Pur catalogando le idee economiche di Giulio Tremonti sotto la voce «Horror Economics», Michele Boldrin, del blog-think tank Noisefromamerika, non liquida affatto il ragionamento dell'ex (e probabilmente prossimo) ministro dell'Economia sugli effetti negativi della «competizione asimmetrica» asiatica, quindi della globalizzazione. In un interessante e dettagliato articolo spiega perché «la paura» di cui Tremonti parla nella prima parte del suo nuovo libro trova qualche fondamento anche da un punto di vista economico liberista.
Il libero mercato globalizzato è, «in via di principio, una cosa vantaggiosa per tutti». Nella competizione ci sono vincitori e vinti, ma non è un gioco a somma zero. Per i vinti esistono «temporanei costi di aggiustamento ma, una volta superato lo shock iniziale, tutto funziona per il meglio» e nel medio-lungo termine nel libero mercato tutti vedono migliorare le proprie condizioni di vita. Da liberista Boldrin non mette in discussione la validità di questa formula e l'efficienza del sistema.
Tuttavia, pragmaticamente osserva che «gli ordini di grandezza contano, eccome se contano, in quei processi di aggiustamento». E oggi ci troviamo di fronte a un fenomeno di apertura dei mercati dalla portata epocale, dove «più di tre miliardi di persone hanno cominciato a produrre, consumare e vendere beni secondo metodi e criteri che prima erano l'appannaggio di un numero più ristretto di persone, i circa 700 milioni che sino a fine degli anni '80 vivevano in Nord America, Europa dell'ovest e Giappone». Il risultato è che pur restando il libero mercato il sistema più efficiente nel produrre effetti benefici generalizzati, i tempi degli aggiustamenti e dei processi di riequilibrio si allungano notevolmente: «La grandezza dell'impatto rende enormi i tempi ed i costi di aggiustamento, lasciando decine di milioni di lavoratori incapaci di aggiustare i propri vantaggi comparati in tempo utile (utile dal loro punto di vista, ossia prima di morire)». Insomma, «il maledetto momento in cui si comincia tutti a guadagnarci dalla globalizzazione liberista sembra non arrivare mai!».
Ma a questo punto la domanda è: sono utili le politiche protezionistiche (dazi, quote e barriere commerciali di altro tipo) ad attutire l'impatto e ad attenuare le sofferenze? Possono funzionare? A giudicare dalle innovazioni, dai processi - e dalla loro vasta portata - che hanno innescato e che sono alla base della globalizzazione (e che Boldrin stesso elenca) si direbbe di no e si dovrebbe facilmente dedurre che contro di essa le politiche di apertura o chiusura dei governi possono ben poco.
Vale la pena ricordare che non consideriamo come politiche protezionistiche la tutela della proprietà intellettuale contro la contraffazione o la richiesta di regole per il corretto funzionamento dei mercati, contro forme di concorrenza sleale. Oltre a dubitare della loro efficacia, le misure protezionistiche per avere un minimo di senso richiedono la loro adozione da parte di comunità sovranazionali come la Ue, in cui convivono interessi e culture economiche molto diverse tra di loro.
Per accorciare i tempi e diminuire i costi di «aggiustamento» di cui ha parlato Boldrin non vediamo altra strada che quella evocata proprio oggi da Mario Monti, sul Corriere della Sera. Per «vivere con successo la globalizzazione» tutti i nostri sforzi dovrebbero essere «rivolti a rendere le nostre economie più competitive». Se in larga misura gli effetti - positivi e negativi - della globalizzazione dipendono da fattori difficilmente quantificabili, non riducibili a modello, e dunque scarsamente controllabili dalla politica, non possiamo che intervenire laddove è in nostro potere. «Ciò che un Paese può fare per diventare più competitivo è in larga misura nelle proprie mani», osserva Monti.
Ciò è particolamente vero nel caso dell'Italia, dove - riconosce lo stesso Boldrin - «la colonna portante dell'economia italiana è stata esposta ad uno shock competitivo cento volte maggiore dei precedenti proprio negli anni in cui il carico fiscale su di essa saliva, la qualità dei servizi pubblici scendeva, la scuola e l'università pubblica si disfacevano e la capacità del sistema Italia di offrire supporto a processi di riconversione, adattamento ed innovazione veniva brutalmente meno». Una situazione di cui i primi responsabili siamo noi e la nostra classe politica.
Dunque, innanzitutto proviamo a recuperare competitività intervenendo laddove possiamo farlo qui e ora, riducendo drasticamente il carico fiscale e il peso dello Stato; eliminando i costi della burocrazia e facendo funzionare la giustizia civile; liberalizzando mercato del lavoro e delle professioni; riformando welfare e sistema educativo, scuole e università, e favorendo gli investimenti nella ricerca.
A Berlusconi, a Tremonti e al PdL basterebbe chiarire che, dazi o non dazi, sono consapevoli che l'Italia ha urgente bisogno di riforme radicali e liberali che rendano comunque la nostra economia più competitiva. Insomma, che la eventuale richiesta di «protezione» a livello europeo non sarà l'alibi per la difesa dello status quo e dell'attuale modello di stato sociale. Sarebbe già tanto.
1 comment:
Da radicali fuorisede o in diaspora, più che da ex, direi che dobbiamo puntare ad un passo al giorno nella direzione giusta.
Certamente il PD e Veltroni non sono la direzione giusta ed è inutile argomentare: li abbiamo già visti all'opera e sono tutti ancora lì.
Questi altri, nella peggiore delle ipotesi, hanno tendenze un po' meno stataliste. Non dico tanto, ma almeno un po' più liberali lo sono. Anche come area colta di riferimento.
Cmq, di liberali veri in Italia non credo che ce ne siano più di 5000. E sono pure tanti.
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