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Thursday, March 13, 2008

La Cina alle prese con l'orgoglio tibetano

Da L'Opinione

Dal suo punto di vista il governo cinese faceva bene a temere le ripercussioni della protesta nonviolenta cui diedero vita per settimane, nel settembre scorso, i monaci buddisti birmani contro la giunta militare di Rangoon. Il vento della libertà si è propagato anche in Tibet. Gli esuli e i monaci tibetani hanno preso coraggio dalle gesta dei loro confratelli birmani e da tre giorni impegnano con manifestazioni nonviolente le forze di polizia di due giganti asiatici, India e Cina.

Si tratta delle manifestazioni più imponenti degli ultimi vent'anni, dal 1989, da quando cioè fu imposta la legge marziale nella capitale del Tibet. Proprio alla vigilia delle Olimpiadi sembra che i tibetani non vogliano lasciarsi sfuggire l'occasione di riportare all'attenzione del mondo la loro condizione di popolo oppresso. E la repressione cinese, per ora più cauta del solito, sta già provocando la condanna dei gruppi per i diritti umani.

Esercito e polizia cinesi hanno circondato due dei maggiori monasteri buddisti, da cui lunedì scorso è partita la protesta: i complessi di Drepung e Sera, a pochi passi dalla capitale, Lhasa. I monaci sono stati confinati all'interno e viene vietato loro ogni contatto con l'esterno. Anche il cibo è razionato, ma alcuni monaci starebbero conducendo uno sciopero della fame per ottenere il rilascio dei religiosi arrestati nei giorni scorsi. Le autorità cinesi hanno prima smentito, poi ammesso di aver effettuato degli arresti. Oltre 70, secondo alcune fonti locali citate da Radio Free Asia. Secondo i siti dei dissidenti, da lunedì pomeriggio tutti i più grandi centri religiosi sono stati circondati dalla polizia, nel timore che i focolai della protesta potessero estendersi.

Il 10 marzo, in occasione del 49esimo anniversario di una rivolta repressa nel sangue dall'esercito cinese – e a seguito della quale il Dalai Lama fu costretto a rifugiarsi in India – circa 500 monaci del monastero di Drepung avevano sfidato le autorità marciando, nella capitale del Tibet, verso il leggendario Palazzo Potala, ex dimora del Dio-Re. Una manifestazione che il governo cinese ha definito «un'illegale minaccia alla stabilità sociale».

Mercoledì scorso, è stata la volta di 600 monaci del monastero di Sera, che hanno preso parte alle proteste a Lhasa chiedendo la liberazione dei loro confratelli imprigionati nei giorni precedenti per aver fatto sventolare la bandiera del Tibet e per aver scandito slogan a favore dell'indipendenza. Gli agenti hanno disperso la folla lanciando gas lacrimogeni ed effettuando nuovi arresti. Suonano in modo sinistro le parole del portavoce del Ministero degli esteri cinese, Qin Gang, secondo cui la «cricca del Dalai Lama vuole separare il Tibet dalla Cina e distruggere la serena vita nella stabilità e nell'armonia del popolo tibetano».

Secondo il gruppo Free Tibet Campaign, la protesta si starebbe estendendo. Altre manifestazioni nonviolente si sarebbero svolte nelle province del Qinghai, del Gansu e dell'Amdo, a maggioranza tibetana. In India, invece, tre giorni fa è partita da Dharamsala – la città del nord che ospita la diaspora e il governo tibetano in esilio – una "Marcia di ritorno al Tibet", cui ha preso parte anche una delegazione di Radicali, sotto l'insegna della storica bandiera raffigurante il volto di Gandhi. I manifestanti si sono posti l'obiettivo di raggiungere e oltrepassare la frontiera con la Cina penetrando in Tibet l'8 agosto prossimo, in contemporanea con l'apertura dei Giochi olimpici a Pechino. La polizia indiana ha però fermato la marcia e arrestato circa cento partecipanti, che subito hanno dato inizio ad uno sciopero della fame.

Per il governo cinese si prefigura una situazione assai delicata. A pochi mesi dalle Olimpiadi ha gli occhi del mondo puntati addosso. Non può permettersi repressioni troppo sanguinarie, ma neanche di lasciar gonfiare le file della lotta nonviolenta tibetana.

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