Qualche giorno fa, sul Corriere della Sera, Veltroni ci ha tenuto a passare per uno «tosto», mica il buonista attento a non fare mai la scelta che divide, che scontenta... Un'intervista che era tutta un decidere: «Non ho timore di decidere»; «si ascolta... ma, alla fine, si decide», e così via. E annunciava che da lì a pochi giorni avrebbe reso noto il suo programma economico, non le 280 pagine di tutto e il contrario di tutto, ma «10 punti, chiari, netti, identificabili». Parlava di «nuovo patto fiscale», di «choc di innovazione».
Ebbene, passati due giorni, su la Repubblica, esce un fiacco decalogo di proposte ragionevoli che però non possono certo essere definite uno choc.
Non tagliare la spesa pubblica, la parola magica è «riqualificarla». Abbiamo una spesa pubblica enorme, fuori controllo, superiore alla metà del Pil, ben oltre la media europea, e Veltroni si limita a dire che «ogni euro di nuova spesa corrente dovrà essere ricavato da un risparmio». Cioè, una ovvietà assoluta, una regola base, anche se in Italia poco rispettata, del buon amministratore. E infatti dal decalogo abbiamo la conferma che al prossimo leader del Partito democratico la spesa pubblica va bene così com'è. Qui la parola d'ordine è «stabilizzare»: «La spesa corrente primaria potrà essere stabilizzata, in rapporto al Pil, poco al di sotto delle dimensioni attuali».
E il nuovo patto fiscale? Anche qui la parola chiave non è tagliare, né abbattere, termini coerenti con l'idea di choc, ma ancora una volta «stabilizzare». Si legge: «ridurre la pressione fiscale, stabilizzandola nel tempo almeno due punti di Pil sotto il livello del 2006». Innanzitutto, nel tempo è una formula che lascia vago l'impegno. Da notare poi che non si parla di aliquote sul reddito, ma della pressione fiscale in rapporto al Pil. Il Governo Prodi l'ha aumentata ulteriormente, fino al 42,8% del Pil. Bene che va Veltroni ci propone di assestarla al 40-40,8%. Questo sarebbe uno choc? Non so per voi, ma per me no. Nessuno avvertirebbe il cambiamento nelle proprie tasche.
Un approccio in fondo non molto diverso dalla «tregua fiscale» di cui ha parlato Padoa-Schioppa, tra l'altro così ammettendo implicitamente che il Governo Prodi da quando è entrato in carica ha dichiarato e combattuto una guerra fiscale. I contribuenti non dovrebbero accettare l'offerta di tregua, ma passare al contrattacco.
Per quanto riguarda il resto dei 10 punti si tratta di impegni ragionevoli, quasi impossibili da non condividere, ma generici, senza alcuna indicazione su come mantenerli: misurazione dei risultati, premio al merito, penalizzazione del disimpegno nella pubblica amministrazione; semplificazione burocratica e certezza delle regole fiscali; riunificare detrazioni e assegni familiari in un unico istituto, «una vera e propria "dote fiscale" per i figli e per la famiglia»; «deducibilità anticipata» delle spese in ricerca e sviluppo; «aumenti di produttività» per i lavoratori dipendenti (Ichino ha già spiegato che non sarebbero sufficienti a risolvere la questione salariale); «federalismo moderno e solidale».
Friday, August 31, 2007
Tuesday, August 28, 2007
Quanto ci costa il posto fisso?
La rigidità del mercato del lavoro incide negativamente, e in modo cospicuo, sulle retribuzioni italiane, inferiori a quelle dei maggiori Paesi europei. E' la tassa sul posto fisso, che pagano tutti indistintamente, anche chi il posto fisso non ce l'ha e non ce l'avrà mai. Star certi che non si verrà licenziati anche se improduttivi ha un costo che pesa anche sui lavoratori più meritevoli e produttivi. Lo ripetiamo ogni volta che ci capita e oggi a farlo, sul Corriere della Sera, è Pietro Ichino.
Incentivi sulla produttività, a livello individuale, collettivo o aziendale? Può essere utile, ma il punto è un altro.
Incentivi sulla produttività, a livello individuale, collettivo o aziendale? Può essere utile, ma il punto è un altro.
Un contratto di lavoro dipendente funziona sempre, in qualche misura, come una polizza assicurativa, ponendo a carico dell'azienda il rischio che le cose vadano male; più è alta la «copertura», più è bassa la retribuzione, perché i lavoratori pagano all'impresa un «premio» implicito proporzionale alla copertura.L'entità non trascurabile del «premio assicurativo» pagato dai lavoratori italiani è stimata in uno studio recente della Banca d'Italia curato da Piero Cipollone e Anita Guelfi.
Il problema è che mutare la struttura della retribuzione implica un modello di sindacato diverso da quello predominante da decenni in Italia. Il nostro modello tradizionale è quello di un sindacato che privilegia la sicurezza e l'uniformità del trattamento dei lavoratori sul piano nazionale, riducendo al minimo la parte della retribuzione suscettibile di variare in relazione al risultato: un sindacato interessato essenzialmente a garantire ai lavoratori dei «diritti», cioè dei trattamenti sui quali la performance individuale e collettiva non ha alcuna influenza. Il modello opposto è quello del sindacato che attribuisce maggiore spazio alla remunerazione dell'impegno individuale e alla «scommessa comune» tra lavoratori e imprenditore sull'innovazione: disposto quindi ad ampliare notevolmente la parte della retribuzione che varia in relazione ai risultati... il primo è il sindacato che preferisce un contratto-polizza assicurativa ad alta copertura, dove la maggior sicurezza è pagata dai lavoratori con un minor livello di reddito; il secondo è il sindacato che si propone di guidare i lavoratori in una scommessa redditizia sulle capacità proprie e del management, anche al costo di una minor sicurezza e uniformità di trattamenti.Voi a quale modello vi affidereste?
Veltroni ha voglia di "decidere"
Avete notato l'intervista di Veltroni al Corriere? E' tutta un decidere.
«Chi lavora con me sa che sono abbastanza tosto, molto più di quanto dicano. Non odio nessuno, ho rispetto e curiosità per gli altri, preferisco unire anziché dividere. Ma non ho mai avuto timore di esprimere idee controcorrente; a cominciare, dieci anni fa, dall'idea del Partito Democratico. E non ho timore di decidere... Si ascolta, si consulta, si tratta; ma, alla fine, si decide».
E' chiaro il tentativo del sindaco di scrollarsi di dosso l'immagine di buonista, talmente ecumenico da includere nelle sue coalizioni tutto e il contrario di tutto, senza mai scontentare nessuno; del politico che fa appello a valori meravigliosi, impossibili da non condividere, mentre scansa, elude il momento della decisione che ha un costo.
Veltroni «concilia, usa la formula magica del coniugare, è il sindaco juventino che si mette la sciarpa giallorossa, è la suggestione che unisce e mai la scelta che divide», scriveva tempo fa Pierluigi Battista. Deve averlo letto, Veltroni, e sta cercando di far sbiadire il ritratto del Veltroni come finora lo abbiamo conosciuto.
La politica fatta di scelte rischiose, sfide ideali, responsabilità, è estranea al veltronismo, ma ora forse Walter ha capito che se vuole davvero convincere gli italiani deve abbandonare lui per primo il veltronismo. Ha fiuto e avverte che in questo momento gli italiani aspettano il politico d'azione, il decisionista.
«L'Italia rischia di morire di vecchiaia. Di parole. Di occasioni perdute. Di veti. Di conservatorismi». Si dice a favore di «un'idea di democrazia che non è veto e non è "mors tua vita mea". Tanti italiani si ribellano all'incapacità della politica di decidere, e ne trovano insopportabili i toni».
Il programma di governo? Non di 280 cartelle, ma di «10 punti, chiari, netti, identificabili». Al paese serve un «grande choc di innovazione. Una semplificazione della vita pubblica. Il rilancio delle infrastrutture. Una sterzata profonda verso la formazione, la ricerca, l'innovazione. E una riforma del patto fiscale». Le proposte al riguardo seguiranno tra breve. Preferisce il sistema elettorale francese, maggioritario a doppio turno, e mette in guardia la sinistra: guai a lasciare il tema della sicurezza alla destra.
Poi la solita retorica anti-individualista: «Combatto una società che fa carta straccia dei valori... Si è voluta la società dell'io, in cui il prossimo è solo un concorrente; eccone i risultati. E non accetto prediche da chi ha alimentato questo Zeitgeist, questo spirito del tempo». E la caduta nel luogo comune: è tutta colpa della tv.
Sarà vera svolta o, come ha scritto Andrea Romano, è «la dissimulazione elevata a metodo politico, il familismo come strategia, la tutela da ogni rischio come cifra della propria stagione».
«Chi lavora con me sa che sono abbastanza tosto, molto più di quanto dicano. Non odio nessuno, ho rispetto e curiosità per gli altri, preferisco unire anziché dividere. Ma non ho mai avuto timore di esprimere idee controcorrente; a cominciare, dieci anni fa, dall'idea del Partito Democratico. E non ho timore di decidere... Si ascolta, si consulta, si tratta; ma, alla fine, si decide».
E' chiaro il tentativo del sindaco di scrollarsi di dosso l'immagine di buonista, talmente ecumenico da includere nelle sue coalizioni tutto e il contrario di tutto, senza mai scontentare nessuno; del politico che fa appello a valori meravigliosi, impossibili da non condividere, mentre scansa, elude il momento della decisione che ha un costo.
Veltroni «concilia, usa la formula magica del coniugare, è il sindaco juventino che si mette la sciarpa giallorossa, è la suggestione che unisce e mai la scelta che divide», scriveva tempo fa Pierluigi Battista. Deve averlo letto, Veltroni, e sta cercando di far sbiadire il ritratto del Veltroni come finora lo abbiamo conosciuto.
La politica fatta di scelte rischiose, sfide ideali, responsabilità, è estranea al veltronismo, ma ora forse Walter ha capito che se vuole davvero convincere gli italiani deve abbandonare lui per primo il veltronismo. Ha fiuto e avverte che in questo momento gli italiani aspettano il politico d'azione, il decisionista.
«L'Italia rischia di morire di vecchiaia. Di parole. Di occasioni perdute. Di veti. Di conservatorismi». Si dice a favore di «un'idea di democrazia che non è veto e non è "mors tua vita mea". Tanti italiani si ribellano all'incapacità della politica di decidere, e ne trovano insopportabili i toni».
Il programma di governo? Non di 280 cartelle, ma di «10 punti, chiari, netti, identificabili». Al paese serve un «grande choc di innovazione. Una semplificazione della vita pubblica. Il rilancio delle infrastrutture. Una sterzata profonda verso la formazione, la ricerca, l'innovazione. E una riforma del patto fiscale». Le proposte al riguardo seguiranno tra breve. Preferisce il sistema elettorale francese, maggioritario a doppio turno, e mette in guardia la sinistra: guai a lasciare il tema della sicurezza alla destra.
Poi la solita retorica anti-individualista: «Combatto una società che fa carta straccia dei valori... Si è voluta la società dell'io, in cui il prossimo è solo un concorrente; eccone i risultati. E non accetto prediche da chi ha alimentato questo Zeitgeist, questo spirito del tempo». E la caduta nel luogo comune: è tutta colpa della tv.
Sarà vera svolta o, come ha scritto Andrea Romano, è «la dissimulazione elevata a metodo politico, il familismo come strategia, la tutela da ogni rischio come cifra della propria stagione».
La Chiesa cattolica paga meno degli altri?
La Commissione Ue chiederà al governo italiano «informazioni supplementari» su «certi vantaggi fiscali della Chiesa italiana». Sulla base di tali informazioni deciderà se aprire un'indagine per aiuti di Stato illegali.
Sotto la lente norme contenute nella Finanziaria 2006, l'ultima del governo Berlusconi, che prevedono l'esenzione dall'Ici per gli immobili di proprietà della Chiesa cattolica anche con finalità commerciali e le riduzioni di imposta (al 50%) per le imprese commerciali della Chiesa.
«Il "privilegio" che non c'è», titola Avvenire, pubblicando la memoria difensiva di Monsignor Betori. Dal punto di vista normativo se la vedrà la Commissione, ma è chiaro che non si tratta di pregiudizio anticristiano, bensì di presunto privilegio di cui accertare o meno l'esistenza.
D'altra parte non dovrebbe essere difficile verificare: esistono attività commerciali della Chiesa in immobili esenti da Ici? Come la Chiesa spenda i suoi guadagni, o se pratica prezzi vantaggiosi ai parrocchiani meno abbienti, credo interessi poco ai commercianti concorrenti chiamati a pagare fino all'ultimo centesimo.
Sotto la lente norme contenute nella Finanziaria 2006, l'ultima del governo Berlusconi, che prevedono l'esenzione dall'Ici per gli immobili di proprietà della Chiesa cattolica anche con finalità commerciali e le riduzioni di imposta (al 50%) per le imprese commerciali della Chiesa.
«Il "privilegio" che non c'è», titola Avvenire, pubblicando la memoria difensiva di Monsignor Betori. Dal punto di vista normativo se la vedrà la Commissione, ma è chiaro che non si tratta di pregiudizio anticristiano, bensì di presunto privilegio di cui accertare o meno l'esistenza.
D'altra parte non dovrebbe essere difficile verificare: esistono attività commerciali della Chiesa in immobili esenti da Ici? Come la Chiesa spenda i suoi guadagni, o se pratica prezzi vantaggiosi ai parrocchiani meno abbienti, credo interessi poco ai commercianti concorrenti chiamati a pagare fino all'ultimo centesimo.
Monday, August 27, 2007
C'è ancora un giudice a Mosca?
Non ci speravamo, ma ecco i primi arresti per l'omicidio della giornalista Politkovskaya. «L'omicidio è stato organizzato da un gruppo criminale guidato da leader ceceni ed è legato all'omicidio del giornalista statunitense Klebnikov avvenuto nel 2004 e a quello del primo vicepresidente della banca centrale russa Klozov». Così il procuratore generale russo Iuri Ciaika.
Tra i dieci arrestati, riferisce il giornale della giornalista assassinata, la Novaia Gazeta, «esponenti di un grosso gruppo etnico criminale specializzato nei delitti su commissione», ma anche «funzionari ex e attuali degli organi di polizia e dei servizi segreti russi», accusati di depistaggio e racket. Il coinvolgimento dei funzionari russi è stato confermato anche dal procuratore. Se il gruppo criminale ceceno è «specializzato nei delitti su commissione», difficile non sospettare gli agenti russi come mandanti.
Vedremo gli sviluppi dell'inchiesta (o che fine farà il procuratore), ma il rischio è che il gruppo criminale venga indicato anche come mandante e i russi come funzionari corrotti, poche mele marce, perfetti capri espiatori sacrificati per chiudere la vicenda senza coinvolgere in pieno l'Fsb.
In ogni caso, il ruolo di funzionari di polizia e agenti dell'Fsb lascia aperte due ipotesi: il Cremlino è coinvolto nella pianificazione dell'omicidio, o quanto meno da lì è giunto il via libera per l'eliminazione della giornalista; oppure, Putin non ha il pieno controllo delle forze di sicurezza.
Tra i dieci arrestati, riferisce il giornale della giornalista assassinata, la Novaia Gazeta, «esponenti di un grosso gruppo etnico criminale specializzato nei delitti su commissione», ma anche «funzionari ex e attuali degli organi di polizia e dei servizi segreti russi», accusati di depistaggio e racket. Il coinvolgimento dei funzionari russi è stato confermato anche dal procuratore. Se il gruppo criminale ceceno è «specializzato nei delitti su commissione», difficile non sospettare gli agenti russi come mandanti.
Vedremo gli sviluppi dell'inchiesta (o che fine farà il procuratore), ma il rischio è che il gruppo criminale venga indicato anche come mandante e i russi come funzionari corrotti, poche mele marce, perfetti capri espiatori sacrificati per chiudere la vicenda senza coinvolgere in pieno l'Fsb.
In ogni caso, il ruolo di funzionari di polizia e agenti dell'Fsb lascia aperte due ipotesi: il Cremlino è coinvolto nella pianificazione dell'omicidio, o quanto meno da lì è giunto il via libera per l'eliminazione della giornalista; oppure, Putin non ha il pieno controllo delle forze di sicurezza.
Nessun veto francese ai negoziati Ue-Turchia
La radicata avversione di Sarkozy all'ingresso della Turchia nell'Ue costituiva per Pannella, la Bonino e i radicali di Torre Argentina, il sommo e più "radicale" motivo di dissenso con il candidato presidente, nonché il sintomo di un anti-europeismo incompatibile con la visione radicale di Stati Uniti d'Europa (come se i professionisti dell'europeismo, i Napolitano e i Padoa Schiopppa, fossero compatibili...). Non importa se rispetto alla sua avversaria Sarkozy si dimostrava più preparato e riformatore dal punto di vista socio-economico. Quella contrarietà alla Turchia nell'Ue spiegava tutto di lui e bastava per combatterlo come una sciagura per l'Europa, addirittura peggio di Le Pen.
Ebbene, questa avversione non sembra essere sparita d'incanto, ma neanche così radicata. Se venisse avviata una «profonda riflessione» sul futuro dell'Ue a 27, «la Francia non si opporrà all'apertura di nuovi capitoli di negoziati tra la Ue e la Turchia nei mesi e anni a venire». Così lo stesso presidente francese, che torna a spiazzare i suoi critici. Tale riflessione, ha spiegato, potrebbe essere avviata da un «comitato di 10-12 saggi di alto livello», di cui ha proposto la formazione entro la fine dell'anno.
Sarkozy ha comunque ribadito la sua preferenza per la formula dell'«associazione», prevedendo che «sarà un giorno riconosciuta da tutti come la più ragionevole», ma non opporrà un veto a priori sull'apertura dei capitoli di nagoziato.
Ebbene, questa avversione non sembra essere sparita d'incanto, ma neanche così radicata. Se venisse avviata una «profonda riflessione» sul futuro dell'Ue a 27, «la Francia non si opporrà all'apertura di nuovi capitoli di negoziati tra la Ue e la Turchia nei mesi e anni a venire». Così lo stesso presidente francese, che torna a spiazzare i suoi critici. Tale riflessione, ha spiegato, potrebbe essere avviata da un «comitato di 10-12 saggi di alto livello», di cui ha proposto la formazione entro la fine dell'anno.
Sarkozy ha comunque ribadito la sua preferenza per la formula dell'«associazione», prevedendo che «sarà un giorno riconosciuta da tutti come la più ragionevole», ma non opporrà un veto a priori sull'apertura dei capitoli di nagoziato.
Pd e PdL, spettacoli deprimenti
Le vacanze sono agli sgoccioli e, seppure abbia tentato di evitarlo per qualche tempo, dedicandomi alla politica estera, tirare le somme (o piuttosto le differenze) di quanto nelle ultime settimane ha offerto il teatrino della politica può essere di una qualche utilità.
Se già ci stavamo avvilendo a sufficienza con il desolante spettacolo della fase costituente del Partito democratico e delle finte primarie, dall'altra parte, se possibile, sono riusciti a farci cadere le palle ancora più in basso.
Gli anni e le stagioni politiche passano ma Veltroni riesce sempre a presentarsi come il nuovo che avanza, l'ultima risorsa della sinistra. Ma adesso che si è buttato nella mischia, sia Berlusconi che Prodi puntano al suo logoramento, a farlo passare per l'uomo scelto dagli apparati per sopravvivere a se stessi. E in fondo è proprio così, sta a lui sorprendere.
E' bravo Veltroni, bisogna riconoscerlo, nelle tirate demagogiche su quanto ritiene importanti i giovani e la società civile nel Pd, ma sappiamo che è un "cementificatore". Ovunque passi, blinda tutti i posti con i suoi fedelissimi. E il suo fedele scudiero, Bettini, ha strappato la maschera dal volto del suo cavaliere quando ha scagliato la sua irritazione per gli attacchi di Letta e Bindi: aho, ma che, fate sul serio? Veltroni si aspettava di correre in solitario una marcia trionfale, mentre eccoli lì, i suoi sfidanti, a cercare il corpo a corpo.
Lotta non entusiasmante, perché i suoi avversari meno di lui si sono sbilanciati sul ruolo politico che hanno in mente per il Pd e sui contenuti. Gli altri due big (Letta e Bindi) sono lì per azioni di disturbo, commissionate da Prodi. La durata del suo governo è inversamente proporzionale alla portata della vittoria di Veltroni. I candidati meno noti, da Adinolfi a Gawronski, hanno poche idee e confuse, ma a non convincere è soprattutto il loro approccio "moralistico" nella denuncia di questa classe politica. "I capaci siamo noi", si limitano a dire, invocando il recupero dell'etica politica.
Il Partito democratico si avvia mestamente ad essere una semplice operazione di conservazione di due apparati, Ds e Margherita, accelerata dal sempre più imminente collasso del Governo Prodi. Laddove trapela, la cultura politica del nuovo partito mostra le rughe catto-comuniste. Se va bene, sarà un compromessino "bonsai" tra ex-Dc ed ex-Pci, se va male neanche quello. Nessuno saprebbe ancora indicare due o tre cose che il Partito democratico, se dovesse governare, farebbe con certezza.
Eppure, in extremis, sul finire dell'estate, ciò che potrebbe fare del Partito democratico una novità nel sistema politico italiano, di rottura con l'esperienza dei riformisti nell'Ulivo e del centrosinistra formato Unione, porsi cioè l'obiettivo di essere non solo maggioritario, ma anche autosufficiente, presentandosi agli elettori come forza politica in grado di assumere in pieno le responsabilità di governo, sembra improvvisamente a portata di mano. Veltroni sembra aver rotto con il prodismo, e anche dal suo ultimo discorso in Francia emergono passaggi incoraggianti.
Proponendo la costruzione di un soggetto sovranazionale «la cui denominazione possa essere Internazionale dei democratici e dei socialisti», sottolinea che «i vecchi schemi non reggono più», che «staccarsi dalle ideologie del passato rende liberi di guardare al futuro», che «non è guardando indietro che troveremo le risposte giuste». Se l'Europa è «andata a destra», spiega, è «perché la sinistra è rimasta imprigionata in categorie che l'hanno fatta apparire conservatrice, ideologica e chiusa».
Parla di lotta al precariato, non nel senso di abolire le forme contrattuali flessibili, ma di ammortizzatori sociali, di continuità previdenziale, della formazione nella transizione, perché ci sono «interessi comuni e delle giovani generazioni che vengono prima degli interessi di parte o dei vantaggi di breve termine di chi, peraltro, dispone di una buona quantità di garanzie». E' consapevole che «senza la crescita dell'economia e delle imprese ogni obiettivo di equità sociale si allontana... Il nostro avversario è la povertà, non la ricchezza». E infine: «Dobbiamo togliere alla destra la bandiera della libertà. Era una cattiva utopia quella che faceva dell'uguaglianza la nemica delle libertà».
Ma se da una parte un partito sta nascendo a prescindere dai contenuti e dalla cultura politica, partendo invece dalla conservazione di vecchi apparati, dall'altra parte neanche da quelli, ma da un nome e un simbolo, da un volto, quello della Brambilla, e null'altro dietro che un gran casino e un enorme vuoto ideale e culturale.
Che i voti siano importanti per definire la consistenza di un partito è senz'altro ineccepibile. Tuttavia, i voti non bastano, perché dopo le elezioni occorre governare, decidere, fare. Ha risposto bene Ernesto Galli Della Loggia a un editoriale su Il Foglio in cui si sosteneva che «partiti veri sono quelli che prendono i voti, e finti quelli che non li prendono»:
Il paese che Berlusconi ha lasciato nel 2006, osserva Luca Ricolfi su La Stampa, pur avendo governato per 5 anni con maggioranze schiaccianti sia alla Camera che al Senato, è un'Italia «con più tasse e più criminalità dell'Italia che Berlusconi stesso, nel 2001, aveva ereditato dal centrosinistra. Quanto alle grandi riforme modernizzatrici, ne abbiamo viste in funzione pochine: niente ammortizzatori sociali, niente liberalizzazioni, niente federalismo, nessun intervento effettivo sulle pensioni».
Pesa sul centrodestra la maledizione della non-sconfitta, la presunzione cioè che il risultato di quasi pareggio dal punto di vista elettorale autorizzi a non affrontare e sciogliere i nodi irrisolti del centrodestra.
L'operazione Brambilla potrebbe rivelarsi elettoralmente azzeccata, intercettando quei segmenti di antipolitica e possibile astensionismo che sembrano ormai gli unici piccoli ostacoli sulla via del ritorno al potere di Berlusconi quando si tornerà a votare.
Sembra però che il Partito della Libertà sia «solo un espediente organizzativo per mascherare un vuoto politico, ossia l'endemica mancanza di discussione, di idee, di analisi del centrodestra italiano. Soprattutto l'incapacità dei leader della Casa delle Libertà di rispondere alla domanda delle domande: perché, nonostante una maggioranza parlamentare schiacciante, in cinque anni avete modernizzato così poco il Paese? Finché a questa domanda non verrà data alcuna risposta, è inutile illudersi che Berlusconi possa riuscire dove Prodi sta fallendo: il Partito della Libertà potrà anche ridare il governo a Berlusconi, ma difficilmente potrà dare un governo agli italiani», conclude impietosamente Ricolfi.
Se già ci stavamo avvilendo a sufficienza con il desolante spettacolo della fase costituente del Partito democratico e delle finte primarie, dall'altra parte, se possibile, sono riusciti a farci cadere le palle ancora più in basso.
Gli anni e le stagioni politiche passano ma Veltroni riesce sempre a presentarsi come il nuovo che avanza, l'ultima risorsa della sinistra. Ma adesso che si è buttato nella mischia, sia Berlusconi che Prodi puntano al suo logoramento, a farlo passare per l'uomo scelto dagli apparati per sopravvivere a se stessi. E in fondo è proprio così, sta a lui sorprendere.
E' bravo Veltroni, bisogna riconoscerlo, nelle tirate demagogiche su quanto ritiene importanti i giovani e la società civile nel Pd, ma sappiamo che è un "cementificatore". Ovunque passi, blinda tutti i posti con i suoi fedelissimi. E il suo fedele scudiero, Bettini, ha strappato la maschera dal volto del suo cavaliere quando ha scagliato la sua irritazione per gli attacchi di Letta e Bindi: aho, ma che, fate sul serio? Veltroni si aspettava di correre in solitario una marcia trionfale, mentre eccoli lì, i suoi sfidanti, a cercare il corpo a corpo.
Lotta non entusiasmante, perché i suoi avversari meno di lui si sono sbilanciati sul ruolo politico che hanno in mente per il Pd e sui contenuti. Gli altri due big (Letta e Bindi) sono lì per azioni di disturbo, commissionate da Prodi. La durata del suo governo è inversamente proporzionale alla portata della vittoria di Veltroni. I candidati meno noti, da Adinolfi a Gawronski, hanno poche idee e confuse, ma a non convincere è soprattutto il loro approccio "moralistico" nella denuncia di questa classe politica. "I capaci siamo noi", si limitano a dire, invocando il recupero dell'etica politica.
Il Partito democratico si avvia mestamente ad essere una semplice operazione di conservazione di due apparati, Ds e Margherita, accelerata dal sempre più imminente collasso del Governo Prodi. Laddove trapela, la cultura politica del nuovo partito mostra le rughe catto-comuniste. Se va bene, sarà un compromessino "bonsai" tra ex-Dc ed ex-Pci, se va male neanche quello. Nessuno saprebbe ancora indicare due o tre cose che il Partito democratico, se dovesse governare, farebbe con certezza.
Eppure, in extremis, sul finire dell'estate, ciò che potrebbe fare del Partito democratico una novità nel sistema politico italiano, di rottura con l'esperienza dei riformisti nell'Ulivo e del centrosinistra formato Unione, porsi cioè l'obiettivo di essere non solo maggioritario, ma anche autosufficiente, presentandosi agli elettori come forza politica in grado di assumere in pieno le responsabilità di governo, sembra improvvisamente a portata di mano. Veltroni sembra aver rotto con il prodismo, e anche dal suo ultimo discorso in Francia emergono passaggi incoraggianti.
Proponendo la costruzione di un soggetto sovranazionale «la cui denominazione possa essere Internazionale dei democratici e dei socialisti», sottolinea che «i vecchi schemi non reggono più», che «staccarsi dalle ideologie del passato rende liberi di guardare al futuro», che «non è guardando indietro che troveremo le risposte giuste». Se l'Europa è «andata a destra», spiega, è «perché la sinistra è rimasta imprigionata in categorie che l'hanno fatta apparire conservatrice, ideologica e chiusa».
Parla di lotta al precariato, non nel senso di abolire le forme contrattuali flessibili, ma di ammortizzatori sociali, di continuità previdenziale, della formazione nella transizione, perché ci sono «interessi comuni e delle giovani generazioni che vengono prima degli interessi di parte o dei vantaggi di breve termine di chi, peraltro, dispone di una buona quantità di garanzie». E' consapevole che «senza la crescita dell'economia e delle imprese ogni obiettivo di equità sociale si allontana... Il nostro avversario è la povertà, non la ricchezza». E infine: «Dobbiamo togliere alla destra la bandiera della libertà. Era una cattiva utopia quella che faceva dell'uguaglianza la nemica delle libertà».
Ma se da una parte un partito sta nascendo a prescindere dai contenuti e dalla cultura politica, partendo invece dalla conservazione di vecchi apparati, dall'altra parte neanche da quelli, ma da un nome e un simbolo, da un volto, quello della Brambilla, e null'altro dietro che un gran casino e un enorme vuoto ideale e culturale.
Che i voti siano importanti per definire la consistenza di un partito è senz'altro ineccepibile. Tuttavia, i voti non bastano, perché dopo le elezioni occorre governare, decidere, fare. Ha risposto bene Ernesto Galli Della Loggia a un editoriale su Il Foglio in cui si sosteneva che «partiti veri sono quelli che prendono i voti, e finti quelli che non li prendono»:
«Un partito di plastica può anche incontrare per mille ragioni il favore dell'elettorato e prendere un sacco di voti... ma è a questo punto che scatta la distinzione davvero capitale, che è quella tra partiti che con i voti presi riescono a farci qualcosa e quelli che invece riescono a farci poco o nulla».Anche Piero Ostellino osserva che «con le Brambille si vincono magari le elezioni ma, poi, non si governa il Paese contro l'ostilità dell'establishment culturale di sinistra e la disaffezione di quello liberale». Il grande fallimento di Berlusconi è sul piano della cultura politica. Non è riuscito ad attirare neanche quegli intellettuali che diffidano della sinistra. Nonostante possedesse enormi mezzi, si è dotato solo di strumenti di bassa propaganda e non di analisi e fucina culturale. Se avesse guardato davvero a cos'è, oggi, il mondo culturale conservatore negli Stati Uniti, per esempio, con i think tank, le riviste, i quotidiani che fanno cultura e opinione, offrono idee, interpretazioni della realtà e, essenziale, coscienza critica. Se agli intellettuali di sinistra è mancata proprio questa ultima, in quelli liberali essa non è mai mancata, ma Berlusconi non se n'è servito.
Il paese che Berlusconi ha lasciato nel 2006, osserva Luca Ricolfi su La Stampa, pur avendo governato per 5 anni con maggioranze schiaccianti sia alla Camera che al Senato, è un'Italia «con più tasse e più criminalità dell'Italia che Berlusconi stesso, nel 2001, aveva ereditato dal centrosinistra. Quanto alle grandi riforme modernizzatrici, ne abbiamo viste in funzione pochine: niente ammortizzatori sociali, niente liberalizzazioni, niente federalismo, nessun intervento effettivo sulle pensioni».
Pesa sul centrodestra la maledizione della non-sconfitta, la presunzione cioè che il risultato di quasi pareggio dal punto di vista elettorale autorizzi a non affrontare e sciogliere i nodi irrisolti del centrodestra.
L'operazione Brambilla potrebbe rivelarsi elettoralmente azzeccata, intercettando quei segmenti di antipolitica e possibile astensionismo che sembrano ormai gli unici piccoli ostacoli sulla via del ritorno al potere di Berlusconi quando si tornerà a votare.
Sembra però che il Partito della Libertà sia «solo un espediente organizzativo per mascherare un vuoto politico, ossia l'endemica mancanza di discussione, di idee, di analisi del centrodestra italiano. Soprattutto l'incapacità dei leader della Casa delle Libertà di rispondere alla domanda delle domande: perché, nonostante una maggioranza parlamentare schiacciante, in cinque anni avete modernizzato così poco il Paese? Finché a questa domanda non verrà data alcuna risposta, è inutile illudersi che Berlusconi possa riuscire dove Prodi sta fallendo: il Partito della Libertà potrà anche ridare il governo a Berlusconi, ma difficilmente potrà dare un governo agli italiani», conclude impietosamente Ricolfi.
Sunday, August 26, 2007
Sarkozy e Monti, i duellanti si stimano
Hanno duellato quando il primo era ministro dell'Economia a Parigi e l'altro commissario Ue alla Concorrenza. Poco tempo fa sul Corriere Mario Monti aveva saputo individuare pregi e difetti di Sarkozy, apprezzandone il pragmatismo di stampo liberale, ma impartendo al colbertista presidente francese una lezione in libero mercato, in laissez-faire. Per tutta risposta, Sarkozy lo ha chiamato a far parte della Commissione dell'ex mitterandiano Attali «per la liberazione della crescita francese». Già il nome, nota Monti, «dà l'idea di un Prometeo da svincolare».
In Sarkozy, osserva il presidente della Bocconi, c'è «la voglia di confrontarsi sulla cultura economica e sulla crescita». E' un presidente che si permette di chiedere aiuto a colui che presentò come l'avversario di Bruxelles, «in uno spirito di apertura europea». Qualcosa che manca in Italia, dove né la persona di Monti viene valorizzata né i suoi suggerimenti ascoltati.
Con la sua "rupture" Sarkozy continua a sorprendere, circondandosi di mitterandiani, del radicale Kouchner, cui ha affidato gli Affari Esteri (non il Commercio con l'estero), e coinvolgendo il campione di calcio di colore Patrik Vieira per un programma educativo.
E se in Europa Sarkozy è il difensore dei campioni nazionali, avversario della concorrenza totale, è anche però tra i pochi a criticare la Bce, che con i continui aumenti del costo del denaro è troppo attenta a contenere l'inflazione e poco a favorire la crescita: bisogna ridurre i tassi di interesse, anziché aumentarli come vorrebbero i banchieri centrali, per non limitare l'accesso ai prestiti a famiglie e piccole e medie imprese.
Sul fronte interno forte impulso riformatore: soprattutto la riforma fiscale e il pacchetto legislativo su lavoro, occupazione e potere d'acquisto. Portate dal 20 al 40% le detrazioni sugli interessi dei mutui ipotecari nel primo anno, defiscalizzati gli straordinari e aboliti patrimoniale e diritti di successione.
Il presidente francese ha voluto nella sua commissione sia Monti sia l'ex ministro Franco Bassanini, autore della riforma della pubblica amministrazione. La commissione Attali dovrà studiare delle soluzioni «pragmatiche» per «liberare» la crescita economica. Sette gli esperti stranieri. Oltre ai due italiani, anche la spagnola Ana Palacio, ex ministro degli esteri nel governo Aznar, Pehr Gyllenhamar, ex presidente di Volvo, Peter Brabeck, presidente di Nestlé, economisti come Philippe Aghion (Harvard) e Jean Philippe Cotis, editorialisti come Yves de Kerdrel (Le Figaro) ed Eric Le Boucher (Le Monde).
In Sarkozy, osserva il presidente della Bocconi, c'è «la voglia di confrontarsi sulla cultura economica e sulla crescita». E' un presidente che si permette di chiedere aiuto a colui che presentò come l'avversario di Bruxelles, «in uno spirito di apertura europea». Qualcosa che manca in Italia, dove né la persona di Monti viene valorizzata né i suoi suggerimenti ascoltati.
Con la sua "rupture" Sarkozy continua a sorprendere, circondandosi di mitterandiani, del radicale Kouchner, cui ha affidato gli Affari Esteri (non il Commercio con l'estero), e coinvolgendo il campione di calcio di colore Patrik Vieira per un programma educativo.
E se in Europa Sarkozy è il difensore dei campioni nazionali, avversario della concorrenza totale, è anche però tra i pochi a criticare la Bce, che con i continui aumenti del costo del denaro è troppo attenta a contenere l'inflazione e poco a favorire la crescita: bisogna ridurre i tassi di interesse, anziché aumentarli come vorrebbero i banchieri centrali, per non limitare l'accesso ai prestiti a famiglie e piccole e medie imprese.
Sul fronte interno forte impulso riformatore: soprattutto la riforma fiscale e il pacchetto legislativo su lavoro, occupazione e potere d'acquisto. Portate dal 20 al 40% le detrazioni sugli interessi dei mutui ipotecari nel primo anno, defiscalizzati gli straordinari e aboliti patrimoniale e diritti di successione.
Il presidente francese ha voluto nella sua commissione sia Monti sia l'ex ministro Franco Bassanini, autore della riforma della pubblica amministrazione. La commissione Attali dovrà studiare delle soluzioni «pragmatiche» per «liberare» la crescita economica. Sette gli esperti stranieri. Oltre ai due italiani, anche la spagnola Ana Palacio, ex ministro degli esteri nel governo Aznar, Pehr Gyllenhamar, ex presidente di Volvo, Peter Brabeck, presidente di Nestlé, economisti come Philippe Aghion (Harvard) e Jean Philippe Cotis, editorialisti come Yves de Kerdrel (Le Figaro) ed Eric Le Boucher (Le Monde).
Democrazie si organizzano/2
Gli Stati Uniti vogliono il Brasile nella Nato. Lo ha rivelato l'ambasciatore americano a Brasilia, Clifford Sobel. «Si tratta di sapere in che misura il Brasile è disposto a coinvolgersi nel futuro della Nato», ha precisato il diplomatico, nel corso di un seminario sul tema "Usa-Brasile: alleati globali", organizzato da una università privata di San Paolo. «Il Brasile - ha precisato l'ambasciatore - è già coinvolto in quella che io chiamo "alleanza globale", come evidenzia la sua leadership nell'aiutare a garantire la sicurezza ad Haiti. Ora deve chiedersi se vuole essere presente solo in America Latina o in Asia».
Il diplomatico ha poi sottolineato l'importanza del futuro ampiamento della Nato attraverso «nuovi gruppi regionali».
Fonte: Il Messaggero
La strada verso un'alleanza, o lega, delle democrazie è sempre più tracciata.
Il diplomatico ha poi sottolineato l'importanza del futuro ampiamento della Nato attraverso «nuovi gruppi regionali».
Fonte: Il Messaggero
La strada verso un'alleanza, o lega, delle democrazie è sempre più tracciata.
Più libertà fa rima con più equità
L'abbiamo scritto più volte. E più autorevolmente in questi anni Francesco Giavazzi, che oggi ci ritorna.
Osserva che «l'aumento delle pensioni minime ha favorito solo in piccola parte i veri poveri», perché secondo uno studio su lavoce.info «la quota principale dei soldi stanziati andrà alle famiglie dei lavoratori tipicamente iscritti ai sindacati, gli stessi che hanno beneficiato più di altri dell'abbassamento, da 60 a 58 anni, dell'età minima per andare in pensione con 35 anni di contributi».
«Anche l'abbassamento dell'età minima per andare in pensione è stato pagato dai meno fortunati. Nel prossimo decennio costerà circa 10 miliardi di euro. Di questi, quasi la metà verranno da un aumento dei contributi (fino a 3 punti di aliquota in più) dei parasubordinati, cioè tassando i "precari", che sono i lavoratori meno protetti. A pensarci bene questi effetti non sono sorprendenti: al tavolo delle trattative sul welfare sedevano i sindacati, non rappresentanti dei poveri, né dei giovani precari».
E qui occorre tornare sul problema della rigidità del mercato del lavoro. «Il maggior ostacolo che questi giovani (ma anche molti purtroppo non più giovani) hanno di fronte a sé è la rigidità dei contratti a tempo indeterminato, in particolare il fatto che licenziare un lavoratore con un posto fisso è spesso impossibile... Per evitare questo rischio le aziende (sia private che pubbliche) tendono a offrire contratti a tempo determinato... L'assunzione a tempo indeterminato è troppo rischiosa per il datore di lavoro e così i precari rimangono tali per sempre».
La precarietà non si sconfigge abolendo con un tratto di penna le figure contrattuali introdotte dalle leggi Treu e Biagi, ma spalmando su tutti i lavoratori la flessibilità e la mobilità richieste da un'economia mutata profondamente da quando, ormai oltre trent'anni fa, fu regolato il mercato del lavoro con lo Statuto dei lavoratori. Se il posto fisso continua a esistere per chi è dentro e super-protetto, spesso anche se improduttivo, chi deve entrare non solo non avrà mai un posto fisso, ma nulla di decente né per durata né per compensi.
La sinistra invece «continua a porre una condizione irrinunciabile: tutti i precari vengano regolarizzati, cioè diventino lavoratori permanenti. In questo modo si ritornerebbe al sistema in vigore prima delle norme Treu e Biagi, quando c'era un solo tipo di contratto, quello a tempo indeterminato. L'effetto sarebbe di riportare la disoccupazione oltre il 10%, come accadeva prima dell'introduzione dei contratti a tempo determinato». Da quando in Europa si sono compiuti dei passi per liberalizzare il mercato del lavoro, l'occupazione è salita.
Il modello «più efficace» per Giavazzi è ancora quello danese: «nessun vincolo ai licenziamenti (tranne in casi di evidente discriminazione del lavoratore) e forte protezione di chi è temporaneamente senza lavoro... trasformando le tutele che un tempo si applicavano al posto di lavoro in tutele al lavoratore». Ma una soluzione «interessante» si sta studiando in Francia: «Abolire sia i contratti a tempo determinato che quelli a tempo indeterminato e sostituirli con un contratto unico che offra garanzie crescenti nel tempo: tutti precari all'inizio, ma tutti con la prospettiva di divenire dipendenti via via più stabili se il rapporto tra lavoratore e impresa funziona».
In ogni caso, la ricetta è quella liberale: più libertà per rendere più equa la condizione dei precari di oggi rispetto ai super-protetti.
Osserva che «l'aumento delle pensioni minime ha favorito solo in piccola parte i veri poveri», perché secondo uno studio su lavoce.info «la quota principale dei soldi stanziati andrà alle famiglie dei lavoratori tipicamente iscritti ai sindacati, gli stessi che hanno beneficiato più di altri dell'abbassamento, da 60 a 58 anni, dell'età minima per andare in pensione con 35 anni di contributi».
«Anche l'abbassamento dell'età minima per andare in pensione è stato pagato dai meno fortunati. Nel prossimo decennio costerà circa 10 miliardi di euro. Di questi, quasi la metà verranno da un aumento dei contributi (fino a 3 punti di aliquota in più) dei parasubordinati, cioè tassando i "precari", che sono i lavoratori meno protetti. A pensarci bene questi effetti non sono sorprendenti: al tavolo delle trattative sul welfare sedevano i sindacati, non rappresentanti dei poveri, né dei giovani precari».
E qui occorre tornare sul problema della rigidità del mercato del lavoro. «Il maggior ostacolo che questi giovani (ma anche molti purtroppo non più giovani) hanno di fronte a sé è la rigidità dei contratti a tempo indeterminato, in particolare il fatto che licenziare un lavoratore con un posto fisso è spesso impossibile... Per evitare questo rischio le aziende (sia private che pubbliche) tendono a offrire contratti a tempo determinato... L'assunzione a tempo indeterminato è troppo rischiosa per il datore di lavoro e così i precari rimangono tali per sempre».
La precarietà non si sconfigge abolendo con un tratto di penna le figure contrattuali introdotte dalle leggi Treu e Biagi, ma spalmando su tutti i lavoratori la flessibilità e la mobilità richieste da un'economia mutata profondamente da quando, ormai oltre trent'anni fa, fu regolato il mercato del lavoro con lo Statuto dei lavoratori. Se il posto fisso continua a esistere per chi è dentro e super-protetto, spesso anche se improduttivo, chi deve entrare non solo non avrà mai un posto fisso, ma nulla di decente né per durata né per compensi.
La sinistra invece «continua a porre una condizione irrinunciabile: tutti i precari vengano regolarizzati, cioè diventino lavoratori permanenti. In questo modo si ritornerebbe al sistema in vigore prima delle norme Treu e Biagi, quando c'era un solo tipo di contratto, quello a tempo indeterminato. L'effetto sarebbe di riportare la disoccupazione oltre il 10%, come accadeva prima dell'introduzione dei contratti a tempo determinato». Da quando in Europa si sono compiuti dei passi per liberalizzare il mercato del lavoro, l'occupazione è salita.
Il modello «più efficace» per Giavazzi è ancora quello danese: «nessun vincolo ai licenziamenti (tranne in casi di evidente discriminazione del lavoratore) e forte protezione di chi è temporaneamente senza lavoro... trasformando le tutele che un tempo si applicavano al posto di lavoro in tutele al lavoratore». Ma una soluzione «interessante» si sta studiando in Francia: «Abolire sia i contratti a tempo determinato che quelli a tempo indeterminato e sostituirli con un contratto unico che offra garanzie crescenti nel tempo: tutti precari all'inizio, ma tutti con la prospettiva di divenire dipendenti via via più stabili se il rapporto tra lavoratore e impresa funziona».
In ogni caso, la ricetta è quella liberale: più libertà per rendere più equa la condizione dei precari di oggi rispetto ai super-protetti.
Saturday, August 25, 2007
Veltroni attacca Prodi e il prodismo
Verso una "rupture" veltroniana?
Ci era parso a suo tempo che qualcosa di positivo e di nuovo, seppure ancora insufficiente, Veltroni l'avesse detto a Torino, annunciando la sua candidatura alla leadership del Partito democratico.
Registriamo oggi che Veltroni si dice pronto a far compiere al Partito democratico un passo che riteniamo assolutamente necessario: rinunciare all'alleanza con la sinistra comunista e massimalista. E' passato infatti dall'idea di un Pd «maggioritario ma non autosufficiente», esposta nel discorso di Torino, che avevamo giudicato inadeguata a garantire una rottura con l'esperienza dei riformisti nell'Ulivo e del centrosinistra formato Unione, all'idea di un partito maggioritario e, se necessario, anche autosufficiente.
«Il Partito democratico nasce per superare l'idea che quel che conta è vincere le elezioni. Ovvero battere lo schieramento avversario mettendo in campo la coalizione più ampia possibile, a prescindere dalla sua coerenza interna e dalla sua effettiva capacità di governare il paese». E ancora: «Non si può giustificare la vaghezza o l'ambiguità del programma, in nome del feticcio dell'unità della coalizione... in nessuna grande democrazia europea sarebbe immaginabile presentarsi agli elettori con una coalizione priva dei requisiti minimi di coesione interna, tali da rendere credibile la sua proposta di governo».
Quindi il Partito democratico «non potrà presentarsi alle elezioni all'interno di coalizioni disomogenee sul piano programmatico» e «piuttosto, qualunque sistema elettorale avremo in futuro, dovrà accettare il rischio, o sperimentare l'opportunità, di correre da solo». Meglio soli che male accompagnati, anche se il prezzo da pagare fosse quello di perdere le elezioni. Una svolta di mentalità che se confermata dai fatti produrrebbe essa stessa un cambiamento politico.
Quante volte ci era capitato di denunciare il «feticcio dell'unità» della sinistra! In un lungo articolo scritto per LibMagazine sulla crisi del Governo Prodi, "L'utopia prodiana al capolinea. La sinistra ancora in ritardo con la storia", avevamo definito "utopia prodiana" proprio l'idea che l'Ulivo, alleandosi con la sinistra comunista e massimalista, potesse non solo "cacciare" Berlusconi e vincere le elezioni, ma anche governare il paese.
"Senza l'ala radicale non si vince, ma con l'ala radicale non si governa". L'impegno dei vertici del centrosinistra negli ultimi undici anni è stato sempre volto a smentire la seconda di queste due proposizioni. Mai si è tentato di smentire la prima. Ebbene, questo «schema tattico ha dominato il bipolarismo italiano in questa lunga transizione», scrive oggi Veltroni. E il riferimento non può che essere all'eterogenea Unione prodiana, oggi afflitta da paralisi decisionale.
Per undici anni Prodi (come Berlusconi) è stato l'unico possibile interprete e collante dell'eterogeneità della coalizione. Il prezzo pagato nell'arco di questo lungo periodo è stato l'incapacità della sinistra di fare i conti con se stessa, di accorgersi di quanto fosse ingombrante il suo passato, seppure oggi nella veste di un antagonismo post-ideologico, e quindi di diventare forza di governo.
Se in nessun paese europeo la sinistra democratica e liberale governa insieme a quella neocomunista ci sarà pure un motivo. Il superamento di questa anomalia solo italiana passa per il fallimento dell'"utopia prodiana".
Ma è proprio vero che il Pd non vincerebbe facendo a meno dell'alleanza con l'ala comunista e massimalista? Parte dei consensi sarebbe recuperata da sinistra, da quanti farebbero confluire il loro voto su chi avrebbe chance reali di battere la destra. Ma una parte decisiva di voti verrebbe da quel "centro" politico dell'elettorato, da quel ceto medio produttivo, de-ideologizzato e pragmatico, che il "riformismo debole" alleato con i comunisti non potrà mai conquistare. Una leadership lungimirante avrebbe dovuto progettare tutto ciò anni fa, ma rinviare ancora vorrebbe dire pagare un conto ancora più salato.
In Italia è ancora diffusa la convinzione da parte dei leader di entrambi i poli che per conquistare nuovi consensi, e allargare la propria coalizione, servano alleanze con i piccoli partiti contigui piuttosto che cercarli politicamente nel paese, convincendo gli elettori della bontà della propria proposta di governo. L'assenza di un sistema elettorale veramente maggioritario e di una cultura bipartitica non aiuta, spingendo i partiti più grandi ad allearsi con i partiti minori anziché contendergli i voti. Il vantaggio del collegio uninominale, invece, sarebbe proprio quello di costringere le forze politiche maggiori a trovare candidati che possano intercettare il consenso dell'elettorato di mezzo, o addirittura avversario, allargando così la loro base elettorale politicamente, non "geograficamente", subendo i ricatti dei partiti centristi che mirano alla palude o di quelli estremisti, con i quali è impossibile governare.
Certo, tranquillizza Veltroni, nel futuro il patto con Rifondazione o con il nuovo soggetto a sinistra del Pd potrà proseguire, seppure su basi di maggiore chiarezza programmatica. Ma se si rivelasse impossibile... Infine, l'ultimo colpo a Prodi: «Le alleanze di governo si fanno e si disfano davanti agli elettori, prima del voto», ma «a regime la leadership del partito dovrà coincidere con la premiership o con la candidatura a premier».
Le «parole giuste», «contro la logica dell'Unione e del prodismo», ha riconosciuto stamattina anche Il Foglio. E' su «un programma di governo incisivamente riformatore» che va fondata la coalizione, e non il contrario, com'è accaduto, raccogliendo cioè «una coalizione per poi stilare un colossale e ambiguo documento programmatico di carattere elettorale», osserva il quotidiano di Ferrara, che conclude: «Pur nei limiti ovvii delle impostazioni generali e preliminari, quella proposta da Veltroni è giusta, coglie le contraddizioni vere, offre risposte chiare e impegnative. Si dirà che sono solo parole, ma sono le parole giuste e non vanno sottovalutate. L'averle scritte esplicitamente come premessa alla battaglia per la conquista della guida del partito, d'altra parte, ha un senso di sfida anche a se stesso, alle tentazioni di un atteggiamento più possibilista e transigente, nelle quali ora sarà più difficile e sarebbe rovinoso cadere».
E non le deve sottovalutare innanzitutto Berlusconi, al quale la possibilità di non poter usare contro il Pd l'argomento dell'Italia "in mano ai comunisti" dovrebbe suonare come campanello d'allarme.
Rutelli il passo in avanti di Veltroni lo aveva già compiuto giorni fa, parlando di «alleanze di nuovo conio», e oggi su Europa torna sull'argomento: «Gli alleati di oggi – che dureranno per la legislatura, secondo l'impegno preso con gli elettori – non è detto che lo siano a vita... Dipende dalla sinistra più radicale, se continuerà a isolarsi, a cercare una caratterizzazione su temi troppe volte conservatori e talvolta del tutto minoritari. Attenzione: non in minoranza tra i "moderati" o "la borghesia", come si diceva un tempo: minoritari nel popolo, nei ceti popolari... Negli anni a venire, l'alternativa al ritorno della destra non potrà che essere un centrosinistra di nuovo conio».
Nel frattempo, Veltroni fa muovere qualcosa anche su una questione cruciale: le tasse. Il liberal Ds Morando e Giaretta della Margherita stanno preparando la piattaforma del candidato alla guida del Pd sulla riduzione del debito e delle tasse, partendo da quella che hanno riconosciuto essere una buona idea tremontiana: alleggerire il patrimonio statale. Resta da capire, però, se ricorrendo alla Cassa Depositi e Prestiti (la nuova Iri progettata da Tremonti) e se tagliando la spesa pubblica.
Qualche boccata d'aria questi giorni di fine estate ce la stanno regalando.
Ci era parso a suo tempo che qualcosa di positivo e di nuovo, seppure ancora insufficiente, Veltroni l'avesse detto a Torino, annunciando la sua candidatura alla leadership del Partito democratico.
Registriamo oggi che Veltroni si dice pronto a far compiere al Partito democratico un passo che riteniamo assolutamente necessario: rinunciare all'alleanza con la sinistra comunista e massimalista. E' passato infatti dall'idea di un Pd «maggioritario ma non autosufficiente», esposta nel discorso di Torino, che avevamo giudicato inadeguata a garantire una rottura con l'esperienza dei riformisti nell'Ulivo e del centrosinistra formato Unione, all'idea di un partito maggioritario e, se necessario, anche autosufficiente.
«Il Partito democratico nasce per superare l'idea che quel che conta è vincere le elezioni. Ovvero battere lo schieramento avversario mettendo in campo la coalizione più ampia possibile, a prescindere dalla sua coerenza interna e dalla sua effettiva capacità di governare il paese». E ancora: «Non si può giustificare la vaghezza o l'ambiguità del programma, in nome del feticcio dell'unità della coalizione... in nessuna grande democrazia europea sarebbe immaginabile presentarsi agli elettori con una coalizione priva dei requisiti minimi di coesione interna, tali da rendere credibile la sua proposta di governo».
Quindi il Partito democratico «non potrà presentarsi alle elezioni all'interno di coalizioni disomogenee sul piano programmatico» e «piuttosto, qualunque sistema elettorale avremo in futuro, dovrà accettare il rischio, o sperimentare l'opportunità, di correre da solo». Meglio soli che male accompagnati, anche se il prezzo da pagare fosse quello di perdere le elezioni. Una svolta di mentalità che se confermata dai fatti produrrebbe essa stessa un cambiamento politico.
Quante volte ci era capitato di denunciare il «feticcio dell'unità» della sinistra! In un lungo articolo scritto per LibMagazine sulla crisi del Governo Prodi, "L'utopia prodiana al capolinea. La sinistra ancora in ritardo con la storia", avevamo definito "utopia prodiana" proprio l'idea che l'Ulivo, alleandosi con la sinistra comunista e massimalista, potesse non solo "cacciare" Berlusconi e vincere le elezioni, ma anche governare il paese.
"Senza l'ala radicale non si vince, ma con l'ala radicale non si governa". L'impegno dei vertici del centrosinistra negli ultimi undici anni è stato sempre volto a smentire la seconda di queste due proposizioni. Mai si è tentato di smentire la prima. Ebbene, questo «schema tattico ha dominato il bipolarismo italiano in questa lunga transizione», scrive oggi Veltroni. E il riferimento non può che essere all'eterogenea Unione prodiana, oggi afflitta da paralisi decisionale.
Per undici anni Prodi (come Berlusconi) è stato l'unico possibile interprete e collante dell'eterogeneità della coalizione. Il prezzo pagato nell'arco di questo lungo periodo è stato l'incapacità della sinistra di fare i conti con se stessa, di accorgersi di quanto fosse ingombrante il suo passato, seppure oggi nella veste di un antagonismo post-ideologico, e quindi di diventare forza di governo.
Se in nessun paese europeo la sinistra democratica e liberale governa insieme a quella neocomunista ci sarà pure un motivo. Il superamento di questa anomalia solo italiana passa per il fallimento dell'"utopia prodiana".
Ma è proprio vero che il Pd non vincerebbe facendo a meno dell'alleanza con l'ala comunista e massimalista? Parte dei consensi sarebbe recuperata da sinistra, da quanti farebbero confluire il loro voto su chi avrebbe chance reali di battere la destra. Ma una parte decisiva di voti verrebbe da quel "centro" politico dell'elettorato, da quel ceto medio produttivo, de-ideologizzato e pragmatico, che il "riformismo debole" alleato con i comunisti non potrà mai conquistare. Una leadership lungimirante avrebbe dovuto progettare tutto ciò anni fa, ma rinviare ancora vorrebbe dire pagare un conto ancora più salato.
In Italia è ancora diffusa la convinzione da parte dei leader di entrambi i poli che per conquistare nuovi consensi, e allargare la propria coalizione, servano alleanze con i piccoli partiti contigui piuttosto che cercarli politicamente nel paese, convincendo gli elettori della bontà della propria proposta di governo. L'assenza di un sistema elettorale veramente maggioritario e di una cultura bipartitica non aiuta, spingendo i partiti più grandi ad allearsi con i partiti minori anziché contendergli i voti. Il vantaggio del collegio uninominale, invece, sarebbe proprio quello di costringere le forze politiche maggiori a trovare candidati che possano intercettare il consenso dell'elettorato di mezzo, o addirittura avversario, allargando così la loro base elettorale politicamente, non "geograficamente", subendo i ricatti dei partiti centristi che mirano alla palude o di quelli estremisti, con i quali è impossibile governare.
Certo, tranquillizza Veltroni, nel futuro il patto con Rifondazione o con il nuovo soggetto a sinistra del Pd potrà proseguire, seppure su basi di maggiore chiarezza programmatica. Ma se si rivelasse impossibile... Infine, l'ultimo colpo a Prodi: «Le alleanze di governo si fanno e si disfano davanti agli elettori, prima del voto», ma «a regime la leadership del partito dovrà coincidere con la premiership o con la candidatura a premier».
Le «parole giuste», «contro la logica dell'Unione e del prodismo», ha riconosciuto stamattina anche Il Foglio. E' su «un programma di governo incisivamente riformatore» che va fondata la coalizione, e non il contrario, com'è accaduto, raccogliendo cioè «una coalizione per poi stilare un colossale e ambiguo documento programmatico di carattere elettorale», osserva il quotidiano di Ferrara, che conclude: «Pur nei limiti ovvii delle impostazioni generali e preliminari, quella proposta da Veltroni è giusta, coglie le contraddizioni vere, offre risposte chiare e impegnative. Si dirà che sono solo parole, ma sono le parole giuste e non vanno sottovalutate. L'averle scritte esplicitamente come premessa alla battaglia per la conquista della guida del partito, d'altra parte, ha un senso di sfida anche a se stesso, alle tentazioni di un atteggiamento più possibilista e transigente, nelle quali ora sarà più difficile e sarebbe rovinoso cadere».
E non le deve sottovalutare innanzitutto Berlusconi, al quale la possibilità di non poter usare contro il Pd l'argomento dell'Italia "in mano ai comunisti" dovrebbe suonare come campanello d'allarme.
Rutelli il passo in avanti di Veltroni lo aveva già compiuto giorni fa, parlando di «alleanze di nuovo conio», e oggi su Europa torna sull'argomento: «Gli alleati di oggi – che dureranno per la legislatura, secondo l'impegno preso con gli elettori – non è detto che lo siano a vita... Dipende dalla sinistra più radicale, se continuerà a isolarsi, a cercare una caratterizzazione su temi troppe volte conservatori e talvolta del tutto minoritari. Attenzione: non in minoranza tra i "moderati" o "la borghesia", come si diceva un tempo: minoritari nel popolo, nei ceti popolari... Negli anni a venire, l'alternativa al ritorno della destra non potrà che essere un centrosinistra di nuovo conio».
Nel frattempo, Veltroni fa muovere qualcosa anche su una questione cruciale: le tasse. Il liberal Ds Morando e Giaretta della Margherita stanno preparando la piattaforma del candidato alla guida del Pd sulla riduzione del debito e delle tasse, partendo da quella che hanno riconosciuto essere una buona idea tremontiana: alleggerire il patrimonio statale. Resta da capire, però, se ricorrendo alla Cassa Depositi e Prestiti (la nuova Iri progettata da Tremonti) e se tagliando la spesa pubblica.
Qualche boccata d'aria questi giorni di fine estate ce la stanno regalando.
Friday, August 24, 2007
Democrazie si organizzano
Per Robert Kagan la lotta tra liberalismo e autocrazia è destinata a proseguire
Le speranze degli anni '90, di un sicuro sviluppo delle nazioni del mondo in senso democratico, si sono rivelate pie illusioni. Robert Kagan, sul New York Times, ha di recente spiegato che «il mondo è ridiventato normale», che «è riaffiorata l'antica concorrenza tra liberalismo e assolutismo», che la lotta tra liberalismo e autocrazia è destinata a proseguire, se due tra le più grandi potenze mondiali, come Russia e Cina, disattendendo le aspettative di democratizzazione, scelgono l'autocrazia come forma di governo e virano verso il nazionalismo e il militarismo.
La strategia per affrontare dal punto di vista ideologico e culturale, politico e diplomatico, questo secolare conflitto passa per «politiche mirate sia a promuovere la democrazia, sia a rafforzare la cooperazione tra le democrazie». Occorre superare il mito della "comunità internazionale". Non esiste: per parlare di "comunità" dovrebbe innanzitutto essere condiviso da tutti i membri un universo di principi e di regole di convivenza, sia interna agli Stati, sia tra gli Stati. Ad oggi invece, nonostante il progressivo ma lento avanzamento della democrazia, la maggior parte dei membri dell'Onu, alcuni dei quali siedono addirittura nel Consiglio di Sicurezza, ignorano e, in modo conclamato, calpestano i principi della Carta costitutiva delle Nazioni Unite.
Le democrazie dovrebbero quindi unirsi tra di loro «per dar vita a nuove istituzioni internazionali che sappiano riflettere e valorizzare principi e obiettivi comuni, forse una nuova lega di Stati democratici, che si riunisca regolarmente per consultarsi sui temi del giorno» e, per esempio, per «dare legittimità ad azioni che i governi liberali ritengono necessarie ma che sono avversate dai Paesi autocratici».
Il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, sembra intenzionato a percorrere questa strada almeno in Asia. Parlando mercoledì al Parlamento indiano, ha invitato l'India a formare una partnership tra democrazie. A partire dal Giappone e dall'India, «questa "Grande Asia" evolverebbe in un immenso network fino ad abbracciare interamente l'Oceano Pacifico, comprendendo gli Stati Uniti e l'Australia». Questa partnership, ha spiegato Abe, sarebbe «un'associazione nella quale noi condividiamo valori fondamentali come la libertà, la democrazia, e il rispetto dei diritti umani fondamentali, così come interessi strategici».
La Cina non è stata nominata dal primo ministro giapponese. Non potrebbe far parte di questo "club", non essendo una democrazia. L'iniziativa giapponese è una risposta alla Shanghai Cooperation Organization (di cui fanno parte Cina, Russia, Kazakhstan, Kyrghizistan, Tajikistan e Uzbekistan). Tuttavia, non sarebbe un'organizzazione anti-Cina, ma volta a promuovere principi e obiettivi comuni alle democrazie del continente, quindi, a esercitare anche sulla Cina, come sugli altri paesi asiatici non democratici, pressione politica ed economica.
Senza dimenticare però di dare precisi segnali in ambito militare. In risposta all'esercitazione militare congiunta Russia-Cina, che se la memoria non c'inganna mancava dagli anni '50, il prossimo mese è in programma nel Golfo del Bengala la prima esercitazione della storia che vedrà impegnate le marine militari di Giappone, India e Stati Uniti. Se la sfida tra liberalismo e autocrazia è destinata a proseguire a livello globale, è bene che le democrazie si organizzino.
Le speranze degli anni '90, di un sicuro sviluppo delle nazioni del mondo in senso democratico, si sono rivelate pie illusioni. Robert Kagan, sul New York Times, ha di recente spiegato che «il mondo è ridiventato normale», che «è riaffiorata l'antica concorrenza tra liberalismo e assolutismo», che la lotta tra liberalismo e autocrazia è destinata a proseguire, se due tra le più grandi potenze mondiali, come Russia e Cina, disattendendo le aspettative di democratizzazione, scelgono l'autocrazia come forma di governo e virano verso il nazionalismo e il militarismo.
La strategia per affrontare dal punto di vista ideologico e culturale, politico e diplomatico, questo secolare conflitto passa per «politiche mirate sia a promuovere la democrazia, sia a rafforzare la cooperazione tra le democrazie». Occorre superare il mito della "comunità internazionale". Non esiste: per parlare di "comunità" dovrebbe innanzitutto essere condiviso da tutti i membri un universo di principi e di regole di convivenza, sia interna agli Stati, sia tra gli Stati. Ad oggi invece, nonostante il progressivo ma lento avanzamento della democrazia, la maggior parte dei membri dell'Onu, alcuni dei quali siedono addirittura nel Consiglio di Sicurezza, ignorano e, in modo conclamato, calpestano i principi della Carta costitutiva delle Nazioni Unite.
Le democrazie dovrebbero quindi unirsi tra di loro «per dar vita a nuove istituzioni internazionali che sappiano riflettere e valorizzare principi e obiettivi comuni, forse una nuova lega di Stati democratici, che si riunisca regolarmente per consultarsi sui temi del giorno» e, per esempio, per «dare legittimità ad azioni che i governi liberali ritengono necessarie ma che sono avversate dai Paesi autocratici».
Il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, sembra intenzionato a percorrere questa strada almeno in Asia. Parlando mercoledì al Parlamento indiano, ha invitato l'India a formare una partnership tra democrazie. A partire dal Giappone e dall'India, «questa "Grande Asia" evolverebbe in un immenso network fino ad abbracciare interamente l'Oceano Pacifico, comprendendo gli Stati Uniti e l'Australia». Questa partnership, ha spiegato Abe, sarebbe «un'associazione nella quale noi condividiamo valori fondamentali come la libertà, la democrazia, e il rispetto dei diritti umani fondamentali, così come interessi strategici».
La Cina non è stata nominata dal primo ministro giapponese. Non potrebbe far parte di questo "club", non essendo una democrazia. L'iniziativa giapponese è una risposta alla Shanghai Cooperation Organization (di cui fanno parte Cina, Russia, Kazakhstan, Kyrghizistan, Tajikistan e Uzbekistan). Tuttavia, non sarebbe un'organizzazione anti-Cina, ma volta a promuovere principi e obiettivi comuni alle democrazie del continente, quindi, a esercitare anche sulla Cina, come sugli altri paesi asiatici non democratici, pressione politica ed economica.
Senza dimenticare però di dare precisi segnali in ambito militare. In risposta all'esercitazione militare congiunta Russia-Cina, che se la memoria non c'inganna mancava dagli anni '50, il prossimo mese è in programma nel Golfo del Bengala la prima esercitazione della storia che vedrà impegnate le marine militari di Giappone, India e Stati Uniti. Se la sfida tra liberalismo e autocrazia è destinata a proseguire a livello globale, è bene che le democrazie si organizzino.
Velleitarismo prodiano
Qualche tempo fa l'apertura di Prodi ad Hamas, che subito ci era sembrata rompere in modo unilaterale con la posizione comune del Quartetto.
La sinistra italiana ha invocato il ritorno a una diplomazia multilaterale — fino al punto di fare dell'Onu una sorta di improbabile "governo mondiale" — ogni volta che gli Stati Uniti, come nel caso della guerra in Iraq, si sono esposti all'accusa di volersi muovere da posizioni unilaterali. Sarebbe davvero singolare se — adesso che Washington partecipa a una iniziativa multilaterale — il governo di centrosinistra si comportasse in modo unilaterale, violando i "vincoli" multilaterali che le impone la sua partecipazione all'iniziativa di pace in Medio Oriente. Il sospetto di pretestuosa multilateralità, prima, e di pelosa unilateralità, poi, entrambe dettate solo dal pregiudizio anti-americano, sarebbe allora legittimo. E non solo da parte di Washington.
Piero Ostellino (Corriere della Sera, 24 agosto 2007)
La sinistra italiana ha invocato il ritorno a una diplomazia multilaterale — fino al punto di fare dell'Onu una sorta di improbabile "governo mondiale" — ogni volta che gli Stati Uniti, come nel caso della guerra in Iraq, si sono esposti all'accusa di volersi muovere da posizioni unilaterali. Sarebbe davvero singolare se — adesso che Washington partecipa a una iniziativa multilaterale — il governo di centrosinistra si comportasse in modo unilaterale, violando i "vincoli" multilaterali che le impone la sua partecipazione all'iniziativa di pace in Medio Oriente. Il sospetto di pretestuosa multilateralità, prima, e di pelosa unilateralità, poi, entrambe dettate solo dal pregiudizio anti-americano, sarebbe allora legittimo. E non solo da parte di Washington.
Piero Ostellino (Corriere della Sera, 24 agosto 2007)
Thursday, August 23, 2007
Guerrieri di Dio
Da vedere la serie di documentari su religioni e politica di Christiane Amanpour, giornalista ed inviata di guerra della Cnn. God's Warrior andrà in onda in tre puntate. La prima, Jewish Warriors, è già passata ieri. Le altre andranno in onda stasera (Muslim Warriors) e domani (Christian Warriors), entrambe sia alle 13 che alle 19 GMT.
Il successo del kebab e della bufala
Come si spiegano tutti questi negozi di kebab che stanno aprendo in giro per Roma? Ci sarà dietro Al Qaeda? No, non temete, non sto seguendo le orme di Rita Bernardini. A Ferragosto la segretaria di Radicali italiani ha avuto i suoi 15 minuti (ore) di notorietà lanciando l'allarme infiltrazione della camorra al centro di Roma - unica sua iniziativa di cui abbiamo memoria. La prova schiacciante addotta è il diffondersi del dialetto napoletano in pizzerie e negozi. Chiacchiere da bar, da autobus, o da sonnacchiosi pomeriggi nei saloni di Via di Torre Argentina.
Se una denuncia simile, seppure politica e non giudiziaria, va presa tremendamente sul serio, da un politico ci si aspettano argomentazioni un tantino più robuste.
A noi il kebab piace. E ci piace assai anche la pizza napoletana. Non stupisce che sia il kebab, sia la pizza napoletana, che le mozzarelle di bufala, stiano facendo registrare un discreto successo commerciale al centro di Roma, sostituendo vecchie trattorie ormai divenute too expensive anche per i turisti e certamente scadenti.
Comunque, la Bernardini può tranquillizzarsi, forse, ora che delle sue paure si è occupato niente meno che il prefetto Serra, convocando per oggi il Comitato per l'ordine e la sicurezza. All'ordine del giorno, infatti, compariva il tema dell'eventuale riciclaggio di denaro da parte della camorra vicino ai palazzi della politica, denunciato proprio dalla segretaria dei Radicali italiani. Dopo aver confrontato i dati e averne discusso con il questore Fulvi, il comandante provinciale dei Carabinieri e quello della Guardia di Finanza, il prefetto di Roma ha escluso che la camorra si sia impossessata del centro di Roma. Non esistono dati che facciano pensare a particolari infiltrazioni nel territorio sociale ed economico della città.
Vittoria della bufala campana sulla bufala radicale?
Se una denuncia simile, seppure politica e non giudiziaria, va presa tremendamente sul serio, da un politico ci si aspettano argomentazioni un tantino più robuste.
A noi il kebab piace. E ci piace assai anche la pizza napoletana. Non stupisce che sia il kebab, sia la pizza napoletana, che le mozzarelle di bufala, stiano facendo registrare un discreto successo commerciale al centro di Roma, sostituendo vecchie trattorie ormai divenute too expensive anche per i turisti e certamente scadenti.
Comunque, la Bernardini può tranquillizzarsi, forse, ora che delle sue paure si è occupato niente meno che il prefetto Serra, convocando per oggi il Comitato per l'ordine e la sicurezza. All'ordine del giorno, infatti, compariva il tema dell'eventuale riciclaggio di denaro da parte della camorra vicino ai palazzi della politica, denunciato proprio dalla segretaria dei Radicali italiani. Dopo aver confrontato i dati e averne discusso con il questore Fulvi, il comandante provinciale dei Carabinieri e quello della Guardia di Finanza, il prefetto di Roma ha escluso che la camorra si sia impossessata del centro di Roma. Non esistono dati che facciano pensare a particolari infiltrazioni nel territorio sociale ed economico della città.
Vittoria della bufala campana sulla bufala radicale?
Emergenza umanitaria in Iran
Il Daily Mail ha pubblicato le foto di un ragazzo di 25 anni frustato a sangue dalla polizia per le strade di Qazvin, 144 chilometri a ovest di Teheran. Accusato di uso di alcol e di aver fatto sesso fuori dal matrimonio, contravvenendo alle leggi della morale islamica, è stato condannato a 80 pubbliche frustate da una tribunale religioso. La sentenza è stata eseguita da due ufficiali coperti da un passamontagna, che lo hanno colpito 40 volte ciascuno con una canna rigida, mentre il prigioniero, sdraiato su una panchina di metallo, veniva tenuto fermo per le gambe e per le braccia da altri due agenti. Ad assistere circa mille persone.
Le fustigazioni in piazza, eventi abbastanza rari, stanno aumentando, così come negli ultimi mesi si è registrato un incremento vertiginoso di condanne per violazioni delle leggi islamiche sulla morale e l'abbigliamento.
Avevamo raccolto, alcune settimane fa, l'allarme lanciato da Amir Taheri sull'ondata di terrore in atto in Iran. Il regime ha sempre più paura e reagisce stringendo la sua morsa repressiva sulla popolazione. Quella iraniana è ormai una vera e propria emergenza umanitaria.
Le fustigazioni in piazza, eventi abbastanza rari, stanno aumentando, così come negli ultimi mesi si è registrato un incremento vertiginoso di condanne per violazioni delle leggi islamiche sulla morale e l'abbigliamento.
Avevamo raccolto, alcune settimane fa, l'allarme lanciato da Amir Taheri sull'ondata di terrore in atto in Iran. Il regime ha sempre più paura e reagisce stringendo la sua morsa repressiva sulla popolazione. Quella iraniana è ormai una vera e propria emergenza umanitaria.
Wednesday, August 22, 2007
Bentornati dalle vacanze
Ma non chiamatele rendite!
Di ritorno dalle vacanze gli italiani sono abituati alle cattive notizie. Ebbene, il sottosegretario all'economia ci ricorda che il governo darà seguito in sede di Legge Finanziaria all'intenzione di aumentare la tassazione sulle rendite finanziarie, portando l'aliquota dal 12,5 al 20%. Ora, d'accordo che in Italia, a differenza che in altri paesi dal capitalismo più maturo, i ceti medi investono poco i loro risparmi in azioni. Tuttavia, tra chi investe in borsa e i molti di più nei titoli di Stato, come i Bot, sui quali vorrebbe accanirsi il Governo Prodi, è il risparmio, non la rendita, ad essere colpito.
Investire in borsa significa per un piccolo risparmiatore partecipare allo sviluppo dell'economia e vedere nel lungo periodo guadagni superiori all'inflazione. Ma non si tratta di una rendita, poiché l'investimento in azioni o titoli di Stato presenta comunque dei rischi dal punto di vista soggettivo, anche se il valore delle borse mediamente tende a salire.
I radicali (non quelli di Torre Argentina) alzano la voce: Capezzone parla di «aggressione contro famiglie e piccoli risparmiatori» e di «dissennato jihad fiscale». Benedetto Della Vedova ha calcolato in «5 miliardi» di euro il prelievo annuo dello Stato «dalle tasche dei risparmiatori, per finanziare ulteriori aumenti di spesa pubblica».
Giusto ieri il governo della Repubblica ceca, guidato da Mirek Topolanek, è riuscito a far approvare alla Camera una riforma della finanza pubblica che prevede, tra le altre misure, la flat tax al 15% dal 2008 (e al 12,5% dal 2009) per le persone fisiche e al 19% entro il 2010 per le aziende.
La flat tax è possibile anche in Italia, secondo Decidere.net (che su questo ha in programma un appuntamento a Milano il 29 settembre), con una decisa riduzione della spesa pubblica.
Tasse e democrazia
Sollevare la questione fiscale non è demagogia. Anzi, possiamo affermare che le tasse sono al centro del rapporto tra Stato e cittadini. Discutere di quanti soldi lo Stato debba chiedere ai cittadini e di come spenderli è il cuore della politica. Guai se i cittadini non fossero sospettosi e riluttanti all'idea di pagare di più.
Un carico fiscale e una spesa pubblica eccessivi costituiscono minacce aperte alla democrazia. Quando l'invadenza dello Stato soffoca e si sostuisce all'iniziativa privata, gli individui perdono a popo a poco spazi di libertà e possibilità di migliorare il loro status socio-economico, perché le risorse prodotte dalla comunità vengono drenate e redistribuite a vantaggio di specifiche categorie, caste, clientele. Attraverso l'espressione del loro dissenso o forme di diretta resistenza fiscale, semplicemente difendendo ciascuno le proprie tasche, i cittadini esercitano un essenziale potere di controllo democratico.
Cos'è, in fondo, come nasce, la democrazia, se non come una forma di governo in cui il popolo attraverso i propri rappresentanti può finalmente decidere quante tasse pagare e controllare come vengono spese?
Di ritorno dalle vacanze gli italiani sono abituati alle cattive notizie. Ebbene, il sottosegretario all'economia ci ricorda che il governo darà seguito in sede di Legge Finanziaria all'intenzione di aumentare la tassazione sulle rendite finanziarie, portando l'aliquota dal 12,5 al 20%. Ora, d'accordo che in Italia, a differenza che in altri paesi dal capitalismo più maturo, i ceti medi investono poco i loro risparmi in azioni. Tuttavia, tra chi investe in borsa e i molti di più nei titoli di Stato, come i Bot, sui quali vorrebbe accanirsi il Governo Prodi, è il risparmio, non la rendita, ad essere colpito.
Investire in borsa significa per un piccolo risparmiatore partecipare allo sviluppo dell'economia e vedere nel lungo periodo guadagni superiori all'inflazione. Ma non si tratta di una rendita, poiché l'investimento in azioni o titoli di Stato presenta comunque dei rischi dal punto di vista soggettivo, anche se il valore delle borse mediamente tende a salire.
I radicali (non quelli di Torre Argentina) alzano la voce: Capezzone parla di «aggressione contro famiglie e piccoli risparmiatori» e di «dissennato jihad fiscale». Benedetto Della Vedova ha calcolato in «5 miliardi» di euro il prelievo annuo dello Stato «dalle tasche dei risparmiatori, per finanziare ulteriori aumenti di spesa pubblica».
Giusto ieri il governo della Repubblica ceca, guidato da Mirek Topolanek, è riuscito a far approvare alla Camera una riforma della finanza pubblica che prevede, tra le altre misure, la flat tax al 15% dal 2008 (e al 12,5% dal 2009) per le persone fisiche e al 19% entro il 2010 per le aziende.
La flat tax è possibile anche in Italia, secondo Decidere.net (che su questo ha in programma un appuntamento a Milano il 29 settembre), con una decisa riduzione della spesa pubblica.
Tasse e democrazia
Sollevare la questione fiscale non è demagogia. Anzi, possiamo affermare che le tasse sono al centro del rapporto tra Stato e cittadini. Discutere di quanti soldi lo Stato debba chiedere ai cittadini e di come spenderli è il cuore della politica. Guai se i cittadini non fossero sospettosi e riluttanti all'idea di pagare di più.
Un carico fiscale e una spesa pubblica eccessivi costituiscono minacce aperte alla democrazia. Quando l'invadenza dello Stato soffoca e si sostuisce all'iniziativa privata, gli individui perdono a popo a poco spazi di libertà e possibilità di migliorare il loro status socio-economico, perché le risorse prodotte dalla comunità vengono drenate e redistribuite a vantaggio di specifiche categorie, caste, clientele. Attraverso l'espressione del loro dissenso o forme di diretta resistenza fiscale, semplicemente difendendo ciascuno le proprie tasche, i cittadini esercitano un essenziale potere di controllo democratico.
Cos'è, in fondo, come nasce, la democrazia, se non come una forma di governo in cui il popolo attraverso i propri rappresentanti può finalmente decidere quante tasse pagare e controllare come vengono spese?
Tuesday, August 21, 2007
Cosa succede a Mosca?
La lotta tra liberalismo e autocrazia prosegue. Kagan rilancia l'idea di una Lega delle Democrazie
Il capo di Stato maggiore russo è arrivato a minacciare velatamente la Repubblica Ceca: «Commetterà un grave errore se deciderà di piazzare elementi dello scudo antimissile Usa sul proprio territorio». E' solo l'ultimo dei gesti ostili della Russia nei confronti dell'Occidente. Tra i più recenti ricordiamo l'intervista in cui il presidente Putin evocava la possibilità che i missili nucleari russi tornassero a essere puntati contro città e obiettivi militari europei; il giallo in Georgia, dove un aereo russo avrebbe sganciato una bomba poi rimasta inesplosa; le manovre militari coordinate con la Cina; la rivendicazione del fondale marino del Polo Nord; i due nuovi missili a lunga gittata "Bulava M" testati dalla flotta russa all'inizio del mese; l'intenzione di dispiegare una presenza permanente della marina militare nel Mar Mediterraneo; la ripresa delle ricognizioni permanenti a lungo raggio dei bombardieri strategici, che furono sospese nel 1992. Per non parlare del sistematico uso dell'arma energetica, dell'assistenza e le forniture di tecnologie nucleari all'Iran, e degli oscuri e inquietanti casi Politovskaja e Litvinenko.
Questi gesti di per sé non costituiscono un pericolo imminente per la nostra sicurezza. Sono più che altro simbolici. I bombardieri russi, per esempio, sono così antiquati che alla notizia della ripresa dei loro voli da Washington si è levato solo un commento sarcastico. Certo, si tratta di segnali, seppure dimostrativi, che messi in fila uno dietro l'altro delineano una politica di sfida della Russia nei confronti dell'Europa e degli Stati Uniti. A cosa sia dovuto questo atteggiamento aggressivo è l'interrogativo che sempre più nei prossimi mesi occuperà i pensieri degli uomini di governo e degli analisti occidentali.
Si tratta del progetto americano di dislocare tra la Polonia e la Repubblica Ceca le basi per lo "scudo antimissile"? Certamente la realizzazione dello scudo è vissuta come uno smacco a Mosca. Nonostante le rassicurazioni da parte americana ed europea circa la natura difensiva del progetto, comunque non rivolto alla Russia, bensì a Stati "canaglia" come l'Iran, lo scudo anti-missile modifica l'equilibrio strategico tra Russia e Stati Uniti. Un equilibrio che in realtà, almeno dalla fine degli anni '80, è tale solo sulla carta, è fasullo, ma con lo scudo verrebbero meno anche le ultime apparenze. Gli americani d'altra parte non hanno potuto far altro che respingere la proposta russa di installarne elementi in Azerbaigian, anziché in Polonia o nella Repubblica Ceca, perché quel territorio si trova «troppo vicino all'Iran» per garantire tempi di reazione sufficienti a un ipotetico attacco.
Cos'ha in mente Putin? Lo storico Richard Pipes non crede che si tratti solo dall'installazione dei sistemi radar e antimissilistici americani in Europa. Ci dev'essere dell'altro sotto. L'avvicinarsi delle elezioni presidenziali, per esempio:
Un altro aspetto di solito trascurato riguarda le reali dinamiche di potere all'interno del Cremlino. Possiamo essere davvero così sicuri che Putin abbia il totale controllo delle forze armate russe e che non subisca, invece, pesanti pressioni e ricatti dai vertici militari in grado di influenzarne la politica estera? Siamo soliti mettere sotto accusa il complesso militare-industriale americano, a vivisezionare le decisioni della Casa Bianca per scovare il minimo indizio della sua influenza, mentre non ci preoccupiamo neanche di cosa possa accadere a Mosca.
Robert Kagan, invece, offre una lettura più generale dell'atteggiamento aggressivo della Russia. Le speranze degli anni '90, di un mondo unipolare, di un nuovo ordine internazionale in cui le nazioni «potessero svilupparsi di comune accordo col venir meno dei conflitti ideologici e un maggior interscambio tra le culture», si sono rivelate pie illusioni.
«Il mondo è ridiventato normale». Le nazioni restano forti e non hanno abbandonato le politiche di potenza. «La nostra è un'epoca che non favorisce la convergenza, ma la divergenza, di idee e di ideologie... è riaffiorata l'antica concorrenza tra liberalismo e assolutismo» e le nazioni del mondo «si schierano sempre di più da una parte o dall'altra, oppure lungo la linea di frattura tra modernità e tradizione, come il fondamentalismo islamico in contrapposizione all'Occidente».
Il conflitto ideologico più duraturo che dall'Illuminismo vede contrapposti liberalismo e autocrazia prosegue. Con la fine della Guerra fredda e la «morte del comunismo» abbiamo creduto che fosse acquisito quale sia «la forma ideale di governo e società». E invece è ancora in discussione.
In particolare Russia e Cina hanno disatteso le aspettative: «La Cina non ha liberalizzato il suo governo autocratico, l'ha blindato. La Russia si è allontanata da un liberalismo imperfetto con una virata decisa verso l'autocrazia. Due delle massime potenze mondiali, con oltre un miliardo e mezzo di abitanti, si sono dotate di governi autocratici, che sembrano capaci di restare al potere anche negli anni a venire».
Non è vero che i loro leader «non credono in niente e pertanto non rappresentano alcuna ideologia... fondano il loro potere su un insieme di credenze che li guidano sia in politica interna che estera», sulla convinzione che l'autocrazia funzioni meglio della democrazia, perché assicura «ordine, stabilità e la possibilità di sviluppo economico» in territori «vastissimi ed eterogenei», impedendo «caos e disintegrazione».
Non si direbbe affatto che l'autocrazia non abbia un futuro, se due tra le più grandi potenze mondiali la scelgono come forma di governo. Dobbiamo quindi abituarci a «crescenti tensioni tra l'alleanza democratica transatlantica e la Russia» e studiare risposte strategiche efficaci.
Inutile appellarsi alla «comunità internazionale», che semplicemente non esiste (vedi Kosovo e Darfur), perché non c'è accordo sui principi fondamentali del convivere civile negli e tra gli Stati. Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu su ogni decisione importante resta «nettamente diviso tra le autocrazie e le democrazie».
La tendenza è verso «una maggiore solidarietà tra le autocrazie mondiali, come pure tra le democrazie». Per questo Robert Kagan, neocon, rilancia l'idea di due studiosi, Lindsay e Daalder, della clintoniana Brookings Institution, di una Alleanza delle Democrazie: «Gli Stati Uniti dovrebbero perseguire politiche mirate sia a promuovere la democrazia, sia a rafforzare la cooperazione tra le democrazie. Gli Usa dovrebbero unirsi alle altre democrazie per dar vita a nuove istituzioni internazionali che sappiano riflettere e valorizzare principi e obiettivi comuni, forse una nuova lega di Stati democratici, che si riunisca regolarmente per consultarsi sui temi del giorno» e, per esempio, per «dare legittimità ad azioni che i governi liberali ritengono necessarie ma che sono avversate dai Paesi autocratici».
Il capo di Stato maggiore russo è arrivato a minacciare velatamente la Repubblica Ceca: «Commetterà un grave errore se deciderà di piazzare elementi dello scudo antimissile Usa sul proprio territorio». E' solo l'ultimo dei gesti ostili della Russia nei confronti dell'Occidente. Tra i più recenti ricordiamo l'intervista in cui il presidente Putin evocava la possibilità che i missili nucleari russi tornassero a essere puntati contro città e obiettivi militari europei; il giallo in Georgia, dove un aereo russo avrebbe sganciato una bomba poi rimasta inesplosa; le manovre militari coordinate con la Cina; la rivendicazione del fondale marino del Polo Nord; i due nuovi missili a lunga gittata "Bulava M" testati dalla flotta russa all'inizio del mese; l'intenzione di dispiegare una presenza permanente della marina militare nel Mar Mediterraneo; la ripresa delle ricognizioni permanenti a lungo raggio dei bombardieri strategici, che furono sospese nel 1992. Per non parlare del sistematico uso dell'arma energetica, dell'assistenza e le forniture di tecnologie nucleari all'Iran, e degli oscuri e inquietanti casi Politovskaja e Litvinenko.
Questi gesti di per sé non costituiscono un pericolo imminente per la nostra sicurezza. Sono più che altro simbolici. I bombardieri russi, per esempio, sono così antiquati che alla notizia della ripresa dei loro voli da Washington si è levato solo un commento sarcastico. Certo, si tratta di segnali, seppure dimostrativi, che messi in fila uno dietro l'altro delineano una politica di sfida della Russia nei confronti dell'Europa e degli Stati Uniti. A cosa sia dovuto questo atteggiamento aggressivo è l'interrogativo che sempre più nei prossimi mesi occuperà i pensieri degli uomini di governo e degli analisti occidentali.
Si tratta del progetto americano di dislocare tra la Polonia e la Repubblica Ceca le basi per lo "scudo antimissile"? Certamente la realizzazione dello scudo è vissuta come uno smacco a Mosca. Nonostante le rassicurazioni da parte americana ed europea circa la natura difensiva del progetto, comunque non rivolto alla Russia, bensì a Stati "canaglia" come l'Iran, lo scudo anti-missile modifica l'equilibrio strategico tra Russia e Stati Uniti. Un equilibrio che in realtà, almeno dalla fine degli anni '80, è tale solo sulla carta, è fasullo, ma con lo scudo verrebbero meno anche le ultime apparenze. Gli americani d'altra parte non hanno potuto far altro che respingere la proposta russa di installarne elementi in Azerbaigian, anziché in Polonia o nella Repubblica Ceca, perché quel territorio si trova «troppo vicino all'Iran» per garantire tempi di reazione sufficienti a un ipotetico attacco.
Cos'ha in mente Putin? Lo storico Richard Pipes non crede che si tratti solo dall'installazione dei sistemi radar e antimissilistici americani in Europa. Ci dev'essere dell'altro sotto. L'avvicinarsi delle elezioni presidenziali, per esempio:
«Non sono così sicuro che voglia ritirarsi l'anno venturo. Una situazione di emergenza potrebbe consentirgli di dire al Parlamento che deve restare al comando del Paese per risolverla, e di ottenere un emendamento costituzionale al riguardo. Non penso che la Duma glielo negherebbe e che i russi protesterebbero, anzi».Dunque, Putin starebbe alzando il livello dello scontro con l'Occidente per convincere l'opinione pubblica russa dell'esistenza di un nemico esterno. L'ostentazione di potenza cui stiamo assistendo in queste settimane servirebbe a dimostrare che solo lui è in grado di fronteggiarlo, nonché a risollevare il frustrato sentimento della "Grande Russia".
Un altro aspetto di solito trascurato riguarda le reali dinamiche di potere all'interno del Cremlino. Possiamo essere davvero così sicuri che Putin abbia il totale controllo delle forze armate russe e che non subisca, invece, pesanti pressioni e ricatti dai vertici militari in grado di influenzarne la politica estera? Siamo soliti mettere sotto accusa il complesso militare-industriale americano, a vivisezionare le decisioni della Casa Bianca per scovare il minimo indizio della sua influenza, mentre non ci preoccupiamo neanche di cosa possa accadere a Mosca.
Robert Kagan, invece, offre una lettura più generale dell'atteggiamento aggressivo della Russia. Le speranze degli anni '90, di un mondo unipolare, di un nuovo ordine internazionale in cui le nazioni «potessero svilupparsi di comune accordo col venir meno dei conflitti ideologici e un maggior interscambio tra le culture», si sono rivelate pie illusioni.
«Il mondo è ridiventato normale». Le nazioni restano forti e non hanno abbandonato le politiche di potenza. «La nostra è un'epoca che non favorisce la convergenza, ma la divergenza, di idee e di ideologie... è riaffiorata l'antica concorrenza tra liberalismo e assolutismo» e le nazioni del mondo «si schierano sempre di più da una parte o dall'altra, oppure lungo la linea di frattura tra modernità e tradizione, come il fondamentalismo islamico in contrapposizione all'Occidente».
Il conflitto ideologico più duraturo che dall'Illuminismo vede contrapposti liberalismo e autocrazia prosegue. Con la fine della Guerra fredda e la «morte del comunismo» abbiamo creduto che fosse acquisito quale sia «la forma ideale di governo e società». E invece è ancora in discussione.
In particolare Russia e Cina hanno disatteso le aspettative: «La Cina non ha liberalizzato il suo governo autocratico, l'ha blindato. La Russia si è allontanata da un liberalismo imperfetto con una virata decisa verso l'autocrazia. Due delle massime potenze mondiali, con oltre un miliardo e mezzo di abitanti, si sono dotate di governi autocratici, che sembrano capaci di restare al potere anche negli anni a venire».
Non è vero che i loro leader «non credono in niente e pertanto non rappresentano alcuna ideologia... fondano il loro potere su un insieme di credenze che li guidano sia in politica interna che estera», sulla convinzione che l'autocrazia funzioni meglio della democrazia, perché assicura «ordine, stabilità e la possibilità di sviluppo economico» in territori «vastissimi ed eterogenei», impedendo «caos e disintegrazione».
Non si direbbe affatto che l'autocrazia non abbia un futuro, se due tra le più grandi potenze mondiali la scelgono come forma di governo. Dobbiamo quindi abituarci a «crescenti tensioni tra l'alleanza democratica transatlantica e la Russia» e studiare risposte strategiche efficaci.
Inutile appellarsi alla «comunità internazionale», che semplicemente non esiste (vedi Kosovo e Darfur), perché non c'è accordo sui principi fondamentali del convivere civile negli e tra gli Stati. Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu su ogni decisione importante resta «nettamente diviso tra le autocrazie e le democrazie».
La tendenza è verso «una maggiore solidarietà tra le autocrazie mondiali, come pure tra le democrazie». Per questo Robert Kagan, neocon, rilancia l'idea di due studiosi, Lindsay e Daalder, della clintoniana Brookings Institution, di una Alleanza delle Democrazie: «Gli Stati Uniti dovrebbero perseguire politiche mirate sia a promuovere la democrazia, sia a rafforzare la cooperazione tra le democrazie. Gli Usa dovrebbero unirsi alle altre democrazie per dar vita a nuove istituzioni internazionali che sappiano riflettere e valorizzare principi e obiettivi comuni, forse una nuova lega di Stati democratici, che si riunisca regolarmente per consultarsi sui temi del giorno» e, per esempio, per «dare legittimità ad azioni che i governi liberali ritengono necessarie ma che sono avversate dai Paesi autocratici».
Monday, August 20, 2007
Della superiorità degli anni '80 (sui '70)
Ci siamo già soffermati su come Enrico Letta appaia non proprio il più credibile difensore degli anni '80 e delle giovani generazioni. Letta si candida alla leadership del Partito democratico su richiesta di Prodi, unicamente con l'obiettivo di non far raggiungere e superare a Veltroni il 70% dei consensi, così da allungare la vita del governo in carica. In altre parole: è uno degli ultimi giapponesi di Prodi.
Ma nel dibattito sugli anni '80, nei giorni scorsi, è intervenuto anche Angelo Panebianco. E in modo convincente.
Chi liquida gli anni '80 come «riflusso», perché in quegli anni sono andati scemando certe "passioni" e certi "impegni" politici, è in realtà, pur senza saperlo, un liquidato dalla storia.
Come osserva infatti Panebianco, «i giudizi contrastanti sugli anni Ottanta sono sempre figli di opposti atteggiamenti sul '68 e sul decennio che lo seguì». Quelle passioni politiche - da molti a sinistra rimpiante - che furono spazzate via con l'avanzare degli anni '80, al netto delle buone intenzioni e degli ingenui, delle spinte per i diritti civili e l'apertura dei costumi, non furono che «follie ideologiche», «illegalità diffuse politicamente motivate», «conflittualità selvagge», le quali sfociarono nel terrorismo più violento e sanguinoso che, escludendo i gruppi irredentisti, si sia visto in una democrazia occidentale.
Definire ancora oggi, nostalgicamente, «passioni politiche» quegli estremismi e quelle utopie, significa essere fuori tempo massimo nella comprensione degli eventi, e quindi far parte dei vecchi attrezzi del passato. Chi «fatica a distinguere fra la passione civile, necessario combustibile della democrazia, e le fughe nell'utopia (e dalla ragione), pretende di condannarci a una perenne e frustrante spola fra l'indifferenza per la cosa pubblica e l'estremismo ideologico, con le sue paranoie identitarie».
Tra l'indifferenza e l'ideologia c'è dell'altro: la politica capace di rapportarsi all'individuo.
Gli anni '80 - con il loro individualismo, il benessere, l'affarismo, il consumismo, l'edonismo, la televisione commerciale, la moda e lo spettacolo - hanno contribuito a deideologizzare la nostra società, decretando dal punto di vista ideologico la sconfitta del terrorismo e dell'utopia comunista. Divenne infatti sempre più evidente ciò che anche sul finire degli anni '70 si poteva intuire: che le masse non erano per nulla intenzionate a seguire le "avanguardie rivoluzionarie". Gli anni '80 hanno anzi aiutato ampi strati della popolazione a familiarizzare con il capitalismo e si sono conclusi emblematicamente nel 1989, con il crollo del Muro di Berlino, e nel '91, con il disfacimento dell'Urss.
E' naturalmente limitata a questo singolare aspetto - diciamo agli effetti che i mutamenti economici e culturali degli anni '80 hanno prodotto sulla cultura politica inconscia degli italiani - la "superiorità" di cui si parla nel titolo di questo post. Certo, nemmeno gli anni '80 sono riusciti a curare e a guarire la malattia del "caso Italia": il sistema politico partitocratico, corporativo e clientelare. Per quello ci vuole una "rivoluzione liberale", utopia nonviolenta.
Ma nel dibattito sugli anni '80, nei giorni scorsi, è intervenuto anche Angelo Panebianco. E in modo convincente.
Chi liquida gli anni '80 come «riflusso», perché in quegli anni sono andati scemando certe "passioni" e certi "impegni" politici, è in realtà, pur senza saperlo, un liquidato dalla storia.
Come osserva infatti Panebianco, «i giudizi contrastanti sugli anni Ottanta sono sempre figli di opposti atteggiamenti sul '68 e sul decennio che lo seguì». Quelle passioni politiche - da molti a sinistra rimpiante - che furono spazzate via con l'avanzare degli anni '80, al netto delle buone intenzioni e degli ingenui, delle spinte per i diritti civili e l'apertura dei costumi, non furono che «follie ideologiche», «illegalità diffuse politicamente motivate», «conflittualità selvagge», le quali sfociarono nel terrorismo più violento e sanguinoso che, escludendo i gruppi irredentisti, si sia visto in una democrazia occidentale.
Definire ancora oggi, nostalgicamente, «passioni politiche» quegli estremismi e quelle utopie, significa essere fuori tempo massimo nella comprensione degli eventi, e quindi far parte dei vecchi attrezzi del passato. Chi «fatica a distinguere fra la passione civile, necessario combustibile della democrazia, e le fughe nell'utopia (e dalla ragione), pretende di condannarci a una perenne e frustrante spola fra l'indifferenza per la cosa pubblica e l'estremismo ideologico, con le sue paranoie identitarie».
Tra l'indifferenza e l'ideologia c'è dell'altro: la politica capace di rapportarsi all'individuo.
Gli anni '80 - con il loro individualismo, il benessere, l'affarismo, il consumismo, l'edonismo, la televisione commerciale, la moda e lo spettacolo - hanno contribuito a deideologizzare la nostra società, decretando dal punto di vista ideologico la sconfitta del terrorismo e dell'utopia comunista. Divenne infatti sempre più evidente ciò che anche sul finire degli anni '70 si poteva intuire: che le masse non erano per nulla intenzionate a seguire le "avanguardie rivoluzionarie". Gli anni '80 hanno anzi aiutato ampi strati della popolazione a familiarizzare con il capitalismo e si sono conclusi emblematicamente nel 1989, con il crollo del Muro di Berlino, e nel '91, con il disfacimento dell'Urss.
E' naturalmente limitata a questo singolare aspetto - diciamo agli effetti che i mutamenti economici e culturali degli anni '80 hanno prodotto sulla cultura politica inconscia degli italiani - la "superiorità" di cui si parla nel titolo di questo post. Certo, nemmeno gli anni '80 sono riusciti a curare e a guarire la malattia del "caso Italia": il sistema politico partitocratico, corporativo e clientelare. Per quello ci vuole una "rivoluzione liberale", utopia nonviolenta.
Il Califfato di Oakland
L'incredibile storia del «fornaio della Sharia» (Oakland, California), narrata da Christopher Hitchens, mostra come il politically correct, un malinteso spirito di tolleranza verso le minoranze e le comunità di immigrati, e un incondizionato rispetto per ogni organizzazione di «ispirazione religiosa», finiscano per farci chiudere un occhio davanti ai più conclamati ed efferati criminali. Una vera e propria «licenza di crimine» concessa da un'autorità intimidita, più preoccupata di non passare per "razzista" che di far rispettare le legge.
Nascita di una dittatura annunciata
A chi ha imparato qualche lezione dalla storia del secolo scorso - il secolo delle ideologie - sono bastate le sue prime misure, i primi vertici con altri capi di Stato (da Ahmadinejad a Fidel Castro), ed è stato sufficiente udirne la retorica, per capire che quella che si andava scrivendo in Venezuela era la storia dell'ennesimo dispotismo rivoluzionario «animato da propositi palingenetici di giustizia sociale», come lo ha descritto qualche giorno fa Pierluigi Battista sul Corriere della Sera.
Ogni cosa faceva presagire che sarebbe andata a finire così, con la nascita di una nuova dittatura, la «nuova bandiera di una mitologia rivoluzionaria», un nuovo castrismo che già «elettrizza i cuori dei sempre inappagati turisti della rivoluzione mondiale».
Una modifica alla Costituzione e Chavez si garantirà l'"elezione" a vita, dopo le nazionalizzazioni e l'abrogazione della proprietà privata, dopo aver schiacciato le opposizioni accentrando su di sé potere politico, economico e mediatico.
Ma ovviamente, com'era prevedibile, nessuno sdegno, né nazionale né internazionale, per il golpe di Chavez. Come al solito - come i cubani, per esempio - saranno i venezuelani, consapevoli o meno, le prime vittime delle politiche di Chavez, mentre in Occidente l'immagine di «agitatore antimperialista» gli garantirà «un'atmosfera di indulgenza, di bonaria accondiscendenza, quando non addirittura di adesione alle sue invettive antiamericane».
Ignorati gli allarmi di un intellettuale scomodo, perché liberale, come Mario Vargas Llosa, una mosca bianca tra gli intellettuali anti-imperialisti latino-americani, sempre molto ascoltati. Nessuno che abbia voglia di indagare il perché di questa «maledizione» che condanna l'America Latina a una sorta di eterno ritorno dell'autoritarismo rivoluzionario.
Ogni cosa faceva presagire che sarebbe andata a finire così, con la nascita di una nuova dittatura, la «nuova bandiera di una mitologia rivoluzionaria», un nuovo castrismo che già «elettrizza i cuori dei sempre inappagati turisti della rivoluzione mondiale».
Una modifica alla Costituzione e Chavez si garantirà l'"elezione" a vita, dopo le nazionalizzazioni e l'abrogazione della proprietà privata, dopo aver schiacciato le opposizioni accentrando su di sé potere politico, economico e mediatico.
Ma ovviamente, com'era prevedibile, nessuno sdegno, né nazionale né internazionale, per il golpe di Chavez. Come al solito - come i cubani, per esempio - saranno i venezuelani, consapevoli o meno, le prime vittime delle politiche di Chavez, mentre in Occidente l'immagine di «agitatore antimperialista» gli garantirà «un'atmosfera di indulgenza, di bonaria accondiscendenza, quando non addirittura di adesione alle sue invettive antiamericane».
Ignorati gli allarmi di un intellettuale scomodo, perché liberale, come Mario Vargas Llosa, una mosca bianca tra gli intellettuali anti-imperialisti latino-americani, sempre molto ascoltati. Nessuno che abbia voglia di indagare il perché di questa «maledizione» che condanna l'America Latina a una sorta di eterno ritorno dell'autoritarismo rivoluzionario.
Tuesday, August 14, 2007
Monday, August 13, 2007
Prodi tende la mano ad Hamas per rompere l'isolamento
Le parole di apertura del presidente del Consiglio Prodi nei confronti di Hamas («Hamas esiste. Ma aiutiamolo ad evolversi. Per affrontare il problema mediorientale è indispensabile un dialogo trasparente con tutti») rappresentano un unicum nella politica europea, che quei tagliagole non hanno esitato a capitalizzare politicamente («Apprezziamo molto il ruolo svolto dall'Italia, che anche altre volte ha esortato per un dialogo con il nostro movimento. L'atteggiamento italiano testimonia il desiderio europeo di riconsiderare la sua posizione verso Hamas... il mondo occidentale sta capendo che è stato un errore non trattare con Hamas in passato, e ora noi ci auguriamo che le dichiarazioni del primo ministro italiano vengano ascoltate dall'Unione europea»).
L'apertura di Prodi è grave perché, pur avendo il sapore di un'infelice uscita estemporanea sotto l'ombrellone, rompe in modo unilaterale la posizione concordata a livello europeo su Hamas e sugli ultimi sviluppi della crisi dell'Anp, aggravatasi dopo che il movimento fondamentalista ha preso con la forza il controllo di Gaza espellendo la legittima autorità palestinese.
Giustamente Israele fa notare che qualsiasi apertura agli "estremisti", proprio mentre si sta tessendo un esile filo di trattativa con il "moderato" Mahmoud Abbas, indebolisce l'autorità del presidente palestinese, indebolendo quindi il processo di pace.
Quella di Prodi è un'iniziativa che ci isola in Europa e che infanga il nostro paese. Speriamo che Blair, portavoce del Quartetto, ridicolizzi come si deve il nostro premier.
L'apertura di Prodi è grave perché, pur avendo il sapore di un'infelice uscita estemporanea sotto l'ombrellone, rompe in modo unilaterale la posizione concordata a livello europeo su Hamas e sugli ultimi sviluppi della crisi dell'Anp, aggravatasi dopo che il movimento fondamentalista ha preso con la forza il controllo di Gaza espellendo la legittima autorità palestinese.
Giustamente Israele fa notare che qualsiasi apertura agli "estremisti", proprio mentre si sta tessendo un esile filo di trattativa con il "moderato" Mahmoud Abbas, indebolisce l'autorità del presidente palestinese, indebolendo quindi il processo di pace.
Quella di Prodi è un'iniziativa che ci isola in Europa e che infanga il nostro paese. Speriamo che Blair, portavoce del Quartetto, ridicolizzi come si deve il nostro premier.
Una cosa certa: qualcuno è gravemente incompetente
Si aggrava la posizione del pm Zucca, che nega l'esistenza di un rapporto della polizia sull'omicida, ma sembrerebbe essere smentito dal capo della squadra mobile, che lo ha mostrato ai cronisti. Nelle 67 pagine ci sarebbero le motivazioni in base alle quali la Mobile chiese l'arresto di Luca Delfino dopo le indagini sul primo omicidio: «Gli indizi gravi per l'arresto c'erano e noi li abbiamo forniti alla Procura», ribadisce il poliziotto. Inoltre, la Mobile genovese, a ridosso del 28 aprile 2007, data in cui Delfino inviò il minaccioso sms alla sua vittima scrivendole "Ricordati che giorno è", chiese alla Procura la riapertura delle indagini sul trentenne genovese considerandolo «persona pericolosa».
Ripetiamo che anche escludendo il dolo, e ammesso che siano da escludere gravi negligenze, rimarrebbe comunque il fatto, tragico. Anche per i magistrati e la polizia esiste una responsabilità oggettiva, quella di non essere riusciti a fare bene il proprio lavoro - per aver sottovalutato le prove a carico dell'assassino, oppure per non averne trovate a sufficienza (è comunque loro compito). E' giusto quindi che l'incompetenza dimostrata, in un caso o nell'altro, pesi nel condizionare carriere e stipendi, così come avviene per ciascun professionista, imprenditore e lavoratore.
Ripetiamo che anche escludendo il dolo, e ammesso che siano da escludere gravi negligenze, rimarrebbe comunque il fatto, tragico. Anche per i magistrati e la polizia esiste una responsabilità oggettiva, quella di non essere riusciti a fare bene il proprio lavoro - per aver sottovalutato le prove a carico dell'assassino, oppure per non averne trovate a sufficienza (è comunque loro compito). E' giusto quindi che l'incompetenza dimostrata, in un caso o nell'altro, pesi nel condizionare carriere e stipendi, così come avviene per ciascun professionista, imprenditore e lavoratore.
Sunday, August 12, 2007
Il partito della responsabilità e del merito
L'argomento principe di tutte le ipotesi di rifare la Dc - sogno che da sempre inseguono l'Udc di Casini, l'Udeur di Mastella e altre schegge del mondo cattolico, è il «postulato secondo cui più si è moderati e più si è riformisti, meno si è moderati e più si è ostili alle riforme». Peccato che sia un'affermazione falsa, spiega oggi Luca Ricolfi su La Stampa.
L'immobilismo della politica italiana, che non riesce a dare al paese le risposte che servono in termini di riforme, è senz'altro dovuto ai diversi fattori di blocco rappresentati all'interno di ciascuna delle due coalizioni da partiti estremisti che esercitano un forte potere di ricatto. Tuttavia, la soluzione non va cercata in un partito moderato di centro che faccia da ago della bilancia, cioè restringendo nelle mani di un solo partito tutto il potere di ricatto.
«Se per riforme non intendiamo, semplicemente, senso delle istituzioni e rispetto dell'avversario, ma il coraggio di fare scelte difficili, talora impopolari, in materia di spesa pubblica, mercato del lavoro, grandi opere, federalismo fiscale, liberalizzazioni, pari opportunità, legalità, meritocrazia - insomma tutto quel che serve per rendere il nostro Paese più moderno e più giusto - non possiamo non vedere che questa attitudine politica nulla ha a che fare con l'essere di destra o di sinistra, ma nemmeno con l'essere centristi o estremisti, moderati o radicali. Il nemico numero uno delle riforme scongelatrici del sistema non è il radicalismo in quanto tale ma - semmai - il "partito della spesa" che teme il mercato, detesta il merito e crede che il compito centrale dell'azione politica non sia di far funzionare le istituzioni, eliminare gli sprechi, lasciare l'ossigeno ai produttori di ricchezza ma, tutto al contrario, sia quello di far affluire "risorse" ai propri protetti».
Infatti, non è che l'Udc o l'Udeur si siano particolarmente distinti per coraggio riformatore, su Alitalia, o quando gli statali pretendono più soldi e i forestali della Calabria il posto fisso, o quando le proprie clientele reclamano "risorse". Adesso pare che dopo averle ostacolate per un quinquennio di governo, l'Udc sia favorevole alle liberalizzazioni. Eppure, Ricolfi cita un'inchiesta di Franco Bechis secondo la quale a due terzi della legislatura scorsa, le proposte di legge dell'Udc, se approvate, «sarebbero costate alle casse pubbliche la bellezza di 58 miliardi di euro». Eppure, il federalismo fiscale e le liberalizzazioni (la cosiddetta agenda Giavazzi), osserva, «sono difese innanzitutto da partiti tutt'altro che moderati, come la Lega e i Radicali».
Purtroppo «l'attitudine a sperperare denaro pubblico e la connessa disattenzione per i ceti produttivi» accomuna post-comunisti, ex fascisti e neo-democristiani. «Se di qualcosa di nuovo ha bisogno l'Italia, non è di una nuova Dc, ma nemmeno di operazioni (per ora) puramente cosmetiche come il nascente Partito democratico (Ds più Margherita) o la probabile "risposta" del nascituro Partito della libertà (Forza Italia più An). Il primo guaio dell'Italia non è il potere di veto dei partiti estremisti, ma è la mancanza di chiarezza e di coraggio dei grandi partiti che hanno la responsabilità di guidare il Paese», ma che «non hanno voluto prendersi i propri rischi».
Il guaio è che in Italia siamo convinti che l'identità di un partito sia determinata dal suo nome, dalla tradizione politico-culturale cui si richiama (spesso abusivamente), da concetti astratti come autorità, libertà, giustizia o solidarietà, e più ne ha di altisonanti più ne metta.
Quindi, definire un partito di "centro", "moderato", e richiamarsi ai valori "cattolici", sembra sufficiente per poter attrarre i voti al centro dell'elettorato. Ma quando si dice che le elezioni ormai, nelle democrazie post-ideologiche, si vincono "al centro", non s'intende un luogo, un posizionamento fisico tra due coalizioni, tra due ali estreme, o tra tutti i partiti, per cui le forze politiche fanno a spallatte, fanno esercizi di equilibrismo per farsi vedere posizionati più al centro degli altri, nel senso di "in mezzo".
L'identità di un partito si definisce per le cose che propone di fare al governo del paese. Questo i promotori del Partito democratico, e chi li critica in nome di un non meglio precisato socialismo, come Macaluso e gli autoconvocati di Bertinoro, sembrano ancora non averlo capito, o gli fa comodo fingere per coprire il loro vuoto culturale e progettuale.
Le elezioni si vincono "al centro", ma possono vincerle anche partiti posizionati a destra o a sinistra lungo lo spettro delle forze rappresentate in Parlamento. A patto che si dimostrino capaci di riconoscere il valore sociale della responsabilità individuale e della ricerca del successo personale come migliori strumenti del successo collettivo della nazione, e di decidere e governare rispondendo alle esigenze dei ceti medi e produttivi, di quel centro pragmatico dell'elettorato per il quale non importa definire se una politica sia "di destra" o "di sinistra", basta che funzioni, che generi benessere e dinamismo. Blair, da sinistra, è stato in grado di farlo senza appoggiarsi a partiti di centro, e poco importa sapere se sia socialista o meno. Di certo non è stato moderato.
Il nostro problema, conclude Ricolfi, è che «sia a destra che a sinistra il partito della spesa è più forte del partito del mercato, sia a destra che a sinistra il merito e la responsabilità individuale non contano, sia a destra che a sinistra l'imperativo categorico non è fare le riforme ma impedire agli altri di governare, o di tornare al governo. Come molti italiani, neanch'io credo che il nostro Paese abbia bisogno di un ennesimo partito. Ma se c'è un partito che manca, nel firmamento della politica italiana, non è il partito dei moderati ma, semmai, il partito della responsabilità e del merito. Un partito che non c'è, che probabilmente non ci sarà mai, ma che - se ci fosse - sarebbe radicale. Molto radicale».
L'immobilismo della politica italiana, che non riesce a dare al paese le risposte che servono in termini di riforme, è senz'altro dovuto ai diversi fattori di blocco rappresentati all'interno di ciascuna delle due coalizioni da partiti estremisti che esercitano un forte potere di ricatto. Tuttavia, la soluzione non va cercata in un partito moderato di centro che faccia da ago della bilancia, cioè restringendo nelle mani di un solo partito tutto il potere di ricatto.
«Se per riforme non intendiamo, semplicemente, senso delle istituzioni e rispetto dell'avversario, ma il coraggio di fare scelte difficili, talora impopolari, in materia di spesa pubblica, mercato del lavoro, grandi opere, federalismo fiscale, liberalizzazioni, pari opportunità, legalità, meritocrazia - insomma tutto quel che serve per rendere il nostro Paese più moderno e più giusto - non possiamo non vedere che questa attitudine politica nulla ha a che fare con l'essere di destra o di sinistra, ma nemmeno con l'essere centristi o estremisti, moderati o radicali. Il nemico numero uno delle riforme scongelatrici del sistema non è il radicalismo in quanto tale ma - semmai - il "partito della spesa" che teme il mercato, detesta il merito e crede che il compito centrale dell'azione politica non sia di far funzionare le istituzioni, eliminare gli sprechi, lasciare l'ossigeno ai produttori di ricchezza ma, tutto al contrario, sia quello di far affluire "risorse" ai propri protetti».
Infatti, non è che l'Udc o l'Udeur si siano particolarmente distinti per coraggio riformatore, su Alitalia, o quando gli statali pretendono più soldi e i forestali della Calabria il posto fisso, o quando le proprie clientele reclamano "risorse". Adesso pare che dopo averle ostacolate per un quinquennio di governo, l'Udc sia favorevole alle liberalizzazioni. Eppure, Ricolfi cita un'inchiesta di Franco Bechis secondo la quale a due terzi della legislatura scorsa, le proposte di legge dell'Udc, se approvate, «sarebbero costate alle casse pubbliche la bellezza di 58 miliardi di euro». Eppure, il federalismo fiscale e le liberalizzazioni (la cosiddetta agenda Giavazzi), osserva, «sono difese innanzitutto da partiti tutt'altro che moderati, come la Lega e i Radicali».
Purtroppo «l'attitudine a sperperare denaro pubblico e la connessa disattenzione per i ceti produttivi» accomuna post-comunisti, ex fascisti e neo-democristiani. «Se di qualcosa di nuovo ha bisogno l'Italia, non è di una nuova Dc, ma nemmeno di operazioni (per ora) puramente cosmetiche come il nascente Partito democratico (Ds più Margherita) o la probabile "risposta" del nascituro Partito della libertà (Forza Italia più An). Il primo guaio dell'Italia non è il potere di veto dei partiti estremisti, ma è la mancanza di chiarezza e di coraggio dei grandi partiti che hanno la responsabilità di guidare il Paese», ma che «non hanno voluto prendersi i propri rischi».
Il guaio è che in Italia siamo convinti che l'identità di un partito sia determinata dal suo nome, dalla tradizione politico-culturale cui si richiama (spesso abusivamente), da concetti astratti come autorità, libertà, giustizia o solidarietà, e più ne ha di altisonanti più ne metta.
Quindi, definire un partito di "centro", "moderato", e richiamarsi ai valori "cattolici", sembra sufficiente per poter attrarre i voti al centro dell'elettorato. Ma quando si dice che le elezioni ormai, nelle democrazie post-ideologiche, si vincono "al centro", non s'intende un luogo, un posizionamento fisico tra due coalizioni, tra due ali estreme, o tra tutti i partiti, per cui le forze politiche fanno a spallatte, fanno esercizi di equilibrismo per farsi vedere posizionati più al centro degli altri, nel senso di "in mezzo".
L'identità di un partito si definisce per le cose che propone di fare al governo del paese. Questo i promotori del Partito democratico, e chi li critica in nome di un non meglio precisato socialismo, come Macaluso e gli autoconvocati di Bertinoro, sembrano ancora non averlo capito, o gli fa comodo fingere per coprire il loro vuoto culturale e progettuale.
Le elezioni si vincono "al centro", ma possono vincerle anche partiti posizionati a destra o a sinistra lungo lo spettro delle forze rappresentate in Parlamento. A patto che si dimostrino capaci di riconoscere il valore sociale della responsabilità individuale e della ricerca del successo personale come migliori strumenti del successo collettivo della nazione, e di decidere e governare rispondendo alle esigenze dei ceti medi e produttivi, di quel centro pragmatico dell'elettorato per il quale non importa definire se una politica sia "di destra" o "di sinistra", basta che funzioni, che generi benessere e dinamismo. Blair, da sinistra, è stato in grado di farlo senza appoggiarsi a partiti di centro, e poco importa sapere se sia socialista o meno. Di certo non è stato moderato.
Il nostro problema, conclude Ricolfi, è che «sia a destra che a sinistra il partito della spesa è più forte del partito del mercato, sia a destra che a sinistra il merito e la responsabilità individuale non contano, sia a destra che a sinistra l'imperativo categorico non è fare le riforme ma impedire agli altri di governare, o di tornare al governo. Come molti italiani, neanch'io credo che il nostro Paese abbia bisogno di un ennesimo partito. Ma se c'è un partito che manca, nel firmamento della politica italiana, non è il partito dei moderati ma, semmai, il partito della responsabilità e del merito. Un partito che non c'è, che probabilmente non ci sarà mai, ma che - se ci fosse - sarebbe radicale. Molto radicale».
Università. I soliti confronti impietosi
Secondo la classifica stilata dall'Institute of Higher Education della Shangai Jiao Tong University, le università americane sono le migliori del mondo. Al primo posto si piazza la Harvard University, seguita dalle californiane Stanford e Berkley. Uniche intruse europee nella top ten sono le università inglesi di Cambridge e Oxford, rispettivamente quarta e decima. La prima asiatica in lista è l'Università di Tokyo, ventesima. Tra la posizione 102 e 150 si situano le prime italiane: la "Statale" di Milano, l'Università di Pisa, "La Sapienza" di Roma.
Ma come ci è capitato più volte di sottolineare, a questi dati, sull'eccellenza della ricerca e della didattica, vanno affiancati quelli del dinamismo, della mobilità sociale, delle opportunità e quindi dell'equità che i diversi sistemi universitari assicurano. Ebbene, le università americane e inglesi, rispetto a quelle italiane, garantiscono ai propri studenti primi stipendi enormemente più elevati. I costi anche alti sostenuti per le rette si rivelano dunque ottimi investimenti. Più elevata, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, è anche la possibilità che i ragazzi meno abbienti concludano i loro studi universitari e non si trovino a fare gli stessi lavori dei genitori.
Ma come ci è capitato più volte di sottolineare, a questi dati, sull'eccellenza della ricerca e della didattica, vanno affiancati quelli del dinamismo, della mobilità sociale, delle opportunità e quindi dell'equità che i diversi sistemi universitari assicurano. Ebbene, le università americane e inglesi, rispetto a quelle italiane, garantiscono ai propri studenti primi stipendi enormemente più elevati. I costi anche alti sostenuti per le rette si rivelano dunque ottimi investimenti. Più elevata, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, è anche la possibilità che i ragazzi meno abbienti concludano i loro studi universitari e non si trovino a fare gli stessi lavori dei genitori.
The Untouchables
Un'altra casta, quella dei magistrati. Tra i più intoccabili e irresponsabili della nostra società. Alti stipendi e carriere automatiche fino ai vertici, senza alcun controllo di produttività o capacità. Eppure, un modo molto semplice ci sarebbe: separazione delle carriere e stipendi legati alle cause vinte.
Anche la responsabilità civile dei magistrati, che i cittadini italiani votarono in massa nel 1987 (referendum "Tortora") non si sa che fine abbia fatto. Nonostante tutti i milioni e milioni di processi che si sono svolti da allora a oggi quante volte è scattata quella norma? Non se ne hanno notizie. I magistrati di fatto non hanno un datore di lavoro che controlli il loro operato e sanzioni gli errori.
Premesso questo, i fatti di oggi. Un ragazzo di trent'anni, indagato per l'omicidio della sua ex, girava a piede libero e ha potuto uccidere un'altra ragazza. Non siamo in grado di affermare se il pm, scarcerandolo, abbia commesso un errore. Può benissimo darsi che effettivamente non ci fossero le prove sufficienti per trattenerlo in custodia cautelare. Ma ci chiediamo: chi avrebbe dovuto cercarle quelle prove - che evidentemente dovevano pur esserci - invece di andarsene in vacanza? O per lo meno disporne il pedinamento? Ci pare difficile comunque che il pm possa declinare ogni responsabilità. Così come i carabinieri, cui erano stati presentati esposti e denunce sulle violenze subite dalla seconda ragazza prima di venire uccisa.
Escluso il dolo, e ammesso che sia da escludere anche la negligenza per far scattare la responsabilità civile, rimarrebbe comunque il fatto, tragico: lo sbaglio. Che è giusto che pesi nel condizionare carriere e stipendi, così come avviene per ciascun professionista, imprenditore e lavoratore.
Le indagini disposte dal ministro Mastella sono il minimo disturbo, ma c'è da scomettere che si concluderanno con un nulla di fatto e passato il clamore nessuno se ne ricorderà più.
Anche la responsabilità civile dei magistrati, che i cittadini italiani votarono in massa nel 1987 (referendum "Tortora") non si sa che fine abbia fatto. Nonostante tutti i milioni e milioni di processi che si sono svolti da allora a oggi quante volte è scattata quella norma? Non se ne hanno notizie. I magistrati di fatto non hanno un datore di lavoro che controlli il loro operato e sanzioni gli errori.
Premesso questo, i fatti di oggi. Un ragazzo di trent'anni, indagato per l'omicidio della sua ex, girava a piede libero e ha potuto uccidere un'altra ragazza. Non siamo in grado di affermare se il pm, scarcerandolo, abbia commesso un errore. Può benissimo darsi che effettivamente non ci fossero le prove sufficienti per trattenerlo in custodia cautelare. Ma ci chiediamo: chi avrebbe dovuto cercarle quelle prove - che evidentemente dovevano pur esserci - invece di andarsene in vacanza? O per lo meno disporne il pedinamento? Ci pare difficile comunque che il pm possa declinare ogni responsabilità. Così come i carabinieri, cui erano stati presentati esposti e denunce sulle violenze subite dalla seconda ragazza prima di venire uccisa.
Escluso il dolo, e ammesso che sia da escludere anche la negligenza per far scattare la responsabilità civile, rimarrebbe comunque il fatto, tragico: lo sbaglio. Che è giusto che pesi nel condizionare carriere e stipendi, così come avviene per ciascun professionista, imprenditore e lavoratore.
Le indagini disposte dal ministro Mastella sono il minimo disturbo, ma c'è da scomettere che si concluderanno con un nulla di fatto e passato il clamore nessuno se ne ricorderà più.
Friday, August 10, 2007
Caro-benzina. Tra le chiacchiere una proposta concreta
«L'incontro è stato un flop», sentenziano le associazioni dei consumatori. Il ministro Bersani ripete che le tasse non c'entrano (ma in ogni caso, perché pagare ancora le tasse per la guerra in Abissinia, per la missione in Libano dell'82 e per ricostruzioni post-terremoti mai eseguite?). Per far abbassare i prezzi dei carburanti per auto basterebbero la riforma strutturale della distribuzione, che però non si sa che fine abbia fatto, e più trasparenza sui prezzi (non è chiaro come). Non c'è bisogno nemmeno di intervenire con decreto sulla «sterilizzazione dell'Iva», come proposto da Visco. A settembre ci penserà il Parlamento (c'è da fidarsi?).
Quindi, finora la rituale polemica estiva sui prezzi dei carburanti non ha prodotto altro che generici appelli alla responsabilità dei petrolieri e ipotesi, evocate da esponenti di governo, sulle quali regna la totale incertezza e che comunque appaiono insufficienti.
Se c'è una cosa, invece, che i rincari hanno avuto il merito di far venire alla luce è proprio l'enormità del prelievo fiscale, che Bersani si ostina a negare.
Nel dibattito, che rischia di chiudersi senza che s'intravedano sbocchi risolutivi, sono intervenuti oggi Decidere.net e l'Istituto Bruno Leoni, avanzando una proposta concreta: il taglio delle accise su benzina e gasolio, fino a portare il prelievo rispettivamente a 0,359 centesimi per litro (contro gli attuali 0,564) e a 0,302 centesimi per litro (contro gli attuali 0,423).
Tale diminuzione delle tasse - fino al livello minimo consentito dall'Unione europea - porterebbe un risparmio di 12,3 euro per pieno di benzina e di 7,3 euro per pieno di gasolio. In altre parole, con gli stessi 100 euro si acquisterebbero 91 litri di benzina invece degli attuali 74 e 97 litri di gasolio invece degli attuali 87.
Tutti i dati, e i commenti di Daniele Capezzone e Carlo Stagnaro, in questo documento: scarica (formato pdf.).
Video della conferenza stampa di Capezzone (Fonte: RadioRadicale.it).
Quindi, finora la rituale polemica estiva sui prezzi dei carburanti non ha prodotto altro che generici appelli alla responsabilità dei petrolieri e ipotesi, evocate da esponenti di governo, sulle quali regna la totale incertezza e che comunque appaiono insufficienti.
Se c'è una cosa, invece, che i rincari hanno avuto il merito di far venire alla luce è proprio l'enormità del prelievo fiscale, che Bersani si ostina a negare.
Nel dibattito, che rischia di chiudersi senza che s'intravedano sbocchi risolutivi, sono intervenuti oggi Decidere.net e l'Istituto Bruno Leoni, avanzando una proposta concreta: il taglio delle accise su benzina e gasolio, fino a portare il prelievo rispettivamente a 0,359 centesimi per litro (contro gli attuali 0,564) e a 0,302 centesimi per litro (contro gli attuali 0,423).
Tale diminuzione delle tasse - fino al livello minimo consentito dall'Unione europea - porterebbe un risparmio di 12,3 euro per pieno di benzina e di 7,3 euro per pieno di gasolio. In altre parole, con gli stessi 100 euro si acquisterebbero 91 litri di benzina invece degli attuali 74 e 97 litri di gasolio invece degli attuali 87.
Tutti i dati, e i commenti di Daniele Capezzone e Carlo Stagnaro, in questo documento: scarica (formato pdf.).
Video della conferenza stampa di Capezzone (Fonte: RadioRadicale.it).
Colpirne uno famoso per educarne milioni
"Non dire gatto se non ce l'hai nel sacco". E Valentino Rossi nel sacco ancora non ci sta. Aspetterei a titolare Valentino «incastrato», come ha fatto oggi Corriere.it. Perché queste vicende fiscali sono complesse, si trascinano per anni e anni, spesso concludendosi con un nulla di fatto o sfumando in una conciliazione al ribasso. Ok, pare che Valentino tenesse molti dei suoi beni di lusso in Italia, vicino casa, e che lì trascorresse molti giorni all'anno, ma è tutt'altro che facile - anche alla luce della sua movimentata vita da campione e da vip - dimostrare che non sia effettivamente residente in Gran Bretagna e definire il confine oltrepassato il quale l'esercizio della sua libertà di movimento nega di fatto la residenza formale. Ed è ragionevole supporre che si sia affidato a studi competenti in materia di diritto tributario e spostamenti di capitale.
In realtà gli Stati - ancora di più quelli europei grazie alla libera circolazione dei cittadini - hanno ben pochi strumenti per difendersi dalla concorrenza fiscale dei loro vicini, se non quello di ridurre a loro volta le aliquote. Se non lo fanno, non gli rimane che ricorrere a lunghi accertamenti e affrontare costose dispute legali dall'esito incerto e spesso sfavorevole.
Ma forse, in questo come in molti altri casi simili, l'obiettivo dell'Agenzie delle Entrate è... come dire, semplicemente dimostrativo. Qui pensiamo che abbia visto giusto Oscar Giannino: al fisco piace perseguitare sportivi, personaggi dello spettacolo, in generale del cosiddetto "star system", perché non c'è rischio di pestare i piedi a qualche milionario esponente dei "poteri forti". Inoltre, nei confronti dei "vip", spesso scatta nell'uomo comune un sentimento di invidia sociale, di rivalsa: scandalizzano il campione, o la "star", che non si accontentano dei tanti milioni di euro che guadagnano e sentono comunque il bisogno di evadere, o aggirare il fisco. Non suscitano nessuna simpatia né comprensione presso l'opinione pubblica, che, una volta beccati, reagisce come se sulla loro pelle tutto il paese recuperasse all'improvviso il senso civico.
E nel frattempo, a prescindere da come finirà, molti anni dopo, il contenzioso legale, i media avranno contribuito a rappresentare al pubblico l'immagine di un fisco cui nessuno può sfuggire.
Ebbene, invece allo "Stato predatore" bisognerebbe resistere e chi può farlo è bene che indichi il buon esempio.
Se Londra è la capitale europea dei capitali, ci sarà pure un motivo.
In realtà gli Stati - ancora di più quelli europei grazie alla libera circolazione dei cittadini - hanno ben pochi strumenti per difendersi dalla concorrenza fiscale dei loro vicini, se non quello di ridurre a loro volta le aliquote. Se non lo fanno, non gli rimane che ricorrere a lunghi accertamenti e affrontare costose dispute legali dall'esito incerto e spesso sfavorevole.
Ma forse, in questo come in molti altri casi simili, l'obiettivo dell'Agenzie delle Entrate è... come dire, semplicemente dimostrativo. Qui pensiamo che abbia visto giusto Oscar Giannino: al fisco piace perseguitare sportivi, personaggi dello spettacolo, in generale del cosiddetto "star system", perché non c'è rischio di pestare i piedi a qualche milionario esponente dei "poteri forti". Inoltre, nei confronti dei "vip", spesso scatta nell'uomo comune un sentimento di invidia sociale, di rivalsa: scandalizzano il campione, o la "star", che non si accontentano dei tanti milioni di euro che guadagnano e sentono comunque il bisogno di evadere, o aggirare il fisco. Non suscitano nessuna simpatia né comprensione presso l'opinione pubblica, che, una volta beccati, reagisce come se sulla loro pelle tutto il paese recuperasse all'improvviso il senso civico.
E nel frattempo, a prescindere da come finirà, molti anni dopo, il contenzioso legale, i media avranno contribuito a rappresentare al pubblico l'immagine di un fisco cui nessuno può sfuggire.
Ebbene, invece allo "Stato predatore" bisognerebbe resistere e chi può farlo è bene che indichi il buon esempio.
Se Londra è la capitale europea dei capitali, ci sarà pure un motivo.
Thursday, August 09, 2007
Due vigliacchi, uno da una parte e uno dall'altra
Due metà della stessa mela marcia. Perfetta fotografia della politica (e della società) italiana. Due estremisti da cui gli alleati delle rispettive coalizioni oggi si dissoceranno con forza, per tornare domani a subirne i ricatti pur di rimanere al potere o tentare di riconquistarlo.
«Tiziano Treu e Marco Biagi sono assassini», dichiara Francesco Caruso, il deputato no global di Rifondazione comunista. Li incolpa della morte sul lavoro di due giovani, sostenendo che «le loro leggi hanno armato le mani dei padroni, per permettere loro di precarizzare e sfruttare con maggior intensità la forza-lavoro e incrementare in tal modo i loro profitti, a discapito della qualità e della sicurezza del lavoro».
«Pulizia etnica contro i culattoni», grida l'ex sindaco di Treviso, oggi vicesindaco, Giancarlo Gentilini, della Lega Nord. «Darò subito disposizioni alla mia comandante [dei vigili urbani], affinché faccia pulizia etnica dei culattoni», ha detto ai microfoni di Rete Veneta, come riportato anche dai quotidiani locali. «Devono andare in altri capoluoghi di regione che sono disposti ad accoglierli. Qui a Treviso non c'è nessuna possibilità per culattoni e simili».
Vedete? Miracoli di una legge elettorale proporzionale, dove a fare le liste sono i partiti. Sfido chiunque a trovarmi un collegio uninominale in cui questi due loschi figuri avrebbero qualche chance di essere rieletti.
In una situazione del genere, con le attuali coalizioni veri e propri verminai dove prosperano vecchie ideologie fallite da cui persino le anime più aperte, moderne e innovatrici non riescono a liberarsi, non serve rilanciare la panacea di un "grande centro", ma un sistema elettorale che restituisca in mano ai cittadini la scelta sul singolo individuo da eleggere come rappresentante.
Ha veramente senso parlare ancora di "destra" e di "sinistra"? Cos'è "di destra" e cosa "di sinistra" in una società post-ideologica? In un sistema politico democratico, e non bloccato, oligarchico e corporativo, vincono le elezioni coloro che mostrano di saper decidere e governare rispondendo alle esigenze dei ceti medi e produttivi, di quel "centro" pragmatico dell'elettorato per il quale non importa definire se una politica sia "di destra" o "di sinistra", basta che funzioni, che generi benessere e dinamismo.
Stare lì con il bilancino a soppesare ogni dichiarazione, per cercare di stabilire se da liberali si possa soffrire di meno da una parte o dall'altra è tempo sprecato. Faranno prima quelli ad evolvere in qualcosa di simile a Blair, o gli altri a diventare dei Rudolph Giuliani? Sembrano comunque orizzonti piuttosto lontani. E allora è meglio concentrarsi sui contenuti, laicamente, cercare di aggregare forze sulle proposte concrete, vedere chi ci sta, chi accetta di impegnarsi sul serio: Lib-, né di destra, né di centro, né di sinistra, «laicità come estraneità dalla logica delle costruzioni ideologiche. Non solo anticlericalismo, dunque (...) i liberali non sono di sinistra, non sono di destra e non sono di centro. Possono trovarsi a sinistra, a destra o al centro, ma solo a volerceli vedere, cioè ad avere gli occhi che guardano ancora dall'interno di quelle costruzioni ideologiche».
«Tiziano Treu e Marco Biagi sono assassini», dichiara Francesco Caruso, il deputato no global di Rifondazione comunista. Li incolpa della morte sul lavoro di due giovani, sostenendo che «le loro leggi hanno armato le mani dei padroni, per permettere loro di precarizzare e sfruttare con maggior intensità la forza-lavoro e incrementare in tal modo i loro profitti, a discapito della qualità e della sicurezza del lavoro».
«Pulizia etnica contro i culattoni», grida l'ex sindaco di Treviso, oggi vicesindaco, Giancarlo Gentilini, della Lega Nord. «Darò subito disposizioni alla mia comandante [dei vigili urbani], affinché faccia pulizia etnica dei culattoni», ha detto ai microfoni di Rete Veneta, come riportato anche dai quotidiani locali. «Devono andare in altri capoluoghi di regione che sono disposti ad accoglierli. Qui a Treviso non c'è nessuna possibilità per culattoni e simili».
Vedete? Miracoli di una legge elettorale proporzionale, dove a fare le liste sono i partiti. Sfido chiunque a trovarmi un collegio uninominale in cui questi due loschi figuri avrebbero qualche chance di essere rieletti.
In una situazione del genere, con le attuali coalizioni veri e propri verminai dove prosperano vecchie ideologie fallite da cui persino le anime più aperte, moderne e innovatrici non riescono a liberarsi, non serve rilanciare la panacea di un "grande centro", ma un sistema elettorale che restituisca in mano ai cittadini la scelta sul singolo individuo da eleggere come rappresentante.
Ha veramente senso parlare ancora di "destra" e di "sinistra"? Cos'è "di destra" e cosa "di sinistra" in una società post-ideologica? In un sistema politico democratico, e non bloccato, oligarchico e corporativo, vincono le elezioni coloro che mostrano di saper decidere e governare rispondendo alle esigenze dei ceti medi e produttivi, di quel "centro" pragmatico dell'elettorato per il quale non importa definire se una politica sia "di destra" o "di sinistra", basta che funzioni, che generi benessere e dinamismo.
Stare lì con il bilancino a soppesare ogni dichiarazione, per cercare di stabilire se da liberali si possa soffrire di meno da una parte o dall'altra è tempo sprecato. Faranno prima quelli ad evolvere in qualcosa di simile a Blair, o gli altri a diventare dei Rudolph Giuliani? Sembrano comunque orizzonti piuttosto lontani. E allora è meglio concentrarsi sui contenuti, laicamente, cercare di aggregare forze sulle proposte concrete, vedere chi ci sta, chi accetta di impegnarsi sul serio: Lib-, né di destra, né di centro, né di sinistra, «laicità come estraneità dalla logica delle costruzioni ideologiche. Non solo anticlericalismo, dunque (...) i liberali non sono di sinistra, non sono di destra e non sono di centro. Possono trovarsi a sinistra, a destra o al centro, ma solo a volerceli vedere, cioè ad avere gli occhi che guardano ancora dall'interno di quelle costruzioni ideologiche».
Bonino, che amarezza...
Con estrema delusione bisogna constatare le difficoltà di Emma Bonino nel recitare allo stesso tempo il ruolo di ministro del commercio internazionale e di promotrice della democrazia, almeno dalla postazione di governo che si è conquistata.
E' vero quanto dice al Sole 24 Ore, che «non ci sono soluzioni miracolistiche», e che insieme ai beni circolano «anche persone e idee». Gli oggetti hanno in sé una potente carica culturale. Ma attenzione: in Iran stiamo vendendo iPod, cosicché uomini e donne iraniane possano scaricare da internet musica e informazione dall'esterno del loro paese? Oppure altri beni di consumo, come borse di Gucci e Versace? Non stiamo invece, come Europa e come Italia, concedendo crediti bancari e vendendo tecnologia e macchinari pesanti alle industrie di stato iraniane? Quanti sono i programmi di aiuti nella costruzione di infrastrutture che la Farnesina ha in piedi con Teheran?
In Iran, come ha scritto giorni fa Amir Taheri, in queste settimane il regime ha scatenato la più vasta ondata di terrore e repressione dai primi anni '80. Nessuno ha mai parlato di «chiudere i rubinetti» con l'Iran, la Cina o la Russia. Ma qualcuno, e i radicali sono (o erano?) tra questi, ha sempre affermato che il commercio può essere usato come arma di pressione nei confronti delle dittature. Anche loro sono dipendenti da noi, forse anche di più. Se vogliono tecnologia e macchinari europei, gli si potrebbe chiedere di non bloccare i siti internet.
Per non parlare della Cina, della grande opportunità, che l'Occidente sta sprecando, di esercitare un'azione di pressione coordinata per ottenere, con l'avvicinarsi delle Olimpiadi di Pechino, nel 2008, qualche apertura, per esempio per quanto riguarda libertà d'espressione e accesso all'informazione.
E' vero quanto dice al Sole 24 Ore, che «non ci sono soluzioni miracolistiche», e che insieme ai beni circolano «anche persone e idee». Gli oggetti hanno in sé una potente carica culturale. Ma attenzione: in Iran stiamo vendendo iPod, cosicché uomini e donne iraniane possano scaricare da internet musica e informazione dall'esterno del loro paese? Oppure altri beni di consumo, come borse di Gucci e Versace? Non stiamo invece, come Europa e come Italia, concedendo crediti bancari e vendendo tecnologia e macchinari pesanti alle industrie di stato iraniane? Quanti sono i programmi di aiuti nella costruzione di infrastrutture che la Farnesina ha in piedi con Teheran?
In Iran, come ha scritto giorni fa Amir Taheri, in queste settimane il regime ha scatenato la più vasta ondata di terrore e repressione dai primi anni '80. Nessuno ha mai parlato di «chiudere i rubinetti» con l'Iran, la Cina o la Russia. Ma qualcuno, e i radicali sono (o erano?) tra questi, ha sempre affermato che il commercio può essere usato come arma di pressione nei confronti delle dittature. Anche loro sono dipendenti da noi, forse anche di più. Se vogliono tecnologia e macchinari europei, gli si potrebbe chiedere di non bloccare i siti internet.
Per non parlare della Cina, della grande opportunità, che l'Occidente sta sprecando, di esercitare un'azione di pressione coordinata per ottenere, con l'avvicinarsi delle Olimpiadi di Pechino, nel 2008, qualche apertura, per esempio per quanto riguarda libertà d'espressione e accesso all'informazione.
C'è anche chi ha le carte in regola
Ha ragione Enzo Bettiza quando smaschera il riflesso un po' sospetto di molti dei critici, oggi, della Cina.
«... sarà bene ricordare gli osanna che quarant'anni orsono, ai tempi del libretto rosso e del maoismo ruggente, si levavano dagli stessi ambienti progressisti che oggi denigrano la Cina solo perché non è più la Cina povera e terrorizzata delle "formiche blu" di allora. La Cina dei grandi balzi nella morte, quella che imitava in termini esponenziali asiatici le collettivizzazioni sovietiche, che falcidiava nelle carestie programmate decine di milioni di contadini espropriati, che incitava le guardie rosse imberbi a calpestare Confucio e trascinare nel fango i maestri anziani, non mi pare avesse mai suscitato in Europa lo stesso furor critico che invece attualmente suscitano Pechino e Shanghai inquinate dal capitalismo e dallo smog».
E i quattro giornalisti di Reporters sans frontières che si sono esibiti nei giorni scorsi, forse, «in altri tempi, chissà, avrebbero magari inneggiato alla democrazia totale della rivoluzione maoista».
Tuttavia, ci sono quei pochi liberali che hanno la credibilità e tutte le carte in regola per lottare ancora per la democrazia e i diritti umani in Cina, nonostante... anzi, forse proprio perché i progressi sul fronte economico non manchino di produrre anche quelli sul fronte politico. Se la Cina non è certo più lo «squallore uniforme e orwelliano» dei decenni passati, è anche vero che Piazza Tienanmen è ancora troppo vicina e che proprio di fronte al boom di oggi vale ancora di più la pena di criticare e spingere con maggiore determinazione.
«... sarà bene ricordare gli osanna che quarant'anni orsono, ai tempi del libretto rosso e del maoismo ruggente, si levavano dagli stessi ambienti progressisti che oggi denigrano la Cina solo perché non è più la Cina povera e terrorizzata delle "formiche blu" di allora. La Cina dei grandi balzi nella morte, quella che imitava in termini esponenziali asiatici le collettivizzazioni sovietiche, che falcidiava nelle carestie programmate decine di milioni di contadini espropriati, che incitava le guardie rosse imberbi a calpestare Confucio e trascinare nel fango i maestri anziani, non mi pare avesse mai suscitato in Europa lo stesso furor critico che invece attualmente suscitano Pechino e Shanghai inquinate dal capitalismo e dallo smog».
E i quattro giornalisti di Reporters sans frontières che si sono esibiti nei giorni scorsi, forse, «in altri tempi, chissà, avrebbero magari inneggiato alla democrazia totale della rivoluzione maoista».
Tuttavia, ci sono quei pochi liberali che hanno la credibilità e tutte le carte in regola per lottare ancora per la democrazia e i diritti umani in Cina, nonostante... anzi, forse proprio perché i progressi sul fronte economico non manchino di produrre anche quelli sul fronte politico. Se la Cina non è certo più lo «squallore uniforme e orwelliano» dei decenni passati, è anche vero che Piazza Tienanmen è ancora troppo vicina e che proprio di fronte al boom di oggi vale ancora di più la pena di criticare e spingere con maggiore determinazione.
Wednesday, August 08, 2007
Accuse di cui andar fieri
Mentre aumentano in Iraq gli attacchi contro le forze americane in cui vengono utilizzati ordigni di fabbricazione iraniana, Teheran, per mezzo del ministro dell'Intelligence, Gholamhossein Mohseni-Ejei, accusa gli Stati Uniti di pianificare una «rivoluzione di velluto». I piani per un regime change, sostengono le stesse autorità iraniane, avrebbero sostituito quelli di raid militari.
L'esponente del governo la gira a favore del regime: gli Usa avevano messo a punto una «guerriglia psicologica» per preparare il terreno a una azione militare, ma «la resistenza della nazione iraniana durante gli otto anni della guerra santa contro l'Iraq e la sconfitta dei nemici in Medio Oriente hanno fatto in modo che l'arroganza globale accantonasse l'opzione di un attacco militare».
«Primo elemento» dell'offensiva americana ora sarebbe «la creazione di fratture e divisioni tra le forze della rivoluzione». Washington cercherebbe di infiltrare nel governo «alcuni elementi su cui può contare».
Ecco, quando un'accusa simile verrà rivolta all'Europa, allora vorrà dire che avremo iniziato a fare davvero qualcosa per la democrazia e diritti umani degli iraniani.
L'esponente del governo la gira a favore del regime: gli Usa avevano messo a punto una «guerriglia psicologica» per preparare il terreno a una azione militare, ma «la resistenza della nazione iraniana durante gli otto anni della guerra santa contro l'Iraq e la sconfitta dei nemici in Medio Oriente hanno fatto in modo che l'arroganza globale accantonasse l'opzione di un attacco militare».
«Primo elemento» dell'offensiva americana ora sarebbe «la creazione di fratture e divisioni tra le forze della rivoluzione». Washington cercherebbe di infiltrare nel governo «alcuni elementi su cui può contare».
Ecco, quando un'accusa simile verrà rivolta all'Europa, allora vorrà dire che avremo iniziato a fare davvero qualcosa per la democrazia e diritti umani degli iraniani.
Caro-benzina. E' lo Stato che fa cartello
La mossa, cui ricorrono tutti i governi almeno una volta, di far sfilare i rappresentanti delle compagnie petrolifere a Palazzo Chigi ha l'obiettivo di far apparire tra i "cattivi" i petrolieri avidi di profitti e "buono" il governo che cerca di indurli a calmierare i prezzi.
Piuttosto, il Governo convochi se stesso, dicevamo giorni fa. E lo ha scritto anche Oscar Giannino, su Libero. Il governo dovrebbe autoconvocarsi, perché rispetto all'aumento del prezzo della benzina è in evidente conflitto di interessi.
Come possiamo fidarci noi consumatori, se quasi il 70% di ciò che paghiamo alla pompa finisce nelle tasche di chi promette di adoperarsi per abbassare i prezzi? Sorge il dubbio che nel chiuso delle stanze governative si gioisca ad ogni aumento per il gettito extra che entra nelle casse del Tesoro. Sorprende che le associazioni consumatori cadano nel gioco delle tre carte e sorprende ancor di più il silenzio dei petrolieri, cui sembra non importare di passare per i "cattivi" della situazione e che chiamano in causa solo la rete di distribuzione. L'Antitrust dovrebbe quindi indagare sull'acclarato cartello Stato-Compagnie petrolifere.
Piuttosto, il Governo convochi se stesso, dicevamo giorni fa. E lo ha scritto anche Oscar Giannino, su Libero. Il governo dovrebbe autoconvocarsi, perché rispetto all'aumento del prezzo della benzina è in evidente conflitto di interessi.
Come possiamo fidarci noi consumatori, se quasi il 70% di ciò che paghiamo alla pompa finisce nelle tasche di chi promette di adoperarsi per abbassare i prezzi? Sorge il dubbio che nel chiuso delle stanze governative si gioisca ad ogni aumento per il gettito extra che entra nelle casse del Tesoro. Sorprende che le associazioni consumatori cadano nel gioco delle tre carte e sorprende ancor di più il silenzio dei petrolieri, cui sembra non importare di passare per i "cattivi" della situazione e che chiamano in causa solo la rete di distribuzione. L'Antitrust dovrebbe quindi indagare sull'acclarato cartello Stato-Compagnie petrolifere.
Tuesday, August 07, 2007
Giallo inquietante tra Georgia e Russia
Giallo inquietante nel Caucaso. Un caccia si è "perso" un missile, non esploso, nei pressi di una città georgiana a 65 chilometri a ovest della capitale, Tbilisi. I georgiani gridano all'aggressione russa. «Un caccia partito dalla Russia ha sganciato un missile terra-aria sul territorio georgiano», ha riferito alla Reuters il ministro dell'Interno Vano Merabishvili. «I dati dei radar georgiani dimostrano che i caccia sono partiti dalla Russia mantenendo una direzione costante. Si tratta di due SU-24 armati con missili di precisione. E poi sono tornati nella direzione dalla quale erano arrivati... Definisco questo episodio come un atto di aggressione eseguito da aerei provenienti da un altro stato», ha aggiunto il ministro.
Il Cremlino ha negato che siano state condotte missioni nello spazio aereo georgiano. Convocato per una formale protesta l'ambasciatore russo in Georgia, che ha nuovamente negato qualsiasi implicazione russa. Un generale russo comandante di una missione di peacekeeping in Ossezia del Sud ha invece affermato che il missile è stato sganciato da aerei che si erano levati in volo dal territorio georgiano dopo un attacco da parte di milizie separatiste filo-russe.
Nel pomeriggio il presidente georgiano, Mikhail Saakhashvili, ha definito l'evento una «provocazione» da parte di Mosca. Lo spazio aereo della repubblica caucasica sarebbe stato violato da due caccia russi uno dei quali avrebbe lanciato un missile rimasto inesploso. «Obiettivo di questa azione è quello di provocare il panico, incrinare la pace nel Paese e influenzarne il percoso politico. La nostra risposta sarà calma e a una sola voce», ha assicurato il presidente.
«E' un test per la Georgia e la comunità internazionale per verificare quanto forte sarebbe la nostra reazione prima di pianificare atti seri per sabotare il processo di pace [in Ossezia del Sud]. La nostra risposta dev'essere molto ferma», ha affermato il viceministro degli Esteri, Nika Vashakidze.
Se il governo georgiano possiede davvero prove così schiaccianti, un missile e i dati radar, dovrebbe presentarle pubblicamente alle Nazioni Unite. Ma al di là dell'incidente diplomatico tra i due paesi, da tempo ai ferri corti per l'insofferenza di Mosca per la politica filo-occidentale della Georgia, se davvero venisse confermato che si è trattato di un aereo russo non bisognerebbe escludere uno scenario tra i più temuti del dopo Urss, che cioè il Cremlino non abbia il totale controllo delle sue forze armate, sospetto sorto in più di un'occasione nella guerra cecena.
Il Cremlino ha negato che siano state condotte missioni nello spazio aereo georgiano. Convocato per una formale protesta l'ambasciatore russo in Georgia, che ha nuovamente negato qualsiasi implicazione russa. Un generale russo comandante di una missione di peacekeeping in Ossezia del Sud ha invece affermato che il missile è stato sganciato da aerei che si erano levati in volo dal territorio georgiano dopo un attacco da parte di milizie separatiste filo-russe.
Nel pomeriggio il presidente georgiano, Mikhail Saakhashvili, ha definito l'evento una «provocazione» da parte di Mosca. Lo spazio aereo della repubblica caucasica sarebbe stato violato da due caccia russi uno dei quali avrebbe lanciato un missile rimasto inesploso. «Obiettivo di questa azione è quello di provocare il panico, incrinare la pace nel Paese e influenzarne il percoso politico. La nostra risposta sarà calma e a una sola voce», ha assicurato il presidente.
«E' un test per la Georgia e la comunità internazionale per verificare quanto forte sarebbe la nostra reazione prima di pianificare atti seri per sabotare il processo di pace [in Ossezia del Sud]. La nostra risposta dev'essere molto ferma», ha affermato il viceministro degli Esteri, Nika Vashakidze.
Se il governo georgiano possiede davvero prove così schiaccianti, un missile e i dati radar, dovrebbe presentarle pubblicamente alle Nazioni Unite. Ma al di là dell'incidente diplomatico tra i due paesi, da tempo ai ferri corti per l'insofferenza di Mosca per la politica filo-occidentale della Georgia, se davvero venisse confermato che si è trattato di un aereo russo non bisognerebbe escludere uno scenario tra i più temuti del dopo Urss, che cioè il Cremlino non abbia il totale controllo delle sue forze armate, sospetto sorto in più di un'occasione nella guerra cecena.
Ondata di terrore islamo-fascista in Iran
L'Europa mugugna ma non decide. Eppure potrebbe fare molto
Bella figura a costo zero. Di questo è capace il nostro premier. In Iran si continua a impiccare (dall'inizio dell'anno 149 condanne eseguite, secondo notizie di stampa e testimonianze), ma noi possiamo consolarci: il nostro governo sa ancora indignarsi.
Alla Farnesina, che attenendosi semplicemente alla linea concordata in sede Ue aveva espresso nei giorni scorsi «forte inquietudine italiana» per la nuova raffica di esecuzioni ordinate da Teheran, aveva risposto infastidito un portavoce degli Esteri iraniano accusandoci di «interferenza» nei loro affari interni. Giungeva così la replica di Prodi: «La nostra posizione è chiara e abbiamo diritto di esprimerla. Siamo contrari alla pena di morte e insistiamo sulla moratoria».
A rischio le buone relazioni con l'Iran? Neanche per idea. Il premier si dice sicuro di no: «Di fronte a problemi così chiari, espressi tante volte dal nostro governo, mi sembra fuori luogo ritenerli una novità. È la nostra linea politica». Linea coraggiosa? No, perché la moratoria Onu, ammesso che venga approvata, non impedirà all'Iran di continuare ad assassinare e a torturarte il proprio popolo. A fronte dell'indignazione italiana ed europea non c'è alcun atto concreto di pressione nei confronti di Teheran.
Proteste «benvenute, ma tardive e modeste», sottolinea oggi Emanuele Ottolenghi su Libero: «Se i diritti umani in Iran stanno davvero a cuore all'Europa, i mezzi non mancano per dar peso politico alle condanne. Ma forse l'interesse economico europeo farà sì che queste cadano nel nulla».
L'opinione pubblica non merita di essere ingannata. La Repubblica islamica viola da sempre i diritti umani in modo sistematico e brutale: gli oppositori (politici, sindacalisti, giornalisti, intellettuali) spariscono, o vengono torturati e uccisi, così come gli omosessuali e le adultere. E' al mondo il paese che mette a morte più minori e donne. Si sospetta anche una politica di pulizia etnica nelle zone non persiane.
A fronte di tutto questo, l'Europa rimane il primo partner commerciale dell'Iran degli ayatollah: il 41% di tutte le importazioni iraniane vengono da paesi europei e l'Europa è il primo mercato per i prodotti iraniani. L'Italia, in particolare, è il secondo esportatore europeo dopo la Germania. E in Iran non finiscono solo beni di consumo, ma anche tecnologia, infrastrutture e crediti bancari che rafforzano solo il regime.
«Se solo l'Europa - conclude Ottolenghi - interrompese la fornitura di pezzi di ricambio all'industria iraniana potrebbe mettere in ginocchio il regime». Quanto meno, dunque, è lecito attendersi che questa dipendenza commerciale venga non tanto interrotta, ma almeno usata come arma di pressione».
E' in corso attualmente in Iran, ha scritto Amir Taheri sul Wall Street Journal, «la più grande ondata di esecuzioni dal 1984»: circa 118 persone uccise nelle ultime sei settimane e almeno 150 lo saranno nelle prossime, ma non tutte le condanne vengono eseguite in pubblico, soprattutto quelle degli oppositori e degli esponenti delle minoranze etniche. Si tratta di «una campagna per terrorizzare una popolazione sempre più recalcitrante», per «neutralizzare leader sindacali, studenti attivisti, giornalisti e anche mullah che si oppongono al regime».
Le esecuzioni sono state accompagnate da ondate di arresti. Da aprile quasi mezzo milione di persone per accuse relative a sostanze stupefacenti; quasi un milione tra uomini e donne, secondo dati forniti da Ismail Muqaddam, comandante della polizia islamica, per aver violato il nuovo codice di abbigliamento. Per la maggior parte di loro si è trattato di un «avvertimento», sono usciti dopo poche ore, ma circa 40 mila sono rimasti dietro le sbarre. Sei mila tra uomini e donne sono in carcere per promiscuità sessuale al di fuori del matrimonio, ha fatto sapere il generale della polizia Hussein Zulfiqari.
I penitenziari scoppiano (150 mila reclusi a fronte di una capienza di 50 mila). Ma Ahmadinejad ha ordinato la conversione in prigioni di 41 uffici pubblici e la costruzione di 33 nuovi istituti. Poi ci sono le prigioni non ufficiali delle Guardie rivoluzionarie islamiche, sotto il diretto controllo della "Guida Suprema", Ali Khamenei, per gli oppositori più pericolosi.
Il regime, ci fa sapere Taheri, «teme soprattutto i movimenti sindacali, che negli ultimi 4 mesi hanno organizzato 12 scioperi e 47 dimostrazioni in varie parti del paese». La repressione sui manifestanti e sui sindacalisti è brutale, e va dal licenziamento all'uccisione. Così come è in atto «la più grande purga nelle università dalla Rivoluzione islamica nel 1980»: arresti, espulsioni, libri di testo riscritti, lettori e presidi licenziati. Sono stati ovviamente moltiplicati gli sforzi per «tagliare fuori gli iraniani dalle fonti di informazione all'esterno del paese»: migliaia di siti bloccati, raddoppiati gli autori e i libri proibiti. Dallo scorso aprile 30 tra quotidiani e riviste sono stati chiusi. Almeno 17 giornalisti sono in prigione, due già condannati a morte.
La versione ufficiale del regime è che la Repubblica iraniana è sotto l'attacco di complotti interni ed esterni, ma «la verità - conclude Taheri - è che di fronte al crescente malcontento popolare, la cricca khomeinista è vulnerabile ed estremamente preoccupata». Chissà che iniziando finalmente a sostenere dall'esterno questi movimenti di opposizione popolare l'Occidente non possa assestare quella spallata decisiva per far cadere uno dei più orribili regimi fascisti rimasti sulla faccia della terra.
Bella figura a costo zero. Di questo è capace il nostro premier. In Iran si continua a impiccare (dall'inizio dell'anno 149 condanne eseguite, secondo notizie di stampa e testimonianze), ma noi possiamo consolarci: il nostro governo sa ancora indignarsi.
Alla Farnesina, che attenendosi semplicemente alla linea concordata in sede Ue aveva espresso nei giorni scorsi «forte inquietudine italiana» per la nuova raffica di esecuzioni ordinate da Teheran, aveva risposto infastidito un portavoce degli Esteri iraniano accusandoci di «interferenza» nei loro affari interni. Giungeva così la replica di Prodi: «La nostra posizione è chiara e abbiamo diritto di esprimerla. Siamo contrari alla pena di morte e insistiamo sulla moratoria».
A rischio le buone relazioni con l'Iran? Neanche per idea. Il premier si dice sicuro di no: «Di fronte a problemi così chiari, espressi tante volte dal nostro governo, mi sembra fuori luogo ritenerli una novità. È la nostra linea politica». Linea coraggiosa? No, perché la moratoria Onu, ammesso che venga approvata, non impedirà all'Iran di continuare ad assassinare e a torturarte il proprio popolo. A fronte dell'indignazione italiana ed europea non c'è alcun atto concreto di pressione nei confronti di Teheran.
Proteste «benvenute, ma tardive e modeste», sottolinea oggi Emanuele Ottolenghi su Libero: «Se i diritti umani in Iran stanno davvero a cuore all'Europa, i mezzi non mancano per dar peso politico alle condanne. Ma forse l'interesse economico europeo farà sì che queste cadano nel nulla».
L'opinione pubblica non merita di essere ingannata. La Repubblica islamica viola da sempre i diritti umani in modo sistematico e brutale: gli oppositori (politici, sindacalisti, giornalisti, intellettuali) spariscono, o vengono torturati e uccisi, così come gli omosessuali e le adultere. E' al mondo il paese che mette a morte più minori e donne. Si sospetta anche una politica di pulizia etnica nelle zone non persiane.
A fronte di tutto questo, l'Europa rimane il primo partner commerciale dell'Iran degli ayatollah: il 41% di tutte le importazioni iraniane vengono da paesi europei e l'Europa è il primo mercato per i prodotti iraniani. L'Italia, in particolare, è il secondo esportatore europeo dopo la Germania. E in Iran non finiscono solo beni di consumo, ma anche tecnologia, infrastrutture e crediti bancari che rafforzano solo il regime.
«Se solo l'Europa - conclude Ottolenghi - interrompese la fornitura di pezzi di ricambio all'industria iraniana potrebbe mettere in ginocchio il regime». Quanto meno, dunque, è lecito attendersi che questa dipendenza commerciale venga non tanto interrotta, ma almeno usata come arma di pressione».
E' in corso attualmente in Iran, ha scritto Amir Taheri sul Wall Street Journal, «la più grande ondata di esecuzioni dal 1984»: circa 118 persone uccise nelle ultime sei settimane e almeno 150 lo saranno nelle prossime, ma non tutte le condanne vengono eseguite in pubblico, soprattutto quelle degli oppositori e degli esponenti delle minoranze etniche. Si tratta di «una campagna per terrorizzare una popolazione sempre più recalcitrante», per «neutralizzare leader sindacali, studenti attivisti, giornalisti e anche mullah che si oppongono al regime».
Le esecuzioni sono state accompagnate da ondate di arresti. Da aprile quasi mezzo milione di persone per accuse relative a sostanze stupefacenti; quasi un milione tra uomini e donne, secondo dati forniti da Ismail Muqaddam, comandante della polizia islamica, per aver violato il nuovo codice di abbigliamento. Per la maggior parte di loro si è trattato di un «avvertimento», sono usciti dopo poche ore, ma circa 40 mila sono rimasti dietro le sbarre. Sei mila tra uomini e donne sono in carcere per promiscuità sessuale al di fuori del matrimonio, ha fatto sapere il generale della polizia Hussein Zulfiqari.
I penitenziari scoppiano (150 mila reclusi a fronte di una capienza di 50 mila). Ma Ahmadinejad ha ordinato la conversione in prigioni di 41 uffici pubblici e la costruzione di 33 nuovi istituti. Poi ci sono le prigioni non ufficiali delle Guardie rivoluzionarie islamiche, sotto il diretto controllo della "Guida Suprema", Ali Khamenei, per gli oppositori più pericolosi.
Il regime, ci fa sapere Taheri, «teme soprattutto i movimenti sindacali, che negli ultimi 4 mesi hanno organizzato 12 scioperi e 47 dimostrazioni in varie parti del paese». La repressione sui manifestanti e sui sindacalisti è brutale, e va dal licenziamento all'uccisione. Così come è in atto «la più grande purga nelle università dalla Rivoluzione islamica nel 1980»: arresti, espulsioni, libri di testo riscritti, lettori e presidi licenziati. Sono stati ovviamente moltiplicati gli sforzi per «tagliare fuori gli iraniani dalle fonti di informazione all'esterno del paese»: migliaia di siti bloccati, raddoppiati gli autori e i libri proibiti. Dallo scorso aprile 30 tra quotidiani e riviste sono stati chiusi. Almeno 17 giornalisti sono in prigione, due già condannati a morte.
La versione ufficiale del regime è che la Repubblica iraniana è sotto l'attacco di complotti interni ed esterni, ma «la verità - conclude Taheri - è che di fronte al crescente malcontento popolare, la cricca khomeinista è vulnerabile ed estremamente preoccupata». Chissà che iniziando finalmente a sostenere dall'esterno questi movimenti di opposizione popolare l'Occidente non possa assestare quella spallata decisiva per far cadere uno dei più orribili regimi fascisti rimasti sulla faccia della terra.
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