In queste settimane dal Tibet è giunta una risposta chiara: nessun risultato. Secondo gli esponenti del Congresso giovanile tibetano, la politica della "Via di mezzo" è al capolinea. Da qui in avanti potremmo sempre più avere a che fare con «la storia di due Tibet».
«Il primo è quello dei libri proibiti, delle entrate segrete, dei monasteri distrutti, delle preghiere spezzate. Più di mezzo secolo di terrore di Stato imposto da Pechino ha ridotto la regione ad una tragica caricatura di se stessa, umiliato i suoi abitanti, profanato le sue tradizioni. E' questo il Tibet che due settimane fa ha provato a rialzare la testa e a gridare di rabbia come gli uomini disperati a volte sono costretti a fare: prendendo a calci i simboli dell'oppressione. Poi c'è l'altro Tibet, raccontato dai circoli radical-chic di Hollywood e nutrito dalla cattiva coscienza dell'Occidente democratico: qui l'uomo in carne ed ossa si spegne per fare spazio al puro spirito, alimentato dalle leggende del Buddha e dai miti della nonviolenza. E' a questa immagine da cartolina che la stampa, la politica e lo spettacolo hanno abituato l'opinione pubblica nel corso degli anni, come se il sorriso bonario del Dalai Lama bastasse da solo a stemperare il dolore e l'accettazione del martirio fosse il destino ineluttabile di milioni di uomini senza armi, da ammirare proprio perché soffocano in silenzio, simboli di uno stoicismo perduto che la sofferenza non fa che esaltare. L'illusione che i due Tibet possano convivere è destinata ciclicamente a fare i conti con la realtà».«E se la Via del Dalai Lama fosse sbagliata?» Mi accontenterei che si ammettesse che fino ad ora non ha portato a nulla, come ha tristemente ammesso lo stesso Dalai Lama: «Non sono riuscito a ottenere risultati positivi». E, quindi, che da qui si ripartisse, che tra i tanti "amici" del Tibet in giro per il mondo, soprattutto occidentale, prendesse avvio una seria riflessione politica. Nel nostro piccolo tenteremo di dare un contributo su Ideazione.com.
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