Ciò che probabilmente in tanti, sbigottiti e increduli, si stanno chiedendo in queste ore è che cosa davvero chiede e cerca
Gianfranco Fini a tal punto da essere disposto ad una rottura definitiva da Berlusconi, proprio in un momento in cui le prove elettorali promuovono il governo e lo rafforzano per il proseguio della legislatura. Quali sono le «questioni politiche» che ha posto e alle quali il premier «non ha saputo rispondere»? Non credo che le divergenze su immigrazione, cittadinanza e bioetica siano tali da indurre a una rottura. Si tratta dell'azione di governo, o delle riforme istituzionali? Le cose e le riforme da fare in questi tre anni di legislatura che rimangono - senza appuntamenti elettorali e con tutti i numeri in Parlamento e il consenso nel Paese necessari per farle - sono tali e tante che ciascuno può trovare il suo cavallo di battaglia da cavalcare, dunque le carte, lo spazio e tutto il tempo per giocarsi il suo futuro politico.
Ce n'è per tutti: il federalismo per la Lega, il fisco e la giustizia per il Pdl e in particolare per Berlusconi, il semipresidenzialismo e quant'altro per Fini. Forse non condivide la politica economica, gestita in modo troppo autonomo e personalistico da Tremonti? Allora però dica chiaramente dove pensa che Tremonti stia sbagliando e cosa vorrebbe fare di diverso. Vuole più spesa sociale, come invoca Bersani, in barba al rigore sui conti pubblici? Chiede una politica più meridionalista? Ma in che senso, assistenzialista o federalista? Oppure la contesta da posizioni "liberali"? Ma allora dovrebbe accorgersi che si apre una fase più che propizia, sia pure non scontata, per spingere sulle riforme, da quella fiscale a quella del welfare, e sulle liberalizzazioni, ma non abbiamo sentito nulla in proposito.
La realtà che tutti avvertono è che di questa rottura si stentano a vedere le ragioni di fondo e la strategia complessiva. Il malumore di Fini in realtà è prepolitico, direi psicologico (la sua irriducibile diversità da Berlusconi, l'insicurezza di riuscire a succedergli), e questo lo induce a fare le mosse sbagliate e spesso dichiarazioni schizofreniche (l'ultima sulle riforme: prima il modello francese da adottare in blocco, compreso l'irrinunciabile doppio turno; poi dice che si può inventare un modello tutto italiano, per forza di cose prendendo pezzi di altri modelli a destra e a manca).
Il suo malessere si può forse riassumere in una certa sensazione di essere superfluo e messo in un angolo, trascurato e oscurato oltre che da Berlusconi ora anche dalla Lega. Le questioni che pone sono quindi vaghe e generiche. Ma la colpa è sua, che è confuso, indeciso, non sa porre a Berlusconi due o tre richieste concrete, obiettivi di governo da portare a casa e che possano caratterizzarlo. Queste sì che sarebbero questioni comprensibili e utili a tutti: individui due o tre cavalli di battaglia su cui gettarsi personalmente a capofitto e vedrà che troverà sia in Berlusconi che nella Lega alleati ben disposti a trovare un compromesso alto, un accordo serio.
Ma non può pensare di sottoporre la maggioranza a questo tira e molla per tutta la legislatura solo perché sente di aver bisogno di visibilità. Finirebbe per logorare il governo ma anche se stesso. In questi 24 mesi si è limitato a distinguersi da Berlusconi qualsiasi cosa dicesse, un minuto dopo che aprisse bocca, come se non conoscesse il Cavaliere e i suoi tic praticamente da una vita. Un controcanto che è sembrato strumentale. E i commentatori sono praticamente unanimi nel considerare la sua strategia incomprensibilmente sbagliata, anche un conservatore non certo berlusconiano come
Ernesto Galli Della Loggia.
L'argomento più fondato di Fini e i suoi è la gestione del partito e l'incubo della sudditanza del Pdl nei confronti della Lega, di cui sarebbe «al traino». Su quest'ultimo vale la pena soffermarsi. L'allarme per l'influenza della Lega sul governo e sul Pdl è eccessivo. La realtà è che la Lega, al contrario della sinistra estrema e di Antonio Di Pietro per l'Ulivo prima e il Pd poi, è un alleato stabile, leale, fermo sui suoi obiettivi ma flessibile e pronto al compromesso su tutto il resto. Per portare a casa i suoi obiettivi è disposta ad accettare quelli degli alleati (per ultima l'apertura sul semipresidenzialismo) e persino a trattare con il Pd più di quanto sia disposto a concedere il Pdl stesso. Alle elezioni regionali è stata brava a portare alle urne tutti i suoi elettori, unica tra tutti i partiti, ma non ne ha strappati al Pdl (semmai ne toglie alla sinistra, e questo dovrebbe sollevare interrogativi di tutt'altro genere), che ha sofferto piuttosto di un certo astensionismo e di una dispersione, in parte fisiologici, e comunque più che corregibili semplicemente ben governando in questa seconda parte di legislatura.
Non voglio credere che a far sbottare Fini sia stata l'ipotesi di un premier leghista in un assetto semipresidenziale che vedrebbe Berlusconi presidente, una provocazione, e in ogni caso un tema da affrontare più in là. Purtroppo, resta il fatto che enfatizzando il "pericolo verde" Fini aderisce alla vulgata, diffusa dai mainstream media e propagandata dalla sinistra politica e intellettuale, di una Lega rozza e pericolosa, e secondo cui gli stessi elettori del Pdl e moderati sarebbero spaventati dal vedere il governo assecondarla, quando semmai è esattamente il contrario, il più delle volte la Lega riesce a interpretare meglio, in modo più schietto, esigenze e interessi anche di molti di loro.
La critica alla Lega, e il tentativo di giocare da contrappeso da parte di Fini, muovono da pregiudizi tipici della sinistra e dei benpensanti sui leghisti, e non da posizioni liberali, dalle quali molto si potrebbe rimproverare alla Lega. Aderendo a questa vulgata, Fini rivela una mentalità romano-centrica e di Palazzo, altro che "nazionale", e fa il gioco della sinistra, dimostrando di essere vittima di un complesso nei suoi confronti: desidera essere accettato dai benpensanti e dai salotti, stimato a sinistra per la sua indipendenza da Berlusconi e dalla Lega, ma in realtà lo è perché (e finché) con le sue azioni la rimette insperabilmente in gioco.
Fini spera che Berlusconi accetti di interpellarlo prima di compiere il minimo passo. Ma scorda che lui è presidente della Camera, e per discutere la linea di governo (e del partito) c'è il Consiglio dei ministri, ci sono i coordinatori del Pdl e gli organi del partito. Potrebbe persino chiamarlo lui quando ne ravveda la necessità, ma non può pretendere che Berlusconi ceda a un continuo stop-and-go su tutto, persino sulle dichiarazioni quotidiane, nessuna diarchia è possibile. Veniamo al punto: Fini ha un'idea di partito tipica della Prima Repubblica. Un partito (come la Dc) in cui alle correnti che non esprimono il presidente del Consiglio è tuttavia consentito per "contentino" di ingabbiarlo, costringerlo ad un gioco estenuante di mediazioni sull'azione di governo, il più delle volte semplicemente "di potere", finendo per logorarlo. Berlusconi è l'ultimo dei leader da cui pretendere una cosa del genere (ci aveva già provato Casini), anacronistica anche per il sistema politico verso cui tutti - compreso Fini - dicono di voler andare.
Se Fini vuole davvero costituire un gruppo autonomo, non prendiamoci in giro, vuol dire che almeno in linea teorica prende in considerazione l'ipotesi di non votare insieme al resto della maggioranza e, in ultima analisi, contempla anche di poter togliere la fiducia al governo. Insomma, di provocare un "ribaltone". Su questo Fini non può davvero pensare di nascondersi. In tutto questo poi c'è un'altra anomalia di questa incerta e confusa Seconda Repubblica: è paradossale infatti che tra gli elementi più destabilizzanti degli ultimi governi vi siano stati i presidenti della Camera dei deputati (Casini, Bertinotti e ora Fini), esondando ampiamente dal loro ruolo istituzionale.
Il guaio di questa situazione, a prescindere dalla consistenza numerica della "scissione" finiana, è che si rischia di gettare alle ortiche il 'momentum' più propizio del centrodestra per provare a cambiare davvero questo Paese. E il ricorso alle urne è un autentico salto nel buio. Il voto anticipato brucerebbe senz'altro Fini, ma potrebbe riservare brutte sorprese anche a Berlusconi. Prima di tutto, perché il premier può solo tentare di provocare lo scioglimento delle Camere, ma non spettando a lui questo potere, può solo dare il via ad una crisi di governo, un minuto dopo la quale entrerebbero in gioco dinamiche (forze e interessi) incontrollabili, i cui esiti vanno dal semplice "ribaltone" a un voto che a ben vedere sarebbe imprevedibile. Non premierebbe certo Fini, ma il malcontento degli elettori di centrodestra potrebbe sfogarsi, se irrazionalmente poco importa, proprio sul Pdl e su Berlusconi.
UPDATE ore 11:41
Scoperto il bluff di Fini, che fa subito un passo indietro, fingendo di vedere, «sul piano del metodo, una prima risposta positiva ai problemi politici» che ha posto ieri nella convocazione della direzione del partito per giovedì, che però era stata già programmata (!). «Mi auguro - dichiara Fini - che a partire dalla riunione, cui parteciperò, possa articolarsi una risposta positiva anche nel merito delle questioni sul tappeto, a cominciare dal rapporto tra il Pdl e la Lega». Fini deve invece essersi allarmato - a ragione - dalla convocazione dell'ufficio di presidenza del Pdl per oggi alle 16 per «comunicazioni urgenti» da parte di Berlusconi.