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Monday, March 17, 2008

Londra è il buon esempio, non Roma

Negli ultimi giorni Tremonti, in interviste e interventi pubblici, sta cercando di mitigare l'accento protezionista delle idee espresse nel suo ultimo libro, "La paura e la speranza". «Il mio - giura - è un libro sul mercato e per il mercato. Il problema che mi sono posto è quello di riportare il mercato in condizioni di equilibrio. Si tratta solo di proteggere la produzione europea con strumenti temporanei per combattere la concorrenza sleale e asimmetrica. E questo è perfettamente compatibile con i princìpi del liberalismo».

Che le misure a cui pensa siano temporanee, e la concorrenza che vuole combattere sia solo quella sleale, è un chiarimento rassicurante, seppure a nostro avviso la concorrenza sleale dall'Asia non va combattuta con dazi e quote, perché inefficaci, ma con pressioni politiche e regole chiare nella cornice del Wto, che a questo serve.

Rimangono però certi giudizi di fondo che ci allarmano, come quello secondo cui la globalizzazione sarebbe responsabile del «carovita». Oppure, quando Tremonti sostiene che «il vero scontro in realtà è fra Londra e Roma. Perché Londra rappresenta l'Europa come semplice area di libero scambio. È un'idea mercantile del Continente. Nella visione giudaico-cristiana domina viceversa l'idea politica dell'Europa».

Una contrapposizione tra l'Europa continentale, giudaico-cristiana, e quella anglosassone, definita «mercantile». Invece di prendere esempio dalla Gran Bretagna, che riesce ad agganciare e a vivere con successo la globalizzazione, ad essere competitiva, Tremonti la demonizza nel nome di quella parte di Europa (Francia, Germania e Italia) che invece è più in difficoltà, è lenta e appesantita dallo statalismo.

Ma in un libro ci sono anche un clima e dei riferimenti culturali e nel suo Tremonti, scrive Piero Ostellino, capovolge l'enciclica "Populorum progressio", nella quale Papa Paolo VI prediceva che «con la globalizzazione, i Paesi più poveri sarebbero diventati sempre più poveri e quelli ricchi sempre più ricchi. Questi si sarebbero appropriati delle loro materie prime, avrebbero chiuso i propri confini alle loro esportazioni di derrate alimentati. Le economie dei Paesi poveri sarebbero state colonizzate dalle multinazionali americane». Non è accaduto, e Tremonti scrive che invece accade il contrario, che «non sono più i Paesi poveri a fare le spese della globalizzazione, bensì quelli ricchi».

Secondo Ostellino, nel libro di Tremonti «riecheggia la caduta tendenziale del saggio di profitto (Karl Marx, ahi, ahi). La sua "speranza" sembra l'autarchica grandeur dell'Ancien Régime (Jean Baptiste Colbert, ministro delle Finanze di Luigi XIV, ahi, ahi). I rimedi a breve, nella convinzione che "a lungo saremo tutti morti", ripropongono il New Deal americano dopo la crisi del '29 John Maynard Keynes, ahi, ahi). Il richiamo ai valori della famiglia, dell'ordine, dell'identità, è la preghiera domenicale dell'Angelus (Papa Benedetto XVI, ahi, ahi). Ma che ne pensa il mondo imprenditoriale, dal quale, in ultima analisi, dipende la crescita del Paese? E' per la "distruzione creativa" del capitalismo, che accantona le aziende invecchiate per liberare capitali e farne nascere nuove; o è con Marx, Colbert, Keynes, col ministro dell'Economia del probabile prossimo governo che si dice (si dice) liberale?».

In un altro recente editoriale, Piero Ostellino affronta alla radice la cultura statalista che abita entrambi i partiti maggiori. In questa campagna elettorale PdL e Pd non stanno sottoponendo alla gente quello che anche a nostro avviso è il problema dei problemi: quello «del potere pubblico e dei suoi limiti». Certo, «non è un prodotto elettoralmente "commerciabile"». Ma il rischio è che gli italiani non saranno mai consapevoli della «differenza fra la società aperta e una chiusa».

Il paradosso, lo abbiamo scritto tante volte, è che espandendo le sue competenze e la spesa pubblica, lo Stato finisce col «non esserci dove dovrebbe esserci — garantire sicurezza, legalità, giustizia, istruzione — e ad esserci dove non deve, producendo illegalità, divieti, vincoli, sanzioni illegittime». Il pregiudizio che i due partiti maggiori, PdL e Pd, condividono è quello di «assegnare allo Stato una finalità etica (per esempio la giustizia sociale)», accrescendo così il potere della classe politica.
«Lo Stato liberale non è produttore di un'"etica pubblica", bensì di un quadro giuridico entro il quale gli individui sviluppano le loro potenzialità. L'economia di mercato dev'essere regolata dalla politica, ma non può essere piegata a un obiettivo "esterno" ai processi che ne presiedono la produzione di ricchezza. Che è neutrale. L'interventismo pubblico nell'economia di mercato è come l'intrusione della polizia nelle libertà politiche dei cittadini. Da noi la legislazione non fissa solo norme di condotta. Vuole modellare l'Uomo. Ma l'enorme produzione di leggi vanifica la certezza del diritto e paralizza la società. Pdl e Pd non capiscono che, per modernizzare il Paese, è vitale una radicale "semplificazione legislativa" che riduca la pletora di leggi vigenti».
Sotto sotto resiste il riflesso di una «mentalità totalitaria: regolamentare tutto affinché tutto sia proibito tranne ciò che è espressamente consentito». Ne consegue che rispettare le regole è praticamente impossibile, quindi si producono illegalità diffusa e falsi criminali, cittadini comuni che cercano, in qualche modo, di cavarsela. E con tutto ciò ha a che fare anche l il libro di Tremonti, con i richiami all'etica e ai valori tradizionali.

1 comment:

Anonymous said...

C'è un asse Brunetta-Martino-Capezzone-DellaVedova nel PdL?

Saranno capaci di rassicurare i piccoli imprenditori del Nord come sta facendo Tremonti?