Quanto meno il ministro degli Esteri Frattini ha ricordato a Il Messaggero che di diritti umani in Cina «dovremmo parlare continuamente, in tutte le sedi opportune, non solo ora che le Olimpiadi sono alle porte».
«Non politicizzare i Giochi. Lo sport è sport», insiste il ministro, che finge di non accorgersi che se anche non prevederà incontri politici, la sua stessa presenza a Pechino l'8 agosto per la cerimonia inaugurale, nella tribuna riservata alle autorità, ha un valore eminentemente politico. Quando si dice di «non politicizzare i Giochi» ci si preoccupa sempre di un'eventuale politicizzazione di segno critico nei confronti di Pechino, ma mai della politicizzazione di segno opposto, di carattere trionfalistico e nazionalista, a cui con la propria presenza si contribuisce.
Il ministro parla di «schizzi di fango gratuiti sui Giochi» ma, ahimé, è così miope da non accorgersi che è il governo cinese (complice il Cio) ad aver già infangato le Olimpiadi e lo spirito dello sport, con le sue politiche repressive e disumane in Tibet e nel resto della Cina.
Una nota di speranza giunge invece da Washington. Il presidente Bush ieri ha incontrato privatamente cinque leader della dissidenza cinese rifugiati negli Stati Uniti (tra cui anche iscritti al Partito Radicale): il premio Sakharov Wei Jinsheng, Harry Wu, Rebiya Kadeer, leader degli uiguri, Xiqiu Fu, reduce di Tienanmen, e la scrittrice Sasha Gong.
L'incontro è avvenuto tra l'altro durante una visita ufficiale del ministro degli Esteri cinese, Yang Jeehi. Un affronto per Pechino, che li considera oppositori pericolosi per la sicurezza nazionale. I cinque si sono detti soddisfatti del colloquio con il presidente americano. Non approvano la sua decisione di partecipare alla cerimonia di apertura dei Giochi, ma pare che Bush gli abbia assicurato che approfitterà dell'imminente viaggio per chiarire ancora una volta che «libertà religiosa e diritti umani non possono essere negati a nessuno».
Thursday, July 31, 2008
Attenzione al consigliere invisibile di Karadzic
su Il Foglio.it
Karadzic si è tolto il travestimento e si è presentato oggi davanti ai giudici dell'Aja facendo capire di avere tutta l'intenzione di seguire i passi di Milosevic: «Mi difendo da solo». Probabilmente è all'ex dittatore jugoslavo che si riferiva quando ha detto di avere «un consigliere invisibile». Uno che ha già messo in scacco la Corte dell'Aja. E' pronto a difendersi utilizzando, come Milosevic, le armi della politica e sfruttando gli errori che l'accusa rischia di ripetere.
Errori di cui si è accorto finalmente anche Antonio Cassese, che su la Repubblica raccomanda di «evitare l'errore del megaprocesso di Milosevic», auspica che si possa «emendare l'atto di accusa del 2000» per dividere il processo «in tre tronconi distinti» e così «andare avanti più speditamente ed evitare che tutto si impantani».
Si assiste al paradosso per cui lo stesso Antonio Cassese che vuole salvare Tarek Aziz dall'impiccagione, e che critica il tribunale iracheno perché a suo avviso non garantirebbe all'imputato le garanzie e i diritti della difesa, vorrebbe che sia negato a Karadzic il diritto a difendersi da solo, per evitare che un imputato su cui pesano prove «schiaccianti» trasformi il processo in una tribuna politica. Bell'esempio di garantismo...
Mi pare si adottino due pesi e due misure nei confronti dell'Aja e di Baghdad, quasi che Saddam e Aziz non fossero criminali alla stessa stregua (quanto meno) di Karadzic.
No, il punto è un altro. Il problema del processo Milosevic non fu l'avergli concesso di difendersi da solo, ma furono gli errori commessi nella strategia d'accusa. Qui non si tratta semplicemente di dividere il processo in tre tronconi che già suonano come i titoli di tre gigantesche opere storiografiche ("I crimini del 1992 in Bosnia"; "L'assedio di Sarajevo"; "Il genocidio di Srebrenica"), ma di rovesciare del tutto il metodo.
Non disumanizzare il processo, comprendere e accettare che la giustizia umana è imperfetta, mentre c'è qualcuno che più grande è il criminale più mira a una perfezione disumana, provocando danni immani. Isolare un fatto su cui si possiedono il maggior numero di prove e testimonianze incontrovertibili, circoscrivere ad esso l'accusa. Pazienza se Karadzic non verrà condannato per tutti i tremendi crimini che ha commesso, e se non gli si chiederà conto di tutte le sue vittime una per una, se il rischio è di non vederlo mai condannato. La giustizia umana ha le sue ragioni che il cuore non comprende.
Karadzic si è tolto il travestimento e si è presentato oggi davanti ai giudici dell'Aja facendo capire di avere tutta l'intenzione di seguire i passi di Milosevic: «Mi difendo da solo». Probabilmente è all'ex dittatore jugoslavo che si riferiva quando ha detto di avere «un consigliere invisibile». Uno che ha già messo in scacco la Corte dell'Aja. E' pronto a difendersi utilizzando, come Milosevic, le armi della politica e sfruttando gli errori che l'accusa rischia di ripetere.
Errori di cui si è accorto finalmente anche Antonio Cassese, che su la Repubblica raccomanda di «evitare l'errore del megaprocesso di Milosevic», auspica che si possa «emendare l'atto di accusa del 2000» per dividere il processo «in tre tronconi distinti» e così «andare avanti più speditamente ed evitare che tutto si impantani».
Si assiste al paradosso per cui lo stesso Antonio Cassese che vuole salvare Tarek Aziz dall'impiccagione, e che critica il tribunale iracheno perché a suo avviso non garantirebbe all'imputato le garanzie e i diritti della difesa, vorrebbe che sia negato a Karadzic il diritto a difendersi da solo, per evitare che un imputato su cui pesano prove «schiaccianti» trasformi il processo in una tribuna politica. Bell'esempio di garantismo...
Mi pare si adottino due pesi e due misure nei confronti dell'Aja e di Baghdad, quasi che Saddam e Aziz non fossero criminali alla stessa stregua (quanto meno) di Karadzic.
No, il punto è un altro. Il problema del processo Milosevic non fu l'avergli concesso di difendersi da solo, ma furono gli errori commessi nella strategia d'accusa. Qui non si tratta semplicemente di dividere il processo in tre tronconi che già suonano come i titoli di tre gigantesche opere storiografiche ("I crimini del 1992 in Bosnia"; "L'assedio di Sarajevo"; "Il genocidio di Srebrenica"), ma di rovesciare del tutto il metodo.
Non disumanizzare il processo, comprendere e accettare che la giustizia umana è imperfetta, mentre c'è qualcuno che più grande è il criminale più mira a una perfezione disumana, provocando danni immani. Isolare un fatto su cui si possiedono il maggior numero di prove e testimonianze incontrovertibili, circoscrivere ad esso l'accusa. Pazienza se Karadzic non verrà condannato per tutti i tremendi crimini che ha commesso, e se non gli si chiederà conto di tutte le sue vittime una per una, se il rischio è di non vederlo mai condannato. La giustizia umana ha le sue ragioni che il cuore non comprende.
Fallisce Doha Round. Le nazioni tornano al protezionismo?
Alla fine il riflesso protezionista sembra aver contagiato Cina e India. E' anche per colpa dei due giganti asiatici, infatti, se il Doha Round si è arenato, come spiega oggi Alberto Mingardi su il Riformista. Un esito paradossale, «con le nazioni che beneficiano di manodopera low cost che temono Paesi tecnologicamente più avanzati» e proteggono i loro mercati dalle importazioni agricole americane.
Sempre il grano. Eppure, proprio l'abolizione dei dazi sul grano nell'Inghilterra del 1848 «fu uno dei pochi punti mai segnati a favore del libero scambio» e si rivelò una delle spinte più formidabili allo sviluppo dell'economia dell'epoca. Anche oggi l'abolizione dei dazi sul grano potrebbe produrre gli stessi benefici effetti, ma stavolta su scala planetaria, aiutando il libero scambio a dare impulso a una crescita economica globale.
Certo, osserva Mingardi, «se le pretese dell'Occidente a vantaggio delle proprie clientele di agricoltori fossero state più leggere, nel 2003 e nel 2005, non saremmo a questo punto. E non avremmo legittimato, col nostro, il protezionismo degli altri».
Il guaio è che i negoziati del Wto non sono guidati dalle valutazioni degli economisti, quanto piuttosto da una casta di "mercantilisti illuminati", come li ha definiti Paul Krugman. «Politica, non mercato». I riflessi protezionistici prevalgono laddove la politica fa valere le sue logiche e non quelle funzionali del mercato.
A questo punto, potrebbe aprirsi lo spazio per l'idea tremontiana di una nuova Bretton Woods. Che sia però nuova, non una Bretton Woods al contrario.
Sempre il grano. Eppure, proprio l'abolizione dei dazi sul grano nell'Inghilterra del 1848 «fu uno dei pochi punti mai segnati a favore del libero scambio» e si rivelò una delle spinte più formidabili allo sviluppo dell'economia dell'epoca. Anche oggi l'abolizione dei dazi sul grano potrebbe produrre gli stessi benefici effetti, ma stavolta su scala planetaria, aiutando il libero scambio a dare impulso a una crescita economica globale.
Certo, osserva Mingardi, «se le pretese dell'Occidente a vantaggio delle proprie clientele di agricoltori fossero state più leggere, nel 2003 e nel 2005, non saremmo a questo punto. E non avremmo legittimato, col nostro, il protezionismo degli altri».
Il guaio è che i negoziati del Wto non sono guidati dalle valutazioni degli economisti, quanto piuttosto da una casta di "mercantilisti illuminati", come li ha definiti Paul Krugman. «Politica, non mercato». I riflessi protezionistici prevalgono laddove la politica fa valere le sue logiche e non quelle funzionali del mercato.
A questo punto, potrebbe aprirsi lo spazio per l'idea tremontiana di una nuova Bretton Woods. Che sia però nuova, non una Bretton Woods al contrario.
Sacconi difende la strategia del governo con i sindacati
C'è chi parla di «cedimento» e di «braghe calate», come Paragone su Libero, e chi invece, come Il Foglio, di un'iniziativa dell'esecutivo che «salva l'essenziale» dei due discussi emendamenti parlamentari sull'assunzione dei "precari" per via giudiziaria e sul taglio degli assegni sociali. In entrambi i casi il merito, o la colpa, dell'intervento governativo va attribuito al ministro Sacconi.
In entrambi i casi la maggioranza parlamentare aveva combinato dei pasticci. Per colpire il dispendioso malcostume delle pensioni "facili" erogate agli immigrati più furbi si finiva con il tagliare gli assegni sociali in modo indiscriminato, quindi anche a casalinghe e indigenti. Nell'altro caso si è trattato in realtà solo di un mezzo pasticcio. Per non far pagare ai contribuenti gli stipendi di migliaia di postini inutili, l'emendamento stabiliva il diritto all'indennizzo invece che all'assunzione a tempo indeterminato per tutti i lavoratori "precari" che avessero vinto la causa contro la loro azienda. Al Senato la norma è stata circoscritta ai soli contenziosi in corso nel momento di approvazione della legge (circa 44 mila), cioè per lo più quelli che coinvolgono Poste italiane, facendo salva la disciplina ordinaria dei contratti a termine.
Il provvedimento si basava su un principio di fondo - indennizzo al posto di assunzione/reintegro - condivisibile, ma aveva il difetto di limitare questa "riforma" - l'abolizione di fatto dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori - ai soli precari. Soprattutto però, come hanno osservato Oscar Giannino e Il Foglio, si scontrava con la strategia scelta dal governo per portare avanti la sua agenda economico-sociale, che in questa fase prevede il dialogo tra e con le parti sociali, quindi con il sindacato, evitando, o dilazionando il più possibile, occasioni di scontro, e preparando i presupposti perché Cisl e Uil possano rimanere al tavolo quando la Cgil deciderà di strappare. L'obiettivo cui tiene di più Sacconi, per esempio, è la riforma della contrattazione collettiva ed è pronto a fare qualsiasi cosa in questo momento pur favorire, o non ostacolare, l'accordo tra le parti sociali.
Una strategia che non mi pare la più adeguata, perché storicamente non ha prodotto le riforme incisive che all'Italia servirebbero, e della quale in ogni caso i parlamentari della maggioranza andrebbero messi al corrente, perché non si ripetano simili iniziative di "disturbo" che costringano il governo a penosi dietrofront.
Malvino mi chiama in causa per i miei giudizi sul ministro Sacconi, che sarebbero contraddetti dall'intervista al ministro su Il Foglio di ieri. Ammetto di non ricordare bene, ma non credo di aver scritto molto su Sacconi prima di oggi. Di certo per salutare come nota positiva il suo ingresso al governo come ministro del Lavoro, ma poco altro.
Quello di Sacconi è un ministero chiave, strategico per lo sviluppo economico e per la finanza pubblica (pensioni e sanità sono due tra le maggiori voci di spesa). Così come lo sono i settori in cui operano la Gelmini e Brunetta, che hanno iniziato bene. Se il suo «abrogare il '68» significa flessibilità, riforma del diritto del lavoro e della contrattazione collettiva, un nuovo welfare fondato sulla responsabilità individuale, superando l'attuale assistenzialismo, età di pensionamento più alta, allora mi trova d'accordo. Questi gli obiettivi - condivisibili, mi sembra - che si è posto. Vedremo se riuscirà a realizzarli.
L'antropologia e le etichette m'interessano meno. E' un «liberale»? Non saprei. Non so neanche se lui stesso si definisca tale. Parla di «economia sociale di mercato» e più probabilmente ama definirsi riformista. Per quanto mi riguarda, sul governo e su Sacconi valgono le considerazioni affidate a questo post. Ex socialisti, craxiani, guidano i ministeri economici (e non solo) del governo Berlusconi. Tranne Brunetta, forse, non possono dirsi liberali e liberisti. Dunque, Sacconi non è liberale, ma potrebbe realizzare delle riforme liberali. Non è liberale, ma i suoi predecessori forse lo erano? Non è liberale, ma qualcuno avrebbe l'ardire di paragonarlo al controriformista Damiano, rispetto al quale ha certamente una visione più realistica e meno ideologica dei problemi del lavoro e del welfare?
In entrambi i casi la maggioranza parlamentare aveva combinato dei pasticci. Per colpire il dispendioso malcostume delle pensioni "facili" erogate agli immigrati più furbi si finiva con il tagliare gli assegni sociali in modo indiscriminato, quindi anche a casalinghe e indigenti. Nell'altro caso si è trattato in realtà solo di un mezzo pasticcio. Per non far pagare ai contribuenti gli stipendi di migliaia di postini inutili, l'emendamento stabiliva il diritto all'indennizzo invece che all'assunzione a tempo indeterminato per tutti i lavoratori "precari" che avessero vinto la causa contro la loro azienda. Al Senato la norma è stata circoscritta ai soli contenziosi in corso nel momento di approvazione della legge (circa 44 mila), cioè per lo più quelli che coinvolgono Poste italiane, facendo salva la disciplina ordinaria dei contratti a termine.
Il provvedimento si basava su un principio di fondo - indennizzo al posto di assunzione/reintegro - condivisibile, ma aveva il difetto di limitare questa "riforma" - l'abolizione di fatto dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori - ai soli precari. Soprattutto però, come hanno osservato Oscar Giannino e Il Foglio, si scontrava con la strategia scelta dal governo per portare avanti la sua agenda economico-sociale, che in questa fase prevede il dialogo tra e con le parti sociali, quindi con il sindacato, evitando, o dilazionando il più possibile, occasioni di scontro, e preparando i presupposti perché Cisl e Uil possano rimanere al tavolo quando la Cgil deciderà di strappare. L'obiettivo cui tiene di più Sacconi, per esempio, è la riforma della contrattazione collettiva ed è pronto a fare qualsiasi cosa in questo momento pur favorire, o non ostacolare, l'accordo tra le parti sociali.
Una strategia che non mi pare la più adeguata, perché storicamente non ha prodotto le riforme incisive che all'Italia servirebbero, e della quale in ogni caso i parlamentari della maggioranza andrebbero messi al corrente, perché non si ripetano simili iniziative di "disturbo" che costringano il governo a penosi dietrofront.
Malvino mi chiama in causa per i miei giudizi sul ministro Sacconi, che sarebbero contraddetti dall'intervista al ministro su Il Foglio di ieri. Ammetto di non ricordare bene, ma non credo di aver scritto molto su Sacconi prima di oggi. Di certo per salutare come nota positiva il suo ingresso al governo come ministro del Lavoro, ma poco altro.
Quello di Sacconi è un ministero chiave, strategico per lo sviluppo economico e per la finanza pubblica (pensioni e sanità sono due tra le maggiori voci di spesa). Così come lo sono i settori in cui operano la Gelmini e Brunetta, che hanno iniziato bene. Se il suo «abrogare il '68» significa flessibilità, riforma del diritto del lavoro e della contrattazione collettiva, un nuovo welfare fondato sulla responsabilità individuale, superando l'attuale assistenzialismo, età di pensionamento più alta, allora mi trova d'accordo. Questi gli obiettivi - condivisibili, mi sembra - che si è posto. Vedremo se riuscirà a realizzarli.
L'antropologia e le etichette m'interessano meno. E' un «liberale»? Non saprei. Non so neanche se lui stesso si definisca tale. Parla di «economia sociale di mercato» e più probabilmente ama definirsi riformista. Per quanto mi riguarda, sul governo e su Sacconi valgono le considerazioni affidate a questo post. Ex socialisti, craxiani, guidano i ministeri economici (e non solo) del governo Berlusconi. Tranne Brunetta, forse, non possono dirsi liberali e liberisti. Dunque, Sacconi non è liberale, ma potrebbe realizzare delle riforme liberali. Non è liberale, ma i suoi predecessori forse lo erano? Non è liberale, ma qualcuno avrebbe l'ardire di paragonarlo al controriformista Damiano, rispetto al quale ha certamente una visione più realistica e meno ideologica dei problemi del lavoro e del welfare?
Wednesday, July 30, 2008
Alle Olimpiadi una nuova disciplina: la censura
Medaglia d'oro già assegnata...
Oggi nel corso di una conferenza stampa congiunta con il ministro degli Esteri britannico Miliband, tra le altre cose, Frattini ha confermato la sua presenza alla cerimonia inaugurale delle Olimpiadi in Cina. «Temo che per un giornetto o due e miei diritti umani (le ferie!) siano a rischio in agosto», confidava ieri con infelice ironia. Oggi ha spiegato che l'Italia «non intende politicizzare un grande evento sportivo, che deve essere motivo di riconciliazione». Anche per questo a Pechino non avrà incontri politici, «proprio perché a mio avviso lo sport è sport, un'occasione di pacificazione, non un momento in cui si rappresentano posizioni». «Altra cosa è mantenere una politica molto chiara sul dialogo con la Cina, non solo sui temi economici ma anche sui diritti umani» e «il rispetto per le legittime aspirazioni del Tibet a dialogare con le autorità cinesi».
Questo mentre i giornalisti occidentali si accorgono che in Tibet la repressione è ancora in corso, con migliaia di monaci segregati, e che su internet continuerà ad abbattersi la censura del regime anche durante le Olimpiadi, in patente violazione degli impegni che Pechino aveva preso con il Cio per garantirsi l'assegnazione dei Giochi, tra cui, appunto, l'accesso completo alla rete almeno durante tutto l'evento. Neanche alla stampa straniera, invece, verrà garantito un accesso alla rete senza censure. E il Cio, naturalmente, abbozza. Il responsabile della Commissione stampa, Kevin Gosper, si è detto «deluso» dalle limitazioni, ammettendo che il Cio ha negoziato con i cinesi il blocco di alcuni siti considerati non collegati ai Giochi. «Qui si ha a che fare con un Paese comunista che applica la censura. Si ottiene quello che secondo loro si può avere». Se ne accorgono a una settimana dall'apertura...
«La nostra promessa era di permettere ai giornalisti di usare internet per il loro lavoro durante le Olimpiadi e noi abbiamo assicurato questa possibilità a sufficienza», ha spiegato un portavoce del comitato organizzativo cinese. Caso chiuso, oro alla Cina.
Oggi nel corso di una conferenza stampa congiunta con il ministro degli Esteri britannico Miliband, tra le altre cose, Frattini ha confermato la sua presenza alla cerimonia inaugurale delle Olimpiadi in Cina. «Temo che per un giornetto o due e miei diritti umani (le ferie!) siano a rischio in agosto», confidava ieri con infelice ironia. Oggi ha spiegato che l'Italia «non intende politicizzare un grande evento sportivo, che deve essere motivo di riconciliazione». Anche per questo a Pechino non avrà incontri politici, «proprio perché a mio avviso lo sport è sport, un'occasione di pacificazione, non un momento in cui si rappresentano posizioni». «Altra cosa è mantenere una politica molto chiara sul dialogo con la Cina, non solo sui temi economici ma anche sui diritti umani» e «il rispetto per le legittime aspirazioni del Tibet a dialogare con le autorità cinesi».
Questo mentre i giornalisti occidentali si accorgono che in Tibet la repressione è ancora in corso, con migliaia di monaci segregati, e che su internet continuerà ad abbattersi la censura del regime anche durante le Olimpiadi, in patente violazione degli impegni che Pechino aveva preso con il Cio per garantirsi l'assegnazione dei Giochi, tra cui, appunto, l'accesso completo alla rete almeno durante tutto l'evento. Neanche alla stampa straniera, invece, verrà garantito un accesso alla rete senza censure. E il Cio, naturalmente, abbozza. Il responsabile della Commissione stampa, Kevin Gosper, si è detto «deluso» dalle limitazioni, ammettendo che il Cio ha negoziato con i cinesi il blocco di alcuni siti considerati non collegati ai Giochi. «Qui si ha a che fare con un Paese comunista che applica la censura. Si ottiene quello che secondo loro si può avere». Se ne accorgono a una settimana dall'apertura...
«La nostra promessa era di permettere ai giornalisti di usare internet per il loro lavoro durante le Olimpiadi e noi abbiamo assicurato questa possibilità a sufficienza», ha spiegato un portavoce del comitato organizzativo cinese. Caso chiuso, oro alla Cina.
Frattini lavora alla "nuova" Bretton Woods tremontiana
In due giorni il ministro degli Esteri Frattini è volato prima a Washington poi a Londra. Gli incontri con Condoleezza Rice e David Miliband sono serviti a risintonizzare l'Italia sulle frequenze dell'atlantismo dopo la parentesi del governo Prodi e a illustrare le idee italiane sull'agenda del prossimo G8.
Agli amici americani Frattini ha potuto garantire l'aiuto in Afghanistan che da mesi si aspettano dagli europei: la nuova «flessibilità» decisa dal governo italiano permetterà alle nostre truppe di base a Herat spostamenti anche nelle zone più calde del Sud, decisi entro sei ore direttamente dai comandi militari sul terreno. Un «dovere istituzionale e morale dell'Italia collaborare in parità di trattamento» con gli altri alleati della Nato. Ciò non è bastato ad assicurare all'Italia l'esplicito appoggio Usa per un posto nel gruppo dei 5+1 che negoziano con l'Iran sul nucleare. Ingresso che evidentemente ad oggi neanche Bush può garantire. Ma Frattini ha confermato la nuova linea della fermezza nei confronti di Teheran, ribadita nell'incontro di oggi con il ministro degli Esteri britannico Miliband. Si è detto «deluso» per le ultime parole di Khamenei, che richiedono «una risposta ferma e seria da parte dell'Ue, con la piena applicazione delle sanzioni Onu».
Nei suoi colloqui con la Rice e Miliband il ministro Frattini ha anche gettato le basi dell'agenda del prossimo G8, la cui presidenza spetta all'Italia. In particolare, ha sostenuto l'idea tremontiana di una «nuova Bretton Woods» per la governance commerciale e finanziaria globale. Chissà, però, se Tremonti ne ha in mente una semplicemente nuova o una in senso contrario. Comunque, siamo ancora nella fase delle «suggestioni», ma il G8 sotto presidenza italiana nel 2009 potrebbe essere una buona occasione per il lancio dell'iniziativa, sulla quale Frattini avrebbe riscontrato il favore di Londra e che potrebbe rivelarsi allettante dopo il fallimento dei negoziati del Doha Round.
Insieme a istituzioni finanziarie internazionali come Banca mondiale, Fmi e Bce, il G8 dovrebbe dare risposte alla crisi mondiale, privilegiando «proposte concrete anziché grandi documenti pieni solo di belle parole» e concentrandosi «su pochi argomenti ma di grande impatto globale». Al summit l'Italia pensa di invitare non solo nazioni emergenti come Cina, India e Brasile, ma anche Arabia Saudita e Pakistan.
Altri temi affrontati da Frattini e Miliband le difficoltà del Trattato di Lisbona e le prospettive di allargamento alla Turchia e alla Serbia. Su Belgrado, Londra e altre capitali europee sono più caute dell'Italia. Non si accontentano di Karadzic, vogliono la consegna degli altri criminali di guerra.
Agli amici americani Frattini ha potuto garantire l'aiuto in Afghanistan che da mesi si aspettano dagli europei: la nuova «flessibilità» decisa dal governo italiano permetterà alle nostre truppe di base a Herat spostamenti anche nelle zone più calde del Sud, decisi entro sei ore direttamente dai comandi militari sul terreno. Un «dovere istituzionale e morale dell'Italia collaborare in parità di trattamento» con gli altri alleati della Nato. Ciò non è bastato ad assicurare all'Italia l'esplicito appoggio Usa per un posto nel gruppo dei 5+1 che negoziano con l'Iran sul nucleare. Ingresso che evidentemente ad oggi neanche Bush può garantire. Ma Frattini ha confermato la nuova linea della fermezza nei confronti di Teheran, ribadita nell'incontro di oggi con il ministro degli Esteri britannico Miliband. Si è detto «deluso» per le ultime parole di Khamenei, che richiedono «una risposta ferma e seria da parte dell'Ue, con la piena applicazione delle sanzioni Onu».
Nei suoi colloqui con la Rice e Miliband il ministro Frattini ha anche gettato le basi dell'agenda del prossimo G8, la cui presidenza spetta all'Italia. In particolare, ha sostenuto l'idea tremontiana di una «nuova Bretton Woods» per la governance commerciale e finanziaria globale. Chissà, però, se Tremonti ne ha in mente una semplicemente nuova o una in senso contrario. Comunque, siamo ancora nella fase delle «suggestioni», ma il G8 sotto presidenza italiana nel 2009 potrebbe essere una buona occasione per il lancio dell'iniziativa, sulla quale Frattini avrebbe riscontrato il favore di Londra e che potrebbe rivelarsi allettante dopo il fallimento dei negoziati del Doha Round.
Insieme a istituzioni finanziarie internazionali come Banca mondiale, Fmi e Bce, il G8 dovrebbe dare risposte alla crisi mondiale, privilegiando «proposte concrete anziché grandi documenti pieni solo di belle parole» e concentrandosi «su pochi argomenti ma di grande impatto globale». Al summit l'Italia pensa di invitare non solo nazioni emergenti come Cina, India e Brasile, ma anche Arabia Saudita e Pakistan.
Altri temi affrontati da Frattini e Miliband le difficoltà del Trattato di Lisbona e le prospettive di allargamento alla Turchia e alla Serbia. Su Belgrado, Londra e altre capitali europee sono più caute dell'Italia. Non si accontentano di Karadzic, vogliono la consegna degli altri criminali di guerra.
Tuesday, July 29, 2008
Frattini, almeno ci risparmi il suo macabro umorismo
Tarek Aziz è più famoso dei 29 poveri diavoli messi a morte in un solo giorno in Iran, issati sulle gru. No, bisogna a tutti i costi salvare la vita al criminale Tarek Aziz, massacratore di stato insieme a Saddam Hussein, entrambi processati dal "filo-americano" Iraq di al Maliki. Però non da un Tribunale per l'Iraq, come si vede scritto da qualche parte, ma da un tribunale degli iracheni.
Spostandoci più a oriente, oggi non si fatica a credere a quanto scrive Lorenzo Cremonesi nel suo reportage dal Tibet, che non si discosta molto da quelli di altri giornalisti europei rientrati nella regione. Altro che maggiore apertura in occasione dei Giochi olimpici. Pechino tiene migliaia di monaci confinati nei monasteri, letteralmente prigionieri, isolati, controllati a vista e costretti a sedute di rieducazione. Lhasa è militarizzata e deserta.
Lo stesso Dalai Lama ha accettato che si spegnessero i riflettori sulla repressione ancora in corso in cambio di un paio di inutili colloqui tra i suoi emissari e i rappresentanti cinesi. Pechino con poca fatica è riuscita a zittire i leader occidentali concedendo la «ripresa del dialogo» che chiedevano per chiudere un occhio e stamparsi di nuovo il sorriso in faccia. Cosa conta se il dialogo è fasullo, sia Bush sia Sarkozy riusciranno a godersi la cerimonia inaugurale dei Giochi dal vivo.
Berlusconi no, ma l'Italia non vuol esser da meno e così manda Frattini, che solo qualche giorno fa aveva detto che sarebbe stato in vacanza in quei giorni. E invece, oggi teme che «per un giornetto o due» i suoi «diritti umani» (le ferie!) siano «a rischio in agosto». Capite l'ironia? Alla faccia di tutti quei milioni di tibetani e cinesi non hanno diritti umani né ferie. E non «per un giornetto o due». Ministro, vada pure, ma almeno ci risparmi il suo macabro umorismo.
Sempre di oggi, un'altra notizia non proprio di "apertura" dalla Cina. L'attivista Ni Yulan, che si era battuta contro la demolizione di case a Pechino in vista delle Olimpiadi, sarà processata il 4 agosto, pochi giorni prima dell'inizio dei Giochi. Lo ha reso noto il marito. La signora ha 48 anni e fu arrestata in aprile, per aver cercato di fermare l'abbattimento della sua casa, che come migliaia di altri vani doveva essere distrutta per il riammodernamento della città in vista delle Olimpiadi dell'8 agosto.
La donna, avvocato, aveva respinto il misero risarcimento offerto dal governo e prestato assistenza ad altre persone nella sua stessa situazione, stringendo contatti con i gruppi per i diritti umani e i media stranieri. Nel 2002, mentre filmava una demolizione forzata, fu picchiata dalla polizia e da allora è costretta a camminare con le stampelle. Scontò un anno di
carcere "per ostruzione di attività ufficiale". I suoi parenti affermano che dopo il nuovo arresto le sono state sequestrate le stampelle e che ora sarebbe costretta a strisciare anche per recarsi in bagno. Rischia una condanna fra i due e i tre anni di carcere. Oppure solo un mese, giusto per toglierla di mezzo, per impedire che parli con i media stranieri proprio durante le Olimpiadi. Nei giorni scorsi un'altra famiglia ha perso la sua battaglia, ci segnala 1972.
Peccato per i suoi «diritti umani», Frattini, ma può sempre chiedere asilo in Cina.
Spostandoci più a oriente, oggi non si fatica a credere a quanto scrive Lorenzo Cremonesi nel suo reportage dal Tibet, che non si discosta molto da quelli di altri giornalisti europei rientrati nella regione. Altro che maggiore apertura in occasione dei Giochi olimpici. Pechino tiene migliaia di monaci confinati nei monasteri, letteralmente prigionieri, isolati, controllati a vista e costretti a sedute di rieducazione. Lhasa è militarizzata e deserta.
Lo stesso Dalai Lama ha accettato che si spegnessero i riflettori sulla repressione ancora in corso in cambio di un paio di inutili colloqui tra i suoi emissari e i rappresentanti cinesi. Pechino con poca fatica è riuscita a zittire i leader occidentali concedendo la «ripresa del dialogo» che chiedevano per chiudere un occhio e stamparsi di nuovo il sorriso in faccia. Cosa conta se il dialogo è fasullo, sia Bush sia Sarkozy riusciranno a godersi la cerimonia inaugurale dei Giochi dal vivo.
Berlusconi no, ma l'Italia non vuol esser da meno e così manda Frattini, che solo qualche giorno fa aveva detto che sarebbe stato in vacanza in quei giorni. E invece, oggi teme che «per un giornetto o due» i suoi «diritti umani» (le ferie!) siano «a rischio in agosto». Capite l'ironia? Alla faccia di tutti quei milioni di tibetani e cinesi non hanno diritti umani né ferie. E non «per un giornetto o due». Ministro, vada pure, ma almeno ci risparmi il suo macabro umorismo.
Sempre di oggi, un'altra notizia non proprio di "apertura" dalla Cina. L'attivista Ni Yulan, che si era battuta contro la demolizione di case a Pechino in vista delle Olimpiadi, sarà processata il 4 agosto, pochi giorni prima dell'inizio dei Giochi. Lo ha reso noto il marito. La signora ha 48 anni e fu arrestata in aprile, per aver cercato di fermare l'abbattimento della sua casa, che come migliaia di altri vani doveva essere distrutta per il riammodernamento della città in vista delle Olimpiadi dell'8 agosto.
La donna, avvocato, aveva respinto il misero risarcimento offerto dal governo e prestato assistenza ad altre persone nella sua stessa situazione, stringendo contatti con i gruppi per i diritti umani e i media stranieri. Nel 2002, mentre filmava una demolizione forzata, fu picchiata dalla polizia e da allora è costretta a camminare con le stampelle. Scontò un anno di
carcere "per ostruzione di attività ufficiale". I suoi parenti affermano che dopo il nuovo arresto le sono state sequestrate le stampelle e che ora sarebbe costretta a strisciare anche per recarsi in bagno. Rischia una condanna fra i due e i tre anni di carcere. Oppure solo un mese, giusto per toglierla di mezzo, per impedire che parli con i media stranieri proprio durante le Olimpiadi. Nei giorni scorsi un'altra famiglia ha perso la sua battaglia, ci segnala 1972.
Peccato per i suoi «diritti umani», Frattini, ma può sempre chiedere asilo in Cina.
Ancora balle sui precari
Da anni «va avanti la manipolazione più spudorata su questo tema del lavoro precario», scrive oggi Oscar Giannino, riguardo le polemiche scatenate da quell'emendamento presentato in Parlamento dalla Lega per dare un "aiutino" alle Poste, o piuttosto per non far ricadere sui contribuenti l'onere di un errore formale compiuto dalla società, che ha spalancato le porte dell'assunzione a tempo indeterminato decisa da un giudice per migliaia di lavoratori a termine (forse 20 mila), tra cui anche chi è stato in servizio per soli 20 giorni.
Il fatto sorprendente è che alla mistificazione questa volta non hanno partecipato solo Rifondazione o Diliberto, la Cgil di Epifani, che ha parlato di «autoritarismo strisciante», e i soliti sindacati, ma anche i "riformisti" Pietro Ichino ed Enrico Letta.
Eppure, l'emendamento non fa che applicare a un caso specifico (semmai è questo il suo limite), e a rapporti a tempo determinato, il principio che lo stesso Ichino aveva proposto per superare la rigidità assoluta e indissolubile dei rapporti a tempo indeterminato. Come ben ricorda Giannino, Ichino proponeva di stabilire per legge «che l'assicurazione del lavoro a tempo indeterminato abbia un costo certo di reversibilità, per le imprese... che il rapporto - in certe condizioni legate alle ristrutturazioni e agli andamenti del mercato, cioè alla flessibilità che alla produzione serve - sia solubile a patto che l'impresa si accolli un costo quantificabile con certezza e non dal giudice, fissando in legge un certo numero di mensilità da corrispondere al lavoratore posto fuori dall'azienda».
Insomma, un'indennità anziché il reintegro. Un modo per superare l'assurdità dell'articolo 18. «E che cos'è, la norma di cui oggi Ichino e tutta la sinistra chiedono l'abrogazione immediata, se non la sostituzione del diritto intangibile all'assunzione a tempo indeterminato con un numero di mensilità pagategli dall'azienda?» Con la differenza, si badi bene, che lì si trattava di un licenziamento, qui di una mancata assunzione dopo un periodo, in alcuni casi molto breve, di lavoro a termine.
Cosa succede in situazioni come quelle delle Poste lo spiega bene Il Foglio. Ii giudici del lavoro sono di manica larga e «le resistenze sono più deboli, nel caso degli enti pubblici, in quanto essi possono scaricare i costi sulla collettività». Tuttavia, «la mina vagante di questi ricorsi minaccia la fattibilità dei tagli alla spesa. Il governo dovrebbe ringraziare i parlamentari che hanno presentato questo emendamento, anziché assumere atteggiamenti pilateschi», osserva il quotidiano di Ferrara, che aggiunge un'altra condivisibile riflessione:
Il fatto sorprendente è che alla mistificazione questa volta non hanno partecipato solo Rifondazione o Diliberto, la Cgil di Epifani, che ha parlato di «autoritarismo strisciante», e i soliti sindacati, ma anche i "riformisti" Pietro Ichino ed Enrico Letta.
Eppure, l'emendamento non fa che applicare a un caso specifico (semmai è questo il suo limite), e a rapporti a tempo determinato, il principio che lo stesso Ichino aveva proposto per superare la rigidità assoluta e indissolubile dei rapporti a tempo indeterminato. Come ben ricorda Giannino, Ichino proponeva di stabilire per legge «che l'assicurazione del lavoro a tempo indeterminato abbia un costo certo di reversibilità, per le imprese... che il rapporto - in certe condizioni legate alle ristrutturazioni e agli andamenti del mercato, cioè alla flessibilità che alla produzione serve - sia solubile a patto che l'impresa si accolli un costo quantificabile con certezza e non dal giudice, fissando in legge un certo numero di mensilità da corrispondere al lavoratore posto fuori dall'azienda».
Insomma, un'indennità anziché il reintegro. Un modo per superare l'assurdità dell'articolo 18. «E che cos'è, la norma di cui oggi Ichino e tutta la sinistra chiedono l'abrogazione immediata, se non la sostituzione del diritto intangibile all'assunzione a tempo indeterminato con un numero di mensilità pagategli dall'azienda?» Con la differenza, si badi bene, che lì si trattava di un licenziamento, qui di una mancata assunzione dopo un periodo, in alcuni casi molto breve, di lavoro a termine.
Cosa succede in situazioni come quelle delle Poste lo spiega bene Il Foglio. Ii giudici del lavoro sono di manica larga e «le resistenze sono più deboli, nel caso degli enti pubblici, in quanto essi possono scaricare i costi sulla collettività». Tuttavia, «la mina vagante di questi ricorsi minaccia la fattibilità dei tagli alla spesa. Il governo dovrebbe ringraziare i parlamentari che hanno presentato questo emendamento, anziché assumere atteggiamenti pilateschi», osserva il quotidiano di Ferrara, che aggiunge un'altra condivisibile riflessione:
«La falsa socialità di chi si oppone all'emendamento emerge se si considera che un lavoratore assunto per sentenza sottrae il posto a coloro che l'impresa vorrebbe assumere. Quando si tratta di personale in eccesso, questo è un arcaico imponibile di manonera, che qualcuno pagherà».Tutti sappiamo quale sia il vero problema: l'inamovibilità del personale assunto a tempo indeterminato nel settore pubblico. Che una volta ottenuto il posto fisso, diventa improduttivo, "fannullone", costringendo l'ente a ricorrere ai lavoratori a termine (e a farli "trottare"), i quali a loro volta rivendicheranno i diritti di "San Precario" e verranno riversati nel baraccone. E così via, altro giro-altra corsa, in un circolo vizioso senza fondo.
Friday, July 25, 2008
Il governo rema poco, ma il Pd in senso contrario
Oscar Giannino spiega magistralmente, su Libero, come stanno le cose, conti alla mano, mentre l'opposizione ricorre alla sempre più spuntata arma retorica della "macelleria sociale":
Ora, da un punto di vista liberista e riformatore il governo ne esce meno bene di quanto appare, ma l'opposizione ancora peggio. Qualcuno mi critica perché insisto a prendermela con l'opposizione e non con il governo, che ora ha la responsabilità di ciò che fa. A parte il fatto che critiche a Tremonti e alla sua politica economica qui non sono state risparmiate, insisto: il Governo rema debolmente e lentamente, ma nella giusta direzione; l'opposizione rema in senso contrario, si oppone per il verso sbagliato. Siccome tagliare la spesa pubblica comporta sempre costi politici immediati, il rischio è che accusato di fare macelleria sociale, con una opposizione simile il governo rallenti la sua vogata. Viceversa, con una opposizione che lo incalzasse, potrebbe essere indotto ad accelerarla.
UPDATE: Guarda un po', anche Luca Ricolfi se la prende con l'opposizione. Gli argomenti sono più o meno gli stessi di Giannino e di questo post.
Vi segnalo inoltre questo bell'articolo di Alessandro Giuli per Il Foglio. L'idea di fondo potrebbe rivelarsi non troppo peregrina negli anni futuri fino ad emergere come analisi fondata dell'attuale esperienza di governo. Un governo che sembra craxiano, decisionista e riformista di impronta socialista. Economia sociale di mercato, appunto.
«Innanzitutto, mettiamoci d'accordo su che cosa si debba intendere, per "tagli". Un minimo di rispetto per l'aritmetica impone che siano da considerare "tagli" stanziamenti di spesa pubblica nei prossimi esercizi inferiori al dato reale speso nell'anno precedente. Su questa semplice base, la risposta da dare è immediata: la manovra triennale non contempla tagli di sorta. L'opposizione, invece, considera come "tagli" tutto ciò che viene presentato in contenimento della crescita tendenziale della spesa negli esercizi a venire, sulla base dei flussi pluriennali preventivati e promessi dal governo Prodi. Ma questi non sono "tagli", sono invece argini alla crescita inerziale della spesa pubblica... I 35 miliardi di euro di contenimento della spesa pubblica in tre anni disposti da Tremonti, dunque, servono a rallentare una crescita che resta tale - talora - e a stabilizzare - in altri capitoli la spesa pubblica, rispetto ai livelli attuali... non sono "tagli" perché servono solo a ricondurre una crescita della spesa che era fuori controllo. Il centrosinistra questo lo sa benissimo, anche se preferisce non dirlo. Il Pd sa tanto bene quali sarebbero stati gli effetti di maggior deficit della spesa pubblica che aveva "acceso" - malgrado i tre punti di Pil di pressione fiscale aggiuntiva disposti dal governo Prodi - che non a caso, nel suo programma elettorale di aprile scorso, annunciava in caso di vittoria elettorale contenimenti di spesa pari a 15 miliardi di euro ogni anno. In tre anni, dunque, sarebbero stati 45 miliardi di euro, non i 35 di Tremonti».Giannino prosegue dati alla mano prendendo ad esempio due settori, gli stessi di cui scrivevo qualche post fa, sicurezza e sanità. E conclude: «La conclusione è univoca: i tagli non ci sono. La macchina pubblica deve abituarsi a crescere meno, tutto qui. Dipendesse da noi, dovrebbe dimagrire energicamente, distinguendo meglio chi è virtuoso da chi spreca. Ma siamo ancora a quello, checchè dica l'opposizione».
Ora, da un punto di vista liberista e riformatore il governo ne esce meno bene di quanto appare, ma l'opposizione ancora peggio. Qualcuno mi critica perché insisto a prendermela con l'opposizione e non con il governo, che ora ha la responsabilità di ciò che fa. A parte il fatto che critiche a Tremonti e alla sua politica economica qui non sono state risparmiate, insisto: il Governo rema debolmente e lentamente, ma nella giusta direzione; l'opposizione rema in senso contrario, si oppone per il verso sbagliato. Siccome tagliare la spesa pubblica comporta sempre costi politici immediati, il rischio è che accusato di fare macelleria sociale, con una opposizione simile il governo rallenti la sua vogata. Viceversa, con una opposizione che lo incalzasse, potrebbe essere indotto ad accelerarla.
UPDATE: Guarda un po', anche Luca Ricolfi se la prende con l'opposizione. Gli argomenti sono più o meno gli stessi di Giannino e di questo post.
Vi segnalo inoltre questo bell'articolo di Alessandro Giuli per Il Foglio. L'idea di fondo potrebbe rivelarsi non troppo peregrina negli anni futuri fino ad emergere come analisi fondata dell'attuale esperienza di governo. Un governo che sembra craxiano, decisionista e riformista di impronta socialista. Economia sociale di mercato, appunto.
«In Italia una destra al governo non c'è, non esiste, non rileva. E' sopraggiunta questa legislatura socialnazionale a certificare il rigor mortis di un'astrazione comoda per gli appassionati di toponomastica, ma del tutto disincarnata... Il Cav. è (...) un esemplare della terza casta. Quella dei produttori di beni. Nulla a che vedere con la destra. E il suo Consiglio dei ministri non fa che riflettere questa assenza. Giulio Tremonti è finalmente tornato l'editorialista del Manifesto con ambizioni da leader della sinistra nazionale. La corona dei democristiani come Claudio Scajola alla parola destra mette la mano ai libri di storia antifascista. Paolo Bonaiuti, Maurizio Sacconi, Renato Brunetta e Franco Frattini sono epifenomeni del socialismo. Sandro Bondi è un amabile prodotto del totalitarismo cattocomunista. Le giovani e i giovani ministri come Mariastella Gelmini e Angelino Alfano sono eredi della borghesia moderata di provincia. Elio Vito un radicale».Per avere di meglio in Italia avremmo dovuto avere una sinistra che non avesse cacciato, espulso, i liberalsocialisti (che oggi governano con Berlusconi), divenendo territorio esclusivo dei catto-comunisti, ex o post. Così forse avremmo avuto una destra più liberista. Il problema è che qui da noi basta troppo poco per essere visti come più liberali e pragmatici della sinistra in economia.
Obama, benefici e rischi dell'abbraccio europeo
C'è da rimanere ammirati dall'imponenza della campagna elettorale di Barack Obama. E' evidente che i suoi viaggi in Medio Oriente e in Europa hanno avuto come obiettivo principale quello di rafforzare il lato su cui l'immagine di Obama è più debole. Di dissipare i dubbi sulla sua inesperienza e inaffidabilità, facendolo apparire sui teatri più caldi del mondo, o nelle capitali più importanti d'Europa, come se fosse già un presidente in carica. Come se avesse già vinto, o come se fosse già stato presidente. Il resto viene in secondo piano. L'importante non è ciò che ha detto, ma il trovarsi lì, a Kabul, a Berlino e a Parigi, acclamato da decine di migliaia di persone, ricevendo l'accoglienza degna di un capo di Stato sia dalla gente che dai leader europei, come Sarkozy, che si dichiara suo «amico». E tutto ciò nonostante i suoi discorsi di politica estera continuino ad essere generici, inducendo il quotidiano Liberal oggi, ma gli stessi commentatori americani, a chiedersi chi abbiano di fronte, se un nuovo Kennedy o un nuovo Carter.
Un evento, quello nella capitale tedesca, organizzato in modo eccellente. Chi si ricorda della visita di John McCain, nel marzo scorso, che pure era venuto con una visione chiara dei rapporti transatlantici e con l'idea della Lega delle democrazie? Anche se il palco non era allestito sotto la porta di Brandeburgo, richiamava alla mente altri storici discorsi di due grandi presidenti Usa, Kennedy e Reagan. E il messaggio lanciato, «Abbattiamo gli ultimi muri», non poteva essere più felice. Richiama il celebre «Mister Gorbacev, abbatta questo muro!», pronunciato da Reagan con la folla in delirio, ma allo stesso tempo dà l'idea di una nuova missione da compiere, di altri muri da abbattere, nuove «frontiere» da conquistare. Insomma, è noto come l'opinione pubblica europea mostri per Obama un gradimento che va oltre l'80%, ma quello di Obama è un messaggio che parla agli americani la lingua dell'unità, all'insegna di Kennedy e Reagan, come se in Obama democratici e repubblicani potessero riconoscere l'uno e l'altro.
Che abbia parlato sotto la colonna della vittoria anziché la porta di Brandeburgo, come ha osservato Bill Kristol per Liberal è un aspetto del tutto secondario. Gli americani hanno visto sopra di lui un bell'angelo dorato, percependolo come uno dei simboli di Berlino ma ignorando il suo valore simbolico militarista e nazionalista. E ormai anche per i cittadini europei quello è molto più l'angelo del film "pacifista" e poetico di Wenders, "Il cielo sopra Berlino", che il simbolo del trionfo prussiano contro Francia, Austria e Danimarca.
L'operazione è riuscita. Obama sembra già presidente. Da presidente viene accolto in Europa, si è voluto far vedere al pubblico americano. E in questo senso si può dire che forse per la prima volta l'opinione pubblica europea entra nella campagna presidenziale Usa. Si ha la sensazione che il calore con il quale è stato accolto Obama a Berlino possa effettivamente avere un peso, sia pure minimo, sull'immagine di Obama negli Stati Uniti.
Attenzione, però, l'effetto potrebbe essere duplice. Da una parte, l'accoglienza ricevuta in Europa dai leader e dalla gente contribuisce senz'altro a renderlo credibile nel ruolo di presidente, lo aiuta a dipanare o almeno ad alleggerire l'aurea dell'inesperto, ma dall'altra c'è da chiedersi se quello europeo non possa rivelarsi alla lunga un abbraccio mortale per Obama.
Presso l'elettorato moderato, patriottico, indipendente americano, l'Europa politica non gode di grande stima. Pare che al comizio di Berlino fossero vietati cartelli e striscioni. Si temeva che potessero «danneggiare l'immagine del candidato al suo ritorno in patria» con slogan dal sapore anti-americano. Infatti, se Obama riscuote tanto successo tra gli europei è perché essi vedono in lui la sconfitta dell'America razzista e guerrafondaia di Bush e Cheney, un americano contrario a tutte le politiche americane più odiate, dalle guerre al libero mercato, fino al diritto a portare armi. Obama è quello che vuole il ritiro dall'Iraq e che vota per aumentare le tasse ai ricchi, quello che vuole difendere i posti di lavoro con il protezionismo contro la globalizzazione.
Naturalmente c'è dell'esagerazione. Obama non è così "pacifista", no global e anti-liberista come gli europei sognano, ma un simile ritratto lo danneggerebbe negli Usa proprio presso quell'elettorato che deve convincere per arrivare alla Casa Bianca. Gli europei lo amano per gli stessi motivi per cui i settori decisivi dell'elettorato americano non lo voterebbero. Vedremo, se l'operazione Berlino si rivelerà un mezzo miracolo o un mezzo boomerang.
Un evento, quello nella capitale tedesca, organizzato in modo eccellente. Chi si ricorda della visita di John McCain, nel marzo scorso, che pure era venuto con una visione chiara dei rapporti transatlantici e con l'idea della Lega delle democrazie? Anche se il palco non era allestito sotto la porta di Brandeburgo, richiamava alla mente altri storici discorsi di due grandi presidenti Usa, Kennedy e Reagan. E il messaggio lanciato, «Abbattiamo gli ultimi muri», non poteva essere più felice. Richiama il celebre «Mister Gorbacev, abbatta questo muro!», pronunciato da Reagan con la folla in delirio, ma allo stesso tempo dà l'idea di una nuova missione da compiere, di altri muri da abbattere, nuove «frontiere» da conquistare. Insomma, è noto come l'opinione pubblica europea mostri per Obama un gradimento che va oltre l'80%, ma quello di Obama è un messaggio che parla agli americani la lingua dell'unità, all'insegna di Kennedy e Reagan, come se in Obama democratici e repubblicani potessero riconoscere l'uno e l'altro.
Che abbia parlato sotto la colonna della vittoria anziché la porta di Brandeburgo, come ha osservato Bill Kristol per Liberal è un aspetto del tutto secondario. Gli americani hanno visto sopra di lui un bell'angelo dorato, percependolo come uno dei simboli di Berlino ma ignorando il suo valore simbolico militarista e nazionalista. E ormai anche per i cittadini europei quello è molto più l'angelo del film "pacifista" e poetico di Wenders, "Il cielo sopra Berlino", che il simbolo del trionfo prussiano contro Francia, Austria e Danimarca.
L'operazione è riuscita. Obama sembra già presidente. Da presidente viene accolto in Europa, si è voluto far vedere al pubblico americano. E in questo senso si può dire che forse per la prima volta l'opinione pubblica europea entra nella campagna presidenziale Usa. Si ha la sensazione che il calore con il quale è stato accolto Obama a Berlino possa effettivamente avere un peso, sia pure minimo, sull'immagine di Obama negli Stati Uniti.
Attenzione, però, l'effetto potrebbe essere duplice. Da una parte, l'accoglienza ricevuta in Europa dai leader e dalla gente contribuisce senz'altro a renderlo credibile nel ruolo di presidente, lo aiuta a dipanare o almeno ad alleggerire l'aurea dell'inesperto, ma dall'altra c'è da chiedersi se quello europeo non possa rivelarsi alla lunga un abbraccio mortale per Obama.
Presso l'elettorato moderato, patriottico, indipendente americano, l'Europa politica non gode di grande stima. Pare che al comizio di Berlino fossero vietati cartelli e striscioni. Si temeva che potessero «danneggiare l'immagine del candidato al suo ritorno in patria» con slogan dal sapore anti-americano. Infatti, se Obama riscuote tanto successo tra gli europei è perché essi vedono in lui la sconfitta dell'America razzista e guerrafondaia di Bush e Cheney, un americano contrario a tutte le politiche americane più odiate, dalle guerre al libero mercato, fino al diritto a portare armi. Obama è quello che vuole il ritiro dall'Iraq e che vota per aumentare le tasse ai ricchi, quello che vuole difendere i posti di lavoro con il protezionismo contro la globalizzazione.
Naturalmente c'è dell'esagerazione. Obama non è così "pacifista", no global e anti-liberista come gli europei sognano, ma un simile ritratto lo danneggerebbe negli Usa proprio presso quell'elettorato che deve convincere per arrivare alla Casa Bianca. Gli europei lo amano per gli stessi motivi per cui i settori decisivi dell'elettorato americano non lo voterebbero. Vedremo, se l'operazione Berlino si rivelerà un mezzo miracolo o un mezzo boomerang.
Thursday, July 24, 2008
Sempre più vergognose le decisioni del Cio
Ha dell'incredibile la decisione assunta oggi dal Cio di escludere dalle Olimpiadi di Pechino la federazione irachena. La motivazione è che il governo di Baghdad ha sciolto il Comitato olimpico iracheno, assumendo il controllo diretto dello sport nazionale. Davvero, davvero scandalosa questa decisione! Da rimanere senza parole.
Non ci risulta che il Cio abbia mai sollevato alcun problema quando al potere c'era Saddam Hussein e, com'è noto, il figlio faceva torturare e uccidere gli atleti. Chissà se è abbastanza, per i signori del Cio, per poterlo definire «controllo» e «interferenza».
E naturalmente ai Giochi vedremo allegramente partecipare lo stato-affamatore della Birmania, lo stato-gulag della Corea del Nord, lo stato-terrorista dell'Iran, e quelli massacratori e genocidi del Sudan e dello Zimbabwe. Per non parlare del fatto che sempre il Cio ha assegnato le Olimpiadi alla Cina, il cui governo notoriamente non controlla lo sport (!).
Se questa non è "politica"... Che schifo!
Non ci risulta che il Cio abbia mai sollevato alcun problema quando al potere c'era Saddam Hussein e, com'è noto, il figlio faceva torturare e uccidere gli atleti. Chissà se è abbastanza, per i signori del Cio, per poterlo definire «controllo» e «interferenza».
E naturalmente ai Giochi vedremo allegramente partecipare lo stato-affamatore della Birmania, lo stato-gulag della Corea del Nord, lo stato-terrorista dell'Iran, e quelli massacratori e genocidi del Sudan e dello Zimbabwe. Per non parlare del fatto che sempre il Cio ha assegnato le Olimpiadi alla Cina, il cui governo notoriamente non controlla lo sport (!).
Se questa non è "politica"... Che schifo!
Sui tagli il Pd getta la maschera
E' così che l'opposizione perderà la faccia. In autunno, pare. Di fronte a una manovra finanziaria che per la prima volta aggredisce la spesa pubblica (meno di quanto ci sarebbe bisogno), il Pd minaccia di ricorrere alla piazza «accarezzando la protesta di tutti gli scontenti, anche quelli più ingiustificati». Perché è così, l'avevo scritto in un post di qualche giorno fa, che vanno le cose qui in Italia.
Tutti «responsabili», tutti a riempirsi la bocca della necessità di tagliare la spesa, denunciando sprechi e privilegi. Poi, quando da qualche parte si comincia, l'opposizione di turno si straccia la vesti ed è pronta a fiancheggiare qualsiasi categoria. Gli operatori del settore protestano e i leader dell'opposizione, Veltroni in testa, irresponsabilmente si accodano.
Oggi, nel suo editoriale su Il Sole24 Ore, è Guido Gentili a denunciare l'ipocrisia del Partito democratico, ricordando che «il Governo sta nel complesso tagliando meno di quello che in campagna elettorale aveva promesso il leader del Pd Veltroni, e cioè 15 miliardi l'anno». Sì, ma dove si taglia è il problema, si potrebbe obiettare.
E' il solito trucco retorico. Presi uno per uno, tutti i settori sono vitali e strategici. In realtà, in tutti i settori sprechi e inefficienze proliferano. Per 80 miliardi l'anno, calcolava Luca Ricolfi. Sulla sanità e sulla sicurezza, per esempio, hanno torto sia Formigoni che i sindacati di polizia. Ma chi l'ha detto che per migliorare un servizio servono più soldi? Che non si possa persino migliorare diminuendo i costi? E che ai tagli alle voci di spesa debbano per forza corrispondere meno servizi per i cittadini?
Il problema è che non esiste più (se in Italia è mai esistita) la concezione del ministro che semplicemente amministra, mentre oggi i nostri ministri passano il tempo a chiedere soldi e a proporre riforme sulla carta. Il loro compito è invece di far funzionare la macchina con il minimo della spesa, di utilizzare in modo più efficiente le risorse che hanno.
La novità è che oggi per la prima volta si comincia a tagliare, riconosce Guido Gentili:
Ma ovviamente, «in attesa dei frutti futuri, tagliare costa sul piano politico immediato», perché il bilancio dello Stato è usato come ammortizzatore sociale e fondo speciale clientele. Quindi, «quasi sempre le contrapposizioni sono dettate da un riflesso condizionato politico, per il quale l'opposizione di turno s'affianca alle proteste delle categorie interessate ai tagli».
Tutti «responsabili», tutti a riempirsi la bocca della necessità di tagliare la spesa, denunciando sprechi e privilegi. Poi, quando da qualche parte si comincia, l'opposizione di turno si straccia la vesti ed è pronta a fiancheggiare qualsiasi categoria. Gli operatori del settore protestano e i leader dell'opposizione, Veltroni in testa, irresponsabilmente si accodano.
Oggi, nel suo editoriale su Il Sole24 Ore, è Guido Gentili a denunciare l'ipocrisia del Partito democratico, ricordando che «il Governo sta nel complesso tagliando meno di quello che in campagna elettorale aveva promesso il leader del Pd Veltroni, e cioè 15 miliardi l'anno». Sì, ma dove si taglia è il problema, si potrebbe obiettare.
E' il solito trucco retorico. Presi uno per uno, tutti i settori sono vitali e strategici. In realtà, in tutti i settori sprechi e inefficienze proliferano. Per 80 miliardi l'anno, calcolava Luca Ricolfi. Sulla sanità e sulla sicurezza, per esempio, hanno torto sia Formigoni che i sindacati di polizia. Ma chi l'ha detto che per migliorare un servizio servono più soldi? Che non si possa persino migliorare diminuendo i costi? E che ai tagli alle voci di spesa debbano per forza corrispondere meno servizi per i cittadini?
Il problema è che non esiste più (se in Italia è mai esistita) la concezione del ministro che semplicemente amministra, mentre oggi i nostri ministri passano il tempo a chiedere soldi e a proporre riforme sulla carta. Il loro compito è invece di far funzionare la macchina con il minimo della spesa, di utilizzare in modo più efficiente le risorse che hanno.
La novità è che oggi per la prima volta si comincia a tagliare, riconosce Guido Gentili:
«Può piacere o non piacere, ma questa volta è scongiurato l'errore in cui incorse il Governo Prodi al suo esordio nel 2006: un Documento di programmazione economica e finanziaria (Dpef) rigoroso sul piano dei principi che faceva però solo da elegante sfondo a una "stretta" fiscale punitiva nei confronti di professionisti, piccoli e medi imprenditori e lavoratori autonomi».La manovra triennale «comincia a mordere per decreto, da subito, nei settori-chiave della spesa pubblica come la sanità, l'università, la scuola, la giustizia, il pubblico impiego, l'amministrazione della sicurezza». Gli stessi settori, osserva Gentili, nei quali sia il programma del Pd, sia il Libro Verde di Padoa-Schioppa, individuavano sprechi e inefficienze.
Ma ovviamente, «in attesa dei frutti futuri, tagliare costa sul piano politico immediato», perché il bilancio dello Stato è usato come ammortizzatore sociale e fondo speciale clientele. Quindi, «quasi sempre le contrapposizioni sono dettate da un riflesso condizionato politico, per il quale l'opposizione di turno s'affianca alle proteste delle categorie interessate ai tagli».
Premio faccia di bronzo
«Il paese che ospiterà le Olimpiadi oggi vince la medaglia d'oro delle esecuzioni... Nell'anno delle Olimpiadi ci aspettiamo dalla Cina una attenzione maggiore e un avvicinamento all'obiettivo che vogliamo raggiungere, vale a dire la moratoria sulla pena di morte». Parole che Romano Prodi ha avuto due anni per pronunciare in veste di presidente del Consiglio. E invece chiede oggi alla Cina di aderire alla moratoria sulla pena di morte, dalla comoda posizione di vincitore del premio "Abolizionista dell'anno" assegnato da Nessuno tocchi Caino.
Tuesday, July 22, 2008
Un altro pezzo del cuore nero dell'Europa
Le lezioni da tenere a mente
L'arresto, a Belgrado, di Radovan Karadzic, ex presidente della Repubblica serba di Bosnia, entità fondata da lui stesso per condurre una pulizia etnica, e criminale di guerra, mandante del massacro di Srebrenica, ci fa tornare alla mente una pagina tragica della storia europea recente. Una pagina che ci sembrava sepolta, lontana nel tempo, e che invece a ben vedere l'abbiamo da poco svoltata. E' proprio lì, dietro l'angolo, tant'è che i suoi fantasmi si aggiravano ancora indisturbati tra di noi.
Gli ultimi pezzi del cuore nero dell'Europa stanno per essere estirpati. Ma che fatica... E alcune riflessioni sono ineludibili.
Innanzitutto, il tempismo. Il fatto che ad arrestare Karadzic siano state le forze di polizia serbe, a Belgrado, e proprio alla vigilia del Consiglio dei ministri degli Esteri dell'Ue, ha un valore politico. Indica che probabilmente la cattura del superlatitante era davvero solo una questione di volontà politica e che Karadzic e Mladic in tutti questi anni hanno goduto di complicità serbe e persino internazionali. Questo arresto, proprio in un periodo di estrema freddezza tra la Serbia e l'Ue per via dell'indipendenza del Kosovo, rivela la volontà della leadership serba di riappacificarsi con l'Europa, essere pienamente riabilitata ed ammessa nell'Ue. Bisogna essere lieti della scelta europeista della Serbia, ma senza fare sconti.
Mentre per Frattini si deve «lavorare subito alla ratifica» dell'Accordo di stabilizzazione e associazione (Asa) con la Serbia, nelle loro conclusioni i ministri degli Esteri dell'Ue sono più cauti e non fanno alcun riferimento diretto alla ratifica come "premio" per l'arresto di Karadzic. La candidatura della Serbia all'adesione sarà possibile «non appena saranno rispettate tutte le condizioni necessarie», tra cui la «piena cooperazione» di Belgrado con il Tribunale dell'Aja. E pur riconoscendo al governo serbo di aver fatto un passo significativo nella giusta direzione, la «piena cooperazione» implica l'arresto anche dell'ex generale Ratko Mladic. «Siamo a metà strada», ha dichiarato il ministro degli Esteri sloveno.
Ora c'è da augurarsi che il Tribunale dell'Aja con le sue lungaggini non permetta a Karadzic di sfuggire alla sentenza di condanna. Milosevic riuscì a sottrarsi, perché la morte sopraggiunse prima della sentenza, nel marzo del 2006, e fu un grave smacco per la credibilità della Corte.
Il processo contro l'ex dittatore jugoslavo durava ormai da quattro anni, dal febbraio 2002, e non se ne vedeva la fine. Fu trasformato in farsa da Milosevic anche con la "complicità" di una sciagurata linea accusatoria che pretendeva di far coincidere il giudizio di un tribunale con il giudizio storico su un'intera epoca, una guerra, un dittatore.
Fu un errore tentare di ricostruire processualmente un decennio di crimini, senza individuarne uno in particolare. Nella enorme mole di documenti e testimonianze necessari per la titanica impresa Milosevic trasformò le udienze in una sua personale tribuna politica e "storiografica", riuscendo a sfuggire alla sentenza. Era un lavoro per gli storici, non per i tribunali. In sede processuale si dovrebbero isolare fatti precisi, limitati nello spazio e nel tempo. L'accusa avrebe dovuto selezionare i fatti per i quali chiedere la condanna sulla base della quantità di testimonianze e di prove incontrovertibili in suo possesso, così da portare a un giudizio il più rapido possibile.
Quando toccò a Saddam Hussein, Antonio Cassese parlò di «giustizia dei vincitori», arrivando a teorizzare una presunta «funzione di chiarificazione storica» del e nel processo, pretendendo cioè che fossero ricostruiti processualmente decenni di crimini. «Far luce sui trent'anni del potere» di Saddam, sulle inconfessabili complicità e l'ampiezza reale dei suoi crimini, doveva essere lo scopo dei processi iracheni, hanno sostenuto in molti, ma in realtà è l'obiettivo del lavoro degli storici, che trasferito nei tribunali mette fortemente in dubbio la praticabilità e la credibilità di una giurisdizione internazionale nei confronti degli ex dittatori. Quando ci provano, va a finire come con Milosevic: processo in panne e nessuna sentenza. Speriamo che il Tribunale dell'Aja non ripeta lo stesso errore con Karadzic.
E non può non tornarci alla mente, infine, l'assurda sentenza della Corte dell'Aja sul massacro di Srebrenica. Ha impiegato undici anni per decretare che sì, fu «genocidio» quanto accadde nei pressi della cittadina bosniaca nel 1995.
Ma la Corte assolveva d'ogni specifica responsabilità «legale» la Serbia di Milosevic, colpevole soltanto di «omissione di soccorso» nel più efferato massacro di massa europeo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Una sentenza il cui effetto politico è stato quello di discolpare Milosevic agli occhi dei serbi e offrire un argomento in più a quanti hanno per tutto questo tempo sostenuto, in modo disonesto, che Milosevic non aveva alcuna influenza sui serbo-bosniaci.
E il paradosso è che colpevole di una grave «omissione» era in realtà l'Onu, che non ha impedito, anzi forse ha facilitato, lo sterminio etnico, grazie al lasciapassare che il comando francese e le truppe olandesi diedero alle milizie di Mladic, in una città che era "zona protetta" delle Nazione Unite.
L'arresto, a Belgrado, di Radovan Karadzic, ex presidente della Repubblica serba di Bosnia, entità fondata da lui stesso per condurre una pulizia etnica, e criminale di guerra, mandante del massacro di Srebrenica, ci fa tornare alla mente una pagina tragica della storia europea recente. Una pagina che ci sembrava sepolta, lontana nel tempo, e che invece a ben vedere l'abbiamo da poco svoltata. E' proprio lì, dietro l'angolo, tant'è che i suoi fantasmi si aggiravano ancora indisturbati tra di noi.
Gli ultimi pezzi del cuore nero dell'Europa stanno per essere estirpati. Ma che fatica... E alcune riflessioni sono ineludibili.
Innanzitutto, il tempismo. Il fatto che ad arrestare Karadzic siano state le forze di polizia serbe, a Belgrado, e proprio alla vigilia del Consiglio dei ministri degli Esteri dell'Ue, ha un valore politico. Indica che probabilmente la cattura del superlatitante era davvero solo una questione di volontà politica e che Karadzic e Mladic in tutti questi anni hanno goduto di complicità serbe e persino internazionali. Questo arresto, proprio in un periodo di estrema freddezza tra la Serbia e l'Ue per via dell'indipendenza del Kosovo, rivela la volontà della leadership serba di riappacificarsi con l'Europa, essere pienamente riabilitata ed ammessa nell'Ue. Bisogna essere lieti della scelta europeista della Serbia, ma senza fare sconti.
Mentre per Frattini si deve «lavorare subito alla ratifica» dell'Accordo di stabilizzazione e associazione (Asa) con la Serbia, nelle loro conclusioni i ministri degli Esteri dell'Ue sono più cauti e non fanno alcun riferimento diretto alla ratifica come "premio" per l'arresto di Karadzic. La candidatura della Serbia all'adesione sarà possibile «non appena saranno rispettate tutte le condizioni necessarie», tra cui la «piena cooperazione» di Belgrado con il Tribunale dell'Aja. E pur riconoscendo al governo serbo di aver fatto un passo significativo nella giusta direzione, la «piena cooperazione» implica l'arresto anche dell'ex generale Ratko Mladic. «Siamo a metà strada», ha dichiarato il ministro degli Esteri sloveno.
Ora c'è da augurarsi che il Tribunale dell'Aja con le sue lungaggini non permetta a Karadzic di sfuggire alla sentenza di condanna. Milosevic riuscì a sottrarsi, perché la morte sopraggiunse prima della sentenza, nel marzo del 2006, e fu un grave smacco per la credibilità della Corte.
Il processo contro l'ex dittatore jugoslavo durava ormai da quattro anni, dal febbraio 2002, e non se ne vedeva la fine. Fu trasformato in farsa da Milosevic anche con la "complicità" di una sciagurata linea accusatoria che pretendeva di far coincidere il giudizio di un tribunale con il giudizio storico su un'intera epoca, una guerra, un dittatore.
Fu un errore tentare di ricostruire processualmente un decennio di crimini, senza individuarne uno in particolare. Nella enorme mole di documenti e testimonianze necessari per la titanica impresa Milosevic trasformò le udienze in una sua personale tribuna politica e "storiografica", riuscendo a sfuggire alla sentenza. Era un lavoro per gli storici, non per i tribunali. In sede processuale si dovrebbero isolare fatti precisi, limitati nello spazio e nel tempo. L'accusa avrebe dovuto selezionare i fatti per i quali chiedere la condanna sulla base della quantità di testimonianze e di prove incontrovertibili in suo possesso, così da portare a un giudizio il più rapido possibile.
Quando toccò a Saddam Hussein, Antonio Cassese parlò di «giustizia dei vincitori», arrivando a teorizzare una presunta «funzione di chiarificazione storica» del e nel processo, pretendendo cioè che fossero ricostruiti processualmente decenni di crimini. «Far luce sui trent'anni del potere» di Saddam, sulle inconfessabili complicità e l'ampiezza reale dei suoi crimini, doveva essere lo scopo dei processi iracheni, hanno sostenuto in molti, ma in realtà è l'obiettivo del lavoro degli storici, che trasferito nei tribunali mette fortemente in dubbio la praticabilità e la credibilità di una giurisdizione internazionale nei confronti degli ex dittatori. Quando ci provano, va a finire come con Milosevic: processo in panne e nessuna sentenza. Speriamo che il Tribunale dell'Aja non ripeta lo stesso errore con Karadzic.
E non può non tornarci alla mente, infine, l'assurda sentenza della Corte dell'Aja sul massacro di Srebrenica. Ha impiegato undici anni per decretare che sì, fu «genocidio» quanto accadde nei pressi della cittadina bosniaca nel 1995.
Ma la Corte assolveva d'ogni specifica responsabilità «legale» la Serbia di Milosevic, colpevole soltanto di «omissione di soccorso» nel più efferato massacro di massa europeo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Una sentenza il cui effetto politico è stato quello di discolpare Milosevic agli occhi dei serbi e offrire un argomento in più a quanti hanno per tutto questo tempo sostenuto, in modo disonesto, che Milosevic non aveva alcuna influenza sui serbo-bosniaci.
E il paradosso è che colpevole di una grave «omissione» era in realtà l'Onu, che non ha impedito, anzi forse ha facilitato, lo sterminio etnico, grazie al lasciapassare che il comando francese e le truppe olandesi diedero alle milizie di Mladic, in una città che era "zona protetta" delle Nazione Unite.
Monday, July 21, 2008
Gli Usa si siedono al tavolo, ma l'Iran non decide
Sabato scorso, a Ginevra, il rappresentante dell'Unione europea per gli affari esteri, Javier Solana, ha incontrato il capo dei negoziatori iraniani Saeed Jalili. Ci si aspettava una risposta sull'ultimo pacchetto di incentivi offerti dai 5+1 per convincere Teheran a sospendere il programma di arricchimento dell'uranio. E invece un bel niente. Un incontro privo di risultati e di nessun interesse, se non per la partecipazione del numero tre del Dipartimento di Stato Usa, William Burns. Per la prima volta dopo 29 anni un esponente così di primo piano della diplomazia americana sedeva allo stesso tavolo con un rappresentante iraniano.
Un evidente segnale da parte di Washington, volto a far capire che sono pronti a percorrere sul serio la via del negoziato, come ha confermato oggi Condoleezza Rice riferendosi proprio alla presenza di Burns a quel tavolo: «Penso che noi abbiamo fatto abbastanza per dimostrare che gli Stati Uniti sono seri, per assicurare ai nostri partner che siamo seri».
Tuttavia, Teheran è rimasta indifferente al messaggio. «Ci aspettavamo di avere una risposta dagli iraniani. Ma, come è già accaduto molte volte con gli iraniani, non è uscito nulla di serio». Anzi, il negoziatore iraniano Jalili si è messo a recitare uno «sconclusionato» monologo pieno di «chiacchiere sulla cultura», si è lamentata la Rice, evidentemente informata da Burns. «E' tempo che gli iraniani diano una risposta seria. Non possono bloccare tutto e disquisire di cultura, devono prendere una decisione. La gente è stanca delle loro tattiche per prendere tempo. Siamo nella posizione più forte possibile per dimostrare che se l'Iran non agisce, allora riprenderemo la via delle sanzioni».
Sanzioni che questa volta potrebbero riguardare le raffinerie e gli impianti di gas naturale iraniani, andando ad incidere negativamente sulla produzione della prima fonte di ricchezza del regime.
Netta anche la posizione del premier britannico Brown, che ha parlato alla Knesset: «L'Iran deve fare una scelta chiara. Sospendere il suo programma nucleare e accettare la nostra offerta di negoziati, o affrontare il crescente isolamento. Non da parte di una sola nazione ma da parte di tutto il mondo».
La presenza del numero tre del Dipartimento di Stato all'incontro di Ginevra tra Solana e Jalili ha sollevato molte polemiche oltreoceano. Agli occhi di Michael Rubin, dell'American Enterprise Institute, è apparsa un cedimento. La Rice, ricorda oggi sul Wall Street Journal, nel 2006 aveva assicurato che gli Stati Uniti si sarebbero seduti al tavolo dei negoziati al fianco dei partner europei solo se Teheran avesse sospeso completamente e in modo verificabile le attività di arricchimento dell'uranio. Una «linea rossa» che sabato scorso il Dipartimento di Stato ha invece oltrepassato senza alcun impegno da parte iraniana.
Eppure, il pacchetto di incentivi è già particolarmente ricco. Non si nega affatto all'Iran il diritto all'energia nucleare. Anzi, l'offerta comprende infrastrutture e nuove tecnologie e l'amministrazione Bush si impegna persino ad aiutare Teheran nella costruzione di un reattore ad acqua leggera.
«La diplomazia non è sbagliata - osserva Rubin - ma l'inversione del presidente Bush è cattiva diplomazia, al livello di Carter, che sta dando respiro a un regime fallimentare». In questo modo, conclude, «invece di rafforzare la diplomazia, la Casa Bianca rivela che le sue linee rosse sono illusorie» e offre ad Ahmadinejad un successo diplomatico - aver riportato gli Usa al tavolo del negoziato senza precondizioni - da giocarsi sul fronte interno per la sua rielezione. Il regime degli ayatollah punta infatti al confronto diretto con Washington.
La presenza di Burns all'incontro di sabato scorso rappresenta davvero un cambiamento di rotta nell'approccio dell'amministrazione Usa nei confronti dell'Iran? In America si dibatte molto di questo e già alla vigilia di quel tavolo, in una intervista alla Cnn, Condoleezza Rice cercava di chiarire il significato di quella presenza all'insistente intervistatore, Wolf Blitzer.
Ma sedendosi a quel tavolo, pur limitandosi ad ascoltare e a ripetere questo messaggio, il sottosegretario Burns non ha di fatto preso parte a un negoziato? All'ennesima obiezione la Rice spiegava:
I segnali, dunque, rimangono contrastanti. Da una parte continuano le speculazioni su possibili attacchi militari contro le installazioni iraniane, da parte degli Stati Uniti o più probabilmente di Israele. Dall'altra, circola l'indiscrezione, riportata in modo dettagliato dal quotidiano britannico Guardian, secondo cui gli Stati Uniti sarebbero addirittura pronti a riaprire una loro "sezione d'interessi" a Teheran, abbandonata il 20 gennaio 1981 dopo il sequestro dei diplomatici americani tenuti in ostaggio dai pasdaran all'interno dell'ambasciata per 444 giorni.
Il Dipartimento di Stato per ora non ha smentito l'ipotesi e la presenza di Burns a Ginevra potrebbe preludere a una mossa di questo genere. Anche queste voci sono state argomento dell'intervista rilasciata dalla Rice alla Cnn. Ecco come ha risposto sulla questione:
Ma dalle parole della Rice nell'intervista alla Cnn non si può del tutto escludere che l'iniziativa di aprire una "sezione d'interessi" a Teheran prenda tutt'altra direzione, quella di una centrale operativa per organizzare e sostenere la dissidenza iraniana e provocare così il "regime change" dall'interno.
Un evidente segnale da parte di Washington, volto a far capire che sono pronti a percorrere sul serio la via del negoziato, come ha confermato oggi Condoleezza Rice riferendosi proprio alla presenza di Burns a quel tavolo: «Penso che noi abbiamo fatto abbastanza per dimostrare che gli Stati Uniti sono seri, per assicurare ai nostri partner che siamo seri».
Tuttavia, Teheran è rimasta indifferente al messaggio. «Ci aspettavamo di avere una risposta dagli iraniani. Ma, come è già accaduto molte volte con gli iraniani, non è uscito nulla di serio». Anzi, il negoziatore iraniano Jalili si è messo a recitare uno «sconclusionato» monologo pieno di «chiacchiere sulla cultura», si è lamentata la Rice, evidentemente informata da Burns. «E' tempo che gli iraniani diano una risposta seria. Non possono bloccare tutto e disquisire di cultura, devono prendere una decisione. La gente è stanca delle loro tattiche per prendere tempo. Siamo nella posizione più forte possibile per dimostrare che se l'Iran non agisce, allora riprenderemo la via delle sanzioni».
Sanzioni che questa volta potrebbero riguardare le raffinerie e gli impianti di gas naturale iraniani, andando ad incidere negativamente sulla produzione della prima fonte di ricchezza del regime.
Netta anche la posizione del premier britannico Brown, che ha parlato alla Knesset: «L'Iran deve fare una scelta chiara. Sospendere il suo programma nucleare e accettare la nostra offerta di negoziati, o affrontare il crescente isolamento. Non da parte di una sola nazione ma da parte di tutto il mondo».
La presenza del numero tre del Dipartimento di Stato all'incontro di Ginevra tra Solana e Jalili ha sollevato molte polemiche oltreoceano. Agli occhi di Michael Rubin, dell'American Enterprise Institute, è apparsa un cedimento. La Rice, ricorda oggi sul Wall Street Journal, nel 2006 aveva assicurato che gli Stati Uniti si sarebbero seduti al tavolo dei negoziati al fianco dei partner europei solo se Teheran avesse sospeso completamente e in modo verificabile le attività di arricchimento dell'uranio. Una «linea rossa» che sabato scorso il Dipartimento di Stato ha invece oltrepassato senza alcun impegno da parte iraniana.
Eppure, il pacchetto di incentivi è già particolarmente ricco. Non si nega affatto all'Iran il diritto all'energia nucleare. Anzi, l'offerta comprende infrastrutture e nuove tecnologie e l'amministrazione Bush si impegna persino ad aiutare Teheran nella costruzione di un reattore ad acqua leggera.
«La diplomazia non è sbagliata - osserva Rubin - ma l'inversione del presidente Bush è cattiva diplomazia, al livello di Carter, che sta dando respiro a un regime fallimentare». In questo modo, conclude, «invece di rafforzare la diplomazia, la Casa Bianca rivela che le sue linee rosse sono illusorie» e offre ad Ahmadinejad un successo diplomatico - aver riportato gli Usa al tavolo del negoziato senza precondizioni - da giocarsi sul fronte interno per la sua rielezione. Il regime degli ayatollah punta infatti al confronto diretto con Washington.
La presenza di Burns all'incontro di sabato scorso rappresenta davvero un cambiamento di rotta nell'approccio dell'amministrazione Usa nei confronti dell'Iran? In America si dibatte molto di questo e già alla vigilia di quel tavolo, in una intervista alla Cnn, Condoleezza Rice cercava di chiarire il significato di quella presenza all'insistente intervistatore, Wolf Blitzer.
«Fammi essere molto chiara sul fatto che gli Stati Uniti chiedono come precondizione per l'avvio di negoziati la sospensione dell'arricchimento dell'uranio. Ciò che Bill Burns andrà a fare è dimostrare l'unità del gruppo 5+1... che siamo uniti. Andrà ad affermare che gli Stati Uniti appoggiano pienamente il pacchetto... Ma renderà molto chiaro il fatto che non ci saranno negoziati in cui gli Stati Uniti saranno coinvolti finché non ci sarà una sospensione verificabile dell'arricchimento».E si limiterà ad «ascoltare la risposta degli iraniani», aggiungeva la Rice. «Se l'Iran è pronto a sospendere, gli Stati Uniti ci saranno. Ma è molto importante riconoscere che questo rinforza una posizione che noi abbiamo mantenuto dal 2006». Nessuna inversione di rotta, dunque, secondo la Rice. Ma non è la stessa cosa - la incalzava l'intervistatore - che partecipare ai negoziati? «Riconosco - rispondeva la Rice - che ciò che abbiamo fatto è un passo che pensiamo dimostri a tutti la nostra serietà in questo processo. Ma ciò che non è cambiato è che gli Stati Uniti sono determinati a negoziare solo quando l'Iran avrà sospeso l'arricchimento».
Ma sedendosi a quel tavolo, pur limitandosi ad ascoltare e a ripetere questo messaggio, il sottosegretario Burns non ha di fatto preso parte a un negoziato? All'ennesima obiezione la Rice spiegava:
«Molto spesso noi sentiamo dire, Wolf, "Noi non siamo sicuri che gli Stati Uniti siano davero dietro questo". Così io ho firmato la lettera di accompagnamento. Ora Bill andrà a ricevere la risposta... Ho trasmesso la proposta. Lui riceverà la risposta. Ciò dovrebbe dare agli iraniani ogni indicazione su quanto fortemente gli Stati Uniti sostengano questo pacchetto... Il punto è che stiamo mandando agli iraniani un forte messaggio sulla politica americana e l'unità con i nostri alleati. Questa è stata la nostra politica dal 2006».Insomma, il problema sarebbe quello di non offrire alibi agli iraniani, che in passato non hanno creduto, o hanno finto di non credere, al fatto che sui pacchetti di incentivi proposti dal 5+1 si impegnassero anche gli Stati Uniti.
I segnali, dunque, rimangono contrastanti. Da una parte continuano le speculazioni su possibili attacchi militari contro le installazioni iraniane, da parte degli Stati Uniti o più probabilmente di Israele. Dall'altra, circola l'indiscrezione, riportata in modo dettagliato dal quotidiano britannico Guardian, secondo cui gli Stati Uniti sarebbero addirittura pronti a riaprire una loro "sezione d'interessi" a Teheran, abbandonata il 20 gennaio 1981 dopo il sequestro dei diplomatici americani tenuti in ostaggio dai pasdaran all'interno dell'ambasciata per 444 giorni.
Il Dipartimento di Stato per ora non ha smentito l'ipotesi e la presenza di Burns a Ginevra potrebbe preludere a una mossa di questo genere. Anche queste voci sono state argomento dell'intervista rilasciata dalla Rice alla Cnn. Ecco come ha risposto sulla questione:
«Non entrerò nelle nostre decisioni interne. Noi cerchiamo sempre modi per raggiungere il popolo iraniano. Noi crediamo fortemente che il popolo iraniano non nutra ostilità nei confronti degli Stati Uniti, e noi certo non nutriamo ostilità verso di esso. Noi vorremmo trovare modi per raggiungere gli iraniani e per rendere più facile per loro venire negli Stati Uniti. Siamo sempre alla ricerca di modi per fare questo».L'apertura di una "sezione d'interessi" potrebbe preparare il campo alla proposta cui Teheran starebbe da tempo mirando, secondo i teorici del "Grande Accordo", e che finalmente a Washington si sarebbero decisi ad avanzare: la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra le due nazioni e il riconoscimento del ruolo di primo piano dell'Iran nel Grande Medio Oriente, in cambio della rinuncia da parte iraniana non all'energia nucleare ma all'acquisizione delle armi e della fine dell'appoggio a gruppi terroristici come Hezbollah e Hamas. Insomma, status in cambio di stabilità.
Ma dalle parole della Rice nell'intervista alla Cnn non si può del tutto escludere che l'iniziativa di aprire una "sezione d'interessi" a Teheran prenda tutt'altra direzione, quella di una centrale operativa per organizzare e sostenere la dissidenza iraniana e provocare così il "regime change" dall'interno.
Friday, July 18, 2008
Direttore che ne pensa, oggi la diamo la notizia?
Cari direttori - mi rivolgo ai direttori di tutti i quotidiani, ma soprattutto ai direttori di Corriere della Sera, la Repubblica, La Stampa, Il Messaggero, Il Sole24 Ore e ai direttori dei tg nazionali - la vogliamo dare o no questa notizia in prima pagina? In tre sedute il prezzo del petrolio è sceso da 147 dollari al barile a 129.
Insomma, se avete ritenuto il prezzo del greggio un parametro così rilevante per l'andamento dell'economia da strillare ad ogni rialzo record, dovreste continuare a tenere aggiornati i vostri lettori/ascoltatori. Un'inversione di tendenza così decisa, a qualsiasi fattore, temporaneo o meno, essa sia dovuta, non vi pare una notizia? Mica tornerete a parlare di petrolio solo quando il prezzo si alzerà di nuovo, rafforzando nell'opinione pubblica la percezione che i prezzi possono soltanto salire? La vogliamo raccontare questa pausa al ribasso? Oppure bisogna cominciare a pensare che i grandi giornali e le tv facciano parte di un gioco senza neanche rendersene conto?
Insomma, se avete ritenuto il prezzo del greggio un parametro così rilevante per l'andamento dell'economia da strillare ad ogni rialzo record, dovreste continuare a tenere aggiornati i vostri lettori/ascoltatori. Un'inversione di tendenza così decisa, a qualsiasi fattore, temporaneo o meno, essa sia dovuta, non vi pare una notizia? Mica tornerete a parlare di petrolio solo quando il prezzo si alzerà di nuovo, rafforzando nell'opinione pubblica la percezione che i prezzi possono soltanto salire? La vogliamo raccontare questa pausa al ribasso? Oppure bisogna cominciare a pensare che i grandi giornali e le tv facciano parte di un gioco senza neanche rendersene conto?
Tremonti non dovrebbe somigliare più a Norquist che a Obama?
Ai lettori di Style, Christian Rocca ha fatto notare che negli Stati Uniti i candidati alle presidenziali «più vicini alle posizioni tremontiane sono stati quelli di sinistra liberal, Hillary Clinton e Barack Obama». Entrambi, come Tremonti, se la prendono con la globalizzazione e il "mercatismo".
La linea del candidato repubblicano, John McCain, è più simile a quella indicata da Grover Norquist, presidente dell'American Tax Reform, che ha scritto un saggio dal titolo "Leave us alone – Getting the government's hands off our money, our guns, our lives".
La linea del candidato repubblicano, John McCain, è più simile a quella indicata da Grover Norquist, presidente dell'American Tax Reform, che ha scritto un saggio dal titolo "Leave us alone – Getting the government's hands off our money, our guns, our lives".
«Un manifesto del lasciateci in pace, del giù le mani dello Stato dai nostri soldi, dalle nostre armi e dalle nostre vite. La sua tesi è che l'America e il mondo non soffrano affatto di eccessivo mercatismo o di assenza di protezioni dagli attacchi finanziari globali, come pensa Tremonti. Secondo Norquist, invece, c'è bisogno di ulteriore libertà, di più mercato e di minori regolamentazioni governative. "Leave us alone" è l'esatto opposto del neotremontismo che chiede alla politica, quindi allo Stato, di impegnarsi a promuovere i valori, la famiglia e anche autorità e ordine. Tremonti parla di "identità europea", Norquist invita invece a stare il più alla larga possibile dal declinante modello europeo. In teoria dovrebbe essere Norquist, non Obama, il più credibile modello americano di Tremonti».I sostenitori del PdL dovrebbero forse cominciare a preoccuparsi, se il ministro dell'Economia del loro governo somiglia più a Obama che a Norquist. Tra l'altro, se la globalizzazione è spietata nel dividere i paesi tra "vincitori" e "vinti", tra quelli che hanno raccolto la sfida e stanno avendo successo nella competizione globale e quelli che, invece, sono rimasti a guardare, un'analisi attenta dei "vincitori" dimostra che le scelte politiche interne contano ancora molto nel determinare la competitività.
Niente paura, la Cina è ancora lontana
Alla presentazione del nuovo numero di Limes interamente dedicato alla Cina, "Il marchio giallo", oltre al direttore Lucio Caracciolo e al Card. Silvestrini, Prefetto Emerito della Congregazione per le Chiese Orientali, ha partecipato il ministro degli Esteri Franco Frattini. La tesi esposta nell'editoriale di Caracciolo è che la Cina è sì un colosso del commercio mondiale che invade i mercati esportando merci, ma non è ancora una vera superpotenza, perché non esporta il «marchio giallo», cioè un brand «proprio e universale», che «la distingua e la faccia apprezzare». Il made in China di oggi è altro, tutto quantità senza qualità.
Pechino è lontana, scrive Caracciolo, dallo «stigma delle superpotenze al loro acme», il soft power inteso come potere della seduzione. Ad oggi «spaventa più che attrarre», come quando cade nel «disastro mediatico» della rivolta tibetana nel marzo scorso, dimostrando l'«insicurezza» e il volto violento del suo regime. E' bastato un «pugno di monaci» a rafforzare la sua «cattiva immagine».
L'economia non basta per diventare egemoni, spiega il direttore di Limes. Tra l'altro, Pil e reddito pro capite sono ancora troppo bassi per «aspirare al rango di supergrande». Il «cocktail di autocrazia e capitalismo» porta risultati e conviene a molti leader africani, ma la Cina non offre modelli culturali «appetibili». In America e in Europa «i pregiudizi negativi sul made in China crescono con progressione geometrica rispetto alla penetrazione di merci cinesi». Quanto alla way of life, «il giovane cinese scimmiotta i tic occidentali» e il sistema politico cinese in Occidente è «anatema».
Quindi, quanti prevedono «l'inevitabile sorpasso del Pil cinese ai danni di quello americano entro dieci o vent'anni, dovrebbero tenerne conto»: questa Cina non ha ancora prodotto il suo marchio di successo. L'«irradiamento» del regime di Pechino è «modestissimo». «Su queste basi pretendere al primato mondiale – anche solo alla cogestione sino-americana – è alquanto fantasioso», conclude Caracciolo.
Nel suo intervento il ministro Frattini non si è sottratto a dare almeno una risposta alle tante domande aperte dal nuovo numero di Limes: è la Cina ad essere divenuta «più globale», non il mondo «più cinese». Non c'è area del mondo in cui però non giochi un ruolo forte, ha osservato. In molti casi positivo: dal contributo alla stabilizzazione in Libano ai negoziati sul nucleare con la Corea del Nord; dai rapporti con il Giappone agli sforzi per una zona di libero scambio tra i Paesi dell'Asean. «Bisognerà tener conto della Cina anche per stabilizzare Afghanistan e Pakistan», ha suggerito Frattini.
L'Occidente ha il «dovere di rafforzare il proprio incoraggiamento alla Cina perché sia un attore globale responsabile». Ma su alcuni grandi temi, in particolare, va «stimolata» a fare di più. Il ministro ha auspicato che siano sciolti i dubbi sul rispetto delle regole del WTO e ambientali, e che Pechino intraprenda il «percorso verso standard occidentali sui diritti umani» in modo «risoluto». Del tema dei diritti fanno parte la libertà religiosa e la pena di morte, ha ricordato, così come il dialogo con le minoranze. «Vogliamo che la Cina continui il dialogo con il Dalai Lama». Non per l'indipendenza del Tibet, che è lo stesso Dalai Lama a escludere, come sanno tutti, ma nel rispetto del principio del dialogo.
Riguardo la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi, sarà il sottosegretario allo Sport, Rocco Crimi, a rappresentare l'Italia, ha anticipato il ministro, che invece sarà in vacanza. «Altre presenze – ha precisato – saranno valutate individualmente». Sentiti i capi di Stato e di governo europei, Sarkozy ha detto che andrà. «E a noi questo basta. Non c'è una linea di governo in un senso o in un altro, come non c'è una linea dell'Ue».
«Gestire» la Cina è «un'illusione», ha sottolineato Frattini. Occorre «un'agenda comune» su temi come l'ambiente, l'energia, la salute, la cultura, la riforma dell'Onu, il programma nucleare iraniano. E sulla crisi del Darfur Pechino «avrebbe una parola in più da dire». Ma «dalla paura, dal dubbio e dalla diffidenza», dobbiamo passare alla «fiducia» nei rapporti con la Cina; dalla tentazione di difenderci soltanto «al coinvolgimento e alla partnership strategica». Chissà cosa ne penserà il ministro Tremoni.
Per tutto questo, ha concluso il ministro, «ci vuole l'Europa, che ancora non è un attore globale». Rispetto alla promozione dei diritti umani, per esempio, «vorremmo vedere l'Ue impegnata senza se e senza ma». Un G-2 sino-americano, tagliando fuori l'Ue, non avrebbe grande futuro, ma potrebbe un giorno essere una realtà se l'Ue si suicidasse, ha avvertito.
Pechino è lontana, scrive Caracciolo, dallo «stigma delle superpotenze al loro acme», il soft power inteso come potere della seduzione. Ad oggi «spaventa più che attrarre», come quando cade nel «disastro mediatico» della rivolta tibetana nel marzo scorso, dimostrando l'«insicurezza» e il volto violento del suo regime. E' bastato un «pugno di monaci» a rafforzare la sua «cattiva immagine».
L'economia non basta per diventare egemoni, spiega il direttore di Limes. Tra l'altro, Pil e reddito pro capite sono ancora troppo bassi per «aspirare al rango di supergrande». Il «cocktail di autocrazia e capitalismo» porta risultati e conviene a molti leader africani, ma la Cina non offre modelli culturali «appetibili». In America e in Europa «i pregiudizi negativi sul made in China crescono con progressione geometrica rispetto alla penetrazione di merci cinesi». Quanto alla way of life, «il giovane cinese scimmiotta i tic occidentali» e il sistema politico cinese in Occidente è «anatema».
Quindi, quanti prevedono «l'inevitabile sorpasso del Pil cinese ai danni di quello americano entro dieci o vent'anni, dovrebbero tenerne conto»: questa Cina non ha ancora prodotto il suo marchio di successo. L'«irradiamento» del regime di Pechino è «modestissimo». «Su queste basi pretendere al primato mondiale – anche solo alla cogestione sino-americana – è alquanto fantasioso», conclude Caracciolo.
Nel suo intervento il ministro Frattini non si è sottratto a dare almeno una risposta alle tante domande aperte dal nuovo numero di Limes: è la Cina ad essere divenuta «più globale», non il mondo «più cinese». Non c'è area del mondo in cui però non giochi un ruolo forte, ha osservato. In molti casi positivo: dal contributo alla stabilizzazione in Libano ai negoziati sul nucleare con la Corea del Nord; dai rapporti con il Giappone agli sforzi per una zona di libero scambio tra i Paesi dell'Asean. «Bisognerà tener conto della Cina anche per stabilizzare Afghanistan e Pakistan», ha suggerito Frattini.
L'Occidente ha il «dovere di rafforzare il proprio incoraggiamento alla Cina perché sia un attore globale responsabile». Ma su alcuni grandi temi, in particolare, va «stimolata» a fare di più. Il ministro ha auspicato che siano sciolti i dubbi sul rispetto delle regole del WTO e ambientali, e che Pechino intraprenda il «percorso verso standard occidentali sui diritti umani» in modo «risoluto». Del tema dei diritti fanno parte la libertà religiosa e la pena di morte, ha ricordato, così come il dialogo con le minoranze. «Vogliamo che la Cina continui il dialogo con il Dalai Lama». Non per l'indipendenza del Tibet, che è lo stesso Dalai Lama a escludere, come sanno tutti, ma nel rispetto del principio del dialogo.
Riguardo la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi, sarà il sottosegretario allo Sport, Rocco Crimi, a rappresentare l'Italia, ha anticipato il ministro, che invece sarà in vacanza. «Altre presenze – ha precisato – saranno valutate individualmente». Sentiti i capi di Stato e di governo europei, Sarkozy ha detto che andrà. «E a noi questo basta. Non c'è una linea di governo in un senso o in un altro, come non c'è una linea dell'Ue».
«Gestire» la Cina è «un'illusione», ha sottolineato Frattini. Occorre «un'agenda comune» su temi come l'ambiente, l'energia, la salute, la cultura, la riforma dell'Onu, il programma nucleare iraniano. E sulla crisi del Darfur Pechino «avrebbe una parola in più da dire». Ma «dalla paura, dal dubbio e dalla diffidenza», dobbiamo passare alla «fiducia» nei rapporti con la Cina; dalla tentazione di difenderci soltanto «al coinvolgimento e alla partnership strategica». Chissà cosa ne penserà il ministro Tremoni.
Per tutto questo, ha concluso il ministro, «ci vuole l'Europa, che ancora non è un attore globale». Rispetto alla promozione dei diritti umani, per esempio, «vorremmo vedere l'Ue impegnata senza se e senza ma». Un G-2 sino-americano, tagliando fuori l'Ue, non avrebbe grande futuro, ma potrebbe un giorno essere una realtà se l'Ue si suicidasse, ha avvertito.
Thursday, July 17, 2008
Tagli alla spesa, ricomincia il piagnisteo bipartisan
Ciò che più mi allarma di Tremonti, come ho scritto qualche giorno fa, è la sua tendenza a guardare oltre confine, quasi che sul fronte interno ci sia poco da fare, oltre a rispettare i vincoli di bilancio, e che sul fronte esterno, nella lotta contro la "speculazione", si decida il nostro futuro economico. La crisi internazionale è seria e figurarsi se voglio negare il carattere interdipendente dell'economia globalizzata. Tuttavia, l'Italia, per la sua arretratezza, ha molti margini di miglioramento, persino in una situazione di crisi. Faremmo bene quindi a guardare più al nostro interno che ai massimi sistemi. Il nostro "male", prim'ancora che nella speculazione, è nello Stato. Mentre Tremonti sembra rassegnato al fatto che tutto si giochi fuori dall'Italia, a me pare che la partita più importante si giochi dentro.
Dovremmo smetterla però con un vecchio vizio che vedo riaffiorare sia nell'opposizione che nella maggioranza. Ci riempiamo tutti la bocca della necessità di tagliare la spesa. Poi, quando da qualche parte si comincia, ci stracciamo le vesti. Gli operatori del settore protestano e i leader dell'opposizione, Veltroni in testa, irresponsabilmente si accodano. Sulla sanità e sulla sicurezza hanno torto Formigoni e i sindacati di polizia. Ma chi l'ha detto che per migliorare un servizio servono più soldi? Che non si possa persino migliorare diminuendo i costi? E che ai tagli alle voci di spesa debbano per forza corrispondere meno servizi per i cittadini?
Proprio riguardo la sanità e la sicurezza tutti i dati - numero di addetti e bilanci - parlano chiaro: spendiamo di più, ma peggio, di molti Paesi europei. Più spesa uguale più servizi e servizi migliori, è questa la scriteriata logica che ha trainato verso l'alto la spesa pubblica e gonfiato il debito nel nostro Paese. Il compito dei ministri - e dei governatori - non è chiedere più soldi (troppo facile!), ma far funzionare la macchina con il minimo della spesa. La sfida è utilizzare in modo più efficiente le risorse che si hanno. C'è qualcuno che ai livelli di spesa in cui siamo ha forse il coraggio di sostenere che non ci siano i margini? Ricordo che in un suo articolo Ricolfi aveva addirittura parlato di 80 miliardi l'anno di sprechi. Nella sanità la "responsabilizzazione del singolo cittadino-paziente", come scrive Mingardi, per esempio rimborsando i cittadini anziché le strutture convenzionate, sarebbe elementare buon senso.
Dovremmo smetterla però con un vecchio vizio che vedo riaffiorare sia nell'opposizione che nella maggioranza. Ci riempiamo tutti la bocca della necessità di tagliare la spesa. Poi, quando da qualche parte si comincia, ci stracciamo le vesti. Gli operatori del settore protestano e i leader dell'opposizione, Veltroni in testa, irresponsabilmente si accodano. Sulla sanità e sulla sicurezza hanno torto Formigoni e i sindacati di polizia. Ma chi l'ha detto che per migliorare un servizio servono più soldi? Che non si possa persino migliorare diminuendo i costi? E che ai tagli alle voci di spesa debbano per forza corrispondere meno servizi per i cittadini?
Proprio riguardo la sanità e la sicurezza tutti i dati - numero di addetti e bilanci - parlano chiaro: spendiamo di più, ma peggio, di molti Paesi europei. Più spesa uguale più servizi e servizi migliori, è questa la scriteriata logica che ha trainato verso l'alto la spesa pubblica e gonfiato il debito nel nostro Paese. Il compito dei ministri - e dei governatori - non è chiedere più soldi (troppo facile!), ma far funzionare la macchina con il minimo della spesa. La sfida è utilizzare in modo più efficiente le risorse che si hanno. C'è qualcuno che ai livelli di spesa in cui siamo ha forse il coraggio di sostenere che non ci siano i margini? Ricordo che in un suo articolo Ricolfi aveva addirittura parlato di 80 miliardi l'anno di sprechi. Nella sanità la "responsabilizzazione del singolo cittadino-paziente", come scrive Mingardi, per esempio rimborsando i cittadini anziché le strutture convenzionate, sarebbe elementare buon senso.
Wednesday, July 16, 2008
Il petrolio giù di 14 dollari non è una notizia?
Oltre a fornire una esauriente spiegazione sul ruolo degli «odiati speculatori» nei mercati - «contribuiscono a stabilizzare il mercato comprando quando il prezzo è basso (rendendolo così meno basso) e vendendo quando il loro prezzo è alto, contribuendo a calmierarlo» - nel suo editoriale di oggi, su il Riformista, Alberto Mingardi esprime lo stesso concetto che in qualche modo avevo tentato di esprimere in questo post: «L'Italia della crescita zero è almeno in parte altra cosa, rispetto a questo scenario» (il fallimento delle banche Usa, la crisi internazionale).
Intanto, tra ieri e oggi il prezzo del petrolio ha subito una decisa inversione di tendenza. Da 147 dollari al barile a 133 (qui Phastidio.net spiega tecnicamente ciò che è accaduto). Il fatto strano è che giornali, siti on line e televisioni, che strillano al nuovo record ad ogni aumento di uno o due dollari, stanno tuttora ignorando un calo dei prezzi del greggio di ben 14 dollari (circa il 10%) in 48 ore. Non è forse una notizia da sparare su tutte le prime pagine (on line e stampate) e nei titoli dei notiziari televisivi?
«Non abbiamo fatto le riforme di cui avevamo bisogno, e ora nemmeno si parla più, di farle. Abbiamo tasse troppo alte e regole troppo complesse, che non incentivano chi ha voglia di fare. Sarebbe il momento di usare le comprensibili paure degli italiani, per svoltare e riattivare il circuito virtuoso della creazione di ricchezza sulla base di un patto più equo, fra Stato e individuo. Sarebbe il momento del coraggio. Sarebbe».Sempre oggi, su la Repubblica, il re saudita Abdullah ha scaricato sulla speculazione le colpe dell'aumento dei prezzi del petrolio, puntando l'indice sull'«avidità speculativa di certi personaggi, di certe imprese», che «hanno sfruttato il rialzo delle quotazioni del greggio per accumulare ricchezze, per avvantaggiarsene personalmente». Ma il re saudita è naturalmente parte in causa, interessatissima, visto che il suo regno è il primo produttore mondiale. «La speculazione (cioè l'attività finanziaria) - spiega Carlo Stagnaro in un breve commento su Il Foglio.it - dà probabilmente un contributo a trainare verso l'alto i prezzi. Però ciò è possibile oggi, mentre non lo era dieci anni fa, perché il margine tra domanda e offerta si è fatto stretto. Cioè, perché si è indebolito il paese che fino ad allora era stato il cardine dei mercati globali grazie al suo ruolo di "swing producer", ossia di produttore di ultima istanza che, modulando il suo output, ammorbidiva gli shock. Questo, però, il sovrano arabo non può ammetterlo senza riconoscere che Riad ha un grave problema di sottoinvestimenti, e che dunque si trova nella spiacevole condizione di non più governare, ma subire, i mercati. Questo è il classico caso in cui occorre concentrarsi sul dito anziché sulla luna. La speculazione è un perfetto spauracchio per giocare – mai espressione fu più appropriata – il gioco dello scaricabarile».
Intanto, tra ieri e oggi il prezzo del petrolio ha subito una decisa inversione di tendenza. Da 147 dollari al barile a 133 (qui Phastidio.net spiega tecnicamente ciò che è accaduto). Il fatto strano è che giornali, siti on line e televisioni, che strillano al nuovo record ad ogni aumento di uno o due dollari, stanno tuttora ignorando un calo dei prezzi del greggio di ben 14 dollari (circa il 10%) in 48 ore. Non è forse una notizia da sparare su tutte le prime pagine (on line e stampate) e nei titoli dei notiziari televisivi?
Israele si umilia con l'egoismo di stato
Non saprei se definire diabolicamente geniale Hezbollah, o drammaticamente stupido il governo israeliano. Si può cedere al ricatto dei rapitori anche se questi hanno già ucciso gli ostaggi? Si possono scambiare cinque pericolosi e sanguinari terroristi con i resti di due soldati innocenti? L'esito di questo surreale negoziato è inquietante perché rivela lo stato d'animo di una nazione stanca, per lo meno nella sua classe politica.
Il sollievo - ammesso che di sollievo si possa parlare - provato dalle famiglie dei due soldati uccisi per aver conosciuto la sorte dei loro cari e poter piangere sui loro resti vale la certezza matematica che questo scambio incoraggerà nuovi rapimenti? Come possono quelle due famiglie, e gli esponenti del governo israeliano, vivere con l'angoscia di aver messo ancor più a repentaglio la vita di migliaia di giovani israeliani? E per che cosa? Per salvarne la vita di due? Nemmeno, solo per vedersi restituire due corpi irriconoscibili, identificabili solo con l'esame del Dna.
Ma c'è un risvolto ancor più macabro. Da oggi i terroristi di Hezbollah sanno che Israele è disposto a pagare bene non solo i suoi prigionieri vivi, ma anche quelli morti. E una volta che i miliziani si troveranno di nuovo per le mani un israeliano, secondo voi avranno qualche interesse a tenerlo in vita, sapendo che il governo israeliano è disposto a pagare anche per riaverlo morto?
Da oggi per Hezbollah un israeliano morto vale quanto uno vivo. Con lo scambio di oggi il governo israeliano ha praticamente firmato la condanna a morte di tutti i suoi cittadini che disgraziatamente per qualunque motivo dovessero finire nelle mani di Hezbollah.
E' quella del governo Olmert e del presidente Peres una scelta sostenibile sul piano politico e morale? Qui i due piani coincidono, perché non solo di tutta evidenza Hezbollah ha ottenuto una vittoria politica, ma Israele ha compiuto una scelta immorale, sacrificando per un astratto principio umanitario la vita concreta di chissà quanti israeliani, agli occhi di Hezbollah preziosissima carne da macello. Possiamo dire purtroppo che le mani di Shimon Peres che oggi firmano gli atti di "grazia" e di scarcerazione non tarderanno a macchiarsi di sangue israeliano.
Il sollievo - ammesso che di sollievo si possa parlare - provato dalle famiglie dei due soldati uccisi per aver conosciuto la sorte dei loro cari e poter piangere sui loro resti vale la certezza matematica che questo scambio incoraggerà nuovi rapimenti? Come possono quelle due famiglie, e gli esponenti del governo israeliano, vivere con l'angoscia di aver messo ancor più a repentaglio la vita di migliaia di giovani israeliani? E per che cosa? Per salvarne la vita di due? Nemmeno, solo per vedersi restituire due corpi irriconoscibili, identificabili solo con l'esame del Dna.
Ma c'è un risvolto ancor più macabro. Da oggi i terroristi di Hezbollah sanno che Israele è disposto a pagare bene non solo i suoi prigionieri vivi, ma anche quelli morti. E una volta che i miliziani si troveranno di nuovo per le mani un israeliano, secondo voi avranno qualche interesse a tenerlo in vita, sapendo che il governo israeliano è disposto a pagare anche per riaverlo morto?
Da oggi per Hezbollah un israeliano morto vale quanto uno vivo. Con lo scambio di oggi il governo israeliano ha praticamente firmato la condanna a morte di tutti i suoi cittadini che disgraziatamente per qualunque motivo dovessero finire nelle mani di Hezbollah.
E' quella del governo Olmert e del presidente Peres una scelta sostenibile sul piano politico e morale? Qui i due piani coincidono, perché non solo di tutta evidenza Hezbollah ha ottenuto una vittoria politica, ma Israele ha compiuto una scelta immorale, sacrificando per un astratto principio umanitario la vita concreta di chissà quanti israeliani, agli occhi di Hezbollah preziosissima carne da macello. Possiamo dire purtroppo che le mani di Shimon Peres che oggi firmano gli atti di "grazia" e di scarcerazione non tarderanno a macchiarsi di sangue israeliano.
Serve proprio una legge, che rischia di non essere "buona"?
Su il Riformista di oggi:
Caro direttore, secondo Cappato il legislatore deve intervenire. Un politico come lui non dovrebbe ignorare le ultime sentenze che non solo hanno riconosciuto il diritto dei pazienti consapevoli, com'era Welby, ma hanno anche indicato le condizioni alle quali una volontà espressa nel passato da pazienti in stato di incoscienza debba ritenersi accertata oltre ogni ragionevole dubbio. Non "innovando" il diritto, ma richiamandosi a principi già esistenti nell'ordinamento. Ci sono voluti anni, ma la giustizia sembra arrivata prima della politica, ammettendo de facto testamenti biologici scritti e verbali. Chiedo a Cappato: e se Welby o il papà di Eluana avessero già ottenuto, certo con enormi sacrifici, risultati oltre i quali il Parlamento non saprebbe spingersi? E se addirittura limitasse gli spazi di libertà che si sono aperti in sede giudiziaria? Non dovrebbe far riflettere il fatto che improvvisamente ad invocare il legislatore è Mons. Fisichella? Una legge, per essere buona oltre che nuova, non potrebbe che limitarsi a tutelare la volontà del paziente, qualunque essa sia. Il mio dubbio è che invece, come spesso capita in Italia, la politica abbia la presunzione di imprigionare in uno o più schemi fissi una casistica dalla irriducibile varietà, perdendo di vista i principi generali. Un esempio: la politica si ostina a voler definire se la nutrizione artificiale sia un intervento ordinario o straordinario. Con un "compromesso" legislativo secondo cui fosse da ritenersi ordinario, tutte le Eluane sarebbero condannate a prescindere dalle loro volontà. Certo, il nostro sistema giudiziario è quanto di più incerto. Ma è lecito aspettarsi che le recenti sentenze costituiscano dei precedenti. E' probabile che un nuovo Welby non dovrà aspettare mesi, e una nuova Eluana anni, e che da oggi sempre più medici si farebbero avanti. L'impressione è che il vissuto quotidiano, le singole scelte degli italiani, possano arrivare prima e meglio della politica, risparmiandoci la "toppa" del legislatore, quasi sempre peggiore del "buco".
Caro direttore, secondo Cappato il legislatore deve intervenire. Un politico come lui non dovrebbe ignorare le ultime sentenze che non solo hanno riconosciuto il diritto dei pazienti consapevoli, com'era Welby, ma hanno anche indicato le condizioni alle quali una volontà espressa nel passato da pazienti in stato di incoscienza debba ritenersi accertata oltre ogni ragionevole dubbio. Non "innovando" il diritto, ma richiamandosi a principi già esistenti nell'ordinamento. Ci sono voluti anni, ma la giustizia sembra arrivata prima della politica, ammettendo de facto testamenti biologici scritti e verbali. Chiedo a Cappato: e se Welby o il papà di Eluana avessero già ottenuto, certo con enormi sacrifici, risultati oltre i quali il Parlamento non saprebbe spingersi? E se addirittura limitasse gli spazi di libertà che si sono aperti in sede giudiziaria? Non dovrebbe far riflettere il fatto che improvvisamente ad invocare il legislatore è Mons. Fisichella? Una legge, per essere buona oltre che nuova, non potrebbe che limitarsi a tutelare la volontà del paziente, qualunque essa sia. Il mio dubbio è che invece, come spesso capita in Italia, la politica abbia la presunzione di imprigionare in uno o più schemi fissi una casistica dalla irriducibile varietà, perdendo di vista i principi generali. Un esempio: la politica si ostina a voler definire se la nutrizione artificiale sia un intervento ordinario o straordinario. Con un "compromesso" legislativo secondo cui fosse da ritenersi ordinario, tutte le Eluane sarebbero condannate a prescindere dalle loro volontà. Certo, il nostro sistema giudiziario è quanto di più incerto. Ma è lecito aspettarsi che le recenti sentenze costituiscano dei precedenti. E' probabile che un nuovo Welby non dovrà aspettare mesi, e una nuova Eluana anni, e che da oggi sempre più medici si farebbero avanti. L'impressione è che il vissuto quotidiano, le singole scelte degli italiani, possano arrivare prima e meglio della politica, risparmiandoci la "toppa" del legislatore, quasi sempre peggiore del "buco".
Tuesday, July 15, 2008
L'isolamento in carcere è finora l'unica "prova"
Dopo Mastella, la sensazione è che ci costringeranno persino a difendere Del Turco. Da ciò che è emerso sui giornali le accuse nei confronti del governatore dell'Abruzzo sembrano circostanziate. Sembrano. Eppure, nessuno può più prendere alla leggera l'impressionante record negativo accumulato dalla magistratura. E ascoltando la conferenza stampa del procuratore, la sua insistenza sulle prove del tragitto dell'imprenditore Angelini da casello a casello autostradale (?), ci è sembrato di sentire l'eco di quel pittoresco procuratore di Santa Maria Capua Vetere.
Ma la carcerazione in isolamento nel carcere di Sulmona disposta per Del Turco è una specie di triste cartina di tornasole. Il tentativo è di far cantare Del Turco, di usare illegittimamente la carcerazione preventiva in isolamento per estorcere una confessione. L'ammissione implicita è che allo stato le prove non siano sufficienti a dimostrare la colpevolezza dell'imputato e che la procura cerchi la scorciatoia della confessione in carcere. La stessa brutta storia di sempre. Per questo, innocente o colpevole, ci auguriamo che Del Turco non ceda a questo sporco gioco.
E la politica? Come ha reagito? Veltroni in modo imbarazzante, nonostante l'inchiesta coinvolga in modo non marginale il Pd. Con incredibile gaffe auspica che il governatore Del Turco riesca a dimostrare la sua estraneità, quando di tutta evidenza dovrebbe essere l'accusa a dimostrare la sua colpevolezza.
Come ha giustamente osservato Panebianco, l'arresto di Del Turco dovrebbe ricordare a Veltroni e compagni che «i problemi dei rapporti fra giustizia e politica non riguardano solo Berlusconi». Ma oggi, dal Partito democratico, «è lecito attendersi anche qualcosa d'altro».
A partire dalla separazione delle carriere e dall'abolizione dell'obbligatorietà dell'azione penale, occorre «ricondurre nell'alveo delle istituzioni democratico-rappresentative le grandi scelte di politica delle giustizia». Bisogna supporre che Berlusconi si riferisse a questo quando ha finalmente parlato di riforma complessiva e radicale della giustizia, ben oltre la sola separazione delle carriere. Se quello giudiziario non è un potere, ma un ordine, ha bisogno di un punto di caduta, di una sede di legittimazione e di controllo del suo operato.
Una voce sola, quella di Mario Giordano, è andata oltre la vicenda giudiziaria, sottolineando che «il problema è la sanità che è diventata il buco nero di questo Paese. È la sanità che sta facendo saltare per aria tutti i deficit delle regioni, e che in sei anni ha bruciato 30 miliardi di euro (7,5 miliardi solo nel Lazio, 4,5 in Campania). È la sanità che eroga servizi scadenti, che produce liste di attesa infinite, che costa sempre di più e offre sempre meno ai cittadini». Non azzarda possibili rimedi, ma a noi ne viene in mente uno: fare in modo che le strutture sanitarie si sostengano per mano dei cittadini, non dello Stato o delle regioni.
Ma la carcerazione in isolamento nel carcere di Sulmona disposta per Del Turco è una specie di triste cartina di tornasole. Il tentativo è di far cantare Del Turco, di usare illegittimamente la carcerazione preventiva in isolamento per estorcere una confessione. L'ammissione implicita è che allo stato le prove non siano sufficienti a dimostrare la colpevolezza dell'imputato e che la procura cerchi la scorciatoia della confessione in carcere. La stessa brutta storia di sempre. Per questo, innocente o colpevole, ci auguriamo che Del Turco non ceda a questo sporco gioco.
E la politica? Come ha reagito? Veltroni in modo imbarazzante, nonostante l'inchiesta coinvolga in modo non marginale il Pd. Con incredibile gaffe auspica che il governatore Del Turco riesca a dimostrare la sua estraneità, quando di tutta evidenza dovrebbe essere l'accusa a dimostrare la sua colpevolezza.
Come ha giustamente osservato Panebianco, l'arresto di Del Turco dovrebbe ricordare a Veltroni e compagni che «i problemi dei rapporti fra giustizia e politica non riguardano solo Berlusconi». Ma oggi, dal Partito democratico, «è lecito attendersi anche qualcosa d'altro».
«Forse anche per il Pd è arrivato il momento, dopo anni di silenzi, acrobazie e furbizie da parte dei partiti predecessori (Ds e Margherita), di smetterla di fare il pesce in barile sulle questioni della giustizia e dei rapporti fra magistratura e politica. È lecito chiedere al Partito democratico: come pensate di tornare a essere forza di governo se non avete una vostra posizione sulla giustizia, una posizione che non si limiti a essere, come è sempre stato fin qui, una fotocopia di quella dell’Associazione nazionale magistrati?»Fino ad oggi la sinistra riformista «ha negato l'esistenza di un potere discrezionale eccessivo dei pubblici ministeri, ha finto di non vedere le continue invasioni di campo. Ha accreditato in sostanza l'idea che i problemi derivassero tutti, e soltanto, dalla natura corrotta del nemico del momento (Craxi, Berlusconi)». Panebianco chiede al Pd «discontinuità». Non sembra ancora aria.
A partire dalla separazione delle carriere e dall'abolizione dell'obbligatorietà dell'azione penale, occorre «ricondurre nell'alveo delle istituzioni democratico-rappresentative le grandi scelte di politica delle giustizia». Bisogna supporre che Berlusconi si riferisse a questo quando ha finalmente parlato di riforma complessiva e radicale della giustizia, ben oltre la sola separazione delle carriere. Se quello giudiziario non è un potere, ma un ordine, ha bisogno di un punto di caduta, di una sede di legittimazione e di controllo del suo operato.
Una voce sola, quella di Mario Giordano, è andata oltre la vicenda giudiziaria, sottolineando che «il problema è la sanità che è diventata il buco nero di questo Paese. È la sanità che sta facendo saltare per aria tutti i deficit delle regioni, e che in sei anni ha bruciato 30 miliardi di euro (7,5 miliardi solo nel Lazio, 4,5 in Campania). È la sanità che eroga servizi scadenti, che produce liste di attesa infinite, che costa sempre di più e offre sempre meno ai cittadini». Non azzarda possibili rimedi, ma a noi ne viene in mente uno: fare in modo che le strutture sanitarie si sostengano per mano dei cittadini, non dello Stato o delle regioni.
Monday, July 14, 2008
Starne alla larga, un segno di maturità della politica
Ritrovo nell'editoriale di oggi di Antonio Polito l'eco di una mia lettera pubblicata da il Riformista sul numero di sabato, che voleva essere la versione sintetica di questo post.
Anch'io, come Polito, «non concordo con Pierluigi Battista, che sul Corriere si è lamentato del progressivo affievolirsi della battaglia politica sui valori. Al contrario: lo trovo un segno di maturità. Quasi una salutare confessione di impotenza, un soprassalto di pudore. Io lascerei le cose come stanno. Lascerei ai malati, ai loro familiari, ai medici, ai giudici quando sono chiamati a esprimersi, l'onere di decidere con prudenza e conoscenza, caso per caso. Loro non devono cercare voti, né vendere giornali. Sono più liberi... L'Italia non è pronta per una norma che imponga ad Eluana di continuare a vivere, o ai medici del signor Melazzini di consigliargli la morte. C'è un limite ai poteri di una maggioranza parlamentare, qualsiasi essa sia».
Con il passare degli anni e delle sentenze sono sempre più scettico sulla necessità di un intervento del legislatore. Nel nostro ordinamento sembrano esistere già principi e leggi applicabili che garantiscono il diritto individuale a decidere della propria vita, malattia e morte. E se il legislatore addirittura limitasse quegli spazi di libertà? Alcune sentenze hanno riconosciuto l'ammissibilità di testamenti biologici spontanei come prove valide della volontà del paziente. Se posso disporre dei miei beni, serve una legge a dirmi che posso disporre anche del mio corpo? Forse è meglio che la politica se ne stia alla larga.
Che i temi della bioetica saranno sempre più al centro del dibattito politico sta cominciando a rivelarsi previsione un po' scontata e al tempo stesso azzardata, quasi un luogo comune, perché la si sente ripetere da troppo tempo sempre più spesso senza che si realizzi. Certo, è già stato fatto notare come i progressi della medicina pongano sempre maggiori problemi di scelta nella malattia e nella morte. Problemi che spesso invadono le prime pagine dei giornali e infiammano la dialettica politica. Eppure, dopo qualche anno che se ne parla, a me pare che siano i temi economici a conservare una preponderante centralità. Dei temi della bioetica si parla, ma occasionalmente, sull'onda emotiva di qualche caso singolo. E ho l'impressione che il vissuto quotidiano, le singole scelte degli italiani, possano arrivare prima e meglio della politica a risolvere questi problemi, risparmiandoci la "toppa" del legislatore, quasi sempre peggiore del "buco" (vedi Legge 40 e Dico).
Anch'io, come Polito, «non concordo con Pierluigi Battista, che sul Corriere si è lamentato del progressivo affievolirsi della battaglia politica sui valori. Al contrario: lo trovo un segno di maturità. Quasi una salutare confessione di impotenza, un soprassalto di pudore. Io lascerei le cose come stanno. Lascerei ai malati, ai loro familiari, ai medici, ai giudici quando sono chiamati a esprimersi, l'onere di decidere con prudenza e conoscenza, caso per caso. Loro non devono cercare voti, né vendere giornali. Sono più liberi... L'Italia non è pronta per una norma che imponga ad Eluana di continuare a vivere, o ai medici del signor Melazzini di consigliargli la morte. C'è un limite ai poteri di una maggioranza parlamentare, qualsiasi essa sia».
Con il passare degli anni e delle sentenze sono sempre più scettico sulla necessità di un intervento del legislatore. Nel nostro ordinamento sembrano esistere già principi e leggi applicabili che garantiscono il diritto individuale a decidere della propria vita, malattia e morte. E se il legislatore addirittura limitasse quegli spazi di libertà? Alcune sentenze hanno riconosciuto l'ammissibilità di testamenti biologici spontanei come prove valide della volontà del paziente. Se posso disporre dei miei beni, serve una legge a dirmi che posso disporre anche del mio corpo? Forse è meglio che la politica se ne stia alla larga.
Che i temi della bioetica saranno sempre più al centro del dibattito politico sta cominciando a rivelarsi previsione un po' scontata e al tempo stesso azzardata, quasi un luogo comune, perché la si sente ripetere da troppo tempo sempre più spesso senza che si realizzi. Certo, è già stato fatto notare come i progressi della medicina pongano sempre maggiori problemi di scelta nella malattia e nella morte. Problemi che spesso invadono le prime pagine dei giornali e infiammano la dialettica politica. Eppure, dopo qualche anno che se ne parla, a me pare che siano i temi economici a conservare una preponderante centralità. Dei temi della bioetica si parla, ma occasionalmente, sull'onda emotiva di qualche caso singolo. E ho l'impressione che il vissuto quotidiano, le singole scelte degli italiani, possano arrivare prima e meglio della politica a risolvere questi problemi, risparmiandoci la "toppa" del legislatore, quasi sempre peggiore del "buco" (vedi Legge 40 e Dico).
Altro che speculatori
Alcuni giorni fa ho cercato di capire che tipo di analisi circolassero nei think tank Usa sull'aumento dei prezzi del petrolio. Ne è uscito fuori questo articolo pubblicato su Ideazione.com. Ulteriori interessanti elementi di conoscenza li fornisce oggi Phastidio.net, rafforzando la tesi secondo cui la corsa del greggio sia dovuta più a fattori legati alla domanda e all'offerta che alla speculazione.
Dal lato dell'offerta, è lo stesso ex presidente russo, oggi premier, Putin, ad ammettere, per esempio, che «il tasso di crescita della produzione russa è diminuito, nel primo trimestre di quest'anno la produzione è addirittura calata dello 0,3 per cento». Si apprende che l'Arabia Saudita non potrà raggiungere l'anno prossimo i 12 milioni di barili al giorno ma solo nel 2010, e non sarà comunque in grado di mantenere quel volume di produzione a lungo; e che i vecchi campi petroliferi sauditi producono meno mentre i nuovi stentano a decollare e non sono ancora in grado di sostituirli.
«Solo due esempi - conclude Seminerio - della difficoltà non solo ad aumentare la produzione, ma addirittura a mantenerla entro i livelli attuali. Il tutto a fronte di uno sviluppo della domanda che continua ad essere rampante. Che sia Peak Oil "fisico" o "politico" ha poca o nulla rilevanza: ciò che conta è che l'offerta non tiene il passo della domanda. Nel frattempo la Commodities and Futures Trading Commission, il regolatore statunitense delle borse-merci a termine, ha svolto un'indagine scoprendo che non vi sono evidenze di manipolazione del mercato americano dei futures petroliferi, nel senso che non sono stati individuati comportamenti collusivi degli operatori volti a spingere i prezzi al rialzo».
Eppure, osserva, il ministro Tremonti prosegue la sua crociata anti-speculatori dalle pagine di Panorama e Corriere della Sera.
Dal lato dell'offerta, è lo stesso ex presidente russo, oggi premier, Putin, ad ammettere, per esempio, che «il tasso di crescita della produzione russa è diminuito, nel primo trimestre di quest'anno la produzione è addirittura calata dello 0,3 per cento». Si apprende che l'Arabia Saudita non potrà raggiungere l'anno prossimo i 12 milioni di barili al giorno ma solo nel 2010, e non sarà comunque in grado di mantenere quel volume di produzione a lungo; e che i vecchi campi petroliferi sauditi producono meno mentre i nuovi stentano a decollare e non sono ancora in grado di sostituirli.
«Solo due esempi - conclude Seminerio - della difficoltà non solo ad aumentare la produzione, ma addirittura a mantenerla entro i livelli attuali. Il tutto a fronte di uno sviluppo della domanda che continua ad essere rampante. Che sia Peak Oil "fisico" o "politico" ha poca o nulla rilevanza: ciò che conta è che l'offerta non tiene il passo della domanda. Nel frattempo la Commodities and Futures Trading Commission, il regolatore statunitense delle borse-merci a termine, ha svolto un'indagine scoprendo che non vi sono evidenze di manipolazione del mercato americano dei futures petroliferi, nel senso che non sono stati individuati comportamenti collusivi degli operatori volti a spingere i prezzi al rialzo».
Eppure, osserva, il ministro Tremonti prosegue la sua crociata anti-speculatori dalle pagine di Panorama e Corriere della Sera.
Altri mille come lui
È morto a 76 anni, in un incidente stradale nei pressi di Poznan, nell'ovest della Polonia, Bronislaw Geremek, uno dei più coraggiosi e lucidi dissidenti polacchi durante il regime comunista. Lo ricorda in questo articolo Adam Michnik e non crediamo ci sia nulla da aggiungere alle sue parole. Giusto che la figura di Geremek possa essere di esempio per dieci, cento, mille dissidenti come lui in tutte le dittature del mondo.
Candidate Views
La Brookings Institution ha chiesto ai suoi esperti di mettere a confronto i programmi e le idee dei due candidati alle elezioni presidenziali Usa – il repubblicano John McCain e il democratico Barack Obama – sui principali temi, quali tasse, politiche giovanili, Iraq, salute, immigrazione, cambiamenti climatici, commercio internazionale.
Su un tema in particolare, sul ritiro delle truppe americane dall'Iraq, si concentra un focus del Washington Institute for Near East Policy, che confronta le posizioni dei due candidati su questa specifica questione, indicando che entrambi hanno promesso di ridurre in modo significativo il livello di truppe americane in Iraq entro il loro primo mandato. Michael Eisenstadt esamina i fattori che influenzeranno il ritmo del ritiro dal 2009 in poi.
Rea Hederman e Patrick Tyrrell esaminano per la conservatrice Heritage Foundation la politica fiscale di uno dei due candidati alla presidenza, il democratico Obama, giungendo alla conclusione che quelli che propone sono livelli di tassazione «europei», cioè particolarmente alti.
Su un tema in particolare, sul ritiro delle truppe americane dall'Iraq, si concentra un focus del Washington Institute for Near East Policy, che confronta le posizioni dei due candidati su questa specifica questione, indicando che entrambi hanno promesso di ridurre in modo significativo il livello di truppe americane in Iraq entro il loro primo mandato. Michael Eisenstadt esamina i fattori che influenzeranno il ritmo del ritiro dal 2009 in poi.
Rea Hederman e Patrick Tyrrell esaminano per la conservatrice Heritage Foundation la politica fiscale di uno dei due candidati alla presidenza, il democratico Obama, giungendo alla conclusione che quelli che propone sono livelli di tassazione «europei», cioè particolarmente alti.
Friday, July 11, 2008
La partita più importante si gioca in Italia, non fuori
Con il Dpef si comincia finalmente a tagliare la spesa, ma manca lo shock
A giudicare dalla dichiarazione finale del G8 di Toyako, in Giappone, in cui si legge dell'«importanza di implementare rapidamente tutte le raccomandazioni del Financial Stability Forum», presieduto dal governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, per contrastare la crisi finanziaria internazionale, si direbbe che all'estero nella sua disputa con Draghi il ministro Tremonti stia avendo la peggio.
Non mi pare che nei consessi europei o internazionali la crociata che Tremonti porta avanti con toni davvero troppo apocalittici nei confronti della speculazione e della globalizzazione stia riscuotendo molto successo. Il che è un bene e dovrebbe forse rassicurarci, indurci a non enfatizzare troppo le parole del ministro nel dibattito interno e a goderci un Dpef e una manovra finanziaria che effettivamente, come ha riconosciuto lo stesso Draghi, sono impostati per la prima volta sui tagli alla spesa.
Vi consiglio però di sentire l'audizione di Tremonti sul Dpef dinanzi alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato, lo scorso 2 luglio. Non è rassicurante il fatto che il ministro, di fronte a ciò che succede (o meglio, alla sua interpretazione di ciò che sta accadendo) nell'economia mondiale, ritenga che sia tutto sommato irrilevante o poco rilevante ciò che decide il governo per l'Italia. In sostanza, dice, il governo ridurrà il debito, non alzerà le tasse, farà tutte le politiche che servono, ma di fronte alla crisi la soluzione dipende da ciò che si decide fuori dall'Italia.
Figurarsi se vogliamo negare il carattere interdipendente dell'economia globalizzata. Tuttavia, l'Italia, per cause interne, è la più fragile e la più esposta tra i Paesi sviluppati. Il nostro Paese, e i redditi delle famiglie, si troverebbero in una situazione certamente assai migliore se venissero realizzate le riforme di cui abbiamo urgente bisogno. Proprio per l'arretratezza in cui ci troviamo, l'Italia ha molti margini di miglioramento, persino in una situazione di crisi internazionale. Nella situazione in cui versa l'Italia, faremmo bene a guardare al nostro interno, non ai massimi sistemi. Il «male» dell'Italia, prim'ancora che nella speculazione internazionale, è nello Stato. Tremonti dovrebbe concentrarsi su quello. Il rischio invece è che si limiti all'ordinaria amministrazione, a fare il minimo indispensabile, mentre ciò che serve è uno shock.
Lo ha ricordato alcuni giorni fa Antonio Martino in un editoriale sul sito dell'Istituto Bruno Leoni: oltre all'aumento del prezzo del petrolio e all'inflazione, «sappiamo tutti che quello che stiamo pagando è il prezzo salatissimo di 45 anni di cattocomunismo, di crescita delle tasse e delle spese inutili, oltre che dei debiti pubblici e della pletora di regolamentazioni insensate che scoraggiano le attività produttive». Scrollandoci di dosso questi «45 anni di cattocomunismo» possiamo migliorare di molto la nostra condizione a prescindere dalle crisi internazionali. Mentre Tremonti sembra rassegnato al fatto che tutto si giochi fuori dall'Italia, a me sembra che la partita più importante si giochi dentro.
«Gli Italiani hanno perfettamente compreso che il nostro Paese ha l'urgente bisogno di una radicale inversione di tendenza, di una svolta liberale che riduca il costo del settore pubblico e lo renda meno inefficiente, di una drastica riduzione delle tasse e delle spese improduttive, della liberazione delle nostre energie produttive». E qui, dopo l'analisi, la critica di Martino:
Ma manca lo shock. Potrebbero rivelarsi ancora insufficienti le riforme di Brunetta, Sacconi e Gelmini - sempre che riescano a realizzarle - in tre settori chiave. Sarebbe stato opportuno, per esempio, già prevedere almeno entro il prossimo trienno un piano di riduzione delle aliquote fiscali. Il rischio è di ritrovarci con «un governo che gestisce l'esistente», quando è proprio «l'esistente la causa del nostro declino».
Lo stesso difetto nell'approccio di Tremonti lo registrava Guido Tabellini, rettore della Bocconi, su Il Sole24 Ore: «La risposta del Governo sembra essere: sul fronte interno c'è poco da fare, perché i vincoli di bilancio non consentono margini di manovra; sul fronte esterno, mobilitiamo i Governi europei contro la "speculazione". È una risposta inadeguata su entrambi i fronti».
C'è, spiega Tabellini, un «fronte esterno su cui dovrebbe concentrarsi l'azione del Governo», ma non riguarda la "speculazione". Sul «fronte interno, la politica monetaria può fare ben poco... Gli effetti dello shock invece dovrebbero essere contrastati con la politica fiscale. Lo strumento corretto è una riduzione delle imposte sui redditi da lavoro: dal lato dell'offerta, scenderebbero i costi di produzione; dal lato della domanda, si darebbe sollievo al reddito disponibile delle famiglie». Si potrebbe così «difendere il potere d'acquisto delle famiglie senza scatenare una vana rincorsa tra prezzi e salari».
E' comunemente accettato il fatto che quando mancano risorse e l'economia è stagnante non si possano ridurre le tasse. «Se il Pil dovesse riprendere a correre» si potranno restituire i soldi ai contribuenti, dice Tremonti. «Se questa fosse l'impostazione - avverte Tabellini - avremmo una politica fiscale prociclica che amplifica gli shock esterni: quando le cose vanno male si tira la cinghia, quando vanno bene anche la politica fiscale diventa più espansiva. Esattamente il contrario di ciò che bisognerebbe fare».
Secondo gli obiettivi del Dpef, nel 2010 sia la pressione fiscale che la spesa corrente al netto degli interessi in percentuale del Pil continueranno a essere praticamente sugli stessi livelli del 2007. «È un programma troppo rinunciatario, date le difficoltà del Paese», conclude Tabellini. Si comincia finalmente a tagliare la spesa, ma manca lo shock.
A giudicare dalla dichiarazione finale del G8 di Toyako, in Giappone, in cui si legge dell'«importanza di implementare rapidamente tutte le raccomandazioni del Financial Stability Forum», presieduto dal governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, per contrastare la crisi finanziaria internazionale, si direbbe che all'estero nella sua disputa con Draghi il ministro Tremonti stia avendo la peggio.
Non mi pare che nei consessi europei o internazionali la crociata che Tremonti porta avanti con toni davvero troppo apocalittici nei confronti della speculazione e della globalizzazione stia riscuotendo molto successo. Il che è un bene e dovrebbe forse rassicurarci, indurci a non enfatizzare troppo le parole del ministro nel dibattito interno e a goderci un Dpef e una manovra finanziaria che effettivamente, come ha riconosciuto lo stesso Draghi, sono impostati per la prima volta sui tagli alla spesa.
Vi consiglio però di sentire l'audizione di Tremonti sul Dpef dinanzi alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato, lo scorso 2 luglio. Non è rassicurante il fatto che il ministro, di fronte a ciò che succede (o meglio, alla sua interpretazione di ciò che sta accadendo) nell'economia mondiale, ritenga che sia tutto sommato irrilevante o poco rilevante ciò che decide il governo per l'Italia. In sostanza, dice, il governo ridurrà il debito, non alzerà le tasse, farà tutte le politiche che servono, ma di fronte alla crisi la soluzione dipende da ciò che si decide fuori dall'Italia.
Figurarsi se vogliamo negare il carattere interdipendente dell'economia globalizzata. Tuttavia, l'Italia, per cause interne, è la più fragile e la più esposta tra i Paesi sviluppati. Il nostro Paese, e i redditi delle famiglie, si troverebbero in una situazione certamente assai migliore se venissero realizzate le riforme di cui abbiamo urgente bisogno. Proprio per l'arretratezza in cui ci troviamo, l'Italia ha molti margini di miglioramento, persino in una situazione di crisi internazionale. Nella situazione in cui versa l'Italia, faremmo bene a guardare al nostro interno, non ai massimi sistemi. Il «male» dell'Italia, prim'ancora che nella speculazione internazionale, è nello Stato. Tremonti dovrebbe concentrarsi su quello. Il rischio invece è che si limiti all'ordinaria amministrazione, a fare il minimo indispensabile, mentre ciò che serve è uno shock.
Lo ha ricordato alcuni giorni fa Antonio Martino in un editoriale sul sito dell'Istituto Bruno Leoni: oltre all'aumento del prezzo del petrolio e all'inflazione, «sappiamo tutti che quello che stiamo pagando è il prezzo salatissimo di 45 anni di cattocomunismo, di crescita delle tasse e delle spese inutili, oltre che dei debiti pubblici e della pletora di regolamentazioni insensate che scoraggiano le attività produttive». Scrollandoci di dosso questi «45 anni di cattocomunismo» possiamo migliorare di molto la nostra condizione a prescindere dalle crisi internazionali. Mentre Tremonti sembra rassegnato al fatto che tutto si giochi fuori dall'Italia, a me sembra che la partita più importante si giochi dentro.
«Gli Italiani hanno perfettamente compreso che il nostro Paese ha l'urgente bisogno di una radicale inversione di tendenza, di una svolta liberale che riduca il costo del settore pubblico e lo renda meno inefficiente, di una drastica riduzione delle tasse e delle spese improduttive, della liberazione delle nostre energie produttive». E qui, dopo l'analisi, la critica di Martino:
«Tutti ci aspettavamo che il successo elettorale del PdL avrebbe indotto il nuovo governo, largamente dotato dei numeri per farlo, a mantenere quanto a gran voce promesso in campagna elettorale, dando vita ad una profonda riforma fiscale e riducendo il peso delle tasse gravante sulle famiglie e sulle imprese, invertendo il corso inaugurato dal governo dei sinistri. Invece, a nemmeno due mesi dal suo insediamento, il governo aumenta le tasse giustificando la decisione con le spiritosaggini del ministro dell'Economia che si appella all'autorità di Robin Hood, rinazionalizza quella autentica vergogna nazionale che è l'Alitalia e la sua montagna di debiti (la "compagnia di bandiera" perde oltre un milione di euro al giorno), taglia le già scarse risorse delle forze armate e delle forze di polizia e manda 2500-3000 militari a presidiare discariche e svolgere compiti di ordine pubblico come se non fossero sufficienti a quello scopo i 400.000 addetti delle forze dell'ordine. Non è questa la svolta promessa, non è questa la rivoluzione liberale di cui abbiamo bisogno. L'Italia non ha bisogno di un governo che gestisca l'esistente – è l'esistente la causa del nostro declino – l'Italia vuole ed ha chiesto in modo inequivocabile un cambiamento, una inversione di rotta. Se questo governo non si affretta a darcela rischia di incappare nel profondo disprezzo degli Italiani di oggi e di quelli che verranno».Non saranno i toni comprensibilmente astiosi dell'ex ministro Martino - uno dei tanti liberali doc a non aver trovato nella compagine governativa un incarico all'altezza del suo valore e della sua figura - a impedirci di dargli ragione. Nel Dpef varato dal governo e all'esame del Parlamento c'è un'importante svolta sulla spesa pubblica, sia rispetto al governo Prodi sia rispetto al precedente governo Berlusconi. Di questo sarebbe ingiusto non darne atto.
Ma manca lo shock. Potrebbero rivelarsi ancora insufficienti le riforme di Brunetta, Sacconi e Gelmini - sempre che riescano a realizzarle - in tre settori chiave. Sarebbe stato opportuno, per esempio, già prevedere almeno entro il prossimo trienno un piano di riduzione delle aliquote fiscali. Il rischio è di ritrovarci con «un governo che gestisce l'esistente», quando è proprio «l'esistente la causa del nostro declino».
Lo stesso difetto nell'approccio di Tremonti lo registrava Guido Tabellini, rettore della Bocconi, su Il Sole24 Ore: «La risposta del Governo sembra essere: sul fronte interno c'è poco da fare, perché i vincoli di bilancio non consentono margini di manovra; sul fronte esterno, mobilitiamo i Governi europei contro la "speculazione". È una risposta inadeguata su entrambi i fronti».
C'è, spiega Tabellini, un «fronte esterno su cui dovrebbe concentrarsi l'azione del Governo», ma non riguarda la "speculazione". Sul «fronte interno, la politica monetaria può fare ben poco... Gli effetti dello shock invece dovrebbero essere contrastati con la politica fiscale. Lo strumento corretto è una riduzione delle imposte sui redditi da lavoro: dal lato dell'offerta, scenderebbero i costi di produzione; dal lato della domanda, si darebbe sollievo al reddito disponibile delle famiglie». Si potrebbe così «difendere il potere d'acquisto delle famiglie senza scatenare una vana rincorsa tra prezzi e salari».
E' comunemente accettato il fatto che quando mancano risorse e l'economia è stagnante non si possano ridurre le tasse. «Se il Pil dovesse riprendere a correre» si potranno restituire i soldi ai contribuenti, dice Tremonti. «Se questa fosse l'impostazione - avverte Tabellini - avremmo una politica fiscale prociclica che amplifica gli shock esterni: quando le cose vanno male si tira la cinghia, quando vanno bene anche la politica fiscale diventa più espansiva. Esattamente il contrario di ciò che bisognerebbe fare».
Secondo gli obiettivi del Dpef, nel 2010 sia la pressione fiscale che la spesa corrente al netto degli interessi in percentuale del Pil continueranno a essere praticamente sugli stessi livelli del 2007. «È un programma troppo rinunciatario, date le difficoltà del Paese», conclude Tabellini. Si comincia finalmente a tagliare la spesa, ma manca lo shock.
Il Pd e Veltroni non hanno più alibi
Alla fine, accogliendo il suggerimento che proveniva da più parti, anche interne alla maggioranza, il governo ha deciso di puntare alla via maestra per introdurre l'immunità delle quattro più alte cariche dello Stato e di modificare la sospendi-processi in modo da fugare ogni sospetto.
La sospensione non è più «automatica», ma viene attribuita ai procuratori capo la facoltà di decidere la sospensione dei processi per reati indultati con pene inferiori ai 4 anni. Quei processi, cioè, la cui eventuale sentenza di condanna non verrebbe eseguita, sempre che siano celebrati prima che intervenga la prescrizione. Sarà quindi possibile rinviare i processi per i reati commessi fino al 2 maggio 2006, appunto quelli che comunque rientrano nell'indulto, invece che solo fino al 30 giugno 2002.
Rimane fermo il principio generale di dare priorità a determinati processi, per i reati di maggiore gravità, per quelli commessi in violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro e, più in generale, per tutti quelli che prevedono pene superiori ai 4 anni di reclusione.
Si tratta quindi di un alleggerimento sostanziale del carico di lavoro che grava sui tribunali, nella speranza che ciò possa servire almeno nel breve termine ad accorciare i tempi della giustizia. Anche se speriamo che ciò non equivalga a un cedimento del governo e della maggioranza rispetto al proposito di abolire o superare l'obbligatorietà dell'azione penale e di riportare in sede parlamentare l'individuazione di una politica giudiziaria.
Chi non ha davvero più alibi, a questo punto, è il Pd. La sospendi-processi diventa una norma di razionalizzazione e semplificazione burocratica; il lodo Alfano modifica quello Schifani nelle parti in cui la Corte costituzionale aveva ravvisato motivo di incostituzionalità. La Corte non ha mai rilevato la necessità di agire attraverso modifica costituzionale e infatti il presidente della Repubblica è intenzionato a firmare il lodo Alfano.
Insistere con il "no" da parte del Pd - invece di rivendicare (perché no?) anche un successo politico-parlamentare nell'aver fatto modificare orientamento alla maggioranza - significherebbe che il Pd e Veltroni, non sapendo resistere alla tentazione e alla magra soddisfazione di vedere Berlusconi condannato in primo grado, continuano a fornire sponde politiche alla magistratura politicizzata e a non riconoscere l'anomalia che caratterizza i rapporti tra potere politico e ordine giudiziario in Italia. In altre parole, vorrebbe dire che davvero non vogliono o non sanno uscire dalla "vecchia stagione".
E, d'altra parte, il ritorno del Pd al "modello tedesco" contro il maggioritario a doppio turno francese, che pure era stato indicato nel programma elettorale, significa la fine della veltroniana «vocazione maggioritaria» e il ritorno della dalemiana stagione delle alleanze, con Casini e la sinistra radicale.
La sospensione non è più «automatica», ma viene attribuita ai procuratori capo la facoltà di decidere la sospensione dei processi per reati indultati con pene inferiori ai 4 anni. Quei processi, cioè, la cui eventuale sentenza di condanna non verrebbe eseguita, sempre che siano celebrati prima che intervenga la prescrizione. Sarà quindi possibile rinviare i processi per i reati commessi fino al 2 maggio 2006, appunto quelli che comunque rientrano nell'indulto, invece che solo fino al 30 giugno 2002.
Rimane fermo il principio generale di dare priorità a determinati processi, per i reati di maggiore gravità, per quelli commessi in violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro e, più in generale, per tutti quelli che prevedono pene superiori ai 4 anni di reclusione.
Si tratta quindi di un alleggerimento sostanziale del carico di lavoro che grava sui tribunali, nella speranza che ciò possa servire almeno nel breve termine ad accorciare i tempi della giustizia. Anche se speriamo che ciò non equivalga a un cedimento del governo e della maggioranza rispetto al proposito di abolire o superare l'obbligatorietà dell'azione penale e di riportare in sede parlamentare l'individuazione di una politica giudiziaria.
Chi non ha davvero più alibi, a questo punto, è il Pd. La sospendi-processi diventa una norma di razionalizzazione e semplificazione burocratica; il lodo Alfano modifica quello Schifani nelle parti in cui la Corte costituzionale aveva ravvisato motivo di incostituzionalità. La Corte non ha mai rilevato la necessità di agire attraverso modifica costituzionale e infatti il presidente della Repubblica è intenzionato a firmare il lodo Alfano.
Insistere con il "no" da parte del Pd - invece di rivendicare (perché no?) anche un successo politico-parlamentare nell'aver fatto modificare orientamento alla maggioranza - significherebbe che il Pd e Veltroni, non sapendo resistere alla tentazione e alla magra soddisfazione di vedere Berlusconi condannato in primo grado, continuano a fornire sponde politiche alla magistratura politicizzata e a non riconoscere l'anomalia che caratterizza i rapporti tra potere politico e ordine giudiziario in Italia. In altre parole, vorrebbe dire che davvero non vogliono o non sanno uscire dalla "vecchia stagione".
E, d'altra parte, il ritorno del Pd al "modello tedesco" contro il maggioritario a doppio turno francese, che pure era stato indicato nel programma elettorale, significa la fine della veltroniana «vocazione maggioritaria» e il ritorno della dalemiana stagione delle alleanze, con Casini e la sinistra radicale.
Boicottaggi: prima no, adesso sì
La Commissione Esteri della Camera ha approvato ieri una risoluzione (non vincolante) promossa da Matteo Mecacci (Pd), in cui si chiede al premier Berlusconi di non recarsi alla cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Pechino, per protesta contro la violazione dei diritti umani in Tibet e la repressione del marzo scorso.
Iniziativa meritoria, purtroppo senza molte speranze che abbia successo. Ormai l'orientamento dei capi di stato e di governo delle più grandi democrazie occidentali pare essere quello di essere presenti alla cerimonia inaugurale. Così Bush, così Sarkozy, presidente di turno dell'Ue, così Berlusconi. O comunque di non connotare politicamente la propria assenza. Ho sempre, fin dall'inizio, sostenuto l'opportunità di boicottare (non come iniziativa singola ma almeno da parte dei leader più importanti) come minimo la cerimonia inaugurale.
Ma al di là dei boicottaggi, l'errore è stato fatto all'inizio. Ci si è accontentati di chiedere a Pechino di riprendere i colloqui con il Dalai Lama. Come ogni dittatura anche la Cina ha ormai capito come prendere in giro i governi occidentali e ha riavviato i colloqui con gli emissari del leader spirituale tibetano. Colloqui che, c'è da scommettere, non porteranno a nulla e verranno di nuovo interrotti al termine dei Giochi.
Il fatto strano però è che mi pareva di aver capito nei mesi scorsi, quando la repressione in Tibet era drammaticamente in corso, che i radicali erano contrari ad ogni ipotesi di boicottaggio delle Olimpiadi. Lo scorso 19 marzo ero come molti a Piazza Campo de' Fiori, a Roma, alla manifestazione per il Tibet promossa da il Riformista e da Radio Radicale. Mi pare di ricordare di aver sentito Emma Bonino pronunciare in quell'occasione un intervento "controcorrente" rispetto ai più, proprio sostenendo che non boicottaggi, ma pressioni continue, servissero su Pechino.
La mattina dello stesso giorno, il 19 marzo, intervenendo in una seduta delle Commissioni Esteri di Camera e Senato convocata proprio sulla situazione in Tibet, il deputato radicale Sergio D'Elia ribadiva con forza che «la Cina non ha bisgno di boicottaggi». E addirittura ci si faceva forti delle parole del Dalai Lama in questo senso, che si è sempre detto contrario al boicottaggio e ha addirittura dichiarato che se invitato sarebbe andato alla cerimonia inaugurale.
Oggi, improvvisamente, per i radicali diventa decisivo boicottare la cerimonia inaugurale. Anche come iniziativa singola del premier italiano. Sorge il sospetto che fin quando c'erano al governo Prodi, D'Alema e la Bonino, non si voleva metterli in imbarazzo avanzando tali proposte, di tutta evidenza in conflitto con la linea di comportamento adottata da tutti e tre nei confronti di Pechino.
Iniziativa meritoria, purtroppo senza molte speranze che abbia successo. Ormai l'orientamento dei capi di stato e di governo delle più grandi democrazie occidentali pare essere quello di essere presenti alla cerimonia inaugurale. Così Bush, così Sarkozy, presidente di turno dell'Ue, così Berlusconi. O comunque di non connotare politicamente la propria assenza. Ho sempre, fin dall'inizio, sostenuto l'opportunità di boicottare (non come iniziativa singola ma almeno da parte dei leader più importanti) come minimo la cerimonia inaugurale.
Ma al di là dei boicottaggi, l'errore è stato fatto all'inizio. Ci si è accontentati di chiedere a Pechino di riprendere i colloqui con il Dalai Lama. Come ogni dittatura anche la Cina ha ormai capito come prendere in giro i governi occidentali e ha riavviato i colloqui con gli emissari del leader spirituale tibetano. Colloqui che, c'è da scommettere, non porteranno a nulla e verranno di nuovo interrotti al termine dei Giochi.
Il fatto strano però è che mi pareva di aver capito nei mesi scorsi, quando la repressione in Tibet era drammaticamente in corso, che i radicali erano contrari ad ogni ipotesi di boicottaggio delle Olimpiadi. Lo scorso 19 marzo ero come molti a Piazza Campo de' Fiori, a Roma, alla manifestazione per il Tibet promossa da il Riformista e da Radio Radicale. Mi pare di ricordare di aver sentito Emma Bonino pronunciare in quell'occasione un intervento "controcorrente" rispetto ai più, proprio sostenendo che non boicottaggi, ma pressioni continue, servissero su Pechino.
La mattina dello stesso giorno, il 19 marzo, intervenendo in una seduta delle Commissioni Esteri di Camera e Senato convocata proprio sulla situazione in Tibet, il deputato radicale Sergio D'Elia ribadiva con forza che «la Cina non ha bisgno di boicottaggi». E addirittura ci si faceva forti delle parole del Dalai Lama in questo senso, che si è sempre detto contrario al boicottaggio e ha addirittura dichiarato che se invitato sarebbe andato alla cerimonia inaugurale.
Oggi, improvvisamente, per i radicali diventa decisivo boicottare la cerimonia inaugurale. Anche come iniziativa singola del premier italiano. Sorge il sospetto che fin quando c'erano al governo Prodi, D'Alema e la Bonino, non si voleva metterli in imbarazzo avanzando tali proposte, di tutta evidenza in conflitto con la linea di comportamento adottata da tutti e tre nei confronti di Pechino.
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