici» («le misure di riduzione della spesa corrente vanno introdotte nella legislazione subito, anche se con effetti differiti»), ma servono anche «quelle riforme che, da lungo tempo attese, consentano al nostro sistema produttivo di essere parte attiva della ripresa economica mondiale». In particolare, «il graduale incremento dell'età media effettiva di pensionamento», per assicurare pensioni più dignitose e un più alto tasso di attività lavorativa, innalzando sia il reddito delle famiglie che il potenziale produttivo dell'economia; «il completamento degli ammortizzatori sociali»; «l'attuazione del federalismo fiscale»; «la progettata riforma della Pubblica amministrazione»; la ripresa del «processo di liberalizzazione intrapreso negli anni passati». Il governatore ha poi citato «la ripresa degli investimenti pubblici», la realizzazione di infrastrutture e la «riduzione nei tempi di pagamento dei debiti commerciali» da parte delle amministrazioni pubbliche.

Uscire più forti dalla crisi è possibile, ma non avverrà come per incanto. Servono le riforme indicate da Draghi, di cui parliamo da tempo. «Siamo qui per questo», è stato l'incoraggiante commento di Berlusconi all'appello di Draghi. Solo che di tempo non ne rimane molto, se vogliamo agganciare la ripresa nel migliore dei modi.

Thursday, May 28, 2009

Venezuela e Iran, le relazioni pericolose

L'Iran si sta facendo aiutare dai suoi alleati in Sud America per aggirare le sanzioni economiche del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. E' quanto emerge da un rapporto ufficiale del Ministero degli Esteri israeliano - di cui Ynetnews ha ottenuto una copia - secondo cui Venezuela e Bolivia forniscono uranio a Teheran per il suo programma nucleare. Si sospetta anche che Hezbollah stia fondando cellule terroristiche nel nord del paese di Chavez e sull'isola Margarita, anch'essa territorio venezuelano. Si tratta di un «dettagliato dossier sulle attività iraniane in Sud America», spiega il sito del quotidiano israeliano in un articolo del 25 maggio. E' stato preparato in vista della visita del ministro degli Esteri Lieberman nella regione e si basa su informazioni provenienti da fonti di intelligence e diplomatiche israeliane e straniere.

L'Iran ha iniziato la sua «infiltrazione» dell'America Latina nel 1982, stringendo legami con Cuba. Poi, negli anni, ha aperto ambasciate in Messico, Brasile, Colombia, Argentina, Cile, Venezuela e Uruguay. Nel rapporto si ricorda il coinvolgimento dell'Iran negli attacchi terroristici all'ambasciata israeliana a Buenos Aires nel 1992 e all'AMIA Jewish Community Center nel 1994, sempre nella capitale argentina.

«Da quando il presidente iraniano Ahmadinejad è arrivato al potere - si legge nel dossier - Teheran ha cominciato a promuovere una politica aggressiva mirata a rafforzare i suoi legami con i paesi dell'America Latina, con lo scopo dichiarato di mettere l'America in ginocchio» e comunque di allentare il suo isolamento internazionale. Ahmadinejad e Chavez hanno in comune la volontà di sfidare gli Stati Uniti. I due paesi hanno già siglato oltre 200 accordi, istituito un volo diretto che serve regolarmente i «tecnici iraniani» e un fondo di 200 miliardi di dollari per guadagnare il sostegno di altri paesi dell'America Latina alla causa della «liberazione dall'imperialismo Usa». Il presidente Chavez in persona, secondo il dossier, ha contribuito a rafforzare i legami tra l'Iran e la Bolivia, l'Ecuador e il Nicaragua, invitando Ahmadinejad alle cerimonie di insediamento dei presidenti tenute in quei paesi.

Il dossier riporta anche lo stato dei rapporti commerciali tra l'Iran e i paesi del Sud America. Il commercio con il Brasile equivale a un miliardo di dollari; l'Uruguay vende riso a Teheran per 100 milioni di dollari; mentre il Cile acquista petrolio iraniano. Anche paesi filo-americani come Honduras, Repubblica Domenicana e Guatemala, che ricevono aiuti dal Venezuela, possono essere soggetti all'influenza iraniana, e persino l'Argentina sta costantemente accrescendo le sue relazioni commerciali con Teheran. Durante la sua prossima visita nel continente, il ministro degli Esteri israeliano intende informare i paesi dell'America Latina delle violazioni dei diritti umani di cui è responsabile il regime iraniano.

Anche l'Associated Press ha ottenuto una copia del dossier israeliano che «per la prima volta accusa Venezuela e Boliva di essere coinvolti nello sviluppo dell'atomica iraniana». Mentre la Bolivia ha depositi di uranio, a quanto risulta il Venezuela non sta estraendo uranio dalle sue riserve, che vengono stimate in 50 mila tonnellate da un'analisi pubblicata nel dicembre scorso dal Carnegie Endowment for International Peace. Secondo il rapporto del Carnegie, tuttavia, la recente collaborazione con l'Iran sui «minerali strategici» ha sollevato sospetti. In effetti, il Venezuela potrebbe estrarre uranio per l'Iran.

L'agenzia di stampa ricorda anche che il Venezuela ha espulso l'ambasciatore israeliano durante l'ultima offensiva a Gaza e Israele ha risposto espellendo a sua volta l'incaricato venezuelano. Anche la Bolivia ha tagliato i suoi legami con Israele dopo l'offensiva contro Hamas.

Il ruolo dell'Iran in America Latina è ben noto anche agli Stati Uniti. Il segretario alla Difesa, Robert Gates, nel gennaio scorso ha espresso le sue preoccupazioni circa le attività iraniane nella regione: «Sono preoccupato per il livello di un'attività francamente sovversiva che gli iraniani stanno conducendo in molti luoghi dell'America Latina. Stanno aprendo molti uffici e molte attività di facciata dietro cui interferiscono negli affari di alcuni di questi paesi», ha dichiarato Gates al Senato.

In "Iran Global Ambition", un paper del marzo 2008, Michael Rubin, dell'American Enterprise Institute, metteva in guardia l'amministrazione Usa sull'influenza iraniana in America Latina e in Africa, ravvisando un'«ambizione globale» da parte dell'Iran. «Mentre gli Stati Uniti hanno concentrato la loro attenzione sulle attività iraniane nel Grande Medio Oriente, l'Iran ha lavorato assiduamente per espandere la sua influenza in America Latina e in Africa». Solo con il presidente Ahmadinejad ha fatto significativi passi avanti nel tentativo di rafforzare il blocco anti-americano costituito da Venezuela, Bolivia e Nicaragua. E anche in Africa sta stringendo forti legami. Questi sforzi, secondo Rubin, suggeriscono che la Repubblica Islamica «sta cercando di divenire una potenza globale» e di mettere un piede sulla «soglia di casa» degli Stati Uniti.

Per espandere l'influenza iraniana in quei continenti, Ahmadinejad ha dato impulso a una «coordinata strategia diplomatica, economica e militare, che ha avuto successo non solo in Venezuela, Nicaragua, e Bolivia, ma anche in Senegal, Zimbabwe, e Sud Africa». Queste nuove alleanze sono in grado di «sfidare gli interessi americani in questi paesi e nelle rispettive regioni». La pietra angolare della politica latinoamericana di Ahmadinejad è la formazione di un asse anti-americano con il Venezuela. Mentre i rapporti con gli altri paesi poveri si basano su aiuti economici più che su una comune visione strategica, Iran e Venezuela sono ricchi di petrolio e la loro relazione è più cooperativa e strategica, e insieme hanno usato i loro petroldollari per coinvolgere altre nazioni latinoamericane e africane in iniziative contro gli interessi degli Stati Uniti.

Mentre Stati Uniti ed Europa per lo più ignorano l'Africa, l'Iran è interessato ad ogni stato africano – musulmano o no – in rotta con l'Occidente in generale e con gli Stati Uniti in particolare. Appena Sudan e Zimbabwe sono stati isolati, Teheran ha subito cercato di riempire il vuoto. L'Iran, conclude Rubin, ha una «strategia globale che Washington è stata incapace di fronteggiare: per ogni tre viaggi di Ahmadinejad in America Latina, Bush ne ha compiuto uno». Le possibilità di un successo iraniano di lunga durata sono poche, essendo i rapporti con i paesi latinoamericani e africani basati per la maggior parte su aiuti economici e non su una «solidarietà ideologica».

Tuttavia, come minimo, i nuovi alleati consentono a Teheran di mitigare l'isolamento in cui si trova e potrebbero ospitare programmi militari segreti. Nella peggiore delle ipotesi, Teheran potrebbe cooperare con Caracas per destabilizzare la Colombia di Uribe o lanciare attacchi terroristici contro gli interessi americani. Il Pentagono può aver rafforzato le difese nel Golfo Persico, ma l'Iran e i suoi alleati potrebbero colpire nel centroamerica, è lo scenario evocato da Rubin. Nel frattempo, è spuntato questo dossier israeliano secondo cui Venezuela e Bolivia forniscono all'Iran l'uranio necessario per dotarsi di armi nucleari.

Vargas Llosa non gradito da Chavez

Mario Vargas Llosa, romanziere di successo noto anche per essere stato candidato alla presidenza del Perù, e da anni appassionato liberale, è stato fermato dalle autorità venezuelane al suo arrivo a Caracas per un convegno. Bloccato per due ore in aeroporto, gli è stato intimato di evitare qualsiasi riferimento al governo di Chavez o alla situazione politica del paese, pena l'espulsione. Pochi giorni prima la stessa intimidazione a suo figlio, scrittore e giornalista. Il governo ha preferito la pressione "diretta" al rischio di provocare un caso diplomatico rifiutandogli il visto d'ingresso.

I due Vargas Llosa, è stata la spiegazione, a dire il vero ben poco convincente, del ministro degli Esteri Maduro, sono arrivati in Venezuela per «prendere parte a un piano permanente della destra internazionale per dimostrare che il nostro Paese vive in un modello di dittatura», mentre «semplicemente si trovano di fronte a una democrazia che non hanno mai visto prima».

Wednesday, May 27, 2009

C'è sempre una scusa per rinviare le riforme

Da Luigi La Spina, su La Stampa:
L'appello alla riforma del welfare lanciato da Confindustria e, per la prima volta, non contestato pregiudizialmente da tutti i sindacati, va accolto. Non solo per verificare la possibilità di un'intesa, ma per sgomberare o confermare il sospetto che incomincia a convincere molti: quello di un'ipocrita commedia all'insegna dello slogan "ora le riforme". Perché, in campagna elettorale, è troppo pericoloso impaurire la somma degli interessi costituiti in difesa dell'esistente e perché è più facile, per chi non ha responsabilità di governo, inneggiare al cambiamento.

La divaricazione tra le due Italie che, in questo momento, fronteggiano la situazione di crisi è davvero insopportabile. Da una parte, i garantiti: coloro che, addetti all'impiego pubblico o semipubblico, non solo non rischiano il posto di lavoro, ma, in un periodo di inflazione moderata, almeno finché durerà, constatano un potere d'acquisto, tutto sommato, non inferiore ai tempi passati. Dall'altra, chi ha visto drammaticamente ridotto il suo salario dalla cassa integrazione o, addirittura, non ha più speranze di una riapertura della sua fabbrica o del suo ufficio. In fondo al secondo girone, quello che potremmo chiamarlo, alla Primo Levi, dei "sommersi", ci sono i precari... Come è possibile sopportare l'ingiustizia di protezioni sociali che così dividono la sorte di tanti italiani? Come è possibile non accettare un innalzamento dell'età pensionabile, di fronte a una molto più lunga aspettativa di vita, per poter estendere a tutti la sicurezza di non essere abbandonati a una perenne precarietà del lavoro? È a questa linea di coraggioso rinnovamento nella politica sociale ed economica che Berlusconi dovrebbe rispondere. Coi fatti.
Mai avrei creduto di potermi trovare un giorno, in Italia, di fronte a una situazione in cui proprio i sindacati (soprattutto Cisl e Uil) e l'opinione pubblica (il 59%, almeno stando ad un recente sondaggio del Financial Times) sembrano sempre più favorevoli, o per lo meno possibilisti, sull'innalzamento dell'età pensionabile e la riforma del welfare, mentre un governo di centrodestra si sta sempre di più caratterizzando per la sua resistenza ad ogni ipotesi di riforma in campo economico e sociale e per il suo immobilismo, nonostante sia evidente che i suoi elettori non si aspettano certo la mera gestione dell'esistente.

A Il Foglio il ministro Sacconi - che se fosse stato un ministro del governo Prodi sarebbe stato additato dal centrodestra come il peggior esponente del conservatorismo sociale - spiega che a causa della crisi i cinquantenni sono a rischio e che quindi «bisogna evitare di posporre l'età pensionistica». Quando era all'opposizione, Sacconi fu tra quanti definirono «controriforma» l'abolizione dello "scalone Maroni" da parte del governo Prodi. Oggi scopriamo che per Sacconi anticipare l'età pensionabile (come ha fatto il governo Prodi) è solo «discutibile», mentre «posporla sarebbe anche peggio».

Il pre-pensionamento, quindi, come ammortizzatore sociale. Il ministro lo teorizza senza pudore: «Quella discutibile modalità di proteggere i disoccupati con la pensione può, in questo caso, essere oggettivamente utile». Ma in questo modo ammette implicitamente proprio l'urgenza di una riforma del welfare nel senso di ammortizzatori sociali universali, che si potrebbero finanziare alzando l'età pensionabile.

Quando ci saranno le condizioni per alzare l'età pensionabile non è dato sapere, ma il ministro avverte che in ogni caso l'obiettivo del governo sarebbe quello di mandare «in pensione più tardi ma con pensioni più consistenti». Dunque, per Sacconi, i risparmi derivanti da un eventuale innalzamento dell'età pensionabile dovrebbero rimanere nella previdenza. Pazienza se il nostro sistema sociale è terribilmente squilibrato sulla spesa previdenziale mentre le altre voci di un welfare moderno soffrono.

Dai dati Eurostat relativi al 2005 sulla composizione della spesa sociale nei 27 Paesi membri dell'Unione europea risulta che mentre gli altri paesi spendono in pensioni mediamente il 45,9% del loro budget sociale (il 12% del PIL), in Italia le pensioni assorbono ben il 60,7% dell'intera spesa sociale (e il 15,5% del PIL). Squilibrio che emerge negli stessi termini anche dal confronto con le nazioni paragonabili all'Italia per dimensioni e strutture economico-sociali e demografiche (Francia, Germania, Gran Bretagna). Ciò permette a queste nazioni di dedicare più risorse dell'Italia ad altre voci di spesa sociale: l'assistenza sanitaria; i servizi sociali alla famiglia e ai bambini, come gli asili nido (che incentivano il lavoro femminile e aiutano le donne a conciliare carriera e famiglia, con effetti positivi anche sui redditi e sul PIL); gli ammortizzatori sociali.

Questo governo ha messo su «una rete di protezione del reddito senza limiti di tempo né di tipologie, che potenzialmente può raggiungere tutto il lavoro subordinato», rivendica Sacconi. Ma allora perché - viene da chiedersi - questa paura di dover mandare in pensione i cinquantenni per proteggerli dalla disoccupazione, se esiste già una rete di sicurezza così ampia?

Solo un ministro nell'attuale governo mantiene un approccio se non liberista, almeno riformista, liberale, blariano: è Brunetta, che in un'intervista al settimanale Oggi in edicola mercoledì assicura: «Cambieremo questo Welfare scassato, che costa tanto e protegge solo i pensionati, poco i giovani e pochissimo le famiglie». Peccato che appaia in totale solitudine nella compagine governativa. Eppure, se si facesse un referendum domani tra gli elettori di centrodestra, a grande maggioranza vincerebbero l'innalzamento dell'età pensionabile e il taglio delle tasse subito.

Tuesday, May 26, 2009

Birmania, le sanzioni Ue non funzionano

Anche su Il Foglio.it

L'Italia è stata «favorevole» a «confermare le sanzioni» dell'Ue contro il regime birmano, le quali «potranno essere incrementate o ridotte a seconda del comportamento della giunta militare». Parole pronunciate del ministro degli Esteri Frattini, in una conferenza stampa tenuta questo pomeriggio insieme al segretario della Cisl Bonanni. Peccato, però, che l'Europa abbia deciso di non allargare le proprie sanzioni al settore energetico e che le sanzioni in vigore non stiano funzionando, come ha riferito oggi al nostro Parlamento un rappresentante dei dissidenti birmani in esilio. Sarebbe comunque «un segnale positivo», ha aggiunto Frattini, se «alcune compagnie, incluse quelle petrolifere», si ritirassero volontariamente. «Le imprese italiane, ma anche quelle degli altri paesi europei, dalla Francia alla Gran Bretagna», devono capire che «ci sono dei limiti alla moralità del profitto. Quando una presenza imprenditoriale importante dà alla giunta uno strumento in più per sopravvivere, è chiaro che questo limite viene superato», ha spiegato il ministro.

La Cisl, ha dichiarato il segretario generale Bonanni, chiede all'Unione europea di impedire la concessione di polizze assicurative sui progetti del governo birmano e di «congelare» gli asset dei dirigenti birmani all'estero, come hanno fatto gli Stati Uniti. Il sindacato chiede inoltre che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu deferisca la giunta militare birmana davanti alla Corte penale internazionale per crimini contro l'umanità, perché fa ricorso, come accertato dall'Organizzazione internazionale del lavoro, alla manodopera forzata.

Oggi è intervenuto anche Piero Fassino, inviato speciale dell'Ue per il Myanmar, per chiarire che le sanzioni sono «uno degli strumenti, ma non possono essere lo strumento unico e decisivo». «Le sanzioni – ha avvertito – hanno un valore politico e morale, sono uno strumento di pressione», ma bisogna sapere che «naturalmente, essendo state adottate soltanto dall'Europa e dagli Stati Uniti, e non dai paesi asiatici, hanno un'efficacia limitata».

E' di diverso avviso Maung Maung, segretario generale del sindacato birmano (FTUB) in esilio, ascoltato oggi alla Commissione Affari esteri della Camera. Il signor Maung spiega in altro modo «l'efficacia limitata» delle sanzioni contro il regime birmano. Sono le sanzioni adottate dall'Unione europea che non stanno funzionando. Al contrario delle sanzioni americane, ha spiegato ai commissari, quelle europee non funzionano perché «mancano forme di monitoraggio e di controllo» del loro rispetto. Di fatto sono sanzioni «approvate ma non applicate» alla dogana. Il rappresentante dei lavoratori birmani ha inoltre invitato l'Ue a includere nelle sanzioni i settori del gas, del petrolio e dei servizi finanziari. Ha fatto presente infatti che le sanzioni imposte dagli Stati Uniti sui servizi finanziari stanno effettivamente creando qualche difficoltà al regime.

Maung ha inoltre denunciato le continue violazioni dei diritti dei lavoratori da parte del regime, citando in particolare il ricorso alla manodopera forzata e le restrizioni alla libertà di associazione. Si è detto convinto che il regime non permetterà che le elezioni previste per il 2010 siano libere e multipartitiche e che anzi sta cercando in tutti i modi di tenere la principale leader dell'opposizione democratica, la signora Aung San Suu Kyi, fuori dalla politica. Maung ha quindi chiesto ai paesi occidentali di esercitare pressioni, tramite l'Onu, per una revisione del processo elettorale e per una riforma della stessa Costituzione birmana. Ha poi spiegato che Russia e Cina «bloccano» il Consiglio di Sicurezza dell'Onu e che il sindacato in esilio che rappresenta chiede che la giunta militare non sia più ammessa a sedere nell'Assemblea generale delle Nazioni Unite a causa delle violazioni dei diritti umani fondamentali.

Riguardo alle dinamiche interne alla giunta militare, al potere in Birmania dal 1962, il signor Maung ha spiegato che «alcuni generali, a livello di comandanti di divisione, stanno cercando un contatto e un'apertura» con la società civile e i movimenti democratici, ma che «si dovrebbe mostrare ai militari che la comunità internazionale può avere un impatto» reale sul regime.

Giornata in breve/1

1) Continuo a notare che per alcune forze politiche e per alcuni giornali l'ingerenza della Chiesa preoccupa a intermittenza, a seconda del merito delle posizioni che esprime. E, soprattutto, a seconda che possano o meno essere interpretate come critiche all'operato del governo Berlusconi. Se la Chiesa si esprime per un'accoglienza indiscriminata degli immigrati clandestini, allora va bene; se è accanto ai lavoratori e ai disoccupati, esprimendosi in modi tali da far sembrare che il governo non stia facendo nulla per loro, va benissimo. Nessuna ingerenza, anzi, si dà ampia risonanza ai moniti dei vescovi. Addirittura, oggi l'Unità pare delusa dal presidente della Cei Bagnasco, reo di essere stato «Tiepido sulla morale» parlando ai suoi vescovi. L'Unità avrebbe desiderato una tirata moralista contro quelle presunte "libertà sessuali" che ogni tanto mettono nei guai il premier. Si vuole che la Chiesa usi la sua autorità morale e religiosa per attaccare l'avversario politico. Poi, però, si pretende che taccia sull'embrione.

2) Sempre più socialdemocratico Tremonti. Oggi ha dichiarato che «il sistema delle pensioni italiano è ottimo e sta in piedi bene». Come dire che le tasse sono «bellissime». «Eventuali modifiche - ha aggiunto - vanno fatte non per fare soldi ma in una logica di pensioni su pensioni, di generazioni padri-figli» (!?). Un discorso da fare, eventualmente, con i sindacati. Un modo per dire "a babbo morto". «Le pensioni non sono come l'Rc auto, sono una cosa seria, non si fanno le finanziarie sulle pensioni, vale a dire sulla pelle della gente». Applausi scroscianti dalla Cgil. Tremonti «conferma quello che il sindacato ha sempre detto e che i Soloni continuano a contestare», ha esultato Epifani. Qualche sirena dovrebbe cominciare a suonare nel PdL. O no?

3) Vittorio Feltri non ha resistito a mettere nero su bianco quello che a molti di noi è passato nella mente negli ultimi giorni e oggi ha dedicato un editoriale al presunto bigottismo di Emma Bonino sul "caso Noemi". Il direttore si è confermato comunque un gentiluomo, non attaccando sul personale l'ex commissaria europea. Va precisato però che la Bonino non ha mai proposto una commissione d'inchiesta. Alla trasmissione In Mezz'ora, a precisa domanda di Lucia Annunziata - «Lei proporrebbe, oggi, una Commissione d'inchiesta?» - la Bonino risponde: «No». Vero è che poco prima, la stessa Bonino, aveva ricordato che negli Stati Uniti una commissione aveva indagato sulle menzogne di Bill Clinton. La commissione era quella per l'impeachment e l'oggetto dell'indagine era un presunto abuso di potere del presidente per aver tentato di ostacolare un'inchiesta federale. Non proprio la stessa cosa. Già domenica pomeriggio le agenzie di stampa titolavano: "Noemi: Bonino, Berlusconi in Parlamento o commissione d'indagine". Ma la Bonino ha smentito solo oggi, dopo aver letto l'editoriale di Feltri. Incontestabile, comunque, dalle sue ultime dichiarazioni e partecipazioni televisive (su tutte, quella ad Annozero di qualche puntata fa), la deriva bigotta, moralista e snob della Bonino su veline e "caso Noemi".

4) Profetico davvero John Bolton, che pochi giorni fa aveva messo in guardia dall'imminente secondo test nucleare nordcoreano.

Monday, May 25, 2009

L'antiterrorismo di Obama/3 Le politiche di Bush ma infiocchettate meglio

Secondo David Brooks, del New York Times, Obama e Cheney sono stati «complici nell'alimentare un mito». E' solo un «mito», infatti, «che abbiamo vissuto un periodo di otto anni delle politiche anti-terrorismo Bush-Cheney e che ora siamo entrati nel periodo totalmente diverso della politica anti-terrorismo Obama-Biden». Si tratta di «una completa distorsione della realtà». La realtà è che dopo l'11 settembre «siamo entrati in un periodo di due o tre anni che si può chiamare Bush-Cheney». Il paese è stato «colto alle spalle». L'intelligence «non sapeva quasi nulla delle minacce rivolte contro di noi». L'amministrazione Bush «ha tentato di tutto per scoprire e prevenire le minacce». I funzionari «credevano di operare nella legalità, ma hanno fatto cose che ora molti di noi trovano moralmente inaccettabili e controproducenti».

Se tutto questo è vero, tuttavia il periodo Bush-Cheney «durò forse tre anni». Dal 2005 circa è cominciato il «periodo Bush-Rice-Hadley. Gradualmente, alcuni funzionari dell'amministrazione tentarono di fermare gli eccessi del periodo Bush-Cheney. Non l'hanno sempre spuntata, sono stati spronati dalle decisioni dei tribunali e dalla pubblica indignazione, ma la graduale evoluzione della politica è stata evidente», sottolinea Brooks.
«Durante il secondo mandato di Bush, i funzionari stavano cercando di chiudere Guantanamo, implorando i governi stranieri di prendersi alcuni prigionieri, supplicando i senatori di permettere il trasferimento di alcuni su territorio americano. Ma non potevano annunciare la chiusura di Guantanamo prima di capire cosa fare con i prigionieri».
Cheney e Obama «possono far finta del contrario, ma non è stata la presidenza Obama a fermare il waterboarding». Sono stati i direttori della CIA che si sono succeduti dal marzo 2003, persino prima di un «devastante» rapporto dell'ispettorato generale nel 2004.
«Quando Cheney denuncia il cambiamento nella politica di sicurezza, in realtà non sta attaccando Obama, ma la seconda amministrazione Bush. Nel suo discorso pubblico all'AEI ha ripetuto molti degli argomenti usati alla Casa Bianca mentre le politiche dell'amministrazione stavano prendendo un'altra piega. L'insediamento di Obama non ha segnato uno spostamento nella sostanza della politica anti-terrorismo, ma un cambiamento nella credibilità pubblica di quella politica».
Una conferma di questa lettura viene da Jack Goldsmith, ex consulente legale dell'amministrazione Bush, nell'articolo su The New Republic intitolato "The Cheney Fallacy". Goldsmith elenca una serie di politiche - Guantanamo, la sospensione dell'habeas corpus, le commissioni militari, le cosiddette rendition, gli interrogatori e così via - mostrando come nella maggior parte dei casi, la politica di Obama sia in continuità o rappresenti una graduale evoluzione rispetto alla politica dell'ultimo Bush.
«La differenza fondamentale tra le amministrazioni Obama e Bush riguarda non la sostanza della politica anti-terrorismo, quanto piuttosto la sua presentazione. L'amministrazione Bush si è data a lungo la zappa sui piedi, a detrimento della legittimazione e dell'efficacia delle sue politiche, disinteressandosi delle procedure e della presentazione. L'amministrazione Obama, al contrario, è seriamente concentrata su di esse».
Obama, conclude quindi David Brooks, «ha ripreso molto delle politiche che lo stesso Bush aveva abbandonato, le ha rese credibili agli occhi del paese e del mondo. Le ha mantenute e riformate in modo intelligente. Le ha inserite in un contesto più convincente. Facendo ciò non ci ha resi meno sicuri, ma più sicuri. Nel suo discorso Obama ha spiegato le sue decisioni in modo dettagliato e coerente. Ha ammesso che alcuni problemi sono difficili e non sono di facile soluzione. Ha trattato gli americani da adulti, e ha avuto il loro rispetto». Certo, ammette Brooks, magari sarebbe potuto essere più riconoscente e onesto con i funzionari dell'amministrazione Bush delle cui politiche si sta ancora avvalendo.

Anche secondo Charles Krauthammer nella sostanza Obama sta adottando le tanto vituperate politiche di Bush, ma a differenza di Brooks e di Goldsmith, per Krauthammer ciò ha a che fare con l'ipocrisia di Obama mentre i meriti sono di Bush.
«Se l'ipocrisia è il tributo che il vizio paga alla virtù, allora le inversioni di rotta su misure anti-terrorismo in passato denunciate sono il tributo che Obama paga a George W. Bush. In 125 giorni Obama ha adottato con modifiche solo marginali un'ampia parte dell'intero programma di Bush accusato di essere illegale».
L'ultima "inversione di rotta" è la riesumazione delle commissioni militari. Obama le aveva sospese dopo il suo giuramento, ma ora sono tornate. Naturalmente, non ammetterà mai a parole ciò che ha fatto nella realtà. Lo schema è quello solito, in tre mosse:
«(a) condannare la politica di Bush, (b) annunciare ostentatamente cambiamenti solo cosmetici, (c) infine, adottare la politica di Bush».
Su Guantanamo, sono i «compagni democratici di Obama che hanno ben presto scoperto la sensatezza della scelta di Bush». I senatori democratici non sono in linea di principio contrari, ma si oppongono alla chiusura «finché il presidente non chiarisce dove intende mettere i detenuti». Secondo alcuni, in ogni caso non sul suolo americano. E ciò non lascia aperte molte altre possibilità.
«I paesi di origine non li vogliono. Gli europei sono recalcitranti. L'isola di Sant'Elena dovrebbe essere rimessa a posto. L'Elba non ha funzionato molto bene la prima volta. E "l'isola del diavolo" ora è una meta turistica. Guantanamo sta ricominciando a sembrare una buona scelta».
«Osservatori di tutte le parti politiche sono sbalorditi da quanta parte della politica di sicurezza nazionale di Bush sta per essere adottata da questo nuovo governo democratico». Victor Davis Hanson (su National Review) fa un elenco parziale: il Patriot Act, le intercettazioni telefoniche e di e-mail, le commissioni militari, gli attacchi dei droni, Iraq e Afghanistan, e ora Guantanamo. Jack Goldsmith (su The New Republic) aggiunge: le cosiddette rendition; il segreto di stato; la sospensione dell'habeas corpus - e la prigione di Bagram, in Afghanistan, «non è diversa dal punto di vista concettuale e morale da Guantanamo».

«Cosa dimostra tutto ciò?», si chiede Krauthammer.
«La demagogia e l'ipocrisia dei democratici? Certo, ma a Washington, l'opportunismo e il cinismo non fanno notizia. C'è qualcosa di più grande in gioco - un innegabile, irresistibile, interesse nazionale che, alla fine, al di là della cattiva politica, si afferma da sé. La genialità della democrazia è che l'alternanza al potere obbliga l'opposizione a diventare responsabile quando va al governo. Quando i "nuovi ragazzi", portati al potere dalla volontà popolare, adottano le politiche dei "vecchi ragazzi", si creano un nuovo consenso nazionale e una nuova legittimazione. E' ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi. Le politiche di Bush nella guerra al terrore non dovranno aspettare gli storici per ottenere giustizia. Obama la sta già facendo giorno dopo giorno».
Le sue smentite «non significano nulla». Contano i fatti.

Obama sta «correggendo qui e là le politiche dell'amministrazione Bush e sta cercando di fornire ad esse un più solido fondamento legale», osserva anche Clive Crook, oggi sul Financial Times. «Questa ricalibratura è significativa e saggia, ma in nessun modo si tratta dell'approccio interamente nuovo» che tutti si aspettavano. Secondo Crook, Obama «è nel giusto, ma deve ai suoi sostenitori delle scuse per averli fuorviati. E deve delle scuse anche a George W. Bush per aver detto che l'approccio della precedente amministrazione era un'offesa ai valori americani, mentre le sue politiche sarebbero state del tutto consonanti con essi». Una volta entrato in carica, Obama «ha scoperto che il problema è molto più complicato». Che il terrorismo «non è un'ordinaria impresa criminale» e sconfiggerlo richiede «misure straordinarie». «Di fatto - conclude Crook - Obama ha ammesso che su questo l'amministrazione Bush aveva ragione».

Probabilmente tra un anno il presidente Obama riuscirà a mantenere la promessa di chiudere Guantanamo, ma il fatto che per i 241 terroristi ancora detenuti abbia annunciato le stesse soluzioni giuridiche già individuate e tutte praticate dall'amministrazione Bush è la dimostrazione che comunque la si pensi non ci sono i "torturatori" da una parte e i "buoni" dall'altra; e che lo status e la detenzione dei terroristi è un problema di natura squisitamente giuridica di grande complessità, che andrebbe affrontato senza demagogie e strumentalizzazioni, in modo bipartisan, e magari trovando una soluzione il più possibile uniforme tra le democrazie.

L'antiterrorismo di Obama/2 Mezze misure, mezza sicurezza

La Brookings Institution cerca di spiegare in cosa si differenzia l'approccio di Obama sia da quello dell'amministrazione precedente che dalle richieste più radicali della sinistra e delle organizzazioni per i diritti umani:
«L'amministrazione precedente ha deciso che poteva scrivere le regole per la detenzione preventiva da sola, evitando il coinvolgimento del Congresso e cercando di marginalizzare i tribunali. La sinistra e la comunità dei diritti umani, al contrario, pretendono che la detenzione preventiva sia illegittima e che il governo non dovrebbe in alcun caso detenere qualcuno che non possa essere processato».
Quella intrapresa da Obama sarebbe quindi una saggia via di mezzo. Ma una via di mezzo sulla sicurezza, secondo l'ex vicepresidente Cheney, non sarebbe possibile. Cheney nel suo discorso all'AEI ha innanzitutto difeso i metodi di interrogatorio autorizzati sotto Bush: erano «giusti, legittimi ed efficaci»; usati solo in casi estremi, su pochi terroristi, hanno sventato una serie di attacchi. Ha tenuto a distinguere tra i metodi di interrogatorio della CIA e ciò che è accaduto ad Abu Ghraib, dove «un pugno di carcerieri sadici ha abusato dei detenuti in volazione della legge americana, delle regole militari e del semplice senso della decenza».

Ma è «intellettualmente disonesto equiparare la vergogna di Abu Ghraib al lavoro legale, professionale, e del tutto onorevole, del personale della CIA addestrato a trattare con pochi uomini malvagi». Tra l'altro, «in numerose occasioni, autorevoli membri del Congresso, compresa l'attuale speaker della Camera, sono stati informati del programma e dei metodi». Alcuni «li hanno sostenuti in privato, ma si sono dileguati al primo segnale di controversia».

Cheney inoltre ha criticato Obama per aver rivelato come venivano condotti gli interrogatori ai terroristi. Ora però, gli chiede, «usi il suo potere di desecretazione in modo che il popolo americano possa rendersi conto delle informazioni di intelligence che abbiamo ottenuto, delle cose che abbiamo imparato, e delle conseguenze per la sicurezza nazionale». «Nella mia lunga esperienza a Washington - si sfoga Cheney - poche questioni hanno sollevato un'indignazione e un moraleggiare così ipocrita come i metodi di interrogatorio praticati su pochi terroristi. Chi ha costantemente distorto la verità in questo modo - ha concluso Cheney - non è nella posizione di impartire lezioni sui valori».

Per Gerald Seib, Obama e Cheney hanno pronunciato in realtà quattro discorsi diversi. Uno l'ha pronunciato Cheney, «un feroce attacco a coloro che hanno criticato i metodi di interrogatorio e di detenzione dei terroristi autorizzati dall'amministrazione Bush. Ha messo in dubbio la loro integrità e la loro saggezza, incluso l'attuale presidente, che avrebbe revocato le politiche che hanno mantenuto al sicuro l'America per oltre sette anni dall'11 settembre». Obama ha pronunciato «tre discorsi intrecciati in uno». Il primo, per rispondere alle critiche da destra, secondo cui è diventato «morbido» nei confronti del terrorismo e la chiusura di Guantanamo porterà pericolosi estremisti sul suolo americano. Il secondo, per rispondere alle critiche da sinistra, secondo cui è rimasto troppo vicino alle politiche di Bush, come dimostrano la decisione di mantenere i tribunali militari per alcuni sospetti, il rifiuto a pubblicare le immagini sul trattamento dei detenuti, e il suo annuncio di voler continuare a detenere a tempo indefinito alcuni sospetti senza processarli.

Il terzo discorso era rivolto «agli americani nel mezzo», ai quali Obama ha assicurato che «sta cercando un sensato punto d'equilibrio che tenga fuori gioco i sospetti terroristi pur continuando ad onorare i valori americani». La «fondamentale differenza» tra i discorsi di Obama e Cheney, osserva Seib, riguarda «la possibilità stessa che esista una via di mezzo nella lotta contro gli islamisti radicali». Obama «ha descritto la ricerca di una strategia appropriata come un dibattito tra chi a sinistra non fa sconti riguardo le sfide uniche poste dal terrorismo e chi a destra sostiene che qualsiasi cosa va fatta per combatterlo». E secondo Obama «entrambe le parti sono in buona fede dal loro punto di vista, ma nessuna delle due ha ragione».

Per Cheney, Obama e i democratici «possono essere confortati dalle critiche che provengono da entrambe le estremità dello spettro politico. Se a sinistra sono scontenti di alcune decisioni, e i conservatori di altre, può sembrar loro di essere sulla via di un compromesso appropriato. Ma nella lotta contro il terrorismo, non c'è via di mezzo, e le mezze misure equivalgono a una mezza sicurezza. La triangolazione è una strategia politica, non una strategia di sicurezza nazionale».

L'antiterrorismo di Obama/1 La riabilitazione dei sette anni di Bush

In America si è riacceso il dibattito su Guantanamo, sulla detenzione dei terroristi e sui metodi di interrogatorio della Cia, e in generale sulle politiche anti-terrorismo e la sicurezza nazionale. La settimana scorsa il Senato Usa ha negato a Obama i fondi richiesti per chiudere Guantanamo e trasferire alcuni dei più pericolosi detenuti in prigioni americane. In un discorso pronunciato giovedì scorso il presidente ha cercato di spiegare cosa intende fare. Dopo pochi minuti, intervenendo a un incontro promosso dal think tank neoconservatore American Enterprise Institute, l'ex vicepresidente Dick Cheney ha replicato, difendendo l'operato dell'amministrazione Bush e attaccando le scelte di Obama sulla sicurezza nazionale. Praticamente i due si sono confrontati in diretta tv, sia pure indirettamente, uno dietro l'altro.

Obama ha spiegato di voler mantenere la sua promessa di chiudere Guantanamo, anche se rimane aperto il problema di dove trasferire i 241 terroristi ancora detenuti. Quelli che hanno organizzato o partecipato ad attentati, saranno giudicati da tribunali federali e detenuti in penitenziari di massima sicurezza. Gli altri saranno divisi in diverse categorie: alcuni verranno processati da tribunali militari «perché hanno violato le leggi di guerra»; alcuni saranno rilasciati; e una cinquantina «saranno consegnati ad altri paesi».

Ci sono poi i casi più difficili da risolvere, come ha ammesso Obama, di coloro che non possono essere perseguiti ma pongono una «chiara minaccia alla nazione». Il presidente ha assicurato che non verranno rilasciati, aggiungendo solo che l'amministrazione lavorerà con il Congresso per elaborare un appropriato regime legale. Nei confronti di essi si prospetta comunque una detenzione a tempo indeterminato senza processo, cioè uno status per lo meno molto simile a quello vigente a Guantanamo.

Ma tutti questi diversi sbocchi giuridici per le varie tipologie di detenuti sono gli stessi già individuati e praticati dall'amministrazione Bush. E' la dimostrazione che comunque la si pensi non ci sono i "torturatori" da una parte e i "buoni" dall'altra, che lo status e la detenzione dei terroristi è un problema di natura squisitamente giuridica di grande complessità, che andrebbe affrontato senza demagogie e strumentalizzazioni, in modo bipartisan e trovando una soluzione il più possibile uniforme tra le democrazie.

Se Obama ha rivendicato una «nuova direzione rispetto agli otto anni precedenti», e se c'è chi lo accusa, come Cheney, di mettere in pericolo la nazione, c'è anche chi, invece, dice che nella sostanza le sue politiche non sono molto diverse da quelle di Bush.

Così la pensa, per esempio, il Wall Street Journal:
«Nella retorica, il suo discorso si sforzava di dichiarare una direzione morale nettamente nuova. Nella sostanza, tuttavia, insieme agli altri eventi della settimana, è sembrato più una riabilitazione dei sette anni trascorsi».
Riguardo i detenuti che dovrebbero essere trasferiti negli Usa, il WSJ ricorda che lo stesso direttore dell'FBI, Mueller, ha riferito al Congresso che trasferire dei detenuti in prigioni americane «solleva serie preoccupazioni», di natura finanziaria ma anche legate all'eventualità di potenziali attacchi di singoli individui negli Stati Uniti. Per altri detenuti, osserva il WSJ, il presidente «rimane fermo alle commissioni militari del suo predecessore, sia pure aggiungendo alcuni abbellimenti procedurali come copertura politica per giustificare la sua opposizione in passato». Ma in pratica, riconoscendo che è «difficile processarli davanti a tribunali civili, perché molte delle prove contro di loro o sono segretate per motivi di sicurezza nazionale o non sono state prese all'epoca sui campi di battaglia».

Riguardo i 50 da trasferire in altri paesi (un decimo di quanti ne trasferì Bush), «gli europei che hanno contrastato così veementemente Guantanamo negli anni di Bush si sono improvvisamente accorti che questi detenuti sono pericolosi. Altri paesi non sono in grado di impedire ai terroristi di tornare sui campi di battaglia». Rimangono coloro che non possono essere perseguiti ma pongono una «chiara minaccia alla nazione». Sono i casi «più difficili che abbiamo di fronte», ha ammesso Obama, non dicendo però come intende risolverli. Ha assicurato solo che non verranno rilasciati e che sarà studiata una soluzione legale.

«Il che - conclude il WSJ - ci riporta a Guantanamo. E' un fatto - sottolinea il quotidiano - che negli oltre sette anni in cui è stata operativa, il territorio americano non è stato attaccato». E secondo un rapporto del Pentagono, citato dal New York Times, «non meno di un settimo dei detenuti rilasciati da Guantanamo sono tornati alla jihad». Il «vero caos» non è quello che Obama dice di aver ereditato, ma quello creato da lui, annunciando la chiusura di Guantanamo «senza avere un piano su cosa fare dei detenuti più pericolosi, e dove metterli».
«Ora ha scoperto che i suoi alleati della prima ora al Congresso e gli europei non vogliono avere nulla a che fare con essi. Ci spieghi ancora perché Guantanamo dovrebbe essere chiusa?»

Friday, May 22, 2009

Ue-Russia, ancora diffidenza

Come molti avevano previsto, il vertice Ue-Russia di Khabarovsk si è chiuso con un nulla di fatto. Tra Europa e Russia corre ancora troppa diffidenza e l'impressione è che non si diraderà molto presto. A dispetto delle buone intenzioni e della retorica del "partenariato", ancora non è chiaro se l'Ue possa considerare la Russia un futuro partner strategico, o piuttosto una potenza con la quale sì cooperare, ma pur sempre rivale. D'altra parte, anche in Russia il dibattito è aperto tra chi pensa che il paese possa ancora recitare un ruolo da potenza indipendente sullo scenario globale e quanti invece ritengono che dovrebbe andare verso la piena integrazione e interdipendenza nella comunità internazionale e verso una vera partnership con l'Ue. Le complicate relazioni con l'Europa riflettono il dibattito tra queste diverse visioni.

Le aree in cui le divergenze sono più accentuate vanno dalla sicurezza energetica alla politica commerciale, fino alla partnership orientale dell'Ue con sei ex Repubbliche sovietiche (Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Azerbaigian, Armenia e Georgia). Una politica volta ad accelerare le riforme democratiche ed economiche in quei paesi, ma che Mosca vede come un'ingerenza nella sua sfera di influenza: «Non si trasformi in un'alleanza anti-russa», ha avvertito il presidente Medvedev.

Sul fronte della sicurezza energetica, dopo la crisi del gas del gennaio scorso l'Ue si aspettava rassicurazioni circa il non ripetersi di interruzioni nelle forniture attraverso l'Ucraina. Ma la Russia «non ha dato e non darà garanzie», ha avvertito Medvedev. Secondo Mosca, infatti, è Kiev che non ha i soldi per pagare le forniture e lo stoccaggio di 19,5 miliardi di metri cubi, che costano più di 4 miliardi di dollari. «Se l'Ucraina ha i soldi, bene; ma abbiamo dei dubbi». Medvedev si è detto però disposto ad aiutare l'Ucraina con un prestito: «Siamo pronti a dare una mano. I partner aiutano i partner», ma non si deve muovere solo la Russia. Anche l'Ue («quei paesi interessati a forniture affidabili e alla cooperazione energetica») deve prendere «su di sè parte del lavoro».

Posizioni inconciliabili anche sulla Carta europea dell'energia, un trattato sottoscritto nel 1991 da 51 stati (i paesi dell'allora Comunità europea, i paesi dell'Europa orientale e dell'ex Unione sovietica) per la cooperazione economica ed energetica. L'Ue non vuole «rinunciare» alla Carta, ma la Russia non ha alcuna intenzione di ratificarla e propone un trattato sostitutivo. A tutto questo si aggiunga che Mosca non ha ancora rispettato tutti gli obblighi del cessate-il-fuoco in Georgia. Non solo non ha ritirato le truppe portandole ai livelli pre-bellici, ma ha inviato altre guardie di frontiera in Ossezia del Sud e Abkhazia, oltre ad aver siglato con le due province indipendentiste accordi di difesa militare. La recente polemica tra Russia e Nato sulle esercitazioni in Georgia e le espulsioni di alcuni diplomatici russi da Bruxelles, e dei paesi Nato da Mosca, non hanno certo aiutato.

L'Ue dovrebbe essere consapevole di avere molti strumenti di pressione nei confronti del Cremlino. Innanzitutto, conta 500 milioni di cittadini, rispetto ai 140 milioni della Russia. E' molto più ricca e rappresenta uno dei più grandi e attraenti mercati al mondo. Il 70% dei proventi di Gazprom vengono dalle forniture energetiche all'Europa e i paesi Ue acquistano quasi il 60% di tutto l'export russo. L'economia russa, inoltre, è gravemente provata dalla crisi economica: recessione, inflazione elevata, disoccupazione crescente (10,2%) e uscita di capitali (-30% rispetto al 2008).

Thursday, May 21, 2009

Tutti d'accordo ma non si muove una foglia

Faranno più notizia le accuse ai magistrati, meritatissime, visto che il caso Mills è l'ultimo e solo il più ridicolo dei processi politici contro Berlusconi (l'origine dei 600 mila dollari è stata da tempo accertata dal fisco britannico, come ricostruito tempo fa da Filippo Facci), e il vero o presunto attacco al Parlamento (anche se non si può negare che sia nelle dimensioni che nel suo funzionamento il nostro Parlamento sia «pletorico e dannoso»). Tra l'altro, non si capisce perché, pur essendo quasi unanimemente condivisa la necessità di ridurre il numero di parlamentari e rivedere il bicameralismo perfetto, quando lo dice Berlusconi non va più bene.

A Berlusconi si dovrebbe invece far notare che da Confindustria oggi è giunto un appello forte a fare prima possibile le riforme di cui l'Italia ha bisogno; e che ha una solida maggioranza in Parlamento - per quanto sia lento e «pletorico» - per farle.

«Presidente, il consenso che lei ha saputo conquistarsi è un patrimonio politico straordinario. Lo metta a frutto. Usi quel patrimonio per le riforme che sono necessarie. Lo faccia ora. Perché questa è l'ora di fare le riforme». Un appello condivisibilissimo quello della Marcegaglia, perché le riforme si fanno ad inizio legislatura, soprattutto se si gode di un ampio consenso. «Sono d'accordo su tutto quello che ha detto Emma - ha esordito Berlusconi intervenendo dopo di lei - Tutto l'intervento, perché fa una fotografia precisa della crisi e delle cose che dovremmo fare, tutte cose che vogliamo fare». Epperò, finora poco si è mosso e c'è nel governo (Tremonti e Sacconi su tutti) chi ripete che durante la crisi non bisogna toccare nulla, sennò alla gente viene l'ansia.

Ma anche altre parti della relazione della Marcegaglia sono condivisibili, come il passaggio in cui ha avvertito che «lo Stato dovrà poi rientrare nei suoi confini, lasciando all'impresa e al mercato il compito di guidare l'investimento, l'innovazione, la creazione di ricchezza. Sarebbe un tragico errore pensare che la crisi apra una nuova epoca, nella quale sia la politica, per riaffermare la propria supremazia, ad indicare le priorità nell'allocazione delle risorse, a condurre lo sviluppo, a scegliere le nuove tecnologie e i vincitori della competizione... Non devono vincere le forze che tendono sempre a statalizzare l'economia, il pendolo tra stato e mercato deve tornare a oscillare verso il mercato».

UPDATE: La risposta alla Marcegaglia arriva da Tremonti: c'è da aspettare... fa capire il ministro rivolgendosi alla Cisl:
«C'è un tempo per gestire la crisi e c’è un tempo per fare le riforme. La gestione della crisi è una cosa, gestire le riforme è una cosa in più. Siamo convinti che si devono fare, ma è una cosa dura e complessa, devi fare un patto tra generazioni, devi dire ai giovani a che età vai in pensione. Le riforme le faremo nel tempo giusto e nel modo giusto, ma soprattutto con le persone giuste, noi le faremo e le faremo con voi [la Cisl]».
Rispondiamo con le parole della Marcegaglia, sempre dal suo discorso di oggi:
«Senza le riforme, al passo corto che l'economia italiana ha mostrato negli ultimi dieci anni, il ritorno sui livelli produttivi pre-crisi non avverrebbe prima del 2013. Un arco di tempo troppo lungo per non avere conseguenze negative sulla vita dei lavoratori e delle imprese e sulla stessa coesione sociale».

Aung San Suu Kyi, verdetto già scritto

Ieri qualcuno ci era caduto, qualche agenzia di stampa e qualche sito avevano abboccato all'ennesima bugia della giunta militare birmana, annunciando l'apertura al pubblico del processo ad Aung San Suu Kyi. Ovviamente tutto è rientrato stamattina, quando è apparso evidente che né i giornalisti né i diplomatici avrebbero avuto accesso all'aula.

Ieri, per circa tre quarti d'ora, dieci giornalisti e trenta diplomatici sono stati ammessi a seguire il procedimento. Ma solo a tre diplomatici - gli ambasciatori della Russia (in quanto paese presidente di turno del Consiglio di Sicurezza dell'Onu), della Thailandia (in quanto presidente di turno dell'Asean) e di Singapore - è stato permesso di scambiare qualche parola con la leader dell'opposizione democratica birmana, che stando a quanto trapelato da questi brevi colloqui avrebbe rilanciato l'appello alla «riconciliazione nazionale».

«Potrebbero esserci molte opportunità di riconciliazione nazionale se tutte le parti lo volessero», sarebbero state le parole di Suu Kyi, secondo un comunicato diffuso dal Ministero degli Esteri di Singapore, il cui ambasciatore è stato ammesso ai colloqui. Il problema, come sempre, è capire se i militari al potere sono disponibili. E per ora la risposta è chiara: no. Per l'ambasciatore britannico Mark Canning, infatti, il verdetto di colpevolezza è già scritto. Suu Kyi rischia una condanna a 5 anni, ma anche solo un anno sarebbe sufficiente per toglierla di mezzo dalle elezioni-farsa previste per il 2010.

Il Premio Nobel per la pace, ha raccontato l'ambasciatore britannico a The Irrawaddy, «considerato quello che ha passato, sembrava in un ragionevole stato d'animo e di salute. Era calma, dritta, vigile e dignitosa, e stava chiaramente guidando il suo team legale. Era interessante vedere gli ufficiali della sicurezza guardarla come si guarda qualcuno ancora considerato una figura chiave».

Il breve accesso all'aula dove si svolge il processo, sia pure positivo, «non cambia il problema fondamentale, cioè l'illegalità della sua detenzione», spiega Canning. «Non avrebbe dovuto trovarsi agli arresti domiciliari», come d'altronde neanche gli altri 2 mila prigionieri politici. «Le elezioni del 2010 non avranno alcuna credibilità senza il rilascio di Aung San Suu Kyi e degli altri prigionieri politici, e senza l'inizio di un dialogo effettivo tra il governo e l'opposizione», ha concluso il diplomatico.

Su Mizzima.com è stato pubblicato un commento di Enzo Reale, che suggerisce ai rappresentanti della National League for Democracy di elaborare e diffondere una Charta '09 per la democrazia in Birmania, sull'esempio cinese di Charta '08 e ispirata alla celebre Charta '77 dei dissidenti cecoslovacchi durante il regime comunista.
A text that, instead of repeating partial demands doomed to fall on deaf ears, raised the level of challenge against the regime with a political program based on the ideals and values of classical liberalism and historical declarations of rights. An anti-totalitarian Charter 09, inspired by Eastern Europe's Velvet Revolutions or other similar experiences and, at the same time, a model reply to the farcical constitution by which the generals will pretend to legitimate their grip on power. What purpose would such a document serve? Of course it would not produce a regime change tomorrow morning, nor stimulate an answer by a government far more repressive and paranoid than the Chinese regime. But certainly it could have some important consequences from other points of view. First of all it would demonstrate that the NLD and democratic activism in Burma are able to innovate themselves despite the persecutions of the regime and produce an ideal alternative beyond the mere concept of non-violence, an ideologically obsolete platform and now more similar to resignation than civil resistance. It would also provide a reference point for the birth of a civic movement involving a growing number of people, an embryonic civil society whose absence is today one of the main obstacles towards Burma's liberation and, at the same time, the best guarantee of survival for the military caste. Finally, a Charter 09 would compel the international community to recognize the new democratic Burmese movement as a living reality, worthy of material and moral support.

Wednesday, May 20, 2009

La mossa imprudente di Frattini

Comunque la si voglia mettere, il governo italiano non ha certo fatto una bella figura. Il ministro degli Esteri Franco Frattini ha annullato all'ultimo momento la sua visita in Iran a causa della richiesta condizionante di Teheran di un incontro protocollare con il presidente Ahmadinejad in una località diversa dalla capitale, a Semnan (dove stamani è stato testato un nuovo missile a lunga gittata).

Non sappiamo se si tratti di un pretesto cercato, e trovato, da Frattini, dopo il duro editoriale del Financial Times pubblicato proprio questa mattina. Nel caso si fosse trattato invece di una pretesa dell'ultimo momento da parte iraniana, Frattini dovrebbe ringraziare Teheran per avergli evitato una figura ancora peggiore. In ogni caso, si trattava di un'iniziativa comunque imprudente, come dimostra il fatto che la visita del ministro degli Esteri avrebbe coinciso con l'annuncio del test missilistico da parte di Ahmadinejad.

Motivo della visita doveva essere il coinvolgimento dell'Iran nella stabilizzazione di Afghanistan e Pakistan. Ma come avrebbe potuto la presenza di Frattini a Teheran rimanere confinata ai problemi dell'Afghanistan e del Pakistan, e non portare con sé, sia pure solo simbolicamente, un significato di legittimazione dell'attuale presidente Ahmadinejad a meno di un mese dalle elezioni presidenziali?

«L'Italia rompe le fila nell'Ue con la visita in Iran». Questo il titolo della corrispondenza del Financial Times sulla visita che Frattini avrebbe dovuto compiere e che, secondo il giornale, ha comunque suscitato «disappunto» tra le diplomazie occidentali. Neanche Washington avrebbe dato a Roma «luce verde», sostengono le fonti citate dal FT, secondo cui «gli alleati hanno avvertito Frattini che rischia di offrire una vittoria di propaganda al presidente estremista iraniano a meno di un mese prima del voto per la sua rielezione».

L'intesa a livello europeo era di «evitare contatti ad alto livello con l'Iran». Secondo i diplomatici interpellati dal FT, inoltre, l'Italia «non ha parlato delle sue intenzioni durante la riunione ministeriale dell'Ue di ieri, che ha riguardato anche discussioni estese sull'Iran». Lo stesso Frattini avrebbe negato il viaggio dicendo al Financial Times «nulla è ancora stato deciso». Poco dopo, le agenzie annunciavano la sua partenza per Teheran. «Frattini - sottolineava il giornale stamattina - sarà il più alto esponente di un governo europeo a visitare l'Iran da quando, quattro anni fa, è stato eletto presidente Ahmadinejad».

Poi per fortuna tutto è sfumato. Le parole di un diplomatico sentito dal FT avvalorerebbero però la versione italiana sull'annullamento della visita. Frattini infatti sarebbe stato «sotto pressione» da parte iraniana perché s'incontrasse con il presidente, mentre Roma avrebbe voluto che i colloqui fossero limitati a Mottaki, l'omologo di Frattini a Teheran.

Il «proposito dichiarato» della visita, secondo il FT, era di «preparare il terreno per una conferenza regionale su Afghanistan e Pakistan che l'Italia ospiterà il 25 giugno in quanto presidente di turno del G8». Berlusconi voleva porre le basi per «offrire la sede al primo incontro tra il segretario di Stato americano Hillary Clinton e Mottaki».

Se l'Iran segue l'esempio della Corea del Nord

Più che profetico John Bolton nel suo editoriale di oggi sul Wall Street Journal. Mentre suggerisce di «tenersi pronti per un altro test nucleare nordcoreano», avvertendo che «l'Iran potrebbe presto seguire l'esempio di Pyongyang», ecco che arriva l'annuncio di Ahmadinejad: testato con successo un nuovo missile terra-terra, il Sejil-2. Con gittata 2 mila km, sarebbe in grado di raggiungere sia Israele che le basi Usa nel Golfo persico. Sembra tanto un primo segnale di chiusura all'invito al dialogo avanzato da Obama, ma potrebbe essere solo la propaganda di Ahmadinejad per farsi rieleggere.

Nell'ottobre 2006, ricorda comunque Bolton, la Corea del Nord ha conseguito «un incredibile successo diplomatico» grazie alla sua «belligeranza». Il suo primo test nucleare portò alla ripresa dei colloqui a sei, guadagnando ulteriore tempo per il suo programma nucleare. Ora Kim Jong Il si prepara a seguire lo stesso «copione». Ad aprile ha lanciato il missile Taepodong-2 e Gary Samore, funzionario del Consiglio per la sicurezza nazionale, ha recentemente confermato che un secondo test nucleare è probabilmente in programma.

Un secondo test dopo quello del 2006 avrebbe potuto causare la fine dei colloqui, ma finora dall'amministrazione Obama non è trapelata nessuna minaccia in questo senso. Anzi, nonostante le provocazioni di Pyongyang, l'inviato speciale Bosworth ha ribadito che gli Stati Uniti «sono impegnati per il dialogo» e «ovviamente interessati a tornare al tavolo del negoziato appena possibile». Precisamente ciò che la Corea del Nord vuole.

«Se il prossimo test non porrà fine ai colloqui a sei - avverte Bolton - Kim concluderà a ragione che non corre alcun pericolo non smantellando il suo programma di armamenti» e che la sua tattica funziona. Il «vero mistero - secondo Bolton - è perché le nostre amministrazioni - sia repubblicane che democratiche - non hanno ancora imparato che la loro fiducia nei colloqui a sei è mal riposta». «Svincolare» un secondo test nucleare dalla continuazione o meno dei colloqui a sei «darà semplicemente a Kim il permesso di procedere».

Dialogo senza dover sospendere i propri piani è esattamente ciò che vogliono. «L'Iran e le altre aspiranti potenze nucleari arriveranno esattamente alla stessa conclusione: i negoziati come i colloqui a sei [con la Corea del Nord] sono una farsa e riflettono il continuo crollo della risolutezza americana». L'«accondiscendenza» Usa nei confronti di un secondo test nucleare nordcoreano indurrà Teheran ad adottare la stessa strategia di successo di Pyongyang, prevede Bolton. Ma a quanto pare gli iraniani hanno imparato più in fretta e non hanno avuto bisogno di aspettare il secondo test nordcoreano. «E' arrivato il momento per l'amministrazione Obama - conclude Bolton - di porre fine al copione di Kim Jong Il. Altrimenti, meglio tenerci pronti ad un Iran nucleare».

Processo ad Aung San Suu Kyi

Per rimanere aggiornati sul processo del regime birmano ad Aung San Suu Kyi, per saperne di più sui fatti «rilevanti» o «irrilevanti» intorno ad esso, non c'è miglior modo che seguire i post di 1972. La giunta militare si accontenterà di una proroga di un altro anno degli arresti domiciliari, oppure approfitterà della situazione favorevole a livello internazionale per saldare i conti con la leader dell'opposizione democratica infliggendole una condanna a più anni di carcere?

L'unica certezza, per ora, è la nostra totale e colpevole impotenza. Al di là di appelli e dichiarazioni che spuntano come funghi ma che non fanno certo una politica. Cominciano a risultare indigesti per l'alto tasso di ipocrisia che contengono.

Tuesday, May 19, 2009

Sei mesi ancora

La buona notizia dei colloqui di ieri tra Netanyahu e Obama è che il presidente americano ha dato al dialogo con l'Iran sei mesi di tempo per produrre risultati, dopo di che in caso di esiti non soddisfacenti è probabile che l'amministrazione riveda la sua strategia di apertura.

E' vero che Obama si è detto contrario a fissare ultimatum e scadenze nel dialogo con Teheran sul nucleare, ma di fatto una linea rossa l'ha tracciata, spiegando che intende capire «entro la fine dell'anno» se l'Iran sta compiendo «uno sforzo sincero per appianare le divergenze» e se i colloqui «stanno iniziando a produrre o meno benefici effettivi». Obama pensa quindi a una finestra di dialogo tra giugno, dopo le elezioni presidenziali iraniane, e la fine dell'anno, entro cui dovranno vedersi «gesti concreti da parte degli iraniani». «Non prolungheremo i colloqui per sempre», ha comunque assicurato al premier israeliano, riconoscendo che i progressi diplomatici devono verificarsi entro quest'anno.

La cattiva notizia - ma non poteva essere altrimenti in un momento di apertura al dialogo - è che Obama, pur non escludendo una «serie di misure» contro l'Iran, ha citato solo le sanzioni come ipotesi peggiore, e nemmeno indirettamente, nemmeno come ultima risorsa, il ricorso all'uso della forza. Netanyahu da parte sua ha spiegato a Obama che «non vi è mai stato un momento come questo in cui israeliani e arabi vedono una minaccia comune» nelle ambizioni egemoniche di Teheran. Ha pienamente ragione e a mio avviso è un elemento da non sottovalutare. Questa inedita convergenza di interessi tra arabi e israeliani dovrebbe essere un'opportunità da sfruttare fino in fondo per il processo di pace.

Dai colloqui abbiamo avuto anche l'ennesima conferma del fatto che il governo israeliano rifiuta di farsi coinvolgere nella retorica della "soluzione a due-stati". Una formula che rischia di svuotarsi di ogni possibilità concreta di pace se serve a coprire una realtà in cui continuano le minacce all'esistenza di Israele a dispetto delle sue concessioni territoriali. Ciò non significa che il governo Netanyahu sia contrario all'autogoverno dei palestinesi o, in prospettiva, alla creazione di uno stato palestinese, ma che ora non pronunciando l'espressione "due-stati-per-due-popoli" vuole marcare una rottura rispetto ai mesi e agli anni passati in cui le risposte alle concessioni di Israele sono state le aggressioni di Hamas ed Hezbollah. Non manca tuttavia chi, come Bret Stephens, sostiene che a Netanyahu converrebbe comunque adottare quell'espressione.

Dopotutto, Netanyahu ha comunque assicurato che Israele «non vuole governare i palestinesi» e che è disponibile a iniziare «immediatamente» i negoziati, e si è detto consapevole che dovrà fare ulteriori concessioni ai palestinesi. L'unica condizione è il riconoscimento del diritto di Israele a esistere come stato ebraico e il coinvolgimento degli stati arabi della regione nell'accordo di pace.

Sulla questione del nucleare iraniano Obama e Netanyahu sembrano quindi aver raggiunto un compromesso, seppure temporaneo: per dare una chance alla diplomazia, Israele eviterà qualsiasi confronto con l'Iran quest'anno. Obama sembra essere andato incontro a Netanyahu con questa sottintesa tempistica, anche se non si è espresso in termini così energici come Israele desiderava. Per il Jerusalem Post, invece, è Obama a «dettare le condizioni», e a Netanyahu non rimane che fare buon viso a cattivo gioco.

Sei mesi, d'altronde, potrebbero bastare all'Iran per dotarsi della prima testata nucleare. E' quanto emerso da un'audizione, alla Commissione Affari esteri del Senato, di Robert Morgenthau. Il «leggendario» procuratore distrettuale di Manhattan ha presentato la «lista della spesa nucleare» di Teheran. Ha spiegato cioè come, attraverso quali canali, aggirando le sanzioni, gli iraniani stanno cercando di ottenere tutti gli «ingredienti» per un arsenale di distruzione di massa. In particolare, materiali che servono per l'arricchimento dell'uranio e per missili a lungo raggio.
We have consulted with top experts in the field from MIT and from private industry and from the CIA... Frankly, some of the people we've consulted are shocked by the sophistication of the equipment they're buying.
Informazioni, quelle fornite da Morgenthau, avvalorate anche da un rapporto interno della Commissione, presieduta da John Kerry, secondo cui l'Iran «sta compiendo progressi nucleari su tutti i fronti» e «potrebbe essere in grado di produrre uranio a gradazione per le armi in quantità sufficienti per una bomba entro sei mesi». «It's late in the game, and we don't have a lot of time», ha concluso Morgenthau.

Monday, May 18, 2009

Il pericolo dell'immobilismo

L'ultimo post di Phastidio mi dà modo di tornare su alcune questioni che su questo blog ho trattato spesso ultimamente. Innanzitutto, l'immobilismo del governo:
«Questa maggioranza appare inequivocabilmente meno nociva di quella che l'ha preceduta, ma sfortunatamente appare caratterizzata da un immobilismo pericoloso e da una inclinazione alla conservazione dello status quo che non possono non preoccupare chiunque sia consapevole che, senza un rilancio della crescita, l'Italia è amabilmente fottuta, e non ci sarà nessuna narrativa da paese operoso di brava gente a tirarci fuori dal guano in cui siamo finiti da alcuni lustri».
Alla base di questo immobilismo c'è la lettura tremontiana della crisi economica e finanziaria che stiamo attraversando. Una lettura che, fatta propria dal governo apparentemente senza divisioni al suo interno, guarda caso è anche piuttosto conveniente e consolatoria: la crisi viene da fuori (dagli Stati Uniti); l'hanno causata gli eccessi del mercato e della globalizzazione (che "per fortuna" da noi sono stati minori). Quindi, l'Italia sta meno peggio di altri e si riprenderà meglio. Basterà aspettare che la crisi passi.

Ebbene, sono profondamente in disaccordo con questa lettura. Spero che chi ce la propina non ne sia davvero convinto, ma che la ripeta per convenienza politica. E' vero che i nostri istituti finanziari si sono dimostrati più solidi di quelli di altri paesi - perché "parlano poco l'inglese", come ama ripetere Tremonti - ma altrettanto non si può sostenere della nostra economia "reale". Questa crisi si innesta su (e si somma ad) una crisi peculiare italiana, e di lunga durata. Mentre la crisi ha bruscamente arrestato la crescita di paesi come Stati Uniti e Gran Bretagna, a noi ci ha trovati fermi. Basti guardare - per citare solo l'ultimo esempio in ordine di tempo - ai dati dell'Ocse sulle buste-paga italiane, tra le più leggere del mondo industrializzato. Il rischio è che quando la crisi finirà, mentre gli altri ripartono noi torneremo alla nostra crescita "zero virgola".

Come scrivevo alcuni mesi fa, la partita più importante per noi si gioca in Italia, non fuori: riducendo il debito, abbassando le tasse, liberalizzando. Ci sono tornato più volte, praticamente ogni volta che ho parlato di Tremonti, quindi non mi dilungo. Se gli americani hanno ecceduto in debito privato, noi abbiamo ecceduto in debito pubblico. Se entrambe le tipologie di debito si ripercuotono negativamente sull'economia, tuttavia l'eccesso di debito privato si digerisce più rapidamente attraverso il fallimento di chi ha fatto investimenti sbagliati, mentre quello pubblico è difficile da smaltire, perché su di esso proliferano gli interessi politici.

Lungi dall'essere un motivo per non toccare nulla, questa crisi che viene da fuori potrebbe invece rappresentare una straordinaria occasione per far accettare le riforme - sotto la spinta della necessità - ai poteri e ai settori di opinione pubblica più restii. Al contrario, temo che questo governo non abbia il coraggio della sfida riformista, se non con poche lodevoli eccezioni (come nella pubblica amministrazione, sia pure con grandi resistenze). Il rischio è che per non perdere neanche una piccola quota di consensi - perdita fisiologica quando si fanno delle riforme - ne perderà gran parte quando al termine dei cinque anni apparirà chiaro che non ha fatto nulla.

Non dobbiamo però sottovalutare il fatto che un governo di centrosinistra avrebbe quasi certamente reagito alla crisi aumentando ancora di più il debito o alzando ancora di più le tasse per reperire risorse per nuovi interventi dello stato. Insomma, tra un governo fermo e un governo che va nella direzione sbagliata, è sempre meglio il primo. A patto che ci sforziamo tutti di spingerlo nella direzione giusta. Cioè criticando, quando necessario, come fa Mario sul suo blog.

Su una cosa invece non concordo con lui. A suo avviso non servirebbe a nulla prendersela con l'opposizione. Certo, «rischia di configurare il reato di vilipendio di cadavere», ma se l'opinione pubblica del paese mostra una preoccupante «acriticità nei confronti del governo e del premier» è principalmente perché il Pd è quello che è. Quindi, è importante criticare il Pd, perché sappia "riformarsi" in fretta in senso liberale, almeno quanto lo è criticare il governo.

Se dal punto di vista delle scelte elettorali, quasi sempre effettuate seguendo la logica della «riduzione del danno» (votare per il "meno peggio"), non vedo ad oggi alternative al PdL, ciò non significa che serva a qualcosa sostenerlo «senza se e senza ma». Anzi, non si può che constatare con preoccupazione l'assenza di un dibattito di idee nel PdL e nella maggioranza. Dibattito di idee che non vuol dire rissa tra correnti o confusione programmatica, come nel Pd, e neanche marcare identitariamente una posizione sancendone così il carattere minoritario o di mera testimonianza. Non da oggi, e praticamente dalla sua nascita, mi sono sforzato di far capire agli amici di TocqueVille - a quanto vedo con scarsissimi risultati - che il compito dell'aggregatore dovrebbe essere quello di creare dibattito, non di amplificare il tifo da "curva Sud". E dallo stesso scopo dovrebbero essere animati anche i singoli blog di centrodestra e liberali.

Dell'acriticità dell'opinione pubblica non mi preoccuperei troppo. Gli italiani hanno dimostrato alle scorse elezioni di saper cambiare campo. Ad oggi il consenso di cui gode il governo è per lo più dovuto alla mancanza d'alternativa (e alla devastante esperienza Prodi-Visco, nei cui confronti non c'è stata alcuna vera rottura da parte del Pd). D'altronde la maggior parte dei sondaggi vengono effettuati sulle preferenze di voto.

Molti vedono nel Casoria-gate e nelle tensioni con la Lega i primi «scricchiolii» nella maggioranza e i motivi di un primo calo dei consensi. Io sono convinto invece che se il governo non agirà in fretta con le riforme che servono a liberare l'Italia dalle catene e dalle pastoie che ostacolano la crescita, prima o poi gli italiani cominceranno ad addossare al governo la responsabilità del prolungarsi della crisi. La crisi venuta da lontano diventerà la sua crisi.

Friday, May 15, 2009

In quei giorni prevalse la paranoia di Deng

Bao Tong, di cui già abbiamo avuto modo di parlare, ha curato il libro di memorie di Zhao Ziyang, segretario del Partito comunista all'epoca del massacro di Piazza Tienanmen. Subito dopo quei tragici giorni, per aver sostenuto la linea del dialogo con gli studenti, Zhao fu incarcerato e visse i suoi ultimi anni agli arresti domiciliari, fino alla morte, nel 2005.

Il libro, "Prigioniero di Stato", è uscito ieri in inglese a Hong Kong e sarà pubblicato in cinese mandarino entro il 29 maggio. Zhao racconta che gli studenti erano scesi in piazza per protestare contro la corruzione e per ottenere riforme democratiche, ma non per rovesciare il governo, e addossa tutta la responsabilità della brutale repressione dell'esercito a Deng Xiaoping, descritto come un dittatore paranoico: «La chiave della questione è sempre stato lo stesso Deng Xiaoping... se Deng rifiutava di avere una posizione più elastica, io non avevo modo di far cambiare posizione ai due più intransigenti, Li Peng e Yao Yilin».

A far precipitare la situazione un editoriale del 26 aprile 1989 sul Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del Pcc, scritto da Li, nel quale gli studenti erano qualificati come «agitatori contro il partito, contro il socialismo», e che rendeva ufficiale - ed esecutiva - la posizione di Deng contro i manifestanti.
«Deng - si legge nelle memorie - aveva sempre avuto la tendenza a preferire misure dure nel trattare con gli studenti, perché credeva che le loro dimostrazioni minassero la stabilità... tra i leader del Pcc è sempre stato quello favorevole ad agire in modo dittatoriale. Ha sempre insistito come sia utile. Quando ha parlato di stabilità, ha sempre insistito sulla dittatura».
Ovviamente, nessuna recensione da parte della stampa cinese e nessun commento ufficiale.

Non una soluzione a 2-stati ma a 57-stati

Mentre tutti gli occhi dei media sono ancora puntati sul Papa che sta concludendo la sua visita in Terrasanta, e sul messaggio di pace e di speranza che ha portato a israeliani e palestinesi, è al re di Giordania che bisogna guardare per capire cosa si sta muovendo sul piano politico.

Obama scoprirà le sue carte solo dopo aver ascoltato Netanyahu, che andrà da lui alla Casa Bianca la prossima settimana. Ma con grande lucidità, re Abdullah II ha spiegato in un'intervista concessa al Times che «non si tratta di una soluzione a due stati, ma di una soluzione a 57 stati», dimostrando di cogliere uno dei nodi chiave che ostacola la pace tra israeliani e palestinesi. Ovviamente non intende dire che Israele o i palestinesi debbano rinunciare ad un proprio stato sovrano, ma che la retorica "due popoli-due stati" spesso nasconde il fatto che la soluzione passa per il riconoscimento di Israele da parte dei paesi arabi. Quella dei due-stati, inoltre, fa notare qualcuno, potrebbe non essere affatto la soluzione, se poi uno dei due impegna tutte le sue risorse ed energie a cercare di annientare l'altro.

Da tempo il re giordano lavora intensamente alla proposta di pace araba e forse mai come in questo momento le condizioni sono state così favorevoli al riconoscimento di Israele da parte dei paesi arabi della regione, spaventati dalle ambizioni egemoniche e dalle infiltrazioni destabilizzanti dell'Iran più di quanto ormai siano disturbati dalla presenza di Israele. E' un'ipotesi su cui non bisogna nutrire troppe illusioni, perché troppe volte è sfumata, ma c'è da augurarsi davvero che finalmente nelle capitali arabe sia "esplosa" la consapevolezza che è arrivato il momento di riconoscere Israele. Decisive saranno anche le pressioni che Obama vorrà, o saprà, esercitare.

Il re giordano ha già incontrato Obama (il 21 aprile), e nel corso della sua visita a Washington è intervenuto al Center for Strategic and International Studies. Ma la sua intervista al Times ha riscosso grande attenzione a Gerusalemme, forse così tanta da spingere Netanyahu a precipitarsi a sorpresa in Giordania per parlargli di persona prima di attraversare l'Atlantico. Forse non stiamo parlando dell'"opzione giordana", ma il ruolo di Abdullah II viene considerato di primaria importanza, addirittura «vitale» lo definisce il Jerusalem Post.

Thursday, May 14, 2009

Rinunciando a Brunetta il governo rinuncia alle riforme

Gli organi di stampa, i più "autorevoli" commentatori e retroscenisti politici, nonché l'opposizione, sono tutti concentrati sul "caso Lario", sui presunti estremismi della Lega, sulle uscite di Fini, come possibili crepe all'interno della maggioranza e quindi fattori di un possibile calo dei consensi di cui gode ad oggi il governo. Ma il primo vero scossone alla sua popolarità potrebbe assestarselo il governo stesso.

Da Libero:
Renato Brunetta è pronto a dimettersi. «Ho messo a disposizione il mio mandato, in questo momento non so se sono ancora ministro», dice il responsabile della Pubblica amministrazione. Non fa nomi, ma la polemica è con il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti. Anche se il vero destinatario dello sfogo, ovviamente, è Silvio Berlusconi. Il motivo del contendere è politico: ci sono «resistenze» al decreto legislativo che dovrà attuare la riforma della pubblica amministrazione, il provvedimento al quale Brunetta tiene di più. E queste «resistenze», ha detto ieri Brunetta a Fiuggi, al congresso dei dipendenti pubblici della Cisl, «non arrivano dal sindacato, ma dall'interno del mio governo». Due, in particolare, le novità su cui Tremonti si è messo di traverso. La prima, più importante, è l'autorità che dovrà valutare l'efficienza dei dipendenti statali. La seconda è l'introduzione della "class action" nella pubblica amministrazione.
E' un governo finora responsabile, pur nell'immobilismo a cui la crisi ha fornito un alibi. Basti pensare a Tremonti e a Sacconi, che in ogni occasione ripetono che in tempi di crisi è meglio non toccare nulla, non fare riforme che potrebbero generare caos e panico. L'unica vera iniziativa di riforma, quella di gran lunga più compresa dall'opinione pubblica e più popolare, è stata fino ad oggi quella di Brunetta nella pubblica amministrazione, come dimostrano i consensi che il ministro miete nei sondaggi. Ebbene, se il governo decidesse di buttare al vento questa opportunità, le grandi aspettative create da Brunetta, subirebbe a mio avviso un duro contraccolpo d'immagine. Si potrebbe in quel caso parlare davvero dell'inizio della fase discendente, dell'inizio della fine di questa lunga luna di miele con il paese.

Ad oggi può permettersi di essere un governo così poco riformista perché c'è la crisi economica come alibi, ma Berlusconi i voti li ha presi non per gestire l'esistente. I suoi elettori, o gran parte di essi, si aspettano cambiamenti e fra quattro anni (opposizione permettendo) è sui cambiamenti che giudicheranno il terzo governo Berlusconi. Rinunciare alle idee di Brunetta sulla pubblica amministrazione vorrebbe dire perdere, senza neanche combattere, la battaglia per l'efficienza e per la riduzione dei costi, cose che stanno molto a cuore ai cittadini. Per la prima volta Berlusconi non apparirebbe come il "leader del fare" bloccato dalle opposizioni, dai sindacati, o dal presidente della Repubblica, ma responsabile lui stesso di aver bloccato chi, come Brunetta, voleva "fare".

Aung San Suu Kyi e lo strano "ospite" americano

E' stata prelevata dalla polizia questa mattina alle 7 ora locale Aung San Suu Kyi, e rinchiusa nel carcere di Insein, a nord di Yangon. Premio Nobel per la pace nel 1991, la leader democratica che si batte contro la dittatura militare al potere in Birmania dal 1962 ha trascorso 13 degli ultimi 19 anni agli arresti domiciliari nella sua casa-prigione al numero 54 di University Avenue, a Yangon. I capi d'accusa nei suoi confronti si basano sulla sezione 22/109 del codice penale, la legge sulla sicurezza nazionale. Sarà processata il 18 maggio prossimo e se giudicata colpevole rischia dai 3 ai 5 anni di reclusione.

Il nuovo arresto è legato a una vicenda ancora molto oscura, su cui è già intervenuto 1972. In breve, è accusata di aver violato i domiciliari per aver ospitato nella sua abitazione, per due giorni, un 53enne americano, John William Yettaw. Ma l'uomo si era introdotto nella casa di nascosto, attraversando a nuoto il lago Inya, sulla cui riva si affaccia la villa dove è rinchiusa la dissidente, ed è stato arrestato la mattina del 6 maggio mentre cercava di allontanarsene, sempre a nuoto.

La strana coincidenza è che il 27 maggio sarebbero ufficialmente scaduti i termini degli arresti domiciliari, già prorogati arbitrariamente dai militari lo scorso anno. Quindi, c'è chi pensa che il regime abbia cercato, e infine trovato, il pretesto per mantenere la leader dell'opposizione birmana agli arresti anche per i prossimi anni. Nei giorni scorsi alcune fonti in Myanmar avevano riferito all'agenzia Asianews di «accuse montate ad arte» dal regime per «mantenere agli arresti domiciliari la "Cara signora"». Il governo stava cercando «ogni pretesto o espediente per giustificare una proroga del provvedimento», incurante delle condizioni di salute della donna, che «non sono buone: è molto debole e fatica a mangiare». Soffre di disidratazione e pressione molto bassa. Avrebbe persino bisogno di flebo per nutrirsi.

Secondo Kyi Win, il suo avvocato, il cittadino americano che si è introdotto nella sua abitazione sarebbe un «avventuriero» che avrebbe agito «di sua iniziativa». L'ambasciata americana ha più volte avanzato la richiesta di incontrare l'uomo, sempre respinta però dai vertici militari. Quindi gli interrogativi sulla vicenda si moltiplicano. Chi è John William Yettaw? Quali i motivi della sua azione? Com'è riuscito a violare uno dei luoghi più controllati del paese? Conosceva già Aung San Suu Kyi?

Gli esponenti della Lega nazionale per la democrazia sospettano una trappola organizzata dalla giunta stessa per incastrare la loro leader. Ma è più probabile, come ipotizza la rivista on line Irrawaddy, che Yettaw sia solo un mitomane ignaro delle conseguenze del suo gesto. In ogni caso, il regime ha preso la palla al balzo e ha prontamente utilizzato l'accaduto come prova della pericolosità della dissidente e dei suoi rapporti con potenze straniere. In questo modo la giunta militare cerca di fornire una cornice legale al prolungamento della detenzione di Aung San Suu Kyi: per la legge birmana, infatti, qualsiasi presenza notturna in un domicilio privato estranea al nucleo famigliare deve essere comunicata in anticipo alle autorità. Tre anni di detenzione la pena prevista per la mancanza di preavviso.

Unanime la condanna da parte di Stati Uniti e Paesi europei. L'ambasciatore birmano a Roma è stato convocato dal Ministero degli Esteri per una protesta ufficiale dell'Italia. Dov'erano però i governi occidentali in tutti questi mesi? Cosa hanno fatto per indurre la giunta militare birmana a liberare Aung San Suu Kyi e gli altri detenuti politici? La realtà è che Stati Uniti e Ue sanno indignarsi velocemente ma non sanno far seguire alle parole i fatti. Si sono ben presto dimenticati della Birmania, sia dopo la brutale repressione della rivolta dei monaci buddisti nel 2007, sia dopo il trattamento disumano riservato dalle autorità birmane alle proprie popolazioni colpite dal ciclone Nargis giusto un anno fa. La solita inutile missione dell'Onu è intervenuta a posteriori a sancire di fatto la "normalizzazione" del regime (spalleggiato dalla Cina).