Della nostra Italia si potrebbe dire, parafrasando il titolo del film dei fratelli Cohen che ha vinto l'Oscar, che "Non è un Paese per Thatcher". Né per Blair. Insomma, che "Non è un Paese per liberali", a sinistra come a destra. E i due programmi elettorali dei maggiori partiti, PdL e Pd, ne sono la conferma.
Se infatti, nel programma del Partito democratico, dietro il nuovo approccio sul fisco non c'è nulla di blairiano e liberale, su pensioni, giustizia, università, servizi pubblici locali, pubblica amministrazione e mercato del lavoro, per nulla thatcheriane suonano le parole di Berlusconi sulla necessità di «salvare» l'aeroporto di Malpensa e l'"italianità" di Alitalia. «Il nostro Paese non dovrebbe privarsi di una compagnia di bandiera. Alitalia deve restare italiana», ha dichiarato pochi giorni fa, definendo inoltre «inaccettabile penalizzare l'hub di Malpensa in caso di cessione della compagnia aerea». Come intervenire, dunque? Con «una cordata di imprenditori italiani». E poi, a fronte delle perdite di Malpensa, che quantifica in uno o due miliardi di euro, ci sono i due-trecento milioni di Alitalia: «Un Paese deve saper sopportare le perdite di certe aziende».
Ve la immaginate la signora Thatcher spiegare ai contribuenti britannici che devono «saper sopportare» di tasca propria le perdite di un'azienda di Stato? Le perdite di Malpensa possono essere compensate dal mercato, vendendo ad altre compagnie gli slot lasciati da Alitalia, ma le perdite della compagnia gravano sui contribuenti, che non vengono ripagati nemmeno con un servizio efficiente e a bassi costi. Che l'aeroporto di Malpensa riesca o meno a divenire un hub dovrebbe essere il mercato a deciderlo. Non si può però pretendere che una compagnia aerea tenga i piedi in due hub, solo perché un aeroporto possa continuare ad avere il cliente fisso e garantito, invece di andarsene a cercare altri sul mercato.
«Se Alitalia rimanesse isolata e non integrata in una delle grandi alleanze europee sarebbe destinata al fallimento in un brevissimo lasso di tempo», spiega persino il sindacato dei piloti. In Europa e nel resto del mondo il mercato del trasporto aereo non è mai stato così profittevole come negli ultimi anni. Almeno per chi ne ha saputo approfittare. Non certo per una compagnia controllata dallo stato e un aeroporto gestito da un comune, che, condizionati dagli interessi dei partiti e dei politici, e non dalle logiche del mercato, hanno conosciuto solo sconfitte.
Dietro l'"italianità" di Alitalia c'è quindi il tentativo di alcune lobby localistiche e stataliste di estorcere denaro pubblico per far compiere, e poi mantenere, alla compagnia scelte anti-economiche e fuori mercato, che privilegiano le clientele di partiti ed enti locali a spese dei contribuenti.
Che creda davvero che sia lo Stato a dover «salvare» Malpensa e garantire l'"italianità" di Alitalia, o che sia solo propaganda elettorale, Berlusconi sta in ogni caso pagando pesanti tributi statalisti ai suoi alleati: alla Lega e a Formigoni su Malpensa e ad An su Alitalia. Ed è un inizio che non promette nulla di buono in vista della probabile nuova esperienza di governo.
Come nulla di buono fanno presagire gli accenti protezionistici che dall'ultimo libro di Giulio Tremonti ("La paura e la speranza") riecheggiano nel programma elettorale del PdL, laddove si annunciano «interventi sull'Unione europea per ridurre la regolamentazione comunitaria» e si proclama l'intenzione di «difendere la nostra produzione contro la concorrenza asimmetrica che viene dall'Asia», specificando, con «dazi e quote».
Innanzitutto, dovremmo chiederci a quale titolo, ammesso che ne fossimo ancora in grado, condanniamo al sottosviluppo (negando il libero commercio) i popoli che stanno appena uscendo dalla miseria. Ma poi: siamo davvero sicuri di trarre vantaggio da queste barriere commerciali? Quella a favore del libero mercato, sempre e comunque, anche sotto la pressione della competizione per molti aspetti scorretta della Cina, non è un'opzione ideale, ma di efficienza del nostro sistema. Dobbiamo sforzarci di difendere le nostre imprese nella, e non dalla, globalizzazione. Proteggendo le nostre imprese con dazi e quote sulle importazioni non facciamo loro un favore. Sarebbe come narcotizzarle, perché le abitueremmo a un mercato protetto artificialmente, nel quale vedrebbero assicurate le loro quote di mercato interno nonostante i margini di inefficienza e di maggiori costi nella produzione. Quindi, perderebbero ogni incentivo a svilupparsi e rinnovarsi, o quanto meno lo farebbero ad una velocità molto più ridotta di quanto avviene là fuori, nel resto del mondo.
Ebbene, in poco tempo ce le ritroveremmo sedute, incapaci di sostenere una competizione sempre più globale alla quale non potranno sottrarsi a lungo, visto che non è esclusivamente sul mercato interno che possono pensare di sopravvivere. Imprese che altrimenti sarebbero costrette a rinnovarsi o a chiudere, e lavoratori altrimenti destinati a perdere il loro vecchio posto, a riqualificarsi e a reinserirsi persino in posizioni migliori, verrebbero cullati nell'illusione di una sicurezza inesistente. Le politiche protezionistiche non rafforzano, ma indeboliscono le nostre imprese e il nostro tessuto produttivo.
Inoltre, Tremonti lamenta il caro-vita mondiale, perché i Paesi emergenti fanno crescere la domanda di materie prime come petrolio e grano, ma non può tacere l'effetto inflattivo che proprio dazi e quote avrebbero sui prodotti intermedi, a danno delle imprese, e sui prodotti finali a basso prezzo, a danno dei consumatori soprattutto meno abbienti: poiché la logica è quella di disincentivare le importazioni aumentandone i costi, l'inflazione è una conseguenza certa.
La cosa migliore che lo Stato può fare per difendere le nostre imprese è invece aiutarle a rendersi più competitive. Quindi, meno tasse sugli utili, così da favorire investimenti in R&S; meno costi sul lavoro e più flessibilità; meno pesantezze burocratiche; una giustizia civile certa e rapida. Bisogna certamente agire anche in sede di Unione europea, ma non per ridurre le politiche a favore della concorrenza. Piuttosto – questo sì – perché l'Europa pretenda dalla Cina la fine di ogni pratica di dumping e il rispetto delle regole di una competizione fair.
Tutti i Paesi europei che si sviluppano più rapidamente fanno dell'apertura, non della chiusura, il loro punto di forza: Svezia e Gran Bretagna, ma anche la Germania, che è riuscita a ripartire dopo aver aperto sia il mercato del lavoro sia gli assetti proprietari delle imprese e delle banche, dopo decenni di protezionismo corporativo di sindacati e industriali. Alcune migliaia di imprese italiane sono già riuscite ad agganciare lo sviluppo globale. I processi di "distruzione creativa", benché dolorosi, si rivelano benefici per l'intero sistema, un fattore di efficienza.
Proprio Tremonti, sempre cauto sull'effettivo potere dei governi di incidere sulla realtà economica, non si accorge di attribuire alle politiche liberiste un'influenza sul commercio globale che non possono esercitare. Dazi e quote danneggerebbero gravemente la competitività delle nostre imprese, mentre inciderebbero in modo trascurabile sulle dinamiche della globalizzazione, le quali prescindono dall'atteggiamento di apertura o di chiusura degli stati, perché direttamente riconducibili alla velocità dei trasporti e delle comunicazioni, che negli ultimi venti anni hanno conosciuto uno sviluppo senza paragoni nell'intera storia dell'umanità. Non è "colpa" del liberismo, insomma, almeno non quanto sia "colpa" di internet.
Nel suo libro Tremonti torna a distinguere tra il liberismo e la sua degenerazione, il "mercatismo", che però ha tutta l'aria di uno di quei concetti costruiti artificiosamente per poter attaccare l'originale di comprovato successo. Colui che Berlusconi ha indicato come prossimo ministro dell'Economia in caso di vittoria del PdL se la prende anche con la "cultura del consumismo" e l'"ideologia delle liberalizzazioni". La sua visione dell'economia e del commercio assume così tutti i tratti cupi e pessimistici del mercantilismo e della chiusura al nuovo e al diverso. E' pronto a rinunciare alle immense possibilità che la globalizzazione apre anche ai Paesi più sviluppati, per non rischiare di perdere certezze che le politiche protezionistiche illudono di poter salvare.
Sono aspetti che si ritrovano anche al di là dell'Atlantico, nelle politiche economiche e commerciali dei due candidati alla nomination democratica per la Casa Bianca, Barack Obama e Hillary Clinton, ma certo non del "global" McCain. Anch'essi fanno leva sulla paura degli americani per il fenomeno della globalizzazione e della delocalizzazione del lavoro, finendo col proporre al pubblico una piattaforma no global, protezionista, se non isolazionista. Entrambi vorrebbero rivedere o sospendere il Nafta, per esempio, il trattato di libero scambio con gli altri paesi nordamericani, malgrado abbia creato ricchezza in tutto il continente. La correlazione tra i bassi salari in Cina e India e la chiusura delle fabbriche in America non è del tutto infondata, ma diviene populista se non se ne ricordano gli effetti benefici: tassi di disoccupazione comunque ai minimi; maggiori possibilità di scelta e prodotti "discount" per i consumatori; maggiore dinamicità delle aziende ed elasticità del mercato del lavoro.
Se dunque la sinistra italiana, Pd compreso, per la sua arretratezza e l'allergia alle politiche liberali, sia nella versione blairiana che scandinava, rappresenta un'anomalia tra le grandi democrazie occidentali (forse solo i socialisti francesi sono messi peggio), anche il PdL con l'impronta anti-liberista di Tremonti e le concessioni di Berlusconi allo statalismo si avvia a rappresentare un'anomalia nel panorama dei partiti di centrodestra europei (tranne, forse, solo il già citato caso francese), per non parlare dei conservatori americani.
10 comments:
Anche io ho fatto un post sulle elezioni.
E anche io nel mio piccolo ho denunciato questa carenza che è comune a tutti gli schieramenti.
Complimenti per il post.
Ti seguo da sempre.
Gratta gratta siamo al fascismo di ritorno...
E se votassimo per il PLI, così, per far capire a Silvio che i liberali potrebbero anche incazzarsi?
Sono fortemente deluso, devo essere sincero. Ho letto sul sito di Forza Italia la Carta dei Valori (sic!) del PDL ed è tutto un "giustizia sociale", "famiglia fondata sul matrimonio", "uguaglianza sostanziale", "politiche positive per la donna"...
Insomma, un programma ideale tutt'altro che liberale.
Ho sempre votato Forza Italia e sono stato tra i più accaniti sostenitori della necessità del bipartitismo e del partito unico del centrodestra. Ma speravo che lo "spirito del '94", proprio di una grossa fetta dell'elettorato forzista, fosse il principio trainante del nuovo PDL.
Bè, mi sa che sono stato troppo ottimista. Mi viene una voglia di non votare!
Però penso che sarebbe sbagliato. In fondo, è l'unico modo che si ha per lanciare quantomeno un segnale.
Federico, che ne dici? Potrebbero esserci i margini per un "voto di protesta" di questo genere?
Ho letto che il PDL candida il leader dei tassisti romani che hanno bloccato Roma causa le liberalizzazioni , mi sembra di aver capito che Capezzone rischia moltissimo di non essere eletto. Nello stesso tempo sentivo ieri Veltroni, di fronte ad uno sconvolto pubblico di dipendenti ed insegnanti, parlare senza vergogna di libertà economiche e imprese da aprire in un giorno, come se Visco fosse un marziano venuto chissà da dove...
Mi sa che il 13 vado a farmi un week-end all'estero..
che bello che è il pdl...ha pure trombato capezzone...sto' morendo dalle risate
tu e il capezzone avete preso un granchio, su dai ammettilo
la parabola di capezzone è veramente da morire dal ridere
un capolavoro di lungimiranza politica
[z.]
Capezzone farà il sottosegretario. E' ovvio. E non c'è alcun bisogno di farsi eleggere per fare il sottosegretario.
si farà il sottosegretario alle cazzate...ahahahahah
a fare i sottosegretari nel Pd ci sono già da tempo gli stuoini pannelliani.
e riderà bene chi riderà per ultimo.
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