Da qualche ora, dalla mezzanotte in Cina (le 17 di ieri in Italia) è scaduto l'ultimatum lanciato dalle autorità cinesi ai ribelli tibetani per consegnarsi spontaneamente, ma al momento in cui scrivo dal Tibet giunge solo un inquietante silenzio.
A Lhasa, già molte ore prima della scadenza erano partite le retate casa per casa, e centinaia di giovani sono stati fatti sfilare, ammanettati, per le principali strade della città. Intanto, le proteste studentesche sono proseguite anche ieri nelle altre province del "Tibet storico", amputate dopo l'invasione militare del 1950 e incorporate in quelle cinesi di Qinghai, Gansu e Sichuan. A Ngaba sarebbero rimasti uccisi sotto i colpi della polizia tra i 15 e i 18 manifestanti. Persino a Pechino un piccolo gruppo di studenti tibetani ha dato vita a un breve sit-in di protesta.
Il regime cinese ha sigillato il Tibet. Staccate le linee dei telefoni sia fissi che mobili e inaccessibile internet, mentre in tutta la Cina sarebbe bloccato l'accesso a siti come YouTube, Cnn, Bbc e ad altri mezzi di informazione occidentali. Nessuno può più entrare in Tibet, sospesi tutti i permessi di ingresso, turistici e non. Un solo giornalista, dell'Economist, è ancora a Lhasa, l'unico con un permesso legale, rilasciato prima della rivolta, più volte fermato dalla polizia e invitato a partire, come racconta lui stesso, e privato ovviamente del suo materiale fotografico. Tutti gli altri sono stati fatti partire, così come i turisti.
Espulsi anche una quindicina di giornalisti di Hong Kong appartenenti a sei organi di informazione diversi tra televisioni, radio e carta stampata. Una decisione definita "inaccettabile" dall'associazione della stampa di Hong Kong, in aperto contrasto con le nuove norme del governo di Pechino che avrebbero dovuto consentire una più libera circolazione degli operatori dei media in vista dei Giochi olimpici. Anche agli staff di ong internazionali è stato ordinato di lasciare Lhasa entro lo scadere dell'ultimatum.
Nella giornata di ieri Pechino ha rifiutato categoricamente l'invio di osservatori internazionali in Tibet, ribadendo che i disordini nella regione autonoma «sono un affare completamente interno». Mentre il Parlamento tibetano in esilio parla addirittura di centinaia di vittime, e da Dharamsala giungono testimonianze di manifestanti «uccisi come cani», il governatore del Tibet e un portavoce del Ministero degli Esteri cinese continuano a ripetere che «non è stato sparato un solo proiettile». Eppure, nonostante il divieto di scattare fotografie e la censura del web, alcune raccapriccianti foto su internet mostrano chiaramente i fori di entrata dei proiettili su alcuni cadaveri.
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