L'avevo più o meno scritto un anno fa: va bene il trattato come risarcimento per le atrocità italiane durante l'occupazione; passi per gli accordi commerciali, che fanno bene all'"azienda Italia", e per la collaborazione sull'immigrazione clandestina; e si celebri anche una giornata "dell'amicizia". Passi per tutto questo, ma basta offrire a Gheddafi - ogni anno, pare di capire che questo sia l'andazzo - un palcoscenico, una tribuna propagandistica, a danno della dignità del nostro Paese. Può darsi che basti appagare l'ego del beduino per ricavarne in cambio succulenti affari, ma ogni volta che Gheddafi mette piede e proferisce parola in Italia, il governo Berlusconi ci rimette un pezzo di immagine. Non per chissà quali considerazioni morali, religiose, o geopolitiche, ma semplicemente perché agli italiani Gheddafi è ancora antipatico e - a ragione - lo ritengono un personaggio inaffidabile, prepotente e impresentabile. Basterebbe non consentirgli show e stravaganze, limitare al minimo le sue visite, e quando sono proprio inevitabili, calibrare meglio il protocollo.
Detto questo, non saprei se è più una pagliacciata quella di Gheddafi, o quella di certe reazioni andate in scena in queste ore. Davvero troppi sono in questi giorni coloro che si scoprono nazionalisti, leghisti o ultrà cattolici senza esserlo mai stati. Lo fanno perché, com'è noto, ogni pretesto è buono per criticare Berlusconi. C'è, tra i molti che storcono il naso, chi non può permetterselo. Proprio dai settori cattolici e della sinistra che si sono sempre rifiutati di adottare l'argomento della reciprocità nei confronti dell'islam e non si sono mai allarmati per il moltiplicarsi di moschee e centri islamici sul nostro territorio - che con autorevolezza ben superiore a quella del leader libico, agli occhi degli stessi credenti musulmani, non fanno altro che propaganda ideologica - adesso rimproverano a Gheddafi di aver osato parlare di islam e fare proselitismo proprio nel cuore della Cristianità, a Roma, senza accorgersi che quella che vanno denunciando è stata una farsa, mentre nel frattempo sotto i loro occhi sta passando in Italia il peggio dell'islam radicale, ed è una cosa seria. Persino la Chiesa, sempre tollerante con la moschea o l'imam radicale di turno, aperta a qualsiasi manifestazione di religiosità islamica, che non perde occasione per bacchettare le intolleranze leghiste, adesso fa trapelare il proprio disagio per qualcosa, tra l'altro, che Gheddafi non ha detto: non ha detto che l'islam colonizzerà l'Europa, ma come riferiscono le hostess "infiltrate" da Mentana alla sua "lezione", «ha detto che visto il grande numero di musulmani che ci sono ormai in Europa e visto che loro si riproducono molto di più di noi cristiani – questi sono dati -, secondo lui nel corso della storia avverrà che i musulmani saranno in maggioranza». Un'analisi condivisa da molti studiosi anche in Occidente.
E forse non tutti ricordano il linciaggio politico-mediatico cui fu sottoposto Calderoli per aver indossato una t-shirt con una delle vignette satiriche danesi su Maometto. Nessuno parlò di dignità del nostro Paese quando Tripoli chiese e ottenne le sue dimissioni dal governo, usando l'episodio come pretesto per giustificare un'inqualificabile aggressione al consolato italiano di Bengasi.
Quelli che oggi fanno tanto i duri con Gheddafi, non lo furono quando ce ne sarebbe stato più bisogno. Troppo facile adesso, quando ormai è diventato in modo conclamato una patetica macchietta di quello che era vent'anni fa. Facile vergognarsi oggi degli accordi e delle strette di mano, ma non della politica estera italiana degli anni '70 e '80, quando da Gheddafi ci beccavamo missili e attentati senza neanche alzare la voce, e quando ci accordavamo con i terroristi palestinesi per far passare i loro esplosivi sul nostro territorio o far fuggire i loro leader dagli americani. Scusate, ma qualche provocazione verbale è niente rispetto a tutto quello che abbiamo ingoiato da Gheddafi (e dagli arabi) senza che nessuno si scandalizzasse tanto come oggi e, anzi, con certa sinistra che flirtava con il suo antiamericanismo e che ancora oggi flirta con la causa palestinese.
Nessuno, d'altronde, mi pare che oggi proponga di far cadere Gheddafi, con le buone o con le cattive, e di riportare la democrazia in Libia. Ci si preoccupa della sorte di qualche migliaia di immigrati, che servono per accusare Berlusconi e Maroni di atrocità, ma ai 6 milioni di libici chi ci pensa? Gli stessi che oggi si indignano per il trattato, gli accordi commmerciali o sui clandestini, si indignerebbero ancor di più se il governo italiano insieme ad altri cercasse di buttare giù Gheddafi. Al contrario di regimi nei confronti dei quali non mi sembra ci sia altrettanto sdegno, Gheddafi due passi li ha compiuti, anche grazie al fatto che l'Italia ha dato il suo contributo in questo processo di normalizzazione dei rapporti con l'Occidente: la Libia è uscita dal novero dei Paesi dotati di armi di distruzione di massa (Gheddafi le aveva, di tipo chimico, a differenza di quelle mai trovate di Saddam) e sostenitori del terrorismo, ammettendo le sue responsabilità, e risarcendo i parenti delle vittime, per l'attentato di Lockerbie, costato la vita a 270 persone. Come ha ricordato Oscar Giannino, oggi su Il Messaggero, «il 14 luglio scorso, giorno della festa nazionale francese, sotto l'Arco di Trionfo a fianco alle truppe francesi sono sfilati a pari dignità contingenti di molte ex colonie francofone alla presenza dei loro capi di Stato, e il più di esse veniva da Paesi controllati da regimi al cui confronto la Libia di Gheddafi è un Paese autoritario sì, ma stabile, ordinato e senza stragi etniche». Persino gli Stati Uniti hanno ristabilito relazioni diplomatiche con Tripoli, e proprio l'Italia avrebbe dovuto rinunciare ai vantaggi della normalizzazione dei rapporti di una sua ex colonia con l'Occidente, di cui tutti si sarebbero comunque avvantaggiati?
Tuesday, August 31, 2010
Monday, August 30, 2010
Uninominale sì, ma senza fare il gioco di ribaltonisti e proporzionalisti
Il dibattito sulla legge elettorale riprende, ma è del tutto ozioso e strumentale, perché non solo in Parlamento non c'è una maggioranza trasversale in grado di sostenere una riforma condivisa, ma come al solito neanche il Pd riesce a esprimere una posizione univoca. Tutto questo parlare della necessità di cambiare la legge elettorale, per quanto questa necessità sia fondata nel merito, serve solo a porre le basi "programmatiche" per un governo ribaltone in caso di crisi. Se ci fosse un minimo di serietà in tutto questo dibattito, infatti, il Pd non dovrebbe discutere di una legge elettorale da approvare senza la maggioranza - presupponendo quindi l'esistenza, o la ricerca, in Parlamento dei numeri per un ribaltone - ma essendo in minoranza dovrebbe proporre alla maggioranza scelta dai cittadini di discutere insieme (non contro di essa), senza pregiudizi né veti, di una riforma complessiva delle istituzioni, di cui a quel punto potrebbe far parte anche una nuova legge elettorale.
Se invece si chiude ogni prospettiva di dialogo sulle riforme, si lanciano sante alleanze per «liberarci» di Berlusconi e del berlusconismo, evidentemente si pensa di poter arrivare a una nuova legge elettorale a prescindere e contro l'attuale maggioranza, tramite un nuovo governo che sia frutto di un ribaltone. O forse il disegno è ancor meno ambizioso: si sa benissimo che non si troverebbe alcun accordo per una nuova legge condivisa tra gli attuali gruppi di minoranza, ma la sola necessità di cambiarla sarebbe il collante tra di essi, il pretesto da presentare al capo dello Stato per non andare subito alle urne in caso di crisi e quindi tirare a campare per qualche mese, forse anche un anno.
Qui non da oggi siamo a favore - e lo saremo sempre - dell'uninominale (associato però ad una forma di premierato o presidenzialismo). Ben venga quindi il nuovo appello bipartisan pubblicato sabato sul Corriere, ma gli uninominalisti dovrebbero prendere atto - e Angelo Panebianco nel suo editoriale di oggi ne sembra consapevole - che al momento parlare di legge elettorale, al di fuori di un discorso serio su una riforma complessiva delle istituzioni, rischia di essere un grimaldello che aprirebbe le porte ad un ritorno all'assetto della Prima Repubblica, con le coalizioni di governo che si formano in Parlamento dopo le elezioni. Non importa con quale sistema, ma dare agli elettori almeno la certezza di sapere in anticipo per quali alternative di governo vanno a votare, mi sembra ormai il minimo. E' comprensibile che D'Alema e Bersani preferiscano invece un sistema in cui Pd, sinistra e centro facciano il pieno di voti sulle rispettive "identità", per poi decidere solo dopo averli presi per quale progetto di governo impiegarli. Se loro auspicano che sia il Pd il perno di tali coalizioni di centrosinistra, Casini invece pensa che il suo "centro" sarebbe arbitro del sistema, potendo allearsi di volta in volta con la destra o con la sinistra, ma per entrambi è essenziale decidere dopo, e quindi un sistema elettorale che lo permetta.
Si può quindi interpretare il nuovo appello uninominalista nello spirito indicato da Panebianco, e cioè con lo scopo di «tenere viva un'idea di democrazia (maggioritaria, bipolare, tendenzialmente bipartitica) che pare tuttora più allettante dei disegni concorrenti» e «per ricordare a tutti che quando, fra qualche mese o qualche anno, verrà messa mano alla legge elettorale, con quella prospettiva si dovrà comunque fare i conti».
Se invece si chiude ogni prospettiva di dialogo sulle riforme, si lanciano sante alleanze per «liberarci» di Berlusconi e del berlusconismo, evidentemente si pensa di poter arrivare a una nuova legge elettorale a prescindere e contro l'attuale maggioranza, tramite un nuovo governo che sia frutto di un ribaltone. O forse il disegno è ancor meno ambizioso: si sa benissimo che non si troverebbe alcun accordo per una nuova legge condivisa tra gli attuali gruppi di minoranza, ma la sola necessità di cambiarla sarebbe il collante tra di essi, il pretesto da presentare al capo dello Stato per non andare subito alle urne in caso di crisi e quindi tirare a campare per qualche mese, forse anche un anno.
Qui non da oggi siamo a favore - e lo saremo sempre - dell'uninominale (associato però ad una forma di premierato o presidenzialismo). Ben venga quindi il nuovo appello bipartisan pubblicato sabato sul Corriere, ma gli uninominalisti dovrebbero prendere atto - e Angelo Panebianco nel suo editoriale di oggi ne sembra consapevole - che al momento parlare di legge elettorale, al di fuori di un discorso serio su una riforma complessiva delle istituzioni, rischia di essere un grimaldello che aprirebbe le porte ad un ritorno all'assetto della Prima Repubblica, con le coalizioni di governo che si formano in Parlamento dopo le elezioni. Non importa con quale sistema, ma dare agli elettori almeno la certezza di sapere in anticipo per quali alternative di governo vanno a votare, mi sembra ormai il minimo. E' comprensibile che D'Alema e Bersani preferiscano invece un sistema in cui Pd, sinistra e centro facciano il pieno di voti sulle rispettive "identità", per poi decidere solo dopo averli presi per quale progetto di governo impiegarli. Se loro auspicano che sia il Pd il perno di tali coalizioni di centrosinistra, Casini invece pensa che il suo "centro" sarebbe arbitro del sistema, potendo allearsi di volta in volta con la destra o con la sinistra, ma per entrambi è essenziale decidere dopo, e quindi un sistema elettorale che lo permetta.
Si può quindi interpretare il nuovo appello uninominalista nello spirito indicato da Panebianco, e cioè con lo scopo di «tenere viva un'idea di democrazia (maggioritaria, bipolare, tendenzialmente bipartitica) che pare tuttora più allettante dei disegni concorrenti» e «per ricordare a tutti che quando, fra qualche mese o qualche anno, verrà messa mano alla legge elettorale, con quella prospettiva si dovrà comunque fare i conti».
Casini e D'Alema, solito pelo e soliti vizi
Illuminanti interviste di Casini, ieri al Corriere della Sera, e D'Alema, oggi a la Repubblica. Due che davvero non hanno alcun pudore a svelare i loro disegni politici, in cui la volontà degli elettori gioca spesso una parte piuttosto misera. Ha fatto bene Berlusconi a frenare sulle elezioni anticipate, perché «sarebbe stato la vittima designata», ma soprattutto perché Casini sa che «se si votasse domani mattina, questo partito avrebbe la necessità di candidarsi autonomamente; e allora tanti entusiasmi si appannerebbero». Già, l'avevamo percepito. Riguardo l'ipotesi di un ingresso dell'Udc nella maggioranza, Pier lamenta che «in questo governo l'unico che conta è Tremonti» e che il ministero dell'Economia «ha inglobato cinque o sei ministeri della Prima Repubblica, da ultimo le Attività produttive, ormai ridotte a un simulacro». Insomma, ci fossero 5-6 ministeri invece che uno, ci sarebbero più poltrone da spartire e pazienza se bisognerebbe dire addio a un minimo di coerenza nella politica economica.
In Casini non muore mai la speranza-illusione di veder sorgere una nuova Dc da lui guidata e sempre al governo, con la destra o con la sinistra («perché Fioroni e Pisanu devono stare in due partiti diversi?»). Pur aspettandoli entrambi nel "Partito della nazione", non rinuncia a una stoccata a Montezemolo («spero poi che dalla società civile qualcosa si muova. Ma non entro nel gossip dei nomi. Anche perché molti esponenti della società civile vorrebbero entrare in campo a partita finita, quando si gusta la vittoria») e a Fini («oggi vengono a galla le contraddizioni iniziali di un progetto politico in cui molti si sono fatti imbarcare senza crederci fino in fondo. Però sapevamo tutti com'è Berlusconi...»).
Ma D'Alema non finisce mai di sorprendere per la sua faccia tosta. Non solo vuole un ribaltone, per tornare a votare con una nuova legge elettorale concepita ad arte per non far vincere Berlusconi. C'è di più. La nuova legge, figlia di un ribaltone, dovrebbe però prevedere una norma anti-ribaltone, in modo che una volta al potere i "buoni" non cadano vittima a loro volta di un ribaltone. L'ex ministro degli Esteri non ha dubbi: ci vuole il sistema tedesco (che poi non si riduce certo a un proporzionale con sbarramento, ma questo nessuno lo fa mai notare), che «rompe la rigidità dello schema blocco contro blocco». Alle urne si andrebbe solo «con cinque, massimo sei partiti, con un centro forte che si allea con la sinistra, con la sfiducia costruttiva, con una buona stabilità dei governi, che volendo potremmo persino rafforzare con l'introduzione di una clausola anti-ribaltone». Insomma, senza il disturbo di premi di maggioranza o collegi uninominali, dopo il voto il Pd troverebbe sempre la "quadra" con sinistra e centro per andare al governo.
La bizzarra teoria di D'Alema è che nel Paese ci sarebbe «sicuramente una maggioranza larga» contro Berlusconi, ma è questa legge elettorale che impedirebbe di tradurre questa maggioranza elettorale «in proposta di governo e in una leadership forte». E' vero semmai il contrario, non c'è mai stata una «larga» maggioranza di italiani contro Berlusconi, ma alcune volte una assai striminzita (e ingovernabile), nel 1996 (quando SB perse solo perché la Lega non era alleata con il Polo) e nel 2006 (quando l'Unione raccolse solo 20mila voti in più alla Camera e ben 240mila in meno al Senato). Ma la paura suprema di D'Alema è che Berlusconi «col 38% dei consensi può farsi eleggere al Quirinale, e chiudere i giochi per sempre» (la sinistra perderebbe il controllo del Colle e della Consulta). "Solo" il 38%? Vorrebbe forse diventare D'Alema presidente con il 26% dei voti? E con quanti voti nel Paese sono diventati presidenti Napolitano e Ciampi, tanto per citare gli ultimi due?
In Casini non muore mai la speranza-illusione di veder sorgere una nuova Dc da lui guidata e sempre al governo, con la destra o con la sinistra («perché Fioroni e Pisanu devono stare in due partiti diversi?»). Pur aspettandoli entrambi nel "Partito della nazione", non rinuncia a una stoccata a Montezemolo («spero poi che dalla società civile qualcosa si muova. Ma non entro nel gossip dei nomi. Anche perché molti esponenti della società civile vorrebbero entrare in campo a partita finita, quando si gusta la vittoria») e a Fini («oggi vengono a galla le contraddizioni iniziali di un progetto politico in cui molti si sono fatti imbarcare senza crederci fino in fondo. Però sapevamo tutti com'è Berlusconi...»).
Ma D'Alema non finisce mai di sorprendere per la sua faccia tosta. Non solo vuole un ribaltone, per tornare a votare con una nuova legge elettorale concepita ad arte per non far vincere Berlusconi. C'è di più. La nuova legge, figlia di un ribaltone, dovrebbe però prevedere una norma anti-ribaltone, in modo che una volta al potere i "buoni" non cadano vittima a loro volta di un ribaltone. L'ex ministro degli Esteri non ha dubbi: ci vuole il sistema tedesco (che poi non si riduce certo a un proporzionale con sbarramento, ma questo nessuno lo fa mai notare), che «rompe la rigidità dello schema blocco contro blocco». Alle urne si andrebbe solo «con cinque, massimo sei partiti, con un centro forte che si allea con la sinistra, con la sfiducia costruttiva, con una buona stabilità dei governi, che volendo potremmo persino rafforzare con l'introduzione di una clausola anti-ribaltone». Insomma, senza il disturbo di premi di maggioranza o collegi uninominali, dopo il voto il Pd troverebbe sempre la "quadra" con sinistra e centro per andare al governo.
La bizzarra teoria di D'Alema è che nel Paese ci sarebbe «sicuramente una maggioranza larga» contro Berlusconi, ma è questa legge elettorale che impedirebbe di tradurre questa maggioranza elettorale «in proposta di governo e in una leadership forte». E' vero semmai il contrario, non c'è mai stata una «larga» maggioranza di italiani contro Berlusconi, ma alcune volte una assai striminzita (e ingovernabile), nel 1996 (quando SB perse solo perché la Lega non era alleata con il Polo) e nel 2006 (quando l'Unione raccolse solo 20mila voti in più alla Camera e ben 240mila in meno al Senato). Ma la paura suprema di D'Alema è che Berlusconi «col 38% dei consensi può farsi eleggere al Quirinale, e chiudere i giochi per sempre» (la sinistra perderebbe il controllo del Colle e della Consulta). "Solo" il 38%? Vorrebbe forse diventare D'Alema presidente con il 26% dei voti? E con quanti voti nel Paese sono diventati presidenti Napolitano e Ciampi, tanto per citare gli ultimi due?
Friday, August 27, 2010
L'unica arma del Cav. per non farsi logorare
L'ipotesi di elezioni anticipate entro l'anno (a novembre) appare definitivamente tramontata dopo l'incontro Berlusconi-Bossi di mercoledì. Quindi Fini (ma seppure in modo diverso anche Casini) potrà continuare nella sua opera di logoramento di Berlusconi e del Pdl. Ma ricapitoliamo per quanti tornassero solo ora dalle vacanze: dopo lo strappo di luglio e la costituzione di gruppi parlamentari autonomi da parte del presidente della Camera, da tempo preparata e minacciata (aspettavano solo un pretesto, offerto da una inutile nota dell'ufficio di presidenza del Pdl), Fini e i suoi si sono spaventati di fronte alla prospettiva di un ritorno alle urne, tornando a garantire al governo massima lealtà sul programma fino al termine della legislatura. Anche se poi, come ha onestamente avvertito Bocchino, nel merito dei provvedimenti si vedrà nelle commissioni. Tireranno al massimo la corda, cercando di fermarsi un attimo prima che si strappi.
A lungo si è polemizzato su governi tecnici, ribaltoni e prerogative del capo dello Stato, ma al momento (ripeto: al momento) senza Pdl e Lega non ci sono numeri al Senato per maggioranze alternative, quindi Berlusconi e Bossi avrebbero gioco relativamente facile, nell'eventualità di crisi e consultazioni al Quirinale, a ottenere da Napolitano lo scioglimento delle Camere. Ma una crisi nasconde sempre insidie e tornare al voto è sempre un'incognita. Non perché appaiano particolarmente floride le prospettive elettorali di un partito di Fini o di un eventuale "Terzo Polo" (alle prese con sbarramenti proibitivi al Senato), o perché sia scontato che Berlusconi non riconquisterebbe una maggioranza al Senato, ma perché la Lega gratterebbe molti seggi al Pdl al nord e l'impressione è che in generale i cittadini non gradiscano essere richiamati ad esprimersi dopo soli due anni.
Quindi Berlusconi cerca altre strade per puntellare la maggioranza. Ha pensato e pensa all'Udc di Casini. In effetti, sostituire Fini con Casini non ha senso, è una scemenza, ma non per le ragioni dei finiani, piuttosto per i motivi espressi molto efficacemente da Bossi e su cui torniamo brevemente. Innanzitutto, Pier esigerebbe l'apertura di una crisi formale (e non scommetterei sul suo esito), ma soprattutto, pur essendo rivali, l'obiettivo di Fini e Casini è identico: liberarsi di Berlusconi e porsi alla guida di un nuovo centrodestra. La retorica centrista della "responsabilità nazionale" è fuffa, un minuto dopo che gli fosse data la possibilità di essere decisivi per la tenuta della maggioranza, comincerebbero a esercitare il potere di ricatto che gli è stato concesso al fine di logorare Berlusconi e mostrarsi unici oppositori della Lega. Risultato? La palude.
Alla fine Berlusconi e Bossi hanno convenuto per la strategia che sembra avere più senso: proseguire con l'attuale maggioranza, dopo la verifica sui cinque punti programmatici, e vedere cosa succede, cioè se i finiani si assumeranno mai la responsabilità di portare il Paese al voto anticipato. Anche a patto di interpretarla correttamente, anche questa non è una strada priva di insidie. L'unica arma che Berlusconi ha per sfuggire al logoramento (più facile a dirsi che a farsi) - che di certo dopo il voto di fiducia riprenderà nelle commissioni, in aula, sui giornali e sulle tv - è portare in Parlamento riforme il più possibile di alto profilo, non accettare trattative al ribasso come sul ddl intercettazioni, e quindi rendere politicamente costoso per i finiani sia accettare provvedimenti a loro sgraditi, sia far cadere un governo che cerca di "fare", di cambiare davvero il Paese. Se le riforme passano, per convinzione o per paura delle urne da parte dei finiani (o di Casini o di Rutelli che potrebbero tappare alcuni buchi), tanto meglio per il governo (e per il Paese); se non passano, sarà crisi e voto, ma facendone ricadere la responsabilità su chi si sarà dissociato dalla maggioranza che ha ricevuto il consenso per governare.
Ma ci sono insidie non da poco. Primo, perché portare in Parlamento riforme di alto profilo, ambiziose, organiche e qualificanti, per le quali valga la pena anche immolarsi, e sostenerle fino in fondo rimanendo compatti (soprattutto se singoli parlamentari cominceranno a sentirsi determinanti), non sarà facile. In questi primi due anni il governo non c'è riuscito, il suo profilo riformatore è stato deludente, quindi dovrà cambiare passo. Secondo, perché nel frattempo continuerà a diffondersi l'immagine di una maggioranza instabile e litigiosa (di per sé una sconfitta per Berlusconi, anche se gli elettori dovessero individuarne la causa nelle bizze di Fini), l'opinione pubblica potrebbe spazientirsi di entrambi i litiganti, e il disegno del ribaltone coltivato a sinistra potrebbe da un momento all'altro trovare i numeri di cui necessita, magari aiutato da qualche altra campagna mediatico-giudiziaria, dalle sentenze della Consulta (in arrivo a dicembre quella sul legittimo impedimento) e di Milano. Va detto che nonostante ci tenga a difendere le sue prerogative, spesso anche travalicando il ruolo che gli compete, Napolitano difficilmente avallerà governi non sostenuti anche da Pdl e Lega, ma potrebbe essere tentato da un esecutivo tecnico di pochi mesi (tre), giusto il tempo di cambiare la legge elettorale.
Insomma, oltre che sperare in una "bomba" che costringa Fini alle dimissioni ingloriose (improbabile ma non da escludere), Berlusconi può solo dimostrare agli italiani di rappresentare davvero il "governo del fare", concentrare l'azione di governo, e indirizzare il dibattito nel Paese, su riforme storiche. Ma se passa il tempo a farsi logorare, minacciando le urne, i rischi crescono e le condizioni per liberarsi di lui potrebbero materializzarsi. E' ciò in cui sperano - ciascuno a proprio modo e coltivando i propri disegni - Fini e gli altri.
A lungo si è polemizzato su governi tecnici, ribaltoni e prerogative del capo dello Stato, ma al momento (ripeto: al momento) senza Pdl e Lega non ci sono numeri al Senato per maggioranze alternative, quindi Berlusconi e Bossi avrebbero gioco relativamente facile, nell'eventualità di crisi e consultazioni al Quirinale, a ottenere da Napolitano lo scioglimento delle Camere. Ma una crisi nasconde sempre insidie e tornare al voto è sempre un'incognita. Non perché appaiano particolarmente floride le prospettive elettorali di un partito di Fini o di un eventuale "Terzo Polo" (alle prese con sbarramenti proibitivi al Senato), o perché sia scontato che Berlusconi non riconquisterebbe una maggioranza al Senato, ma perché la Lega gratterebbe molti seggi al Pdl al nord e l'impressione è che in generale i cittadini non gradiscano essere richiamati ad esprimersi dopo soli due anni.
Quindi Berlusconi cerca altre strade per puntellare la maggioranza. Ha pensato e pensa all'Udc di Casini. In effetti, sostituire Fini con Casini non ha senso, è una scemenza, ma non per le ragioni dei finiani, piuttosto per i motivi espressi molto efficacemente da Bossi e su cui torniamo brevemente. Innanzitutto, Pier esigerebbe l'apertura di una crisi formale (e non scommetterei sul suo esito), ma soprattutto, pur essendo rivali, l'obiettivo di Fini e Casini è identico: liberarsi di Berlusconi e porsi alla guida di un nuovo centrodestra. La retorica centrista della "responsabilità nazionale" è fuffa, un minuto dopo che gli fosse data la possibilità di essere decisivi per la tenuta della maggioranza, comincerebbero a esercitare il potere di ricatto che gli è stato concesso al fine di logorare Berlusconi e mostrarsi unici oppositori della Lega. Risultato? La palude.
Alla fine Berlusconi e Bossi hanno convenuto per la strategia che sembra avere più senso: proseguire con l'attuale maggioranza, dopo la verifica sui cinque punti programmatici, e vedere cosa succede, cioè se i finiani si assumeranno mai la responsabilità di portare il Paese al voto anticipato. Anche a patto di interpretarla correttamente, anche questa non è una strada priva di insidie. L'unica arma che Berlusconi ha per sfuggire al logoramento (più facile a dirsi che a farsi) - che di certo dopo il voto di fiducia riprenderà nelle commissioni, in aula, sui giornali e sulle tv - è portare in Parlamento riforme il più possibile di alto profilo, non accettare trattative al ribasso come sul ddl intercettazioni, e quindi rendere politicamente costoso per i finiani sia accettare provvedimenti a loro sgraditi, sia far cadere un governo che cerca di "fare", di cambiare davvero il Paese. Se le riforme passano, per convinzione o per paura delle urne da parte dei finiani (o di Casini o di Rutelli che potrebbero tappare alcuni buchi), tanto meglio per il governo (e per il Paese); se non passano, sarà crisi e voto, ma facendone ricadere la responsabilità su chi si sarà dissociato dalla maggioranza che ha ricevuto il consenso per governare.
Ma ci sono insidie non da poco. Primo, perché portare in Parlamento riforme di alto profilo, ambiziose, organiche e qualificanti, per le quali valga la pena anche immolarsi, e sostenerle fino in fondo rimanendo compatti (soprattutto se singoli parlamentari cominceranno a sentirsi determinanti), non sarà facile. In questi primi due anni il governo non c'è riuscito, il suo profilo riformatore è stato deludente, quindi dovrà cambiare passo. Secondo, perché nel frattempo continuerà a diffondersi l'immagine di una maggioranza instabile e litigiosa (di per sé una sconfitta per Berlusconi, anche se gli elettori dovessero individuarne la causa nelle bizze di Fini), l'opinione pubblica potrebbe spazientirsi di entrambi i litiganti, e il disegno del ribaltone coltivato a sinistra potrebbe da un momento all'altro trovare i numeri di cui necessita, magari aiutato da qualche altra campagna mediatico-giudiziaria, dalle sentenze della Consulta (in arrivo a dicembre quella sul legittimo impedimento) e di Milano. Va detto che nonostante ci tenga a difendere le sue prerogative, spesso anche travalicando il ruolo che gli compete, Napolitano difficilmente avallerà governi non sostenuti anche da Pdl e Lega, ma potrebbe essere tentato da un esecutivo tecnico di pochi mesi (tre), giusto il tempo di cambiare la legge elettorale.
Insomma, oltre che sperare in una "bomba" che costringa Fini alle dimissioni ingloriose (improbabile ma non da escludere), Berlusconi può solo dimostrare agli italiani di rappresentare davvero il "governo del fare", concentrare l'azione di governo, e indirizzare il dibattito nel Paese, su riforme storiche. Ma se passa il tempo a farsi logorare, minacciando le urne, i rischi crescono e le condizioni per liberarsi di lui potrebbero materializzarsi. E' ciò in cui sperano - ciascuno a proprio modo e coltivando i propri disegni - Fini e gli altri.
La lunga estate calda che ha sconvolto il Colle
Altro intervento improvvido - sia pure indiretto, tramite Corriere della Sera - del presidente della Repubblica. Al Quirinale quest'estate deve aver fatto molto più caldo che nel resto della città. Napolitano avverte di essere intenzionato, in caso di crisi di governo, a verificare non solo se in Parlamento esista ancora la maggioranza, ma se esistano altre maggioranze - anche diverse da quella uscita dalle urne nel 2008, pare quindi di capire, sempre leggendo il Corriere. Nell'articolo si riferisce inoltre dell'insofferenza del Colle nei confronti del dibattito agostano sui suoi poteri di scioglimento, su costituzione formale e "materiale", attribuendo al capo dello Stato espressioni molto poco "istituzionali", come «improvvisati costituzionalisti», «florilegio di sciocchezze», interpretazioni «fantasmagoriche», all'indirizzo di quanti hanno sostenuto semplicemente la tesi di un ritorno immediato al voto in caso venga meno la maggioranza uscita dalle urne. Una posizione comunque non meno legittima delle altre, anche considerando che spesso è stata espressa da chi verrebbe comunque consultato al Quirinale in caso di crisi. Il presidente, fa sapere il Corriere, rifiuta il ruolo di semplice «notaio» e «passacarte», pronto a sciogliere «quando gli viene detto».
Va bene, ma a prescindere dal merito delle prerogative del capo dello Stato, e a prescindere da cosa sia legittimo e politicamente opportuno fare in caso di di crisi, anticipando le sue intenzioni Napolitano interferisce indebitamente nelle dinamiche politiche, rischia di destabilizzare il governo, perché contribuisce di fatto ad alimentare speculazioni, speranze e disegni politici coltivati nelle ultime settimane dai partiti di opposizione, svestendo i suoi panni di arbitro. Facendo intendere infatti che sarebbe disposto ad avallare certe soluzioni, nel momento in cui si creassero le condizioni, incoraggia di fatto chi lavora a queste soluzioni e al verificarsi di quelle condizioni. Si comporta in modo scorretto nei confronti di una istituzione, il governo in carica, gioca un ruolo politico che senz'altro non gli compete. Se non vuole essere, comprensibilmente dal suo punto di vista, il «passacarte» di chi vorrebbe tornare alle urne in caso di crisi, non deve però trasformarsi neanche nel «passacarte» de facto di chi cerca il "ribaltone". Ma è esattamente il gioco di questi ultimi che sta facendo con le sue uscite, prima a l'Unità e oggi al Corriere.
E a Cicchitto e Calderisi, autori di un intervento sulle pagine del Corriere per sostenere la tesi del voto anticipato per rispettare la sovranità popolare, Napolitano avrebbe inviato un testo «a suo giudizio illuminante», il «Bill Cameron-Clegg», su come anche «nel Paese della democrazia liberale per eccellenza» la sovranità popolare possa essere rispettata introducendo «variazioni in grado di disciplinarla». Si tratta di un accordo politico stipulato nel Regno Unito tra il leader conservatore e quello liberaldemocratico (trasformato in un disegno di legge ma non ancora approvato in via definitiva), per stabilire la durata della legislatura e le modalità per chiuderla in anticipo, ove ciò si rendesse inevitabile.
L'accordo fissa già al primo giovedì di maggio del 2015 la data delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento, garantendo così al Paese un impegno di stabilità. Se prima di quella data però il governo dovesse subire una mozione di sfiducia, ciò non porterebbe all'automatico scioglimento delle Camere. Ci sarebbero ancora 14 giorni di tempo per formare un'altra maggioranza e soltanto se fallisse quest'ultimo tentativo si andrebbe ad elezioni anticipate.
Non so da chi sia consigliato Napolitano, ma mi sembra un esempio davvero poco azzeccato. Va ricordato infatti che a differenza che in Italia nel 2008, dove dalle urne la coalizione formata da Pdl, Lega ed Mpa, con candidato premier Berlusconi, è uscita con una maggioranza assoluta, grazie ai premi, sia alla Camera che al Senato, quest'anno nel Regno Unito nessuno dei tre partiti dei candidati premier ha raggiunto la maggioranza assoluta. Ciò ha reso necessario un governo di coalizione tra il partito di maggioranza relativa, i Tories, e il terzo partito, i Lib-dem, e sarebbe comunque difficilmente immaginabile al suo posto un governo "degli sconfitti", che vedesse cioè entrare a Downing Street i Laburisti al posto dei Tories senza prima ripassare per le urne. E' esattamente questo, invece, ciò che si sta ipotizzando in Italia, un governo "tecnico" o "di transizione" che escluda Pdl e Lega e che, tra l'altro, riformi la legge elettorale. Se Cameron avesse ottenuto, come Berlusconi, la maggioranza assoluta, il problema non si sarebbe neanche posto e il potere di scioglimento sarebbe rimasto al premier.
Ripeto inoltre che la "costituzione materiale" non c'entra nulla. A prescindere dall'evoluzione in senso bipolare e maggioritario del nostro sistema politico, se in caso di crisi Pdl e Lega sono per andare alle urne, si dovrebbe andare alle urne, sono la costituzione scritta e la prassi di oltre 60 anni di vita repubblicana, oltre che il banale rispetto della sovranità popolare, a suggerirlo. Il presidente non se la prenda, ma nella Prima Repubblica - quando le coalizioni di governo nascevano solo dopo e a seguito del voto, e non si presentavano dinanzi agli elettori prima - i suoi predecessori erano «notai» e «passacarte» della volontà dei partiti di maggioranza. In caso di crisi di governo, se la Dc e gli alleati volevano e ed erano in grado, si formava un altro governo, ma in caso contrario si andava ad elezioni anticipate. Nessun presidente ha mai pensato di poter proseguire la legislatura con un'altra maggioranza in Parlamento, composta da comunisti e alcuni democristiani fuoriusciti dal loro partito.
Non è mai accaduto che dopo una crisi i partiti di maggioranza si siano ritrovati marginalizzati all'opposizione e quelli dell'opposizione al governo. L'unica eccezione è forse quella del governo Dini, per la quale infatti è stato coniato il termine "ribaltone". Ma persino in quella occasione si tentò quanto meno di salvare la forma, rispetto alle ipotesi che si sentono circolare in questi giorni: l'iniziale via libera di Berlusconi (dietro garanzia di Scalfaro che si sarebbe presto tornati alle urne), il voto di fiducia della Lega Nord, e il fatto non secondario che il presidente del Consiglio incaricato era una figura di primo piano del governo Berlusconi I (l'allora ministro del Tesoro Dini). Insomma, è semplice: in caso di crisi, nuovi governi sono legittimi, ma non ribaltoni.
Va bene, ma a prescindere dal merito delle prerogative del capo dello Stato, e a prescindere da cosa sia legittimo e politicamente opportuno fare in caso di di crisi, anticipando le sue intenzioni Napolitano interferisce indebitamente nelle dinamiche politiche, rischia di destabilizzare il governo, perché contribuisce di fatto ad alimentare speculazioni, speranze e disegni politici coltivati nelle ultime settimane dai partiti di opposizione, svestendo i suoi panni di arbitro. Facendo intendere infatti che sarebbe disposto ad avallare certe soluzioni, nel momento in cui si creassero le condizioni, incoraggia di fatto chi lavora a queste soluzioni e al verificarsi di quelle condizioni. Si comporta in modo scorretto nei confronti di una istituzione, il governo in carica, gioca un ruolo politico che senz'altro non gli compete. Se non vuole essere, comprensibilmente dal suo punto di vista, il «passacarte» di chi vorrebbe tornare alle urne in caso di crisi, non deve però trasformarsi neanche nel «passacarte» de facto di chi cerca il "ribaltone". Ma è esattamente il gioco di questi ultimi che sta facendo con le sue uscite, prima a l'Unità e oggi al Corriere.
E a Cicchitto e Calderisi, autori di un intervento sulle pagine del Corriere per sostenere la tesi del voto anticipato per rispettare la sovranità popolare, Napolitano avrebbe inviato un testo «a suo giudizio illuminante», il «Bill Cameron-Clegg», su come anche «nel Paese della democrazia liberale per eccellenza» la sovranità popolare possa essere rispettata introducendo «variazioni in grado di disciplinarla». Si tratta di un accordo politico stipulato nel Regno Unito tra il leader conservatore e quello liberaldemocratico (trasformato in un disegno di legge ma non ancora approvato in via definitiva), per stabilire la durata della legislatura e le modalità per chiuderla in anticipo, ove ciò si rendesse inevitabile.
L'accordo fissa già al primo giovedì di maggio del 2015 la data delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento, garantendo così al Paese un impegno di stabilità. Se prima di quella data però il governo dovesse subire una mozione di sfiducia, ciò non porterebbe all'automatico scioglimento delle Camere. Ci sarebbero ancora 14 giorni di tempo per formare un'altra maggioranza e soltanto se fallisse quest'ultimo tentativo si andrebbe ad elezioni anticipate.
Non so da chi sia consigliato Napolitano, ma mi sembra un esempio davvero poco azzeccato. Va ricordato infatti che a differenza che in Italia nel 2008, dove dalle urne la coalizione formata da Pdl, Lega ed Mpa, con candidato premier Berlusconi, è uscita con una maggioranza assoluta, grazie ai premi, sia alla Camera che al Senato, quest'anno nel Regno Unito nessuno dei tre partiti dei candidati premier ha raggiunto la maggioranza assoluta. Ciò ha reso necessario un governo di coalizione tra il partito di maggioranza relativa, i Tories, e il terzo partito, i Lib-dem, e sarebbe comunque difficilmente immaginabile al suo posto un governo "degli sconfitti", che vedesse cioè entrare a Downing Street i Laburisti al posto dei Tories senza prima ripassare per le urne. E' esattamente questo, invece, ciò che si sta ipotizzando in Italia, un governo "tecnico" o "di transizione" che escluda Pdl e Lega e che, tra l'altro, riformi la legge elettorale. Se Cameron avesse ottenuto, come Berlusconi, la maggioranza assoluta, il problema non si sarebbe neanche posto e il potere di scioglimento sarebbe rimasto al premier.
Ripeto inoltre che la "costituzione materiale" non c'entra nulla. A prescindere dall'evoluzione in senso bipolare e maggioritario del nostro sistema politico, se in caso di crisi Pdl e Lega sono per andare alle urne, si dovrebbe andare alle urne, sono la costituzione scritta e la prassi di oltre 60 anni di vita repubblicana, oltre che il banale rispetto della sovranità popolare, a suggerirlo. Il presidente non se la prenda, ma nella Prima Repubblica - quando le coalizioni di governo nascevano solo dopo e a seguito del voto, e non si presentavano dinanzi agli elettori prima - i suoi predecessori erano «notai» e «passacarte» della volontà dei partiti di maggioranza. In caso di crisi di governo, se la Dc e gli alleati volevano e ed erano in grado, si formava un altro governo, ma in caso contrario si andava ad elezioni anticipate. Nessun presidente ha mai pensato di poter proseguire la legislatura con un'altra maggioranza in Parlamento, composta da comunisti e alcuni democristiani fuoriusciti dal loro partito.
Non è mai accaduto che dopo una crisi i partiti di maggioranza si siano ritrovati marginalizzati all'opposizione e quelli dell'opposizione al governo. L'unica eccezione è forse quella del governo Dini, per la quale infatti è stato coniato il termine "ribaltone". Ma persino in quella occasione si tentò quanto meno di salvare la forma, rispetto alle ipotesi che si sentono circolare in questi giorni: l'iniziale via libera di Berlusconi (dietro garanzia di Scalfaro che si sarebbe presto tornati alle urne), il voto di fiducia della Lega Nord, e il fatto non secondario che il presidente del Consiglio incaricato era una figura di primo piano del governo Berlusconi I (l'allora ministro del Tesoro Dini). Insomma, è semplice: in caso di crisi, nuovi governi sono legittimi, ma non ribaltoni.
Primo preoccupante lapsus di Vietti
Ecco chi Berlusconi, con i voti determinanti della sua maggioranza, ha mandato al Csm, come vicepresidente. Michele Vietti (Udc) parla per la prima volta nella sua nuova veste istituzionale e sbanda già pericolosamente, dimostrando o di non conoscere la Costituzione, o di essere stato colto da un lapsus preoccupante. In un'intervista a la Repubblica, riguardo i rapporti tesi tra politica e giustizia si dice «convinto sostenitore della separazione dei poteri, il che vuol dire che ciascuno deve poter esercitare il suo», e parla esplicitamente di «potere giudiziario». Ebbene, la magistratura non ha alcun «potere» da esercitare. Non è un «potere», ma un «ordine», come recita l'art. 104 della Costituzione e come emerge anche da tutta la sezione I del titolo IV. Insomma, Vietti parte con il piede sbagliato, se pensa di parlare a nome di un «potere» dello Stato, e la maggioranza si rivela ancora una volta intimidita, "complessata", non essendo riuscita a esprimere una figura propria per il Csm.
Thursday, August 26, 2010
Un Prodino riscaldato
Alzi la mano chi ha capito un'acca della lettera di Bersani a la Repubblica, scritta in politichese stretto per meri addetti ai lavori. Ecco uno dei passaggi più astrusi:
«... Sto parlando di una alleanza che può assumere, nell'emergenza, la forma di un patto politico ed elettorale vero e proprio, o che invece può assumere forme più articolate di convergenza che garantiscano comunque un impegno comune sugli essenziali fondamenti costituzionali e sulle regole del gioco. Una proposta che potrebbe coinvolgere anche forze contrarie al berlusconismo che in un contesto politico normale (come già avviene in Europa) avrebbero un'altra collocazione; una proposta che dovrebbe rivolgersi ad energie esterne ai partiti interessate ad una svolta democratica, civica e morale. Come si vede, questa idea nasce dalla convinzione che la fuoriuscita dal berlusconismo non sia un processo lineare, cioè legato ad una semplice alternanza di governo in un sistema che funziona. Si dovrà uscire, lo ribadisco, da una fase politica e culturale e non solo da un governo, verso una repubblica in cui alternanza e bipolarismo assumano la forma di una vera fisiologia democratica... Un simile percorso dovrebbe lasciarci definitivamente alle spalle l'esperienza dell'Unione e prendere semmai la forma e la coerenza di un nuovo Ulivo. Un nuovo Ulivo in cui i partiti del centro sinistra possano esprimere un progetto univoco di alternativa per l'Italia e per l'Europa e mettersi al servizio di un più vasto movimento di riscossa economica e civile del Paese. Dunque, un nuovo Ulivo ed una Alleanza per la democrazia...»Sembra di capire - dico sembra - che l'alternativa a Berlusconi passi per un «nuovo Ulivo» che includa i partiti di «centro sinistra» (sì, non con il trattino ma con lo spazio, e quali esattamente?) e per un'«Alleanza per la democrazia» che racchiuda il «nuovo Ulivo» e «le forze contrarie al berlusconismo» ma non di sinistra (i finiani e Grillo?). Scusate, ma in tutto questo il Pd? Se non riesce a gestire se stesso, come pensa di gestire un cartello così eterogeneo? Come si fa poi a prendersela se qualcuno semplifica e la chiama «ammucchiata», o un «Prodino riscaldato»?! C'è da dire che Veltroni sarà mieloso, un Moccia della politica, ma almeno è più comprensibile.
L'amarezza di Marchionne per un'Italia che non vuole cambiare
C'è un misto di amarezza e rassegnazione nelle parole pronunciate da Marchionne al Meeting Cl di Rimini, consapevole che l'Italia è un Paese che ha «paura di cambiare», o meglio, che ha quell'atteggiamento provinciale di chi «non ha voglia» neanche di essere infastidito dal mondo che lo circonda, e «molto spesso - ha avvertito l'ad di Fiat mostrando tutto il suo rammarico - sono queste le ragioni del declino economico e sociale di un Paese». La retorica del cambiamento è trionfante, riempie la bocca di tutti, ma «l'elogio del cambiamento si ferma sulla soglia di casa, va bene finché non ci riguarda». Se nemmeno il presidente della Repubblica, che dovrebbe rappresentare il maggior livello di consapevolezza che sa esprimere un Paese, si mostra in grado di comprendere i fenomeni economici e sociali che ha sotto gli occhi, allora c'è davvero poca speranza che a prevalere non sia una cultura anti-impresa e anti-lavoro.
Comprensibilmente quindi Marchionne ha sentito il dovere di difendere, insieme alla «serietà» del progetto Fiat, anche «le ragioni» degli unici che hanno raccolto questa sfida, Bonanni e Angeletti, i segretari di Cisl e Uil, «che ci stanno accompagnando in questo processo di rifondazione dell'industria dell'auto italiana». Il resto della politica è capace al massimo di dividersi in tifoserie contrapposte, ma rimane alla finestra. Il governo non prende posizione (dov'è Sacconi?), non realizza, né annuncia le riforme di cui il sistema avrebbe bisogno (il caso di Melfi e la sentenza dei giudici del lavoro fornivano l'ennesima occasione per giustificare un intervento sullo Statuto dei lavoratori). Il solo Tremonti, ieri, ammoniva, con evidente riferimento all'accordo di Pomigliano e alla vicenda della Fiat di Melfi, che «se vuoi i diritti perfetti nella fabbrica ideale, rischi di conservare i diritti perfetti, ma di perdere la fabbrica ideale che va a produrre da un altra parte». Mentre il Pd getta le sue poche maschere "riformiste" e si rivela per quello che è, una delle sinistre più retrive che abbiamo in Europa.
Marchionne è stato giustamente molto severo: ci si deve rendere conto che non è conveniente per nessuno investire in Italia (è «l'unica area del mondo in cui il gruppo Fiat è in perdita»), perché da noi vige un sistema anacronistico e insostenibile che impedisce alle imprese di essere competitive, in un mondo che cambia con estrema rapidità e che richiede tempi di risposta altrettanto veloci per tentare di tenere il passo. Se Fiat lo fa, rinunciando a «vantaggi sicuri in altri Paesi», è solo perché ha le sue «radici» in Italia, ma chiede, implora, agli italiani di «riconoscere la necessità di cambiare e aggiornare il sistema in modo che garantisca alla Fiat di poter competere», perché «la cosa peggiore di un sistema industriale incapace di competere è che sono i lavoratori a pagarne le conseguenze». E chiede il minimo sindacale per un'impresa, cioè che si rispetti il basilare diritto di proprietà, cioè almeno la «garanzia di poter gestire i nostri stabilimenti in modo affidabile, continuo e normale».
E' ciò che non è garantito a Melfi, e probabilmente neanche in altre parti del Paese, se durante uno sciopero a cui aderiscono poche decine di operai su 1750 si tollera che tre di essi blocchino le macchine impedendo agli altri di lavorare e alla fabbrica di produrre. «La maggior parte delle persone che lavorano in Fiat - ricorda Marchionne - ha compreso e apprezzato» l'impegno dell'azienda, l'accordo di Pomigliano è stato approvato dalla maggioranza dei sindacati e dei lavoratori, eppure in pochi riescono a sovvertire la volontà dei più: «Non è onesto usare i diritti di pochi per piegare i diritti di molti... E' inammissibile difendere e tollerare illeciti arrivati fino al sabotaggio. Non è giusto nei confronti dell'azienda e non è giusto nei confronti di altri lavoratori... Dignità e diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone. Sono valori che vanno difesi e riconosciuti a tutti». Eppure la magistratura che fa? Riconoscendo i diritti di quei tre, di fatto li nega a tutti gli altri. Altro che «fondata sul lavoro», l'Italia è una Repubblica fondata sulla sopraffazione e il sabotaggio.
Comprensibilmente quindi Marchionne ha sentito il dovere di difendere, insieme alla «serietà» del progetto Fiat, anche «le ragioni» degli unici che hanno raccolto questa sfida, Bonanni e Angeletti, i segretari di Cisl e Uil, «che ci stanno accompagnando in questo processo di rifondazione dell'industria dell'auto italiana». Il resto della politica è capace al massimo di dividersi in tifoserie contrapposte, ma rimane alla finestra. Il governo non prende posizione (dov'è Sacconi?), non realizza, né annuncia le riforme di cui il sistema avrebbe bisogno (il caso di Melfi e la sentenza dei giudici del lavoro fornivano l'ennesima occasione per giustificare un intervento sullo Statuto dei lavoratori). Il solo Tremonti, ieri, ammoniva, con evidente riferimento all'accordo di Pomigliano e alla vicenda della Fiat di Melfi, che «se vuoi i diritti perfetti nella fabbrica ideale, rischi di conservare i diritti perfetti, ma di perdere la fabbrica ideale che va a produrre da un altra parte». Mentre il Pd getta le sue poche maschere "riformiste" e si rivela per quello che è, una delle sinistre più retrive che abbiamo in Europa.
Marchionne è stato giustamente molto severo: ci si deve rendere conto che non è conveniente per nessuno investire in Italia (è «l'unica area del mondo in cui il gruppo Fiat è in perdita»), perché da noi vige un sistema anacronistico e insostenibile che impedisce alle imprese di essere competitive, in un mondo che cambia con estrema rapidità e che richiede tempi di risposta altrettanto veloci per tentare di tenere il passo. Se Fiat lo fa, rinunciando a «vantaggi sicuri in altri Paesi», è solo perché ha le sue «radici» in Italia, ma chiede, implora, agli italiani di «riconoscere la necessità di cambiare e aggiornare il sistema in modo che garantisca alla Fiat di poter competere», perché «la cosa peggiore di un sistema industriale incapace di competere è che sono i lavoratori a pagarne le conseguenze». E chiede il minimo sindacale per un'impresa, cioè che si rispetti il basilare diritto di proprietà, cioè almeno la «garanzia di poter gestire i nostri stabilimenti in modo affidabile, continuo e normale».
E' ciò che non è garantito a Melfi, e probabilmente neanche in altre parti del Paese, se durante uno sciopero a cui aderiscono poche decine di operai su 1750 si tollera che tre di essi blocchino le macchine impedendo agli altri di lavorare e alla fabbrica di produrre. «La maggior parte delle persone che lavorano in Fiat - ricorda Marchionne - ha compreso e apprezzato» l'impegno dell'azienda, l'accordo di Pomigliano è stato approvato dalla maggioranza dei sindacati e dei lavoratori, eppure in pochi riescono a sovvertire la volontà dei più: «Non è onesto usare i diritti di pochi per piegare i diritti di molti... E' inammissibile difendere e tollerare illeciti arrivati fino al sabotaggio. Non è giusto nei confronti dell'azienda e non è giusto nei confronti di altri lavoratori... Dignità e diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone. Sono valori che vanno difesi e riconosciuti a tutti». Eppure la magistratura che fa? Riconoscendo i diritti di quei tre, di fatto li nega a tutti gli altri. Altro che «fondata sul lavoro», l'Italia è una Repubblica fondata sulla sopraffazione e il sabotaggio.
Wednesday, August 25, 2010
Cadono la maschere "riformiste"
Sulla vicenda Fiat-Fiom la politica continua a restare alla finestra. Al massimo sa andare in curva, si divide tra chi tifa per la Fiom e chi per la Fiat, ma quanto a interventi legislativi volti a riformare la contrattazione e lo statuto dei lavoratori per modernizzare i rapporti di lavoro dando ossigeno alla nostra economia, nulla si muove e nessuno si esprime. Il superamento di vecchie logiche e di vecchi contratti è lasciato alle buone intenzioni e agli sforzi, inevitabilmente insufficienti, delle singole parti. Che per lo più stanno agendo in modo responsabile (come Confindustria, Cisl, Uil e Fiat), ma non manca chi, come Cgil e Fiom, prosegue nelle sue battaglie ideologiche sulla pelle dei lavoratori, quelli veri, potendo avvalersi di una sintonia politica con la quasi totalità dei magistrati del lavoro.
Il presidente Napolitano ha perso un'altra buona occasione per tacere. Offrendo un'improvvida sponda agli operai della Fiat di Melfi licenziati e reintegrati (in teoria, dovrebbe essere rispettata la sentenza del giudice, dal momento che la Fiat, consentendo loro l'attività sindacale in azienda, ha rimosso il comportamento giudicato antisindacale), mostra di non aver capito nulla di cosa ci sia in gioco: sulla base dell'accordo di Pomigliano l'azienda e i sindacati stanno trattando per il ritorno in Italia di produzioni delocalizzate. Ma se si tollera che durante uno sciopero a cui aderiscono in poche decine su 1.750, tre operai blocchino la produzione non permettendo agli altri di lavorare, se cioè si tollera che lavoratori e sindacati del tutto minoritari possano sabotare accordi e produzione, allora Fiat potrebbe decidere di andarsene a produrre all'estero. E se persino Fiat non rimane in Italia, perché dovrebbero rimanervi, o arrivarvi, imprese straniere? Il messaggio che questa vicenda sta mandando al mondo intero è: non investite in Italia. E ci rimettiamo tutti, signor presidente, dando l'impressione di un Paese in cui prevale una cultura anti-impresa.
E quando la battaglia si fa dura, quando si arriva al dunque delle questioni, non c'è più spazio per "terzismi" e riformismi da salotti televisivi. E così Ichino e Treu gettano la maschera di "riformisti", criticando Fiat. La Chiesa parla addirittura di «errore etico» e «diritti della persona negati», mentre tutta l'ipocrisia e l'imbarazzo del Pd nell'appello di Bersani all'azienda, e non alla Fiom, la prima a ricorrere alle carte bollate. Il ministro Matteoli è stato il primo del governo a pronunciarsi, e malamente come spesso gli capita, mentre la Gelmini e Capezzone sono stati finora gli unici a schierarsi senza se e senza ma con Marchionne. E a mostrare una certa insofferenza per l'intervento di Napolitano è il segretario della Uil Angeletti, che fa notare - e questo la dovrebbe dire lunga - che non c'è alcuno sciopero in corso a Melfi. Insomma, la Fiom e i tre reintegrati sono del tutto isolati anche tra i lavoratori e i sindacati.
Il presidente Napolitano ha perso un'altra buona occasione per tacere. Offrendo un'improvvida sponda agli operai della Fiat di Melfi licenziati e reintegrati (in teoria, dovrebbe essere rispettata la sentenza del giudice, dal momento che la Fiat, consentendo loro l'attività sindacale in azienda, ha rimosso il comportamento giudicato antisindacale), mostra di non aver capito nulla di cosa ci sia in gioco: sulla base dell'accordo di Pomigliano l'azienda e i sindacati stanno trattando per il ritorno in Italia di produzioni delocalizzate. Ma se si tollera che durante uno sciopero a cui aderiscono in poche decine su 1.750, tre operai blocchino la produzione non permettendo agli altri di lavorare, se cioè si tollera che lavoratori e sindacati del tutto minoritari possano sabotare accordi e produzione, allora Fiat potrebbe decidere di andarsene a produrre all'estero. E se persino Fiat non rimane in Italia, perché dovrebbero rimanervi, o arrivarvi, imprese straniere? Il messaggio che questa vicenda sta mandando al mondo intero è: non investite in Italia. E ci rimettiamo tutti, signor presidente, dando l'impressione di un Paese in cui prevale una cultura anti-impresa.
E quando la battaglia si fa dura, quando si arriva al dunque delle questioni, non c'è più spazio per "terzismi" e riformismi da salotti televisivi. E così Ichino e Treu gettano la maschera di "riformisti", criticando Fiat. La Chiesa parla addirittura di «errore etico» e «diritti della persona negati», mentre tutta l'ipocrisia e l'imbarazzo del Pd nell'appello di Bersani all'azienda, e non alla Fiom, la prima a ricorrere alle carte bollate. Il ministro Matteoli è stato il primo del governo a pronunciarsi, e malamente come spesso gli capita, mentre la Gelmini e Capezzone sono stati finora gli unici a schierarsi senza se e senza ma con Marchionne. E a mostrare una certa insofferenza per l'intervento di Napolitano è il segretario della Uil Angeletti, che fa notare - e questo la dovrebbe dire lunga - che non c'è alcuno sciopero in corso a Melfi. Insomma, la Fiom e i tre reintegrati sono del tutto isolati anche tra i lavoratori e i sindacati.
Cattolici "spaccati" da sempre
A certe tesi, come quella di Famiglia Cristiana su Berlusconi che sarebbe colpevole di aver «spaccato» il mondo cattolico, bisognerebbe rispondere con una sonora risata, anziché attribuirgli il valore di chissà quale analisi politologica. E' evidente infatti che si tratta semplicemente di una stupidaggine, una totale scemenza che rivela l'ignoranza di chi l'ha scritta. Il mondo cattolico è «spaccato» da sempre, altrimenti non si spiega come mai la Dc non avesse il 60 o l'80%. La realtà è che i cattolici sono da sempre divisi politicamente, e non sono pochi quelli che hanno votato e votano comunista. E anche se fosse, non mi pare un'accusa grave quella di aver «spaccato» i cattolici. E' un bene che siano politicamente divisi e la pensino diversamente, non facendosi tra l'altro condizionare più di tanto - comunque molto meno di quanto credano i nostri politici - da ciò che dicono le gerarchie ecclesiastiche.
Com'è altrettanto evidente, l'ha sottolineato oggi monsignor Rino Fisichella a beneficio anche di qualche strumentalizzatore di sinistra, che «un'editoriale di Famiglia Cristiana o anche su un'analisi formulata da una sottocommissione preparatoria della Settimana Sociale» non interpretano il pensiero del mondo cattolico né la Chiesa. E tra l'altro, Fisichella definisce quello di don Sciortino su Berlusconi un giudizio «del tutto tendenzioso», ricordando anch'egli come «in altri momenti storici - ad esempio quando Moro e Fanfani fecero il centrosinistra - ci fu una divisione dei cattolici».
Com'è altrettanto evidente, l'ha sottolineato oggi monsignor Rino Fisichella a beneficio anche di qualche strumentalizzatore di sinistra, che «un'editoriale di Famiglia Cristiana o anche su un'analisi formulata da una sottocommissione preparatoria della Settimana Sociale» non interpretano il pensiero del mondo cattolico né la Chiesa. E tra l'altro, Fisichella definisce quello di don Sciortino su Berlusconi un giudizio «del tutto tendenzioso», ricordando anch'egli come «in altri momenti storici - ad esempio quando Moro e Fanfani fecero il centrosinistra - ci fu una divisione dei cattolici».
Tuesday, August 24, 2010
Le spallate di Marchionne rischiano di non bastare
La politica è assente, persa nei teatrini di Palazzo
Il braccio di ferro tra Fiat e Fiom a Melfi va inquadrato politicamente, non come un puntiglio del "padrone" contro lavoratori bizzosi. Lo fa lucidamente, su Il Messaggero di oggi, Oscar Giannino. L'attacco di Fiom e Cgil è all'«accordo interconfederale sul salario decentrato firmato da Confindustria nel febbraio 2009, inverato poi con l'accordo su Pomigliano, approvato a maggioranza dai lavoratori, e che ora l'azienda intende estendere al più presto in ciascun stabilimento nazionale». Ma c'è un modo ancora più laconico e significativo di porre i veri termini della questione:
Tutto questo è in gioco a Melfi, a Pomigliano, e ovunque i sindacati più retrivi si oppongono al nuovo modello contrattuale. E vista la criticità del momento, non ha senso fare i "terzisti" come Ichino, che scivola sul "caso minore", gettando la maschera di "riformista", che non comprende che è proprio chiudendo un occhio su casi come questo che si mette a rischio l'intero "piano Marchionne". Ma anche il governo sbaglia perché, distratto dalla crisi interna alla maggioranza, si mostra colpevolmente assente. Alla sentenza dei pretori del lavoro, sabotatori della libertà d'impresa e del diritto di proprietà, e quindi dell'economia italiana, dovrebbe subito rispondere con l'abolizione dell'articolo 18 e la riforma dello Statuto dei lavoratori, e magari con l'annuncio di una riforma della contrattazione e dei rapporti industriali calata dall'alto. E invece no, ci sono solo le "spallate" di Marchionne, che questa battaglia contro un sistema decrepito e insostenibile se la deve combattere da solo (rischiando di perderla, per la Fiat e per tutti i produttori - imprese e lavoratori - e quindi per tutti noi). La politica - capace solo di sussidiare l'esistente, ma non di riformare - non accorrerà in suo aiuto (la destra per ignavia, la sinistra per le pastoie ideologiche in cui ancora è invischiata).
«Se la Fiat ha ragione, allora ha ragione fino in fondo. Se ha ragione fino in fondo, bisogna mettere in conto che ora è venuto il momento di dirlo senza infingimenti, perché il momento delle scelte è ora», scrive Giannino rivolgendosi a quelli come Ichino. «Dire per esempio che con ogni probabilità è assolutamente vero che i tre scioperanti il 7 luglio scorso hanno bloccato carrelli automatici che servivano a rifornire sulla linea chi non scioperava, e che ciò costituisce un comportamento illegittimo, dannoso alla libertà altrui e al patrimonio dell'azienda». A chi obietta che poteva chiudere un occhio per non esacerbare i rapporti e non mettere a rischio il suo piano, Marchionne risponde con il semplice buon senso che tutti sono in grado di capire: «Se faccio finta di niente una volta, poi non gestisco più niente».
Il braccio di ferro tra Fiat e Fiom a Melfi va inquadrato politicamente, non come un puntiglio del "padrone" contro lavoratori bizzosi. Lo fa lucidamente, su Il Messaggero di oggi, Oscar Giannino. L'attacco di Fiom e Cgil è all'«accordo interconfederale sul salario decentrato firmato da Confindustria nel febbraio 2009, inverato poi con l'accordo su Pomigliano, approvato a maggioranza dai lavoratori, e che ora l'azienda intende estendere al più presto in ciascun stabilimento nazionale». Ma c'è un modo ancora più laconico e significativo di porre i veri termini della questione:
«O si abbraccia ora e subito la via della nuova produttività e delle nuove relazioni industriali, oppure semplicemente il treno è perduto. I magistrati del lavoro a quel punto potranno anche reintegrare tutti i lavoratori che scambiano il legittimo diritto di sciopero con l'illegittimo procurato danno, ma non sarà questa via a difendere l'auto italiana nella competizione mondiale».Non è un puntiglio, è al contrario una partita «globale», di interesse nazionale, spiega anche il Sole 24 Ore:
«E' possibile per una multinazionale che vuol produrre "anche" nel nostro Paese farlo secondo le regole mondiali che reggono l'"automotive", o deve rassegnarsi a farlo "all"italiana"? Se i casi individuali o di gruppi minuscoli, arroccati nel diritto del lavoro italiano, così unico perfino nel già peculiare panorama europeo, rendono sconveniente investire da noi, per quanti blog fioriscano, per quanti cortei rispolverino slogan antichi e per quante grandi firme incanutite invochino l'ebbrezza di una lontana giovinezza, non creeremo neppure un posto di lavoro in più. Alla fine Barozzino, Lamorte e Pignatelli troveranno una loro garanzia, ma i tanti disoccupati di cui non conosciamo il nome e i tanti precari che non hanno la foto con polo Sata e i tanti operai che sperano di continuare a lavorare, saranno a rischio... il segnale di sconfitta passerà sui Blackberry degli investitori ovunque e l'Italia perderà ulteriore ranking nelle loro scelte. Perché investire nelle fabbriche di un paese dove bastano un blog, una sentenza e tanta falsa coscienza a fermare la produzione? Se il mondo non crederà al nostro mercato, malgrado gli sforzi di tutti nelle aziende italiane... ci svuoteremo inesorabilmente: e chi, allora, tutelerà il diritto al lavoro, che la Costituzione sancisce, ma che solo investimenti veri creano?».«In Italia - fa notare Giannino - nessuno ha chiesto di accettare, per difendere l'occupazione, i 14 dollari l'ora per i giovani che pure il sindacato americano ha accettato. Né tanto meno è stato chiesto di lavorare una settimana in più l'anno a parità di salario, come ottennero Volskwagen e Siemens e molte imprese tedesche alcuni anni fa, la svolta che le fa oggi così forti. A maggior ragione, è pura miopia autolesionista accusare di fascismo aziendale chi si è messo in condizione di contare di più nel mondo lavorando di più, ma anche pagando di più i lavoratori che lo accettano».
Tutto questo è in gioco a Melfi, a Pomigliano, e ovunque i sindacati più retrivi si oppongono al nuovo modello contrattuale. E vista la criticità del momento, non ha senso fare i "terzisti" come Ichino, che scivola sul "caso minore", gettando la maschera di "riformista", che non comprende che è proprio chiudendo un occhio su casi come questo che si mette a rischio l'intero "piano Marchionne". Ma anche il governo sbaglia perché, distratto dalla crisi interna alla maggioranza, si mostra colpevolmente assente. Alla sentenza dei pretori del lavoro, sabotatori della libertà d'impresa e del diritto di proprietà, e quindi dell'economia italiana, dovrebbe subito rispondere con l'abolizione dell'articolo 18 e la riforma dello Statuto dei lavoratori, e magari con l'annuncio di una riforma della contrattazione e dei rapporti industriali calata dall'alto. E invece no, ci sono solo le "spallate" di Marchionne, che questa battaglia contro un sistema decrepito e insostenibile se la deve combattere da solo (rischiando di perderla, per la Fiat e per tutti i produttori - imprese e lavoratori - e quindi per tutti noi). La politica - capace solo di sussidiare l'esistente, ma non di riformare - non accorrerà in suo aiuto (la destra per ignavia, la sinistra per le pastoie ideologiche in cui ancora è invischiata).
«Se la Fiat ha ragione, allora ha ragione fino in fondo. Se ha ragione fino in fondo, bisogna mettere in conto che ora è venuto il momento di dirlo senza infingimenti, perché il momento delle scelte è ora», scrive Giannino rivolgendosi a quelli come Ichino. «Dire per esempio che con ogni probabilità è assolutamente vero che i tre scioperanti il 7 luglio scorso hanno bloccato carrelli automatici che servivano a rifornire sulla linea chi non scioperava, e che ciò costituisce un comportamento illegittimo, dannoso alla libertà altrui e al patrimonio dell'azienda». A chi obietta che poteva chiudere un occhio per non esacerbare i rapporti e non mettere a rischio il suo piano, Marchionne risponde con il semplice buon senso che tutti sono in grado di capire: «Se faccio finta di niente una volta, poi non gestisco più niente».
Monday, August 23, 2010
Alle comiche finiane
Inevitabile e doverosa la richiesta di chiarimento che il governo chiederà al Parlamento a settembre. Nulla di trascendentale e di rivoluzionario, i cinque punti ricalcano il programma votato dagli elettori e riprendono né più né meno la linea che il governo sta già portando avanti, tanto che i finiani hanno subito annunciato che voteranno la fiducia. Ma la novità non sta nel merito dei cinque punti, quanto piuttosto nell'atteggiamento di Berlusconi, che ha finalmente chiarito che non intende farsi «logorare» in trattative «al ribasso» su ogni singolo provvedimento del programma come quelle che hanno portato allo snaturamento del ddl intercettazioni. Un «prendere o lasciare» estraneo alla politica, da «mercato rionale», ha commentato il presidente della Camera Fini.
Se volete invece conoscere le intenzioni dei finiani, seguite Bocchino, che non le nasconde e conferma la linea del logoramento: sì alla fiducia sui cinque punti, ma poi nel merito si vedrà nelle commissioni. Fini e i suoi pensano di logorare Berlusconi come si faceva durante la "Prima Repubblica", quando il presidente del Consiglio in carica era costretto dalle correnti avversarie all'interno della Dc ad un gioco estenuante di mediazioni sull'azione di governo e sulle poltrone. Fino alla caduta, avanti il prossimo e nuovo giro di giostra. Oggi Bocchino se ne è uscito con un altra delle sue, ma davvero molto, molto emblematica.
Vuole salvare Berlusconi dalla «trappola» che starebbero tessendo Bossi e Tremonti, che spingerebbero per andare a elezioni anticipate «il primo per prendersi i voti di Berlusconi e il secondo per prendere il suo posto a Palazzo Chigi». Senza maggioranza al Senato, sarebbe Bossi a «chiedere un passo indietro al Cavaliere, che verrebbe pensionato da quello che ritiene l'alleato più fedele, aprendo così la strada a un governo Tremonti che sarebbe a propulsione leghista e otterrebbe il voto di una maggioranza larghissima» con l'obiettivo di «mandare a casa Berlusconi». Ma Bocchino offre al Cav. la via per salvarsi: allargare la maggioranza ai «partiti di Fini, Casini e Rutelli» e ai «moderati del Pd ormai delusi». Dai numeri, soprattutto a Palazzo Madama, e dalla ben nota contrarietà della Lega al rientro dei centristi, si dedurrebbe che Bocchino stia proponendo di sostituire la Lega con i quattro pezzetti che cita, ma poi precisa di proporre un semplice «allargamento» della maggioranza.
Si tratta di una provocazione indicativa del tipo di rendita di posizione che i finiani si illudono di ricavare con le loro mosse di questi ultimi mesi. Berlusconi costretto a trattare non solo con un alleato su due temi precisi e concreti, ma con minimo altri tre che hanno solo l'obiettivo di logorarlo e che ambiscono a guidare un centrodestra deberlusconizzato e deleghizzato. Insomma, come nella legislatura 2001-2006, solo un po' più vecchi e un po' più frustrati. Ma tra le righe si può anche leggere che il partito Fini lo farà (Bocchino scrive già di «partiti di Fini, Casini e Rutelli») e dedurre che questo delirio sia frutto anche del presidente della Camera, almeno a voler prendere sul serio Bocchino quando parla di «strategia degli uomini del presidente della Camera» che «vanno considerati un tutt'uno con il loro leader».
La verifica di settembre sarà un impegno non da poco per i finiani, che da una parte si trovano a dover esprimere, o a negare, la fiducia per il 95% al programma con il quale si sono presentati agli elettori; dall'altra alla continuità dell'azione di governo rispetto a temi (soprattutto giustizia, immigrazione e sicurezza) su cui in questi mesi hanno espresso apertamente le loro critiche; nonché per il restante 5% al cosiddetto "processo breve", di cui però hanno già approvato la versione uscita dal Senato, e apparirebbe quindi pretestuoso volerla rimettere in discussione alla Camera.
Se poi a settembre daranno vita ad un partito, cadranno anche gli ultimi dubbi sui reali obiettivi di Fini e dei suoi, cioè ricostituire quella rendita di posizione che An e Udc avevano nella Cdl prima dell'avvento del partito unico. E si aggraverebbe ulteriormente l'incompatibilità del ruolo politico che sta giocando Fini nella maggioranza e nei confronti del governo con la carica di presidente della Camera, ruolo che dovrebbe essere di garanzia. Come ha spiegato anche il ministro Brunetta a il Giornale, confessando il «disagio e dolore» che prova dal banco del governo quando Fini presiede le sedute a Montecitorio:
Anche durante la Prima Repubblica, infatti - quando le coalizioni di governo nascevano solo dopo e a seguito del voto, e non si presentavano dinanzi agli elettori prima, e quando nell'arco di una stessa legislatura si susseguivano più governi - la volontà degli elettori è stata sempre rispettata, nel senso che mai dopo una crisi i partiti di maggioranza si sono ritrovati marginalizzati all'opposizione e quelli dell'opposizione al governo. Mai un presidente della Repubblica ha permesso la nascita di un governo sostenuto in Parlamento da una nuova maggioranza che grazie alla fuoriuscita di alcuni deputati e senatori dai loro rispettivi gruppi potesse fare a meno dei partiti che avevano vinto le elezioni. L'unica eccezione è forse quella del governo Dini, per la quale infatti è stato coniato il termine "ribaltone". Ma persino in quella occasione si tentò quanto meno di salvare la forma, rispetto alle ipotesi che si sentono circolare in questi giorni: l'iniziale via libera di Berlusconi (dietro garanzia di Scalfaro che si sarebbe presto tornati alle urne), il voto di fiducia della Lega Nord, e il fatto non secondario che il presidente del Consiglio incaricato era una figura di primo piano del governo Berlusconi I (l'allora ministro del Tesoro Dini).
UPDATE ore 19:44
Se volete invece conoscere le intenzioni dei finiani, seguite Bocchino, che non le nasconde e conferma la linea del logoramento: sì alla fiducia sui cinque punti, ma poi nel merito si vedrà nelle commissioni. Fini e i suoi pensano di logorare Berlusconi come si faceva durante la "Prima Repubblica", quando il presidente del Consiglio in carica era costretto dalle correnti avversarie all'interno della Dc ad un gioco estenuante di mediazioni sull'azione di governo e sulle poltrone. Fino alla caduta, avanti il prossimo e nuovo giro di giostra. Oggi Bocchino se ne è uscito con un altra delle sue, ma davvero molto, molto emblematica.
Vuole salvare Berlusconi dalla «trappola» che starebbero tessendo Bossi e Tremonti, che spingerebbero per andare a elezioni anticipate «il primo per prendersi i voti di Berlusconi e il secondo per prendere il suo posto a Palazzo Chigi». Senza maggioranza al Senato, sarebbe Bossi a «chiedere un passo indietro al Cavaliere, che verrebbe pensionato da quello che ritiene l'alleato più fedele, aprendo così la strada a un governo Tremonti che sarebbe a propulsione leghista e otterrebbe il voto di una maggioranza larghissima» con l'obiettivo di «mandare a casa Berlusconi». Ma Bocchino offre al Cav. la via per salvarsi: allargare la maggioranza ai «partiti di Fini, Casini e Rutelli» e ai «moderati del Pd ormai delusi». Dai numeri, soprattutto a Palazzo Madama, e dalla ben nota contrarietà della Lega al rientro dei centristi, si dedurrebbe che Bocchino stia proponendo di sostituire la Lega con i quattro pezzetti che cita, ma poi precisa di proporre un semplice «allargamento» della maggioranza.
Si tratta di una provocazione indicativa del tipo di rendita di posizione che i finiani si illudono di ricavare con le loro mosse di questi ultimi mesi. Berlusconi costretto a trattare non solo con un alleato su due temi precisi e concreti, ma con minimo altri tre che hanno solo l'obiettivo di logorarlo e che ambiscono a guidare un centrodestra deberlusconizzato e deleghizzato. Insomma, come nella legislatura 2001-2006, solo un po' più vecchi e un po' più frustrati. Ma tra le righe si può anche leggere che il partito Fini lo farà (Bocchino scrive già di «partiti di Fini, Casini e Rutelli») e dedurre che questo delirio sia frutto anche del presidente della Camera, almeno a voler prendere sul serio Bocchino quando parla di «strategia degli uomini del presidente della Camera» che «vanno considerati un tutt'uno con il loro leader».
La verifica di settembre sarà un impegno non da poco per i finiani, che da una parte si trovano a dover esprimere, o a negare, la fiducia per il 95% al programma con il quale si sono presentati agli elettori; dall'altra alla continuità dell'azione di governo rispetto a temi (soprattutto giustizia, immigrazione e sicurezza) su cui in questi mesi hanno espresso apertamente le loro critiche; nonché per il restante 5% al cosiddetto "processo breve", di cui però hanno già approvato la versione uscita dal Senato, e apparirebbe quindi pretestuoso volerla rimettere in discussione alla Camera.
Se poi a settembre daranno vita ad un partito, cadranno anche gli ultimi dubbi sui reali obiettivi di Fini e dei suoi, cioè ricostituire quella rendita di posizione che An e Udc avevano nella Cdl prima dell'avvento del partito unico. E si aggraverebbe ulteriormente l'incompatibilità del ruolo politico che sta giocando Fini nella maggioranza e nei confronti del governo con la carica di presidente della Camera, ruolo che dovrebbe essere di garanzia. Come ha spiegato anche il ministro Brunetta a il Giornale, confessando il «disagio e dolore» che prova dal banco del governo quando Fini presiede le sedute a Montecitorio:
«Il fatto che Fini sia identificato ora come il capo di una nuova area, forse di un partito, non lo rende più garante tra maggioranza e opposizione, ma soprattutto non ne fa più il garante del governo. Da libero pensatore o da segretario politico può far quello che vuole. Ma un presidente della Camera non può essere uomo di parte... Quello che vorrei è che sentisse l'esigenza morale oltre che politica e istituzionale dell'incompatibilità. Non è pensabile che chi siede sul più alto scranno della Camera possa generare il dubbio di utilizzare quel suo ruolo a fini di lotta politica interna o addirittura a fini di logoramento della maggioranza che l'ha eletto. A quel punto, meglio andare al voto senza trucchi e senza inganni, assumendosi ognuno le proprie responsabilità».E se il capo dello Stato avesse davvero avuto a cuore la stabilità del Paese e la tenuta della legislatura, e voluto scongiurare l'ipotesi delle elezioni - che certo non è Berlusconi a volere, sapendo che rappresentano comunque un rischio - avrebbe dovuto chiamare Fini a rispondere del suo uso politico della carica istituzionale che ricopre, fino ad imporgli le dimissioni. Detto questo, credo che sbaglino gli esponenti di centrodestra a insistere sulla cosiddetta "costituzione materiale". A suggerire il ritorno alle urne - in caso di crisi di governo e di indisponibilità di Pdl e Lega a formare nuovi esecutivi - è la costituzione scritta e la prassi di oltre 60 anni di vita repubblicana, a prescindere dall'evoluzione in senso bipolare e maggioritario del nostro sistema politico.
Anche durante la Prima Repubblica, infatti - quando le coalizioni di governo nascevano solo dopo e a seguito del voto, e non si presentavano dinanzi agli elettori prima, e quando nell'arco di una stessa legislatura si susseguivano più governi - la volontà degli elettori è stata sempre rispettata, nel senso che mai dopo una crisi i partiti di maggioranza si sono ritrovati marginalizzati all'opposizione e quelli dell'opposizione al governo. Mai un presidente della Repubblica ha permesso la nascita di un governo sostenuto in Parlamento da una nuova maggioranza che grazie alla fuoriuscita di alcuni deputati e senatori dai loro rispettivi gruppi potesse fare a meno dei partiti che avevano vinto le elezioni. L'unica eccezione è forse quella del governo Dini, per la quale infatti è stato coniato il termine "ribaltone". Ma persino in quella occasione si tentò quanto meno di salvare la forma, rispetto alle ipotesi che si sentono circolare in questi giorni: l'iniziale via libera di Berlusconi (dietro garanzia di Scalfaro che si sarebbe presto tornati alle urne), il voto di fiducia della Lega Nord, e il fatto non secondario che il presidente del Consiglio incaricato era una figura di primo piano del governo Berlusconi I (l'allora ministro del Tesoro Dini).
UPDATE ore 19:44
Un sempre più ridicolo Bocchino costretto a ben due precisazioni nell'arco di poche ore. La prima per correggere il tiro: non di una sostituzione della Lega con i centristi si tratterebbe ma di un «democratico allargamento della maggioranza»; la seconda, da cui fa sparire il riferimento ai «moderati del Pd ormai delusi», resa necessaria dalla netta dissociazione di tre finiani (Moffa, Viespoli e Menia).
Friday, August 20, 2010
L'unico collante dei finiani
Pienamente condivisibile il commento di Filippo Facci, oggi su Libero, sull'approccio del Pdl ai temi etici, dal biotestamento alla procreazione assistita. Personalmente, ritengo che un partito intelligente e moderno su quei temi non possa avere dubbi e debba decidere in base al criterio numero 3) e che, come osserva Facci, «non sono alcuni deputati finiani, o altri del Pdl, ad avere posizioni bislacche e personali: sono tutti gli altri» a pensarla diversamente dalla maggioranza degli elettori anche di centrodestra.
Detto questo, due soli appunti sui "finiani": dubito che siano stati i temi etici a «spingere più di un deputato» a lasciare il Pdl e a imbarcarsi nell'avventura finiana. E credo inoltre sia ragionevole aspettarsi dai finiani su questi temi una certa compattezza, mentre al contrario di quanto scrive Facci «lo stesso ragionamento» non può e non deve valere per il Pdl. Perché? Perché il Pdl è un partito dal 30-40%, mentre è anche su questi temi - tra gli altri - che Fini e i suoi hanno preso le distanze da Berlusconi e dalla maggioranza del partito. Se poi si scopre che neanche tra di loro sono d'accordo, allora viene da dubitare che quei temi fossero la reale ragione del loro malessere. Al più, nella migliore delle ipotesi, delle ragioni di contorno, o dei pretesti nella peggiore. Vale per i temi etici come per tutte le altre questioni sollevate in questi mesi da Fini.
Se fosse vero che alcune precise questioni politiche sono le reali e profonde motivazioni che hanno spinto Fini e i suoi ad allontanarsi dalle posizioni della maggioranza e a distinguersi dall'azione di governo, ne dovrebbe conseguire che tutti o quasi i finiani che alla Camera e al Senato hanno costituito gruppi autonomi la pensino, su quelle questioni, più o meno allo stesso modo. Mentre nel Pdl, un partito nazionale del 35%, è logico e anzi inevitabile, che coesistano posizioni diverse, è evidente invece che da un gruppo che giustifica il suo distinguersi dalla maggioranza e da Berlusconi su bioetica, cittadinanza e immigrazione, giustizia, federalismo, Sud, ci si aspetta su tali questioni una maggiore omogeneità di vedute. E invece sembrano anche loro, come il Pdl, divisi tra libertari e conservatori sui temi etici e la cittadinanza, tra garantisti e manettari, tra liberisti e statalisti, e persino tra federalisti e assistenzialisti.
Proprio tale eterogeneità di posizioni tra i finiani su temi che dovrebbero qualificare la loro distinzione da Berlusconi e dal Pdl sembra rafforzare il sospetto che la vera motivazione della rottura - quella che tutti condividono - sia un'altra. In effetti quelle posizioni (tranne quella "manettara", l'ultima a emergere infatti) avevano e hanno piena cittadinanza nel Pdl. Se l'unico collante tra i finiani fosse la frustrazione di Fini, e la loro, per la leadership di Berlusconi, magari alimentata da insoddisfazioni personali o semplice lealtà al loro "capo", si spiegherebbe come mai l'unico comune denominatore rischia di diventare l'antiberlusconismo e come mai la situazione non sembra più ricomponibile sul piano della politica concreta.
Detto questo, due soli appunti sui "finiani": dubito che siano stati i temi etici a «spingere più di un deputato» a lasciare il Pdl e a imbarcarsi nell'avventura finiana. E credo inoltre sia ragionevole aspettarsi dai finiani su questi temi una certa compattezza, mentre al contrario di quanto scrive Facci «lo stesso ragionamento» non può e non deve valere per il Pdl. Perché? Perché il Pdl è un partito dal 30-40%, mentre è anche su questi temi - tra gli altri - che Fini e i suoi hanno preso le distanze da Berlusconi e dalla maggioranza del partito. Se poi si scopre che neanche tra di loro sono d'accordo, allora viene da dubitare che quei temi fossero la reale ragione del loro malessere. Al più, nella migliore delle ipotesi, delle ragioni di contorno, o dei pretesti nella peggiore. Vale per i temi etici come per tutte le altre questioni sollevate in questi mesi da Fini.
Se fosse vero che alcune precise questioni politiche sono le reali e profonde motivazioni che hanno spinto Fini e i suoi ad allontanarsi dalle posizioni della maggioranza e a distinguersi dall'azione di governo, ne dovrebbe conseguire che tutti o quasi i finiani che alla Camera e al Senato hanno costituito gruppi autonomi la pensino, su quelle questioni, più o meno allo stesso modo. Mentre nel Pdl, un partito nazionale del 35%, è logico e anzi inevitabile, che coesistano posizioni diverse, è evidente invece che da un gruppo che giustifica il suo distinguersi dalla maggioranza e da Berlusconi su bioetica, cittadinanza e immigrazione, giustizia, federalismo, Sud, ci si aspetta su tali questioni una maggiore omogeneità di vedute. E invece sembrano anche loro, come il Pdl, divisi tra libertari e conservatori sui temi etici e la cittadinanza, tra garantisti e manettari, tra liberisti e statalisti, e persino tra federalisti e assistenzialisti.
Proprio tale eterogeneità di posizioni tra i finiani su temi che dovrebbero qualificare la loro distinzione da Berlusconi e dal Pdl sembra rafforzare il sospetto che la vera motivazione della rottura - quella che tutti condividono - sia un'altra. In effetti quelle posizioni (tranne quella "manettara", l'ultima a emergere infatti) avevano e hanno piena cittadinanza nel Pdl. Se l'unico collante tra i finiani fosse la frustrazione di Fini, e la loro, per la leadership di Berlusconi, magari alimentata da insoddisfazioni personali o semplice lealtà al loro "capo", si spiegherebbe come mai l'unico comune denominatore rischia di diventare l'antiberlusconismo e come mai la situazione non sembra più ricomponibile sul piano della politica concreta.
Ma Sarkozy è ancora il modello di Fini?
Ma Sarkozy non era il modello della destra moderna ed europea che ha in mente Fini? Se è ancora così, allora il presidente della Camera condividerà di certo il rimpatrio in massa dei rom (qui ricordiamo piuttosto la sua denuncia sulla dignità umana degli immigrati calpestata in Italia dal governo Berlusconi) e il divieto del burqa (su cui se non sbaglio Fini tempo fa disse che non ce n'era bisogno). A meno che la destra moderna ed europea (da Sarkozy a Cameron), e aggiungerei anche alcune sinistre europee, non siano in realtà molto, ma molto diverse da qualsiasi cosa avesse (e abbia) in mente Fini.
Thursday, August 19, 2010
Non proprio delle aquile/2
Seconda puntata dell'"illuminazione" di Filippo Rossi, che sembra giungere al traguardo del suo - immaginiamo travagliato (o travagliesco?) - percorso interiore di presa di coscienza della vera natura del "berlusconismo". Ormai è chiaro, scrive Rossi, che il berlusconismo «coincide con il dossieraggio e con i ricatti», con gli «editti bulgari», con «la propaganda stupida e intontita», con «slogan, signorsì e canzoncine ebeti da spot pubblicitario». Ma stavolta la dice tutta: per sedici anni ci siamo sbagliati, avevano ragione gli «antiberlusconiani di professione», ammette Rossi, confessando i propri «sensi di colpa», e anche «un pizzico di vergogna», «per non aver capito prima, per non aver saputo e voluto alzare la testa».
Ben risvegliati! Ecco la destra moderna che stanno cucinando quelli di Fare Futuro. Per carità, non è mai troppo tardi per correggersi, o convertirsi, ma in questi sedici anni sono stati decine, centinaia, i giornali, le trasmissioni tv, i partiti, i pm, gli intellettuali, che denunciavano al mondo intero il berlusconismo. Quindi, le cose sono due: o la politica non è il loro mestiere; o questo improvviso ravvedimento cela motivazioni un poco più prosaiche. In ogni caso, l'antiberlusconismo ha pagato poco a sinistra, figuriamoci a destra... Auguri.
UPDATE - In serata arrivano le dissociazioni dall'editoriale di Rossi, da cui in realtà i parlamentari finiani non si dissociano mica tanto. Il deputato e coordinatore di Fli Silvano Moffa si "dissocia totalmente", ma non entra nel merito dei giudizi sul berlusconismo. I capigruppo di Fli alla Camera e al Senato, Italo Bocchino e Pasquale Viespoli, ci tengono a far sapere che non si fanno dettare la linea da Filippo Rossi, se la prendono con chi tenta di alimentare la polemica su quelle che definiscono «libere e personali riflessioni intellettuali», ma nel merito non vanno oltre un «fuori misura». Pare di capire che abbiano ritenuto l'articolo di Rossi sbagliato nei toni ma non nella sostanza. Elusivo il commento di Urso, che di Fare Futuro è il segretario generale e che la mattina stessa aveva fatto delle aperture sulla giustizia: si tratta del «commento di un giornalista, il giudizio su Berlusconi e su di noi lo daranno gli storici, che come sempre si divideranno». Insomma, personalmente credo che il ravvedimento di Rossi non sia minoritario tra i finiani, ed è questo il problema (la frustrazione di Fini e dei suoi nei confronti della leadership di Berlusconi ha finito per sfociare nell'antiberlusconismo), non c'entrano nulla questioni politiche su cui tra l'altro sono più divisi tra di loro di quanto lo sia il Pdl.
Ben risvegliati! Ecco la destra moderna che stanno cucinando quelli di Fare Futuro. Per carità, non è mai troppo tardi per correggersi, o convertirsi, ma in questi sedici anni sono stati decine, centinaia, i giornali, le trasmissioni tv, i partiti, i pm, gli intellettuali, che denunciavano al mondo intero il berlusconismo. Quindi, le cose sono due: o la politica non è il loro mestiere; o questo improvviso ravvedimento cela motivazioni un poco più prosaiche. In ogni caso, l'antiberlusconismo ha pagato poco a sinistra, figuriamoci a destra... Auguri.
UPDATE - In serata arrivano le dissociazioni dall'editoriale di Rossi, da cui in realtà i parlamentari finiani non si dissociano mica tanto. Il deputato e coordinatore di Fli Silvano Moffa si "dissocia totalmente", ma non entra nel merito dei giudizi sul berlusconismo. I capigruppo di Fli alla Camera e al Senato, Italo Bocchino e Pasquale Viespoli, ci tengono a far sapere che non si fanno dettare la linea da Filippo Rossi, se la prendono con chi tenta di alimentare la polemica su quelle che definiscono «libere e personali riflessioni intellettuali», ma nel merito non vanno oltre un «fuori misura». Pare di capire che abbiano ritenuto l'articolo di Rossi sbagliato nei toni ma non nella sostanza. Elusivo il commento di Urso, che di Fare Futuro è il segretario generale e che la mattina stessa aveva fatto delle aperture sulla giustizia: si tratta del «commento di un giornalista, il giudizio su Berlusconi e su di noi lo daranno gli storici, che come sempre si divideranno». Insomma, personalmente credo che il ravvedimento di Rossi non sia minoritario tra i finiani, ed è questo il problema (la frustrazione di Fini e dei suoi nei confronti della leadership di Berlusconi ha finito per sfociare nell'antiberlusconismo), non c'entrano nulla questioni politiche su cui tra l'altro sono più divisi tra di loro di quanto lo sia il Pdl.
Wednesday, August 18, 2010
Cossiga e il lato oscuro del potere
Ciò che affascina, intriga, e allo stesso tempo inquieta, della figura umana e politica di Francesco Cossiga è la sua frequentazione con il lato oscuro del potere. E come ne sia uscito piuttosto malconcio, provato dai turbamenti dell'anima, ma tutto sommato a testa alta. Non solo in momenti delicatissimi per la sopravvivenza della Repubblica si è trovato ai vertici dei cosiddetti "ministeri della forza" - sottosegretario alla difesa con delega a sovrintendere "Gladio", di cui si definì «l'unico referente politico»; ministro dell'Interno nel culmine degli anni di piombo (rapimento Moro), che affrontò con estrema durezza - ma ha sempre creduto nella nobiltà anche di quell'aspetto disincantato della politica che il più delle volte implica la responsabilità del "lavoro sporco".
C'è un angolo buio, infatti, che sfugge, almeno per un primo momento, al controllo democratico dell'informazione e dell'opinione pubblica e che ha a che fare con la sicurezza più elementare di uno Stato, con tutte le misure da mettere in atto - anche segretamente - per assicurarne la sua stessa sopravvivenza. E' una inevitabile zona d'ombra - cui neanche la democrazia può sfuggire, se non vuole esporsi disarmata agli attacchi dei suoi nemici - dove è labile il confine tra la democrazia e il suo contrario, e dove il male e il bene si confondono. E chi opera in quelle zone incerte si ritrova solo con la propria coscienza; è il solo a sapere, o a illudersi di sapere, se sta esercitando i suoi poteri per o contro la democrazia e le sue istituzioni, mentre dall'esterno gli altri - per cultura o per convenienza - sospettano e spesso si convincono dei peggiori teoremi. Cossiga ha veleggiato per questi perigliosi flutti, toccato con mano il potere allo stato puro, con i suoi pesi e la sua tragicità, pagando per intero, innanzitutto nella propria intima coscienza, il prezzo di scelte drammatiche e impopolari.
Una tragicità che non può capire chi coltiva un'idea semplicistica, moralistica, infantile della democrazia, dalla quale è portato a considerare tali zone come luoghi in cui vengono necessariamente orditi complotti e trame inconfessabili. E' molto più rassicurante in effetti credere in un potere che tutto sa e controlla, dispone, per poterlo accusare di ogni nefandezza, piuttosto che fare i conti con una realtà molto più complessa, nella quale magari chi detiene per un certo periodo quel potere brancola nel buio, non riesce a calcolare tutte le variabili ed è esposto ad ogni tempesta, dovendo dare ai suoi cittadini l'impressione del contrario. Più rassicurante, da un certo punto di vista, credere che Cossiga e la Dc non abbiano voluto salvare Moro, piuttosto che rassegnarsi all'idea che non abbiano potuto.
Moro, "Gladio", le stragi e gli anni di piombo. Esperienze che segnarono Cossiga nel profondo e da cui uscì con l'immagine indelebile del cattivo per antonomasia, il Kossiga delle leggi emergenziali, dei misteri d'Italia, dei servizi deviati, amico degli "amerikani" e della perfida Albione. Insomma, il volto "sporco" del regime. C'è ancora chi sotto sotto non ha smesso di considerarlo un "golpista" mancato. Un'immagine ingiusta, alimentata dalla sua ostentata vicinanza agli apparati di sicurezza, ma in modo decisivo da veri e propri miti. Ma Cossiga non ha rinnegato se stesso, non si è dato allo scaricabarile, e suo malgrado ha imparato a convivere con quell'immagine («non rinnego niente. Anzi mi tengo, sia chiaro, la kappa con la quale veniva effigiato il mio nome sui muri di tutt'Italia»). Un peso che si è aggiunto a quello già tremendo delle responsabilità che si è dovuto assumere nello svolgimento delle sue funzioni di sottosegretario prima, ministro poi e infine presidente, dando prova di un senso dello Stato inconcepibile per personaggi modesti come Moro.
Non c'era la pazzia, né la depressione, dietro le sue "picconate" alla Prima Repubblica. Alla consapevolezza dell'esigenza di rinnovamento del sistema politico dopo la caduta del Muro di Berlino si aggiungeva una lucidissima sofferenza interiore e un forte spirito di rivalsa nei confronti di una classe politica di ignavi, che nel momento delle accuse e dei veleni non aveva saputo fare quadrato, lo aveva lasciato solo, e alla fine persino accerchiato, come se certe scomode verità, o silenzi, non fossero frutto di una ragion di Stato condivisa ma attribuibili unicamente a Kossiga, l'"anima nera" della Repubblica. Concluso il suo settennato ha cominciato a giocare con quell'immagine di "cattivo", a togliersi i "sassolini dalle scarpe", come colui che non ha più nulla da perdere in termini di immagine e che non deve più alcun riguardo ai tanti mediocri che hanno abitato insieme a lui il mondo della politica. E' diventato il "picconatore" irriverente che abbiamo apprezzato e di cui questo Paese avrebbe avuto ancora bisogno. Ma da quella sua irriverenza e dalle sue provocazioni non ha mai cessato di trapelare un pizzico di malinconia, la malinconia di chi in fondo sa di rimanere incompreso.
C'è un angolo buio, infatti, che sfugge, almeno per un primo momento, al controllo democratico dell'informazione e dell'opinione pubblica e che ha a che fare con la sicurezza più elementare di uno Stato, con tutte le misure da mettere in atto - anche segretamente - per assicurarne la sua stessa sopravvivenza. E' una inevitabile zona d'ombra - cui neanche la democrazia può sfuggire, se non vuole esporsi disarmata agli attacchi dei suoi nemici - dove è labile il confine tra la democrazia e il suo contrario, e dove il male e il bene si confondono. E chi opera in quelle zone incerte si ritrova solo con la propria coscienza; è il solo a sapere, o a illudersi di sapere, se sta esercitando i suoi poteri per o contro la democrazia e le sue istituzioni, mentre dall'esterno gli altri - per cultura o per convenienza - sospettano e spesso si convincono dei peggiori teoremi. Cossiga ha veleggiato per questi perigliosi flutti, toccato con mano il potere allo stato puro, con i suoi pesi e la sua tragicità, pagando per intero, innanzitutto nella propria intima coscienza, il prezzo di scelte drammatiche e impopolari.
Una tragicità che non può capire chi coltiva un'idea semplicistica, moralistica, infantile della democrazia, dalla quale è portato a considerare tali zone come luoghi in cui vengono necessariamente orditi complotti e trame inconfessabili. E' molto più rassicurante in effetti credere in un potere che tutto sa e controlla, dispone, per poterlo accusare di ogni nefandezza, piuttosto che fare i conti con una realtà molto più complessa, nella quale magari chi detiene per un certo periodo quel potere brancola nel buio, non riesce a calcolare tutte le variabili ed è esposto ad ogni tempesta, dovendo dare ai suoi cittadini l'impressione del contrario. Più rassicurante, da un certo punto di vista, credere che Cossiga e la Dc non abbiano voluto salvare Moro, piuttosto che rassegnarsi all'idea che non abbiano potuto.
Moro, "Gladio", le stragi e gli anni di piombo. Esperienze che segnarono Cossiga nel profondo e da cui uscì con l'immagine indelebile del cattivo per antonomasia, il Kossiga delle leggi emergenziali, dei misteri d'Italia, dei servizi deviati, amico degli "amerikani" e della perfida Albione. Insomma, il volto "sporco" del regime. C'è ancora chi sotto sotto non ha smesso di considerarlo un "golpista" mancato. Un'immagine ingiusta, alimentata dalla sua ostentata vicinanza agli apparati di sicurezza, ma in modo decisivo da veri e propri miti. Ma Cossiga non ha rinnegato se stesso, non si è dato allo scaricabarile, e suo malgrado ha imparato a convivere con quell'immagine («non rinnego niente. Anzi mi tengo, sia chiaro, la kappa con la quale veniva effigiato il mio nome sui muri di tutt'Italia»). Un peso che si è aggiunto a quello già tremendo delle responsabilità che si è dovuto assumere nello svolgimento delle sue funzioni di sottosegretario prima, ministro poi e infine presidente, dando prova di un senso dello Stato inconcepibile per personaggi modesti come Moro.
Non c'era la pazzia, né la depressione, dietro le sue "picconate" alla Prima Repubblica. Alla consapevolezza dell'esigenza di rinnovamento del sistema politico dopo la caduta del Muro di Berlino si aggiungeva una lucidissima sofferenza interiore e un forte spirito di rivalsa nei confronti di una classe politica di ignavi, che nel momento delle accuse e dei veleni non aveva saputo fare quadrato, lo aveva lasciato solo, e alla fine persino accerchiato, come se certe scomode verità, o silenzi, non fossero frutto di una ragion di Stato condivisa ma attribuibili unicamente a Kossiga, l'"anima nera" della Repubblica. Concluso il suo settennato ha cominciato a giocare con quell'immagine di "cattivo", a togliersi i "sassolini dalle scarpe", come colui che non ha più nulla da perdere in termini di immagine e che non deve più alcun riguardo ai tanti mediocri che hanno abitato insieme a lui il mondo della politica. E' diventato il "picconatore" irriverente che abbiamo apprezzato e di cui questo Paese avrebbe avuto ancora bisogno. Ma da quella sua irriverenza e dalle sue provocazioni non ha mai cessato di trapelare un pizzico di malinconia, la malinconia di chi in fondo sa di rimanere incompreso.
Tuesday, August 17, 2010
Carta e prassi impongono di non tradire il responso delle urne
Errore da parte del Pdl alzare il livello della polemica con il presidente Napolitano (che comunque alla prova dei fatti difficilmente autorizzerebbe "ribaltoni"), contribuendo tra l'altro ad alleggerire la pressione su Fini. Ma nel merito ineccepibile, e prim'ancora legittima, la posizione: in caso di crisi ritorno alle urne, no governi tecnici. Napolitano invece continua a sbagliare su Fini. Innanzitutto, perché balza agli occhi il suo doppio standard: silenzio, nemmeno una parola, mentre per due anni un'altra istituzione è stata oggetto di campagne d'odio e veleni prive di fondamento. E poi perché invece di difendere il presidente della Camera, dovrebbe porsi egli stesso il problema dell'incompatibilità del suo ruolo politico con la carica che ricopre, che in caso di crisi potrebbe rivelarsi per il Colle motivo di imbarazzo. Napolitano sbaglia anche a pretendere da chi comunque sarebbe chiamato a consultare (il presidente del Senato e i partiti di maggioranza) di non esprimersi sul da farsi in caso di crisi. E in ogni caso, dovrebbe quanto meno riprendere anche chi altrettanto irresponsabilmente evoca governi tecnici senza l'appoggio dei partiti di maggioranza, Pdl e Lega. Invece, i suoi moniti di questi giorni nei confronti di chi prospetta in caso di crisi il ritorno alle urne come unica soluzione sembrano di fatto aver legittimato speculazioni circa la possibilità di dar vita ad un "governo tecnico" sostenuto dagli attuali gruppi di opposizione e dal neonato gruppo "finiano", contro la volontà dei partiti usciti vincitori dalle urne.
Mentre ci si divide su "costituzione formale" e "costituzione materiale", ci si dimentica che non è solo l'evoluzione in senso bipolare e maggioritario del nostro sistema politico, ma sono la Costituzione e la prassi vigenti anche prima di essa a richiedere il rispetto della sovranità popolare. Anche durante la Prima Repubblica, infatti - quando le coalizioni di governo nascevano solo dopo e a seguito del voto, e non si presentavano dinanzi agli elettori prima, e quando nell'arco di una stessa legislatura si susseguivano più governi - la volontà degli elettori è stata sempre rispettata, nel senso che mai dopo una crisi i partiti di maggioranza si sono ritrovati marginalizzati all'opposizione e quelli dell'opposizione al governo. Mai un presidente della Repubblica ha permesso la nascita di un governo sostenuto in Parlamento da una nuova maggioranza che grazie alla fuoriuscita di alcuni deputati e senatori dai loro rispettivi gruppi potesse fare a meno dei partiti che avevano vinto le elezioni. Mai nella storia della Repubblica si sono verificati cosiddetti "ribaltoni".
Insomma, è vero che il voto anticipato non può essere l'unico sbocco di una crisi, che il potere di scioglimento delle Camere spetta al presidente della Repubblica, sentiti i loro presidenti, e che i governi sono legittimi se ottengono la fiducia del Parlamento in carica, ma anche vero che mai nella formazione di nuovi governi in una stessa legislatura è stata "tradita" la volontà degli elettori. Nella Prima Repubblica, durante una crisi, partiti minori potevano decidere di entrare o uscire dalla coalizione, ma i nuovi governi erano sempre guidati dal partito di maggioranza relativa, la Democrazia cristiana, e molto spesso espressione anche della medesima coalizione di partiti. Sempre il presidente del Consiglio incaricato apparteneva alla Dc (tranne in un caso, quando nel 1981 a succedere a Forlani fu Spadolini, comunque esponente di un partito della coalizione di maggioranza). Per quanto riguarda la storia più recente, nel 1993, nel corso della XI legislatura, il governo Ciampi sostituì il governo Amato, ma con il sostegno dei medesimi partiti (Dc-Psi-Pli-Psdi). Il tentativo fu piuttosto quello di allargare la maggioranza ad alcuni partiti di opposizione, con l'ingresso al governo di ministri del Pds e dei Verdi. Ma a seguito della mancata concessione, da parte della Camera dei deputati, dell'autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi, appena un giorno dopo il giuramento del governo Pds e FdV ritirarono i propri ministri, che furono sostituiti da personalità indipendenti.
Anche il governo Dini (gennaio 1995 - maggio 1996), alla cui esperienza è legato il termine "ribaltone", non nacque tuttavia contro la volontà dei partiti che facevano parte della coalizione del governo Berlusconi I, uscita vincitrice dalle urne il 27 marzo del 1994. Fu l'operazione che più si avvicinò, soprattutto con il passare dei mesi, all'idea di "ribaltone", ma va tenuto presente l'iniziale via libera di Berlusconi (dietro garanzia di Scalfaro che si sarebbe presto tornati alle urne), il voto di fiducia della Lega Nord, e il fatto non secondario che il presidente del Consiglio incaricato era una figura di primo piano del governo Berlusconi I (l'allora ministro del Tesoro Dini). Nel corso della XIII legislatura anche Romano Prodi fu vittima del cosiddetto "ribaltone", ma i tre governi che gli successero (D'Alema, D'Alema II, Amato II) nacquero per iniziativa della forza che aveva vinto le elezioni, l'Ulivo, che riuscì ad allargare la propria maggioranza da un mero appoggio esterno da parte di Rifondazione comunista agli scissionisti del Pdci, all'Udr e ad alcuni indipendenti.
Oggi qualche insigne giurista, con la scusa di difendere le prerogative costituzionali del capo dello Stato e del Parlamento, sembra voler legittimare un'operazione spericolata e mai nemmeno ipotizzata proprio sulla base della Costituzione formale e di una prassi consolidatasi ben prima della discesa in campo di Berlusconi: immaginate se da presidenti della Camera un Gronchi o un Leone avessero potuto uscire dalla Dc, fondare propri gruppi parlamentari autonomi e dar vita a un governo insieme al Pci, in base al fatto che il presidente della Repubblica può incaricare chiunque sia in grado di ottenere una qualsiasi maggioranza in Parlamento e che i parlamentari non hanno vincolo di mandato... Evidentemente non è proprio così che si può interpretare la nostra Carta, anche laddove recita che «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
Mentre ci si divide su "costituzione formale" e "costituzione materiale", ci si dimentica che non è solo l'evoluzione in senso bipolare e maggioritario del nostro sistema politico, ma sono la Costituzione e la prassi vigenti anche prima di essa a richiedere il rispetto della sovranità popolare. Anche durante la Prima Repubblica, infatti - quando le coalizioni di governo nascevano solo dopo e a seguito del voto, e non si presentavano dinanzi agli elettori prima, e quando nell'arco di una stessa legislatura si susseguivano più governi - la volontà degli elettori è stata sempre rispettata, nel senso che mai dopo una crisi i partiti di maggioranza si sono ritrovati marginalizzati all'opposizione e quelli dell'opposizione al governo. Mai un presidente della Repubblica ha permesso la nascita di un governo sostenuto in Parlamento da una nuova maggioranza che grazie alla fuoriuscita di alcuni deputati e senatori dai loro rispettivi gruppi potesse fare a meno dei partiti che avevano vinto le elezioni. Mai nella storia della Repubblica si sono verificati cosiddetti "ribaltoni".
Insomma, è vero che il voto anticipato non può essere l'unico sbocco di una crisi, che il potere di scioglimento delle Camere spetta al presidente della Repubblica, sentiti i loro presidenti, e che i governi sono legittimi se ottengono la fiducia del Parlamento in carica, ma anche vero che mai nella formazione di nuovi governi in una stessa legislatura è stata "tradita" la volontà degli elettori. Nella Prima Repubblica, durante una crisi, partiti minori potevano decidere di entrare o uscire dalla coalizione, ma i nuovi governi erano sempre guidati dal partito di maggioranza relativa, la Democrazia cristiana, e molto spesso espressione anche della medesima coalizione di partiti. Sempre il presidente del Consiglio incaricato apparteneva alla Dc (tranne in un caso, quando nel 1981 a succedere a Forlani fu Spadolini, comunque esponente di un partito della coalizione di maggioranza). Per quanto riguarda la storia più recente, nel 1993, nel corso della XI legislatura, il governo Ciampi sostituì il governo Amato, ma con il sostegno dei medesimi partiti (Dc-Psi-Pli-Psdi). Il tentativo fu piuttosto quello di allargare la maggioranza ad alcuni partiti di opposizione, con l'ingresso al governo di ministri del Pds e dei Verdi. Ma a seguito della mancata concessione, da parte della Camera dei deputati, dell'autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi, appena un giorno dopo il giuramento del governo Pds e FdV ritirarono i propri ministri, che furono sostituiti da personalità indipendenti.
Anche il governo Dini (gennaio 1995 - maggio 1996), alla cui esperienza è legato il termine "ribaltone", non nacque tuttavia contro la volontà dei partiti che facevano parte della coalizione del governo Berlusconi I, uscita vincitrice dalle urne il 27 marzo del 1994. Fu l'operazione che più si avvicinò, soprattutto con il passare dei mesi, all'idea di "ribaltone", ma va tenuto presente l'iniziale via libera di Berlusconi (dietro garanzia di Scalfaro che si sarebbe presto tornati alle urne), il voto di fiducia della Lega Nord, e il fatto non secondario che il presidente del Consiglio incaricato era una figura di primo piano del governo Berlusconi I (l'allora ministro del Tesoro Dini). Nel corso della XIII legislatura anche Romano Prodi fu vittima del cosiddetto "ribaltone", ma i tre governi che gli successero (D'Alema, D'Alema II, Amato II) nacquero per iniziativa della forza che aveva vinto le elezioni, l'Ulivo, che riuscì ad allargare la propria maggioranza da un mero appoggio esterno da parte di Rifondazione comunista agli scissionisti del Pdci, all'Udr e ad alcuni indipendenti.
Oggi qualche insigne giurista, con la scusa di difendere le prerogative costituzionali del capo dello Stato e del Parlamento, sembra voler legittimare un'operazione spericolata e mai nemmeno ipotizzata proprio sulla base della Costituzione formale e di una prassi consolidatasi ben prima della discesa in campo di Berlusconi: immaginate se da presidenti della Camera un Gronchi o un Leone avessero potuto uscire dalla Dc, fondare propri gruppi parlamentari autonomi e dar vita a un governo insieme al Pci, in base al fatto che il presidente della Repubblica può incaricare chiunque sia in grado di ottenere una qualsiasi maggioranza in Parlamento e che i parlamentari non hanno vincolo di mandato... Evidentemente non è proprio così che si può interpretare la nostra Carta, anche laddove recita che «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
Friday, August 13, 2010
Il doppio standard abita anche al Colle
Sono due anni che campagne di veleni vengono prodotte e scagliate contro Berlusconi - dalla D'Addario a Ciancimino jr. passando per Noemi - ma mai il capo dello Stato ha ritenuto di dire una parola, tanto meno di chiedere che cessassero. Eppure, si è trattato di campagne infondate ed altrettanto «gravemente destabilizzanti sul piano istituzionale», volte a delegittimare una istituzione democraticamente eletta la cui funzione è «essenziale» almeno quanto quella del presidente della Camera. Sono invece bastate due settimane di campagna negativa nei riguardi del presidente Fini, e Napolitano si permette di chiedere che cessi, non si sa su quali basi (tra l'altro dalle colonne di un giornale, l'Unità, che di campagne «destabilizzanti» è esperto). Le campagne giornalistiche vanno giudicate nel merito. Ci sono casi, come quello Scajola, in cui le dimissioni erano inevitabili (nonostante tuttora non sia ancora indagato), e altri casi, come quello Caliendo (indagato), in cui chiederle è persino ridicolo. Contro Fini è indubbiamente in corso una campagna partigiana da parte dei giornali che sostengono il governo, ma il caso dell'appartamento monegasco non pare infondato, quanto meno merita approfondimenti, mentre non ancora smentite sono state le pressioni del presidente della Camera per favorire la famiglia Tulliani in Rai. Per una telefonata di Berlusconi con Saccà ricordiamo che si aprirono inchieste della magistratura e i giornali alzarono un putiferio. Tanto per dovere di cronaca.
Ma Fini - lo ripetiamo a scanso di equivoci - non dovrebbe dimettersi per episodi in cui non è ancora stato accertato il suo comportamento (sebbene egli le pretenda solo se il sospetto sfiori "Cesare o la moglie di Cesare"). Qui pensiamo che dovrebbe dimettersi dalla presidenza della Camera perché la sua carica è incompatibile con il ruolo - pur legittimo, ma spiccatamente di parte e non più di garanzia - che ha deciso di giocare nell'agone politico, nella maggioranza e fin dentro le aule parlamentari, formando suoi gruppi parlamentari autonomi. Invece che rilevare questa grave anomalia istituzionale e chiederne personalmente conto a Fini (come gli imporrebbe la Costituzione), Napolitano lo difende, non chiedendosi nemmeno in che veste lo consulterebbe in caso di crisi di governo (se da carica istituzionale o da leader di partito), ed esponendosi a chiedere che si taccia su un caso che potrebbe rivelarsi fondato. E comunque Napolitano dovrebbe spiegarci perché è rimasto in silenzio in questi due anni in cui campagne altrettanto «gravemente destabilizzanti», queste sì manifestatamente infondate, hanno coinvolto una istituzione altrettanto importante e legittimata dal voto dei cittadini come il premier. Il doppiopesismo abita anche al Quirinale, purtroppo.
Napolitano è rassicurante quando dice che nel caso venisse meno la maggioranza compirebbe «tutti i passi che la Costituzione e la prassi ad essa ispiratasi chiaramente dettano», ma ha torto quando dice che altri esponenti politici non hanno titolo a dare indicazioni sul da farsi in caso di crisi di governo. Dimentica che i suoi poteri in caso di crisi non sono esclusivi, e i leader politici che comunque dovrebbe consultare prima di prendere una decisione (e che quindi hanno titolo eccome) hanno tutto il diritto a dire la loro, almeno finché siamo in democrazia. Nessuno auspica il «vuoto politico» e certo il governo vorrebbe andare avanti a governare, ma non è illegittimo né disdicevole che un governo eletto dai cittadini non accetti di farsi logorare per il resto della legislatura ed esiga la massima chiarezza da parte di settori della maggioranza che sembrano volersi mettere di traverso alla realizzazione del programma. E quel governo ha tutto il diritto di far sapere che per quanto lo riguarda se viene meno la maggioranza ci sono solo le urne. Napolitano, tra l'altro, non sembra altrettanto duro con chi - altrettanto irresponsabilmente - evoca l'ipotesi di governi tecnici senza i partiti usciti vincitori dalle urne nel 2008.
Ma Fini - lo ripetiamo a scanso di equivoci - non dovrebbe dimettersi per episodi in cui non è ancora stato accertato il suo comportamento (sebbene egli le pretenda solo se il sospetto sfiori "Cesare o la moglie di Cesare"). Qui pensiamo che dovrebbe dimettersi dalla presidenza della Camera perché la sua carica è incompatibile con il ruolo - pur legittimo, ma spiccatamente di parte e non più di garanzia - che ha deciso di giocare nell'agone politico, nella maggioranza e fin dentro le aule parlamentari, formando suoi gruppi parlamentari autonomi. Invece che rilevare questa grave anomalia istituzionale e chiederne personalmente conto a Fini (come gli imporrebbe la Costituzione), Napolitano lo difende, non chiedendosi nemmeno in che veste lo consulterebbe in caso di crisi di governo (se da carica istituzionale o da leader di partito), ed esponendosi a chiedere che si taccia su un caso che potrebbe rivelarsi fondato. E comunque Napolitano dovrebbe spiegarci perché è rimasto in silenzio in questi due anni in cui campagne altrettanto «gravemente destabilizzanti», queste sì manifestatamente infondate, hanno coinvolto una istituzione altrettanto importante e legittimata dal voto dei cittadini come il premier. Il doppiopesismo abita anche al Quirinale, purtroppo.
Napolitano è rassicurante quando dice che nel caso venisse meno la maggioranza compirebbe «tutti i passi che la Costituzione e la prassi ad essa ispiratasi chiaramente dettano», ma ha torto quando dice che altri esponenti politici non hanno titolo a dare indicazioni sul da farsi in caso di crisi di governo. Dimentica che i suoi poteri in caso di crisi non sono esclusivi, e i leader politici che comunque dovrebbe consultare prima di prendere una decisione (e che quindi hanno titolo eccome) hanno tutto il diritto a dire la loro, almeno finché siamo in democrazia. Nessuno auspica il «vuoto politico» e certo il governo vorrebbe andare avanti a governare, ma non è illegittimo né disdicevole che un governo eletto dai cittadini non accetti di farsi logorare per il resto della legislatura ed esiga la massima chiarezza da parte di settori della maggioranza che sembrano volersi mettere di traverso alla realizzazione del programma. E quel governo ha tutto il diritto di far sapere che per quanto lo riguarda se viene meno la maggioranza ci sono solo le urne. Napolitano, tra l'altro, non sembra altrettanto duro con chi - altrettanto irresponsabilmente - evoca l'ipotesi di governi tecnici senza i partiti usciti vincitori dalle urne nel 2008.
Confusi oltre che divisi
A dare l'idea di quanto la confusione regni sovrana tra i finiani - un'accozzaglia informe in cui si annidano personaggi dalle culture politiche persino opposte tra di loro, ognuno pensando di perseguire il proprio progetto politico - è l'intervista a Fabio Granata oggi su La Stampa. Non bastavano gli sbandamenti giustizialisti di questo deputato che però occupava serenamente il posto di assessore nella giunta dell'inquisito per concorso esterno in associazione mafiosa Cuffaro. Ora propone come ticket vincente Fini-Vendola. Certo, come «extrema ratio», ma non indesiderabile.
Come prima ipotesi vede la ricomposizione, ma è «difficile da realizzare». Quindi, auspica di fatto il ribaltone: «Meglio giocare in campo aperto, tentando la strada del governo tecnico con la garanzia di Napolitano di poter fare la riforma elettorale». In caso di elezioni, Granata ipotizza «una lista Fini alleata con l'Udc, l'Api e l'Mpa di Lombardo. Ma io non voglio stare 5 anni all'opposizione». Quindi l'ideona: «Un'intesa anche con la sinistra e con Vendola». Ed ecco come Granata risponde alle perplessità del giornalista: «Guardi che Fini è molto gradito a sinistra. E' un politico trasversale, capace fuori dal Palazzo, di mettersi alla testa di una rinascita nazionale. Fini-Vendola secondo me vincono perché la gente è molto più avanti di quello che si pensa. Non ci sono altre attrattive serie. C'è una vasta area di opinione che ha votato a destra e che non vuole che Berlusconi ritorni a Palazzo Chigi o magari vada al Quirinale. Sono saltati gli schemi destra-sinistra. E poi cosa ci divide dalla sinistra e da Vendola sulla legalità, il contrasto alle mafie, la cittadinanza, l'immigrazione, la coesione sociale, i problemi del Mezzogiorno, l'evasione fiscale, il federalismo solidale?». Fini non dovrebbe necessariamente essere il candidato premier, per lui Granata vede addirittura il Quirinale.
Che sia Granata il teorico di tutto questo ci può stare, ma tremiamo al pensiero che a ispirare simili fantasie possa essere stato lo stesso Fini, il che non è del tutto da escludere visti i precedenti. Troppe immersioni...
Come prima ipotesi vede la ricomposizione, ma è «difficile da realizzare». Quindi, auspica di fatto il ribaltone: «Meglio giocare in campo aperto, tentando la strada del governo tecnico con la garanzia di Napolitano di poter fare la riforma elettorale». In caso di elezioni, Granata ipotizza «una lista Fini alleata con l'Udc, l'Api e l'Mpa di Lombardo. Ma io non voglio stare 5 anni all'opposizione». Quindi l'ideona: «Un'intesa anche con la sinistra e con Vendola». Ed ecco come Granata risponde alle perplessità del giornalista: «Guardi che Fini è molto gradito a sinistra. E' un politico trasversale, capace fuori dal Palazzo, di mettersi alla testa di una rinascita nazionale. Fini-Vendola secondo me vincono perché la gente è molto più avanti di quello che si pensa. Non ci sono altre attrattive serie. C'è una vasta area di opinione che ha votato a destra e che non vuole che Berlusconi ritorni a Palazzo Chigi o magari vada al Quirinale. Sono saltati gli schemi destra-sinistra. E poi cosa ci divide dalla sinistra e da Vendola sulla legalità, il contrasto alle mafie, la cittadinanza, l'immigrazione, la coesione sociale, i problemi del Mezzogiorno, l'evasione fiscale, il federalismo solidale?». Fini non dovrebbe necessariamente essere il candidato premier, per lui Granata vede addirittura il Quirinale.
Che sia Granata il teorico di tutto questo ci può stare, ma tremiamo al pensiero che a ispirare simili fantasie possa essere stato lo stesso Fini, il che non è del tutto da escludere visti i precedenti. Troppe immersioni...
Thursday, August 12, 2010
Montezemolo batte un colpo: ci sarei anch'io
Ci mancava solo Montezemolo (o chi per lui) nella bagarre ferragostana. Anche lui certo non scalpita all'idea di misurarsi nelle urne, non è pronto all'evenienza, non l'aveva considerata così presto, e preferirebbe che Silvio si logorasse da sé, nel sostanziale immobilismo (pur con qualche cosa buona) di questi primi due anni di governo, o che si facesse logorare da Fini. Insomma, meglio aspettare in riva al fiume che passino i "cadaveri", come recita il detto. Elezioni anticipate? Una iattura (anche perché intralcerebbero i suoi piani industriali...), fa sapere con il lungo editoriale comparso sul sito web dell'associazione da lui fondata, Italia Futura. Ma ha voluto comunque battere un colpo: "Ehi, ci sarei anch'io". E in caso di ritorno alle urne non si sa mai, potrebbe anche lasciar perdere i treni e buttarsi.
Il giudizio sulla "Seconda Repubblica" e sui suoi protagonisti è impietoso: il bilancio viene definito «fallimentare». Lo scontro Berlusconi-Fini «indegno». Berlusconi ha deluso, ma Montezemolo lascia intendere di non vedere alternative nell'altro campo: vince «per difetto di concorrenza». "E quindi eccomi, sono io il concorrente", sembra voler dire. Il ritorno anticipato alle urne, avverte, sarebbe «una sconfitta per il Paese e per la classe politica che lo ha governato, oltre che un atto di grave irresponsabilità dinanzi ad uno scenario economico ancora fortemente instabile». Il «peggior finale» di una lunga stagione politica giudicata comunque «improduttiva». «Andare alle elezioni, tanto più con questa indecorosa legge elettorale, non risolverà alcun problema. Perderemmo solo altri sei mesi». Quindi, l'ex presidente di Confindustria e della Fiat - e oggi protagonista insieme a Diego Della Valle della sfida alle Ferrovie dello Stato con NTV, il primo operatore privato italiano sulla rete ferroviaria ad alta velocità, che dovrebbe inaugurare i suoi viaggi proprio nel 2011, anno che rischia di essere di elezioni - boccia l'ipotesi di voto anticipato e sollecita Berlusconi, Fini e Bossi a «ricompattare la maggioranza sulla base di un programma anche minimo di riforme essenziali per i cittadini».
«Non è che Berlusconi non abbia motivi legittimi di lagnanza - riconoscono i montezemoliani di Italia Futura - ma saper gestire gli alleati (anche quelli riottosi), rispettare le istituzioni (o altrimenti riformarle) e contribuire a tenere il livello dello scontro politico entro limiti accettabili (anche in presenza di un'opposizione che conta poco su sé stessa e molto sulle inchieste della magistratura) sono qualità che non dovrebbero difettare a chi è ormai da quasi un ventennio un uomo politico». «Un leader si misura sulla base dei risultati», è la conclusione del ragionamento, e «questi, nel giudizio dei cittadini, sono deludenti». Mentre la "Seconda Repubblica", si osserva nell'editoriale, «sta affondando tra veleni e dossier (di dubbia provenienza), distribuiti tramite giornali militanti (di destra e di sinistra) e siti di gossip», dalla società civile si leva un «assordante silenzio», con l'eccezione, non manca di rilevare l'associazione di Montezemolo, di «esponenti di primo piano del mondo cattolico ed ecclesiastico, che anche in questi giorni sono intervenuti con coraggio per criticare "il sottosviluppo morale" del Paese».
Giudizi molto politici, che hanno il sapore di vere e proprie tesi da discesa in campo: la "Seconda Repubblica" definita «fallimentare», Berlusconi che ha deluso ma i suoi avversari sono inconsistenti, il Paese «bloccato» in una sterile transizione, lo zuccherino finale alla Chiesa... E allora, ecco gettato il terreno per un nuovo annuncio politico, anche se la mia sensazione è che dovremo aspettare ancora, e potrebbe non arrivare mai.
Il giudizio sulla "Seconda Repubblica" e sui suoi protagonisti è impietoso: il bilancio viene definito «fallimentare». Lo scontro Berlusconi-Fini «indegno». Berlusconi ha deluso, ma Montezemolo lascia intendere di non vedere alternative nell'altro campo: vince «per difetto di concorrenza». "E quindi eccomi, sono io il concorrente", sembra voler dire. Il ritorno anticipato alle urne, avverte, sarebbe «una sconfitta per il Paese e per la classe politica che lo ha governato, oltre che un atto di grave irresponsabilità dinanzi ad uno scenario economico ancora fortemente instabile». Il «peggior finale» di una lunga stagione politica giudicata comunque «improduttiva». «Andare alle elezioni, tanto più con questa indecorosa legge elettorale, non risolverà alcun problema. Perderemmo solo altri sei mesi». Quindi, l'ex presidente di Confindustria e della Fiat - e oggi protagonista insieme a Diego Della Valle della sfida alle Ferrovie dello Stato con NTV, il primo operatore privato italiano sulla rete ferroviaria ad alta velocità, che dovrebbe inaugurare i suoi viaggi proprio nel 2011, anno che rischia di essere di elezioni - boccia l'ipotesi di voto anticipato e sollecita Berlusconi, Fini e Bossi a «ricompattare la maggioranza sulla base di un programma anche minimo di riforme essenziali per i cittadini».
«Non è che Berlusconi non abbia motivi legittimi di lagnanza - riconoscono i montezemoliani di Italia Futura - ma saper gestire gli alleati (anche quelli riottosi), rispettare le istituzioni (o altrimenti riformarle) e contribuire a tenere il livello dello scontro politico entro limiti accettabili (anche in presenza di un'opposizione che conta poco su sé stessa e molto sulle inchieste della magistratura) sono qualità che non dovrebbero difettare a chi è ormai da quasi un ventennio un uomo politico». «Un leader si misura sulla base dei risultati», è la conclusione del ragionamento, e «questi, nel giudizio dei cittadini, sono deludenti». Mentre la "Seconda Repubblica", si osserva nell'editoriale, «sta affondando tra veleni e dossier (di dubbia provenienza), distribuiti tramite giornali militanti (di destra e di sinistra) e siti di gossip», dalla società civile si leva un «assordante silenzio», con l'eccezione, non manca di rilevare l'associazione di Montezemolo, di «esponenti di primo piano del mondo cattolico ed ecclesiastico, che anche in questi giorni sono intervenuti con coraggio per criticare "il sottosviluppo morale" del Paese».
Giudizi molto politici, che hanno il sapore di vere e proprie tesi da discesa in campo: la "Seconda Repubblica" definita «fallimentare», Berlusconi che ha deluso ma i suoi avversari sono inconsistenti, il Paese «bloccato» in una sterile transizione, lo zuccherino finale alla Chiesa... E allora, ecco gettato il terreno per un nuovo annuncio politico, anche se la mia sensazione è che dovremo aspettare ancora, e potrebbe non arrivare mai.
Wednesday, August 11, 2010
Finiani divisi e Bersani "frontista"
E' continuata anche oggi l'improvvisa presa di coscienza dei "finiani": si sono accorti del «plurimputato Berlusconi» e del suo conflitto di interessi. Le intenzioni, le tentazioni, o meglio le illusioni dei "finiani" emergono dalla rabbiosa reazione di Bocchino alle richieste di dimissioni di Fini che giungono dal Pdl (più per l'incompatibilità del ruolo di "capofazione" con la carica di presidente della Camera che per la casa a Montecarlo). Se da una parte provoca (Berlusconi con tutti i suoi ministri inquisiti, e non Fini, si dovrebbe dimettere), dall'altra Bocchino pretende una verifica di metà legislatura, un vertice di maggioranza dei tre gruppi, mostrando come il vero intento dei "finiani" non è certo correre dagli elettori a far benedire la loro operazione, ma ricostituire quella rendita di posizione e quella forza di interdizione da "Prima Repubblica" di cui hanno goduto An e Udc nel centrodestra e che sono venute meno con il partito unico.
Ma i più esasperati tra i "finiani" fanno anche capire che non disdegnerebbero il "ribaltone": non è detto che il voto sia lo sbocco di una eventuale crisi di governo, avverte Bocchino, può darsi anche che l'istinto di autoconservazione porti le forze di minoranza a trovare l'accordo per un governo tecnico o di transizione. Briguglio al Tg3 denuncia il «golpe istituzionale» di Berlusconi contro Fini, un'emergenza tale da spingerlo a ipotizzare un «governo di garanzia» per il quale propone anche un premier (il presidente dell'Antimafia Beppe Pisanu). Ma i "finiani" non sono poi così compatti. Accanto agli scalmanati, infatti, ci sono i più dialoganti Moffa e Conte alla Camera, i membri del governo Ronchi, Viespoli e Menia, e i dieci senatori, che oggi con una nota si sono palesemente distinti dai comportamenti degli estremisti, tentando di riportare il confronto su un piano più politico.
Difficilissima, quasi proibitiva, la strada verso un governo diverso da quello Berlusconi in questa legislatura, e oggi Bossi è tornato a escludere in modo sprezzante tali ipotesi. Ma conviene un po' a tutte le forze di opposizione dare a Berlusconi l'impressione che la volontà ci sarebbe. Temendo le urne, sperano infatti che temendo manovre strane il premier non provochi la crisi e si faccia logorare dai "finiani". Anche Di Pietro, l'unico dell'opposizione a chiedere il voto prima possibile, adesso si dice disponibile a un governo tecnico, a termine, per riformare la legge elettorale e garantire il pluralismo dell'informazione. Bersani avverte che in caso di crisi «la parola passerebbe al capo dello Stato e al Parlamento» e «il 'golpista' è chi nega questo e non chi lo afferma».
Ma se le elezioni fossero inevitabili, il Pd non si farebbe cogliere impreparato, cerca di far credere il segretario: chiamerebbe tutte «le forze del centrosinistra e dell'opposizione per una strategia comune di cui siamo già pronti a proporre e a discutere le basi politiche e programmatiche». Insomma, il Pd di Bersani pensa a un variopinto cartello elettorale, il più ampio possibile, il fronte comune in nome dell'antiberlusconismo («liberiamoci di Berlusconi», è la sua la parola d'ordine). D'altronde, è l'unico modo per il Pd di conservare una certa centralità tra le opposizioni, perché se esclude il centro o la sinistra dai suoi orizzonti rischia di trovarsi schiacciato o troppo a sinistra o troppo al centro. Auguri.
Ma i più esasperati tra i "finiani" fanno anche capire che non disdegnerebbero il "ribaltone": non è detto che il voto sia lo sbocco di una eventuale crisi di governo, avverte Bocchino, può darsi anche che l'istinto di autoconservazione porti le forze di minoranza a trovare l'accordo per un governo tecnico o di transizione. Briguglio al Tg3 denuncia il «golpe istituzionale» di Berlusconi contro Fini, un'emergenza tale da spingerlo a ipotizzare un «governo di garanzia» per il quale propone anche un premier (il presidente dell'Antimafia Beppe Pisanu). Ma i "finiani" non sono poi così compatti. Accanto agli scalmanati, infatti, ci sono i più dialoganti Moffa e Conte alla Camera, i membri del governo Ronchi, Viespoli e Menia, e i dieci senatori, che oggi con una nota si sono palesemente distinti dai comportamenti degli estremisti, tentando di riportare il confronto su un piano più politico.
Difficilissima, quasi proibitiva, la strada verso un governo diverso da quello Berlusconi in questa legislatura, e oggi Bossi è tornato a escludere in modo sprezzante tali ipotesi. Ma conviene un po' a tutte le forze di opposizione dare a Berlusconi l'impressione che la volontà ci sarebbe. Temendo le urne, sperano infatti che temendo manovre strane il premier non provochi la crisi e si faccia logorare dai "finiani". Anche Di Pietro, l'unico dell'opposizione a chiedere il voto prima possibile, adesso si dice disponibile a un governo tecnico, a termine, per riformare la legge elettorale e garantire il pluralismo dell'informazione. Bersani avverte che in caso di crisi «la parola passerebbe al capo dello Stato e al Parlamento» e «il 'golpista' è chi nega questo e non chi lo afferma».
Ma se le elezioni fossero inevitabili, il Pd non si farebbe cogliere impreparato, cerca di far credere il segretario: chiamerebbe tutte «le forze del centrosinistra e dell'opposizione per una strategia comune di cui siamo già pronti a proporre e a discutere le basi politiche e programmatiche». Insomma, il Pd di Bersani pensa a un variopinto cartello elettorale, il più ampio possibile, il fronte comune in nome dell'antiberlusconismo («liberiamoci di Berlusconi», è la sua la parola d'ordine). D'altronde, è l'unico modo per il Pd di conservare una certa centralità tra le opposizioni, perché se esclude il centro o la sinistra dai suoi orizzonti rischia di trovarsi schiacciato o troppo a sinistra o troppo al centro. Auguri.
Tuesday, August 10, 2010
Non proprio delle aquile
Come dicevamo, se colpisce gli altri (per mezzo di veline dalle procure, intercettazioni, gossip, pentiti) si chiama libertà di stampa, se sono gli avversari vecchi e nuovi di Berlusconi a incappare in qualche campagna di stampa negativa (non scopiazzata da verbali belli e pronti) si tratta di «manganellate», di «killeraggio e squadrismo mediatico». Ma lo sfogo, oggi su FfWebMagazine, di Filippo Rossi - che se la prende con i giornali «di famiglia», anche se "la famiglia" che fa notizia in questi giorni (e non solo sui giornali di centrodestra) sembra un'altra - mi pare di averlo già letto da qualche parte... Ah, sì, ora mi sovviene: chissà quante altre volte negli ultimi 15 anni hanno scritto cose identiche - ma proprio letteralmente identiche - Massimo Giannini e gli altri di Repubblica.
Può darsi che abbiano avuto fin dall'inizio ragione loro sulla natura oscura del "potere" berlusconiano, che sia davvero Berlusconi la grande anomalia di questo Paese, il "Cavaliere nero". Ma certo, quelli che se ne accorgono solo adesso - dopo che per 15 anni hanno gozzovigliato all'ombra di quel potere, mentre non qualche sconosciuto e silenziato dissidente, ma decine, centinaia tra giornali, trasmissioni tv, partiti, pm, intellettuali, lo gridavano al mondo intero - non ne escono certo come aquile dall'istinto infallibile alle quali accodarsi. Per carità, non è mai troppo tardi per correggersi, ma i tanti nuovi "Massimo Giannini" non si illudano: ci sarà da mettersi in fila, e la fila degli antiberlusconiani è già molto lunga.
Può darsi che abbiano avuto fin dall'inizio ragione loro sulla natura oscura del "potere" berlusconiano, che sia davvero Berlusconi la grande anomalia di questo Paese, il "Cavaliere nero". Ma certo, quelli che se ne accorgono solo adesso - dopo che per 15 anni hanno gozzovigliato all'ombra di quel potere, mentre non qualche sconosciuto e silenziato dissidente, ma decine, centinaia tra giornali, trasmissioni tv, partiti, pm, intellettuali, lo gridavano al mondo intero - non ne escono certo come aquile dall'istinto infallibile alle quali accodarsi. Per carità, non è mai troppo tardi per correggersi, ma i tanti nuovi "Massimo Giannini" non si illudano: ci sarà da mettersi in fila, e la fila degli antiberlusconiani è già molto lunga.
Si sta gonfiando anche il caso Tulliani-Rai
L'impressione è che si stia gonfiando anche il caso Tulliani-Rai. Che dopo Dagospia e l'articolo di Bechis di qualche giorno fa su Libero sbarca sul Corriere della Sera, con un'intervista a Roberto D'Agostino, che racconta:
Rimango convinto piuttosto che Fini dovrebbe dimettersi dalla presidenza della Camera per il suo ruolo politico ormai incompatibile con quello di una carica di garanzia, dopo che è arrivato a dar vita a propri gruppi parlamentari con lo scopo conclamato di contrapporsi al presidente del Consiglio, o quanto meno di esercitare una dialettica parlamentare (e non solo) esplicita sulle iniziative del governo. E' fuor di dubbio il suo diritto a fare politica, nel suo partito o fuori di esso. Non mi pare invece che la Costituzione attribuisca ai presidenti delle camere il potere di condizionare l'indirizzo politico (e la tenuta stessa) dei governi e delle legislature. In che veste, in caso di crisi provocata dai gruppi "finiani", il presidente della Repubblica consulterebbe Gianfranco Fini? Un problema istituzionale di non poco conto, ma che i custodi della Costituzione preferiscono non porsi finché possono illudersi che sarà Fini a dare la spallata definitiva a Berlusconi.
«Giancarlo Tulliani, il fratello di Elisabetta, aveva ottenuto quattro puntate in prima serata su Raidue... Con ascolti bassissimi. Ma lo scandalo non erano nemmeno gli ascolti: piuttosto il fatto che la sua società non fosse registrata tra i fornitori della Rai. Insomma nessuno riusciva a capacitarsi di come uno comparso dal nulla fosse riuscito a infilarsi...».Poi sulla madre, la signora Francesca Frau.
«Altra storia pazzesca. Allora: ai Tulliani chiudono per incapacità la porta di Raidue, e loro bussano a quella di Raiuno. E chi c'è a Raiuno?... c'è un altissimo dirigente che è molto, ma proprio molto vicino a Fini... E che colpaccio riesce alla signora Frau, che ha il 51 per cento di una società, la Absolute Television, pur non avendo mai messo piede in uno studio televisivo e avendo fatto invece per anni la casalinga? Riesce a piazzare un format nel contenitore di Festa italiana, il programma di Raiuno condotto dalla Balivo... 183 puntate da 50 minuti l'una, ciascuna al costo di 8.120 euro. Per un totale di 1 milione e 485 mila euro. In Rai, che non è esattamente il posto più trasparente di questo Paese, s'è indignata, credimi, un sacco di gente».Quindi D'Agostino torna sulla rottura tra il dirigente Rai Paglia (in quota An) e Fini, di cui ha scritto anche Bechis:
«Paglia, il direttore delle relazioni esterne della Rai, aveva rotto l'amicizia trentennale con Fini perché non aveva voluto aiutargli il solito Giancarlino. Che, non pago di avere messo le mani sui programmi d'intrattenimento, voleva mettersi a produrre fiction... un tipo, questo Giancarlino... si presentava dicendo d'essere il cognato di Fini... arrogante, presuntuoso... Paglia non ha smentito il succo della storia. E allora io mi chiedo: ma è normale che la terza carica dello Stato faccia pressioni su un alto dirigente Rai per raccomandargli il fratello della moglie?».Del caso parla anche Mario Landolfi (ex An in Vigilanza Rai), a il Giornale, e spiega che è diverso dalle solite raccomandazioni o lottizzazioni:
«Lo è per due ragioni. La prima è che Tulliani è il fratello di una persona alla quale Fini è legato. La seconda è che non aveva i requisiti necessari... Dubito che Fini sapesse che cosa significhi davvero "contratto con minimo garantito"... Tutti siamo portati a pensare che la Rai sia territorio di conquista. Per fortuna non è così... Ma una volta scoperto che ci sono delle regole... Fini avrebbe dovuto fermarsi. Un conto sono le nomine dei direttori, un altro scavalcare le procedure per far entrare in Rai persone prive di curriculum. Doveva fidarsi di Paglia, persona che Fini conosceva da decenni. Avrebbe dovuto dire al giovanotto Tulliani di tornare dopo aver fatto la gavetta... Conosco Fini da molti anni, anche se non l'ho seguito nelle sue ultime scelte. Credo che tutto sia dovuto a pressioni familiari. Gli avranno rottole le scatole. Gli avranno detto 'non ti fai rispettare'. E lui avrà ceduto. Il malcostume politico sta qui, nell'aver insistito».Landolfi intravede quindi su Fini un «forte condizionamento» famigliare.
«Spero che questo condizionamento non agisca anche su altro. Mi auguro che non abbia influenzato anche le recenti scelte politiche di Fini».Riporto tutto questo non perché ritenga sufficienti questi elementi per chiedere le dimissioni di Fini. Riguardo la Rai davvero il più pulito ha la rogna, come si dice a Roma, e non mi stupisce che Fini, come tutti, spinga i "suoi" quando è in condizione di farlo. Altri spingeranno i loro, è un sistema malato e come tale va affrontato politicamente e non "moralisticamente", brandendo i singoli casi a seconda di chi convenga colpire. Va registrato però per smascherare ancora una volta il doppiopesismo di certa stampa e magistratura, che in passato non hanno esitato ad aprire inchieste, poi finite nel nulla, e a invocare dimissioni, mentre Fini - da quando e finché vi intravedono la kerkaporta per espugnare la cittadella berlusconiana - sembra degno di tutt'altra prudenza. Queste vicende dimostrano anche quanto sia strumentale e demagogico da parte di Fini - come di chiunque altro - ergersi oggi a paladino della legalità e della trasparenza, della "questione morale", cavalcando l'onda giustizialista contro Berlusconi, il Pdl e ogni singolo sottosegretario. Non è più insospettabile di altri di cui chiede sbrigativamente le dimissioni e dovrebbe piuttosto riflettere su come sia facile divenire oggetto di veleni e sospetti.
Rimango convinto piuttosto che Fini dovrebbe dimettersi dalla presidenza della Camera per il suo ruolo politico ormai incompatibile con quello di una carica di garanzia, dopo che è arrivato a dar vita a propri gruppi parlamentari con lo scopo conclamato di contrapporsi al presidente del Consiglio, o quanto meno di esercitare una dialettica parlamentare (e non solo) esplicita sulle iniziative del governo. E' fuor di dubbio il suo diritto a fare politica, nel suo partito o fuori di esso. Non mi pare invece che la Costituzione attribuisca ai presidenti delle camere il potere di condizionare l'indirizzo politico (e la tenuta stessa) dei governi e delle legislature. In che veste, in caso di crisi provocata dai gruppi "finiani", il presidente della Repubblica consulterebbe Gianfranco Fini? Un problema istituzionale di non poco conto, ma che i custodi della Costituzione preferiscono non porsi finché possono illudersi che sarà Fini a dare la spallata definitiva a Berlusconi.
Monday, August 09, 2010
Una Repubblica fondata sul doppiopesismo
Non più solo i giornali di centrodestra. Ormai l'inchiesta del Giornale sulla casa di Montecarlo lasciata in eredità ad An e in cui ora abita in affitto il "cognato" di Fini, dopo essere stata ceduta ad una società offshore con sede ai caraibi, viene rilanciata da tutti i media, dopo giorni di riluttanza (in altri casi viene adottata ben altra solerzia). Dopo la richiesta di spiegazioni da parte del Corriere, Fini - che non sentiva affatto di doverne dare - si è dovuto piegare, ma la sua nota in 8 punti non ha convinto nessuno. Anzi, appare a tratti "suicida". Fini fornisce una stima del valore dell'appartamento (450 milioni di lire) che risale a prima dell'adozione dell'euro, mentre è stato venduto nel 2008 e tutti sanno che i prezzi nel frattempo sono più che raddoppiati. Vorrebbe convincerci che 70mila euro in più rispetto a una valutazione in lire di 8 anni prima sono un affare? A Fini non risultano «proposte formali di acquisto». Forse formali no, ma tutti sanno che la proposta formale, cioè con tanto di anticipo, arriva di fatto a trattativa conclusa. Ancora più sospetto il ruolo di Giancarlo Tulliani che emerge dai chiarimenti di Fini: fa da "mediatore" per la vendita della casa di cui poi diventerà l'inquilino. «In 41 giorni - riassume dunque il Giornale - la Printemps (o chi vi si nasconde dietro) nasce ai Caraibi, si interessa dell'appartamento di Montecarlo, individua chissà come Giancarlo Tulliani come "mediatore", e quest'ultimo a sua volta informa Fini della proposta, che immaginiamo "formale"». Per non parlare dell'ultimo punto, l'affitto al "cognato" a sua insaputa, degno del miglior Scajola.
Non si tratterà di «soldi o beni pubblici», come si premura di precisare Fini nella sua nota, ma in questo modo dimostra di avere del partito un'idea "privatistica", piuttosto simile a quella che rimprovera a Berlusconi. L'aspetto più discutibile della vicenda non sta nell'aver favorito il "cognato". Stiamo parlando della vendita di un immobile a una società offshore a rischio riciclaggio e di almeno un milione di euro che manca rispetto al suo valore. Denaro che presumibilmente qualcuno, in qualche forma, evadendo il fisco, ha intascato, o fatto sparire nelle varie transazioni. Inoltre, Fini parte all'attacco: «Non ho l'abitudine di strillare contro i magistrati comunisti». Una manifesta falsità. Non li avrà definiti «comunisti», ma ricordiamo bene la sua reazione quando non più di quattro anni fa il suo ex portavoce, Salvo Sottile, fu coinvolto dell'inchiesta "Vallettopoli": gridò al complotto contro An e se la prese con i magistrati «fantasiosi», che «in un Paese normale avrebbero già cambiato mestiere», denunciando tra l'altro il «linciaggio mediatico» a mezzo intercettazioni.
Registriamo dunque che si chiama libertà di stampa, "bellezza", se oggetto degli attacchi dei giornali è Berlusconi, o qualcuno dei suoi ministri e sottosegretari, raggiunti a colpi di veline giudiziarie, verbali, intercettazioni, gossip, pentiti e teoremi vari; si chiama "dossieraggio", squadrismo, o «fabbrica del fango», se sono gli avversari del Cav. a incappare in qualche campagna di stampa negativa. E condivisibile o meno, la campagna del Giornale non è in combutta con qualche Procura, da cui certi quotidiani si fanno volentieri usare. Come fa notare oggi Feltri, «purtroppo ogni notizia dobbiamo sudarcela, perché a noi la magistratura non fa confidenze né ci regala verbali più o meno piccanti. Quel poco che abbiamo, di solito, lo procurano lavorando sodo e bene i nostri cronisti specializzati». Berlusconi è stato messo alla gogna per una telefonata con Saccà, mentre Fini non ha neanche dovuto smentire l'articolo di Bechis sulle sue pressioni sul dirigente Rai (quota An) Paglia per favorire Tulliani.
Per uno che si erge - dopo essere stato alleato del plurinquisito e rinviato a giudizio Berlusconi per 15 anni - a campione della legalità, della "questione morale", e secondo cui né Cesare né la moglie di Cesare dovrebbero essere nemmeno sfiorati da un sospetto, ce ne sarebbe di che riflettere. Ma non saremo certo noi a chiedere le dimissioni del presidente Fini per quelle che fino ad ora sono solo illazioni della stampa "nemica". Sappiamo di non poterci aspettare un comportamento coerente con l'intransigenza e gli standard "etici" che applica agli altri (basti ricordare il trattamento riservato, solo pochi giorni fa, dal suo neonato gruppo parlamentare al sottosegretario Caliendo, coinvolto nell'inchiesta più farlocca della storia su una fantomatica "P3").
Le dimissioni le chiederemmo piuttosto per il modo oltraggioso e anticostituzionale in cui Fini sta interpretando la sua carica. Mai nessun presidente della Camera aveva dato vita a propri gruppi parlamentari con lo scopo conclamato di "guerreggiare" contro il presidente del Consiglio. Non contento, Fini non si è limitato a promuovere il suo gruppo. Detta la linea da tenere sulle votazioni e le dichiarazioni da rilasciare, persino durante le sedute; indica i suoi capigruppo alla Camera e al Senato; contro la volontà dei gruppi di maggioranza dà il via libera a ordini del giorno funzionali al suo disegno politico. Non può essere sfiduciato, è vero, ma se i gruppi di maggioranza non si sentono più garantiti - a ragione, visto che cominciano a subire calendarizzazioni "di minoranza" - un problema politico esiste e dovrebbe essere sua sensibilità istituzionale prenderne atto. Provate un istante a immaginare cosa sarebbe accaduto se la presidente Iotti, o Napolitano, avessero costituito propri gruppi parlamentari distinti da quello del Pci-Pds. Inimmaginabile, non è vero?
Ma i custodi della Costituzione tacciono. Tutto è lecito quando si tratta di buttar giù Berlusconi e hanno trovato in Fini un promettente arnese, la Kerkaporta del Pdl, riprendendo una felice metafora di Giampaolo Rossi:
Non si tratterà di «soldi o beni pubblici», come si premura di precisare Fini nella sua nota, ma in questo modo dimostra di avere del partito un'idea "privatistica", piuttosto simile a quella che rimprovera a Berlusconi. L'aspetto più discutibile della vicenda non sta nell'aver favorito il "cognato". Stiamo parlando della vendita di un immobile a una società offshore a rischio riciclaggio e di almeno un milione di euro che manca rispetto al suo valore. Denaro che presumibilmente qualcuno, in qualche forma, evadendo il fisco, ha intascato, o fatto sparire nelle varie transazioni. Inoltre, Fini parte all'attacco: «Non ho l'abitudine di strillare contro i magistrati comunisti». Una manifesta falsità. Non li avrà definiti «comunisti», ma ricordiamo bene la sua reazione quando non più di quattro anni fa il suo ex portavoce, Salvo Sottile, fu coinvolto dell'inchiesta "Vallettopoli": gridò al complotto contro An e se la prese con i magistrati «fantasiosi», che «in un Paese normale avrebbero già cambiato mestiere», denunciando tra l'altro il «linciaggio mediatico» a mezzo intercettazioni.
Registriamo dunque che si chiama libertà di stampa, "bellezza", se oggetto degli attacchi dei giornali è Berlusconi, o qualcuno dei suoi ministri e sottosegretari, raggiunti a colpi di veline giudiziarie, verbali, intercettazioni, gossip, pentiti e teoremi vari; si chiama "dossieraggio", squadrismo, o «fabbrica del fango», se sono gli avversari del Cav. a incappare in qualche campagna di stampa negativa. E condivisibile o meno, la campagna del Giornale non è in combutta con qualche Procura, da cui certi quotidiani si fanno volentieri usare. Come fa notare oggi Feltri, «purtroppo ogni notizia dobbiamo sudarcela, perché a noi la magistratura non fa confidenze né ci regala verbali più o meno piccanti. Quel poco che abbiamo, di solito, lo procurano lavorando sodo e bene i nostri cronisti specializzati». Berlusconi è stato messo alla gogna per una telefonata con Saccà, mentre Fini non ha neanche dovuto smentire l'articolo di Bechis sulle sue pressioni sul dirigente Rai (quota An) Paglia per favorire Tulliani.
Per uno che si erge - dopo essere stato alleato del plurinquisito e rinviato a giudizio Berlusconi per 15 anni - a campione della legalità, della "questione morale", e secondo cui né Cesare né la moglie di Cesare dovrebbero essere nemmeno sfiorati da un sospetto, ce ne sarebbe di che riflettere. Ma non saremo certo noi a chiedere le dimissioni del presidente Fini per quelle che fino ad ora sono solo illazioni della stampa "nemica". Sappiamo di non poterci aspettare un comportamento coerente con l'intransigenza e gli standard "etici" che applica agli altri (basti ricordare il trattamento riservato, solo pochi giorni fa, dal suo neonato gruppo parlamentare al sottosegretario Caliendo, coinvolto nell'inchiesta più farlocca della storia su una fantomatica "P3").
Le dimissioni le chiederemmo piuttosto per il modo oltraggioso e anticostituzionale in cui Fini sta interpretando la sua carica. Mai nessun presidente della Camera aveva dato vita a propri gruppi parlamentari con lo scopo conclamato di "guerreggiare" contro il presidente del Consiglio. Non contento, Fini non si è limitato a promuovere il suo gruppo. Detta la linea da tenere sulle votazioni e le dichiarazioni da rilasciare, persino durante le sedute; indica i suoi capigruppo alla Camera e al Senato; contro la volontà dei gruppi di maggioranza dà il via libera a ordini del giorno funzionali al suo disegno politico. Non può essere sfiduciato, è vero, ma se i gruppi di maggioranza non si sentono più garantiti - a ragione, visto che cominciano a subire calendarizzazioni "di minoranza" - un problema politico esiste e dovrebbe essere sua sensibilità istituzionale prenderne atto. Provate un istante a immaginare cosa sarebbe accaduto se la presidente Iotti, o Napolitano, avessero costituito propri gruppi parlamentari distinti da quello del Pci-Pds. Inimmaginabile, non è vero?
Ma i custodi della Costituzione tacciono. Tutto è lecito quando si tratta di buttar giù Berlusconi e hanno trovato in Fini un promettente arnese, la Kerkaporta del Pdl, riprendendo una felice metafora di Giampaolo Rossi:
«In questi lunghi mesi di assedio alla cittadella berlusconiana, bombardata dai poteri forti, assaltata dalle macchinose torri d'assedio giudiziarie, aggredita dalle urla mediatiche dei mercenari dell'informazione, Gianfranco Fini è stato la Kerkaporta del Pdl: il varco attraverso il quale un esercito attaccante ormai demotivato, infiacchito dalla inaspettata resistenza degli assediati e ormai pronto a levare le tende, ha sperato improvvisamente di penetrare nel cuore della città. Fini ha rischiato di rappresentare la piccola tessera di casualità che spesso completa il mosaico della storia. Zweig racconta lo stupore del piccolo drappello di giannizzeri nel trovare la porta aperta che conduceva al centro di Bisanzio. Lo stesso stupore che ha accompagnato il tifo da stadio che l'intellighenzia progressista ha fatto in questi mesi per Gianfranco Fini e la sua improbabile armata di politici senza voti e intellettuali senza idee. In nessun paese normale un leader che si definisce di destra è così coccolato, corteggiato e adulato dalla sinistra, e solo questo dovrebbe far riflettere chi ha continuato, da destra, a pensare che la Kerkaporta finiana non esistesse. Il danno che Fini ha prodotto nel centrodestra in questi mesi è incalcolabile...»
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