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Tuesday, February 06, 2007

Dal caso Catania al caso Italia: dove la legge è off limits

La curva del PalermoTicketing nominativo; adeguamento infrastrutturale degli stadi, con sistemi di videosorveglianza, tornielli all'ingresso e steward; "privatizzazione" dei costi della sicurezza; società responsabilizzate. Anch'io sono un sostenitore del "modello inglese" e mi sembrano tutte utili anche le misure decise dopo il vertice che si è tenuto a Palazzo Chigi, ma la mancanza di questi utili strumenti non autorizza gli ultrà a mettere a ferro e fuoco uno stadio o le vie circostanti. Credo, infatti, che vi sia qualcosa che venga prima di quel tipo di soluzioni. Il successo del "modello inglese" si deve prima di tutto a leggi durissime applicate fino in fondo, senza sgarrare, senza deroghe né proroghe, senza sociologismi ad attenuare la responsabilità dei singoli. Ecco, è qui il problema italiano.

Siamo ormai assuefatti a una "cultura emergenzialista": sull'onda dello sdegno sforniamo leggi su leggi che passate poche settimane vengono disapplicate, fino alla successiva ondata, che giustifica nuove misure annunciate stavolta come «drastiche». E così via. Prima di pensare a ulteriori provvedimenti, bisognerebbe chiedersi: nella vicenda Catania sono state applicate tutte le leggi e utilizzati tutti gli strumenti e le tecniche già a nostra disposizione? Perché le nostre forze dell'ordine non utilizzano idranti, pallottole di gomma, o altri metodi in dotazione alle polizie dei paesi più civili? E' normale che i 500 tifosi del Palermo siano stati fatti entrare all'inizio del secondo tempo? E' normale che sia stato permesso ai tifosi del Catania di attendere per un'ora i tifosi avversari al di fuori dello stadio? Non potevano essere dispersi, o costretti ad entrare? E' normale che con 1.500 uomini non si riescano a contenere cento, duecento, al massimo trecento tifosi? Queste cose nessuno se l'è chieste, perché in questo paese quando qualcosa va storto la prima cosa che a tutti viene in mente è che ci vogliono nuove leggi e nuovi strumenti, senza chiedersi se quelli vecchi sono stati utilizzati in modo appropriato e se le leggi esistenti sono state applicate.

Nessuno che si fermi a chiedersi se per caso la responsabilità di ciò che è accaduto non sia da attribuire anche a una cattiva gestione dell'ordine pubblico quella sera intorno allo stadio di Catania. Vogliamo almeno chiedercelo? I responsabili - il questore e il prefetto - hanno agito nel migliore dei modi? Per esempio, al prefetto spettava decidere se e quando far giocare la partita, che era noto fosse "a rischio", e se aprire lo stadio al pubblico nonostante non fosse a norma.

L'obiettivo primario delle forze di polizia non è l'incolumità dell'aggressore, ma garantire l'ordine pubblico e il rispetto della legalità. Se possibile, solo se possibile, preservando anche l'incolumità dell'aggressore. Meglio qualche ferito in più e qualche ora in meno di guerriglia. Siccome dalle molte immagini che si sono viste in televisione mi è sembrato che quei reparti avessero perso del tutto il controllo della situazione e che i violenti invece avessero il totale dominio delle strade, non direi che sia stata una grande prova.

Mi interessa però mettere a fuoco una questione che ritengo centrale, che attiene a una cultura giuridica e della responsabilità, a una certa idea dell'autorità e dell'ordine pubblico. Il problema non riguarda solo il calcio. Le manifestazioni, calcistiche e politiche, sono spesso zone franche dove sembra che la legge non viga. Tutto è permesso. Spaccare vetrine o aggredire poliziotti è ormai ritenuto la "normalità" e le stesse forze dell'ordine lasciano che la folla, o piccoli gruppi, si sfoghino, come se godessero di una speciale immunità. Ciò accade perché di fronte a un gruppo violento, e non a un singolo cittadino, garantire il rispetto della legge, difendere beni e persone, e punire i trasgressori, è più "costoso": significherebbe dover fare ricorso ad un livello più elevato di forza. Livello che spesso, una volta raggiunto, non trova legittimazione sociale e politica, suscita riprovazione morale da parte di alcune forze politiche e sociali e di settori rilevanti di opinione pubblica. Se venerdì sera a Catania si fosse torto un capello a uno di quei teppisti, staremmo qui a "processare" la polizia. Le forze dell'ordine non operano in un contesto culturale e politico che gli consente di scegliere in scienza e coscienza i mezzi più efficaci a tutela della legge e della vita degli agenti.

Ebbene, è un cedimento alla cultura dell'illegalità. Bisogna accettare fino in fondo, invece, che uno stato, perché democratico, liberale e di diritto, non è affatto chiamato a fare a meno dell'uso della forza. Anzi, in determinate circostanze è addirittura suo dovere farne uso, a tutela di quei cittadini che confidando nel patto contratto con il "monopolista dell'uso della forza" hanno rinunciato a praticare la violenza nei rapporti sociali, ma pretendono che questa rinuncia sia fatta valere effettivamente per tutti i membri della comunità.

Proprio in uno stato democratico e di diritto la violenza della polizia non può essere messa sullo stesso piano di quella dei tifosi: la prima è legittima e dev'essere tale da rendere inoffensivo l'aggressore; l'altra è illegittima sempre. Dunque, chiunque decida di infrangere la legge, e a maggior ragione se decide di usare violenza, si espone prima di tutto alla reazione delle forze dell'ordine, in un secondo tempo alle sanzioni previste dall'ordinamento giudiziario.

Ciò che accade nel nostro paese è che la responsabilità individuale è l'ultimo fattore che si considera nel momento in cui occorre sanzionare un comportamento violento. Si chiamano in causa la "cultura sportiva" e il "disagio sociale"; la società divenuta "troppo violenta"; i giornali, la moviola in tv e le trasmissioni radiofoniche, perché alimentano la logica amico/nemico; la testata di un calciatore; persino un rigore non fischiato; o magari i videogiochi. In questa selva di giustificazioni psico-sociologiche diventiamo "tutti colpevoli" e i veri colpevoli si confondono in mezzo a noi, rimanendo il più delle volte impuniti o quasi. E' come se il rispetto della legge non avesse un valore primario e prevalente su tutti gli altri, ma fosse una istanza tra le altre, da cui si può derogare a seconda dell'opportunità e delle circostanze.

Il paradosso è che per i reati commessi durante le manifestazioni invece dell'aggravante dei "futili motivi" sembra valere una sorta di attenuante "di gruppo". E' una cultura che ci pervade, anche inconsapevolmente, che pervade il poliziotto quando si trova di fronte a dei ragazzi con il passamontagna che assaltano un McDonald's e che pervade il giudice quando deve emettere la sentenza nei loro confronti. Dal giudice al singolo agente di polizia è un continuum di delegittimazione, sociale e politica, a praticare la "tolleranza zero", cioè a far rispettare fino in fondo, alla maniera "britannica", la legge.

Una spiegazione si trova anche nell'assetto istituzionale. Manca sul territorio un responsabile unico dell'ordine pubblico e della sicurezza che risponda del suo operato davanti alla cittadinanza. La responsabilità, invece, è diffusa, anzi direi dispersa, dal singolo questore a salire fino al Presidente della Repubblica. Un possibile rimedio sta nell'opzione federalista di abolire i prefetti, nominati dal governo centrale e privi di qualsiasi legame con le popolazioni locali, e assegnare pieni poteri ai sindaci eletti. Anche le procure, a causa dell'aberrazione dell'obbligatorietà dell'azione penale e di un malinteso concetto di independenza, sono "irresponsabili" di fronte alla cittadinanza.

Mancano quindi i canali istituzionali attraverso i quali far passare la legittimazione politica di cui forze dell'ordine e magistratura avrebbero bisogno per superare i pregiudizi, le pastoie e le pressioni culturali che declassano l'applicazione rigorosa della legge a obiettivo meramente accessorio.

Occorre poi tenere presente che mille condanne anche esemplari valgono poco di fronte a uno spot in diretta televisiva come quello di venerdì sera. Anche se si è dotati dei mezzi più efficaci per individuare i responsabili, il danno è fatto. Scene come quelle, di completo dominio delle strade da parte dei teppisti a fronte di una polizia impotente, diffondono nell'immaginario collettivo l'idea stessa dell'impunità, che si possa cioè scatenare una guerriglia, uccidere un agente, mettere in fuga la polizia e farla franca. L'effetto che si ottiene è di esaltare gli autori delle violenze e spingere all'emulazione.

Non si può non prendere atto con realismo che non è la prospettiva di una condanna, anche severa, o di una penalizzazione inflitta alla propria squadra - entrambe misure comunque indispensabili - che può dissuadere un ultrà. Vale, infatti, la psicologia del singolo che si muove nella folla: si sente immune, trasferisce a un'entità astratta il suo senso di colpa, non ha la lucidità necessaria per calcolare razionalmente le sanzioni penali a cui va incontro. In quel momento la possibilità che venga individuato e punito è così remota dal suo orizzonte temporale, che l'unico freno sta negli ostacoli fisici che incontra di fronte a sé. Se invece ciò che sperimenta è l'assenza di qualsiasi argine, allora si rende conto che le sue azioni non hanno "costi", che le convenzioni sociali non hanno alcun valore se non è lui stesso ad attribuirgliene. Così possono cadere tutte le inibizioni, e diviene capace di atti sempre più violenti.

Per questo l'unico deterrente è non permettere che i teppisti se ne tornino a casa euforici e sulle proprie gambe. E' rendere credibile, una certezza matematica nella testa di tutti, che mettere a ferro e fuoco uno stadio, o una città, è un'impresa praticamente suicida, non una ragazzata di cui il lunedì ci si potrà vantare con gli amici.

1 comment:

Jefferson lives said...

Come ha dichiarato al Corriere della Sera il questore di Milano, "A questa gente [...] non interessa chi sia il tifoso avverario... interessa solo lo scontro con chi, invece, l'ordine deve mantenere. Un fenomeno nuovo che non sarà tollerato".
Era il primo dicembre 2004.