Chi di moralismo ferisce, di moralismo perisce. Così sembra che Dino Boffo lascerà la direzione di Avvenire, impallinato a dovere da Vittorio Feltri. La "patacca" non è affatto tale, soprattutto per chi sulle "patacche" ha costruito campagne moralistiche, ai cui animatori, si sa, si richiede una condotta irreprensibile e un armadio privo di scheletri. Non era il caso di Boffo, che nonostante tutto in questi mesi ha alzato il ditino rimproverando a Berlusconi i suoi "festini", condannando la politica del governo sull'immigrazione con paragoni - come quello tra il naufragio degli eritrei e la Shoah - impropri quanto mistificanti e offensivi nei confronti delle vittime del nazismo.
Non sorprende più di tanto la faccia tosta di certi esponenti del Pd e di certi giornali, come la Repubblica, ma anche altri, che dopo aver alimentato e cavalcato la campagna scandalistica su Berlusconi, solo adesso si scandalizzano per l'"imbarbarimento" dell'informazione, la "vendetta mediatica", per il "killeraggio" nei confronti di Boffo, che tuttavia - questo bisogna ammetterlo - oggi fa un po' da capro espiatorio per tutti quelli che fanno i moralisti ma che non potrebbero permetterselo. E sono in tanti, la maggior parte. Feltri, che è un garantista vero, ne ha colpito uno per educarne cento, per lanciare un messaggio preciso: guardate che se la mettiamo su questo piano, in pochi hanno le carte perfettamente in regola e nulla da nascondere o far dimenticare. Era ora che qualcuno li ripagasse con la loro stessa moneta. Chi meglio di Feltri?
Ma questa vicenda ci ricorda anche altro: che quando la Chiesa, o settori di essa, scendono nell'agone politico conducendo campagne contro questo o quel governo, questo o quel leader, non sono immuni a loro volta da attacchi politici, anche da parti inaspettate. E, come ha mirabilmente spiegato due secoli fa Alexis de Tocqueville, quando la Chiesa fa politica non solo rischia di venire identificata come un nemico politico, perdendo la sua autorevolezza nel campo religioso, ma inevitabilmente finisce per dividersi essa stessa in correnti politicizzate al suo interno, come dimostra oggi l'intervista al Corriere del direttore dell'Osservatore romano, Gian Maria Vian, che in esplicita polemica con Avvenire rivendica di non aver scritto neanche «una riga» sulle vicende private del premier, definisce «imprudente» il paragone tra il naufragio degli eritrei e la Shoah, riconoscendo anzi al governo italiano di essere «quello che ha soccorso più immigrati», e assicura che i rapporti tra Palazzo Chigi e Santa Sede rimangono «eccellenti». Il direttore Boffo ha voluto trasformare Avvenire in una sorta di "la Repubblica dei vescovi" e così oggi, dietro il suo editore «disgustato», il presidente della Cei Bagnasco, non trova certo la Chiesa compatta in sua difesa. Tutt'altro.
Che dire, infine, dei sedicenti "laici", quelli a corrente alternata, che gridano all'ingerenza quando la Chiesa interviene sui temi della bioetica, ma poi invocano il suo intervento quando si tratta di condannare moralmente la condotta privata degli avversari politici, plaudendo quando sia pure velatamente arriva? Povera laicità.
Monday, August 31, 2009
E due. Il Corriere conferma le indiscrezioni di Libero
Oggi il Corriere della Sera anticipa quanto già anticipato il 19 agosto scorso da Libero sul delitto di Garlasco. Anche secondo il Corriere, infatti, l'esito della super-perizia disposta dal gup avvalorerebbe l'alibi fin dall'inizio sostenuto da Alberto Stasi: la mattina in cui Chiara fu uccisa lui era al pc. Adesso dunque sono due i quotidiani ad anticipare le stesse conclusioni. Se fossero davvero queste, come appare sempre più probabile, crollerebbe l'intero teorema accusatorio imbastito dal pm Rosa Muscio sulla base delle analisi dei Ris.
Ma l'aspetto più tragicomico della vicenda è che proprio per venire incontro alla perizia - sbagliata - dei Ris sul pc di Alberto, la Muscio ha insistito nel collocare l'ora del decesso tra le 10.30 e le 12, con «maggior centratura» tra le 11 e le 11.30, bocciando senz'appello, invece, l'ipotesi - tra le 9 e le 10 - sostenuta dal consulente della difesa, che oggi avrebbe permesso al suo impianto accusatorio di reggere. In un tribunale serio il giudice non dovrebbe consentire alla pubblica accusa di cambiare la sua ricostruzione a processo in corso. In un paese serio i pm come la Muscio non farebbero carriera, né ci sarebbero sceneggiati sui Ris.
Come se non bastasse, l'unica testimone continua a dire che quella che vide la mattina dell'omicidio davanti a casa Poggi non era affatto la bicicletta di Stasi, e una simulazione ripetuta più volte dall'imputato dimostrerebbe che era possibile scoprire il cadavere senza calpestare le tracce di sangue sul pavimento.
Ma l'aspetto più tragicomico della vicenda è che proprio per venire incontro alla perizia - sbagliata - dei Ris sul pc di Alberto, la Muscio ha insistito nel collocare l'ora del decesso tra le 10.30 e le 12, con «maggior centratura» tra le 11 e le 11.30, bocciando senz'appello, invece, l'ipotesi - tra le 9 e le 10 - sostenuta dal consulente della difesa, che oggi avrebbe permesso al suo impianto accusatorio di reggere. In un tribunale serio il giudice non dovrebbe consentire alla pubblica accusa di cambiare la sua ricostruzione a processo in corso. In un paese serio i pm come la Muscio non farebbero carriera, né ci sarebbero sceneggiati sui Ris.
Come se non bastasse, l'unica testimone continua a dire che quella che vide la mattina dell'omicidio davanti a casa Poggi non era affatto la bicicletta di Stasi, e una simulazione ripetuta più volte dall'imputato dimostrerebbe che era possibile scoprire il cadavere senza calpestare le tracce di sangue sul pavimento.
Tuesday, August 25, 2009
Obama scivola sulla sicurezza
Obama aveva promesso che nessuno sarebbe stato processato per aver praticato le tecniche di interrogatorio autorizzate dalla precedente amministrazione. Adesso la decisione del ministro della Giustizia Eric Holder di nominare un «procuratore speciale» per indagare su una dozzina di casi di presunte torture praticate da agenti Cia - che comunque la si pensi non facevano altro che servire la nazione - appare per quella che è: una mossa demagogica per soddisfare gli appetiti vendicativi e la furia ideologica dell'ala sinistra del partito. E rischia di rivelarsi un boomerang per Obama, come spiega il Wall Street Journal. Si tratta infatti di quel tipo di decisioni che convincono gli americani del fatto che il Partito democratico è propenso a prendere decisioni con un occhio più alla lotta politica interna che non alla sicurezza della nazione. Per non parlare della frattura che questa decisione avrà certamente provocato all'interno dell'amministrazione, e in particolare tra chi si occupa di sicurezza nazionale.
Il rischio, infatti, come ha ben spiegato il solo Maurizio Molinari, su La Stampa, è di «una sollevazione interna capace di paralizzare le numerose operazioni quotidiane di lotta ad al Qaeda: il numero dei super-agenti a disposizione di Langley non è molto esteso e incriminarne alcuni significherebbe creare uno scompiglio tale nei ranghi da mettere in pericolo le numerose missioni ad alto rischio in corso in Iraq, Afghanistan e altrove. Quando un solo agente è minacciato di processo per aver fatto ciò che gli è stato chiesto l'intera Cia è a rischio: per questo Robert Baer, ex capo del Medio Oriente, assicura "ho lavorato per ventun anni e nessuno ha mai praticato alcun tipo di tortura"».
UPDATE 26 agosto: L'articolo di Rocca sulla vicenda.
Il rischio, infatti, come ha ben spiegato il solo Maurizio Molinari, su La Stampa, è di «una sollevazione interna capace di paralizzare le numerose operazioni quotidiane di lotta ad al Qaeda: il numero dei super-agenti a disposizione di Langley non è molto esteso e incriminarne alcuni significherebbe creare uno scompiglio tale nei ranghi da mettere in pericolo le numerose missioni ad alto rischio in corso in Iraq, Afghanistan e altrove. Quando un solo agente è minacciato di processo per aver fatto ciò che gli è stato chiesto l'intera Cia è a rischio: per questo Robert Baer, ex capo del Medio Oriente, assicura "ho lavorato per ventun anni e nessuno ha mai praticato alcun tipo di tortura"».
UPDATE 26 agosto: L'articolo di Rocca sulla vicenda.
Monday, August 24, 2009
Russia, pronta a settembre la nuova dottrina militare
Da il Velino
E' quasi pronta la nuova dottrina militare russa per fronteggiare le minacce del ventunesimo secolo. Secondo il giornale governativo Izvestia, la versione aggiornata dovrebbe essere rilasciata entro la fine del mese di settembre e consisterà di due parti: una pubblica, che affronta i vari «aspetti politico-militari»; l'altra riservata, che chiarirà gli «aspetti legali» dell'impiego dell'esercito e della marina nonché delle armi nucleari come legittimo strumento di deterrenza. Secondo il generale Anatoly Nogovytsin, segretario del Capo degli Stati Maggiori riuniti e presidente del gruppo di lavoro incaricato della revisione, «la nuova dottrina, sviluppata sotto la guida del Consiglio di sicurezza, differirà da quella esistente».
«Stiamo studiando molto attentamente i documenti governativi degli altri paesi, così come la posizione degli Stati Uniti e della Nato nelle questioni militari», riferisce Nogovytsin. Anche le «dottrine» di questi paesi e della Nato, sottolinea il generale russo, hanno una sezione «riservata». Il fatto che molto probabilmente ce ne sarà una anche nella nuova dottrina russa, assicura, «non significa che la Russia voglia far salire la tensione o considerare Washington e la Nato come minacce principali».
A giudicare dai più recenti motivi di attrito con gli Usa e dalle dichiarazioni di esponenti militari e politici russi del più alto livello, a preoccupare Mosca, e quindi ad aver reso necessaria ai suoi occhi una revisione della propria dottrina militare, sono il sistema di difesa anti-missile che Washington vorrebbe posizionare in Europa orientale (Polonia e Repubblica ceca) e i possibili conflitti locali ai suoi confini, come quello della scorsa estate contro la Georgia. Ma la nuova dottrina, commissionata al gruppo di lavoro dal vicesegretario del Consiglio di sicurezza nazionale, il generale Yury Baluyevsky, con l'ampio appoggio dell'establishment militare, si inserisce nella partita tutta interna per la riforma delle forze armate.
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E' quasi pronta la nuova dottrina militare russa per fronteggiare le minacce del ventunesimo secolo. Secondo il giornale governativo Izvestia, la versione aggiornata dovrebbe essere rilasciata entro la fine del mese di settembre e consisterà di due parti: una pubblica, che affronta i vari «aspetti politico-militari»; l'altra riservata, che chiarirà gli «aspetti legali» dell'impiego dell'esercito e della marina nonché delle armi nucleari come legittimo strumento di deterrenza. Secondo il generale Anatoly Nogovytsin, segretario del Capo degli Stati Maggiori riuniti e presidente del gruppo di lavoro incaricato della revisione, «la nuova dottrina, sviluppata sotto la guida del Consiglio di sicurezza, differirà da quella esistente».
«Stiamo studiando molto attentamente i documenti governativi degli altri paesi, così come la posizione degli Stati Uniti e della Nato nelle questioni militari», riferisce Nogovytsin. Anche le «dottrine» di questi paesi e della Nato, sottolinea il generale russo, hanno una sezione «riservata». Il fatto che molto probabilmente ce ne sarà una anche nella nuova dottrina russa, assicura, «non significa che la Russia voglia far salire la tensione o considerare Washington e la Nato come minacce principali».
A giudicare dai più recenti motivi di attrito con gli Usa e dalle dichiarazioni di esponenti militari e politici russi del più alto livello, a preoccupare Mosca, e quindi ad aver reso necessaria ai suoi occhi una revisione della propria dottrina militare, sono il sistema di difesa anti-missile che Washington vorrebbe posizionare in Europa orientale (Polonia e Repubblica ceca) e i possibili conflitti locali ai suoi confini, come quello della scorsa estate contro la Georgia. Ma la nuova dottrina, commissionata al gruppo di lavoro dal vicesegretario del Consiglio di sicurezza nazionale, il generale Yury Baluyevsky, con l'ampio appoggio dell'establishment militare, si inserisce nella partita tutta interna per la riforma delle forze armate.
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Friday, August 21, 2009
Afghanistan e Iraq, le indecisioni strategiche si pagano
La democrazia dovrà vedersela ancora una volta a mani - anzi, dita - nude contro le bombe. Le forze Nato schierate contro la guerriglia talebana in Afghanistan restano naturalmente indispensabili, ma in definitiva sarà la voglia di normalità degli afghani a fare da ago della bilancia. Se verrà meno, non basteranno gli eserciti a far uscire il paese dal caos e a salvarlo dai talebani. Epperò, anche i successi contro i talebani possono dare speranze alla popolazione.
L'esito della giornata elettorale di ieri è confortante anche se non entusiasmante. Insomma, poteva andar peggio. Sembra infatti che nonostante i kamikaze, i razzi, e le intimidazioni che ci sono stati anche ieri (oltre 70 attacchi e una trentina di morti in 15 province su 34), un numero di seggi maggiore delle attese sia stato aperto e l'affluenza al voto sia stata buona, addirittura il 50%, anche se non paragonabile a quella delle presidenziali del 2004, quando votò il 70% degli aventi diritto. Un ottimismo, quello espresso dalla Nato e dall'Onu sul voto in Afghanistan, motivato più che altro dalle basse aspettative della vigilia. I talebani infatti da alcune settimane hanno ripreso l'iniziativa e in pochi giorni hanno dimostrato alla popolazione quanto scarsi ed effimeri siano i progressi compiuti in quattro anni dalle nuove istituzioni afghane.
L'affluenza in calo indica comunque che la sfiducia degli afghani nelle nuove istituzioni aumenta e se dovesse scendere sotto una certa soglia, non ci sarebbe aiuto internazionale in grado di fare argine: tornerebbero i talebani. La colpa di questa situazione è certamente di Karzai, la cui rielezione non è scontata e che non gode neanche più del favore degli Usa, pronti ad accogliere positivamente un'affermazione di Abdullah. Ma sulla situazione afghana continua a pesare anche un'ambiguità strategica che né il presidente americano Obama, né tanto meno gli altri paesi della Nato impegnati hanno ancora risolto. Non è ancora chiaro se l'obiettivo sia sconfiggere definitivamente i talebani, o solo contenerli, accontentandosi di impedirgli di lanciare nuovi attacchi terroristici contro gli Usa e che il governo legittimo controlli la maggior parte, anche se non tutto, il territorio. Finché un giorno, inevitabilmente, non verrà deciso il ritiro dei contingenti. E allora saranno dolori.
Attualmente gli uomini impiegati in Afghanistan sono circa 100 mila, in un paese in cui per controllare il territorio garantendo un minimo di sicurezza alla popolazione civile ce ne vorrebbero almeno quattro volte tanti. Figuriamoci poi se c'è anche da combattere per respingere le offensive talebane o per bonificare intere aree dalla loro presenza. Un'altra ambiguità che indebolisce la forza multinazionale è che non tutti i paesi condividono le stesse responsabilità. La maggior parte dei contingenti, e tra questi quello italiano e quello tedesco, possono difendersi se attaccati, ma non sono autorizzati a partecipare a operazioni di combattimento al di fuori della loro area. Dei 100 mila uomini, 62 mila sono americani - solo la metà all'incirca truppe combattenti - e al loro fianco combattono attivamente solo i contingenti inglese, canadese e olandese.
Anche l'Iraq da alcune settimane a questa parte sembra essere ripiombato nel terrore. I terroristi hanno portato il loro attacco fino al cuore delle nuove istituzioni irachene come probabilmente non erano mai riusciti in questi anni. I camion-bomba contro il Ministero degli Esteri, il Ministero delle Finanze e il palazzo del governo provinciale di Baghdad, hanno causato circa un centinaio di morti e oltre 600 feriti. Una delle esplosioni ha persino fatto venir giù un pezzo di viadotto, uccidendo gli ignari automobilisti che lo stavano attraversando. Poi i colpi di mortaio che hanno raggiunto la blindatissima "zona verde" e altre bombe contro obiettivi minori, un mercato in una zona sciita e due posti di blocco.
Per trovare un attentato di simili proporzioni a Baghdad bisogna risalire al primo febbraio del 2008, quando morirono 99 persone. Ma allora furono delle donne kamikaze a fare strage in diversi mercati, mentre questa volta sono state colpite al cuore le istituzioni civili, per dimostrarne la vulnerabilità. Considerando la potenza di fuoco, la capacità organizzativa e l'importanza strategica degli obiettivi, dietro c'è senz'altro la mano di al Qaeda, forse con l'aiuto - ma solo marginalmente - di qualche frangia ex baathista non ancora rassegnata, mentre la Siria continua a offrire ospitalità e supporto logistico ai terroristi per dimostrare, contribuendo a destabilizzare l'Iraq, di essere ancora un attore influente nella regione con il quale scendere a patti. La pazienza americana nei confronti di Damasco resta davvero un mistero.
Dopo il calo delle vittime di violenze negli ultimi due anni, grazie ai successi della nuova strategia americana voluta da Bush e praticata sul campo dal generale Petraeus, l'intensificarsi degli attacchi dalla primavera di quest'anno non può non essere messo in relazione con il ritiro, prima annunciato e poi avvenuto, il 30 giugno scorso, delle truppe americane dalle città e la consegna della responsabilità della sicurezza alle autorità irachene. Il 23 aprile 84 morti a Baquba in tre attentati suicidi in un giorno. Il 20 maggio 40 morti per un'autobomba a Baghdad. Il 20 giugno 72 morti per un camion-bomba a sud di Kirkuk, nel nord del paese. Il 24 giugno 62 morti nel quartiere sciita di Baghdad. Il 30 giugno le truppe americane lasciano le aree urbane e si ritirano nelle basi lontane dai centri abitati. Il 28 luglio 8 morti e 13 feriti per una moto-bomba a Baghdad. Il 31 luglio alcune esplosioni fuori da una moschea sciita fanno 31 morti. Sempre a Baghdad. Il 7 agosto un'autobomba uccide 38 persone appena escono da una moschera sciita fuori Mosul, nel nord, e sei pellegrini sciiti muoiono in una serie di esplosioni a Baghdad. E' un crescendo. Il 10 agosto due camion-bomba uccidono 30 persone e ne feriscono 155 in un villaggio sciita a est di Mosul. E di nuovo a Baghdad, un'autobomba uccide 7 lavoratori in un'area a maggioranza sciita. Il 16 agosto, sempre in un'area sciita di Baghdad, 8 morti e 21 feriti.
E pensare che appena tre settimane fa, ricorda il New York Times, il premier iracheno al Maliki aveva dato ordine di rimuovere le barriere anti-bomba in cemento armato dalle vie di Baghdad, convinto da un alto ufficiale dell'esercito a lui vicino che ormai la sicurezza non fosse più un "problema". A dargli una lezione ci ha pensato al Qaeda. Ma è una ulteriore sfida anche per il presidente Obama, cui molti ora chiedono di rallentare il piano di ritiro delle truppe Usa dall'Iraq. Ci sono diverse possibilità di un'«inversione di tendenza» in Iraq rispetto ai recenti progressi, avverte l'esperto Stephen Biddle, del Council on Foreign Relations, che individua ben quattro scenari nei quali il paese potrebbe «allontanarsi da una prospettiva di pace e stabilità a breve e medio termine». Una «vigorosa strategia preventiva, nella forma di un rallentamento del ritiro Usa dall'Iraq, sarebbe meno costosa, sia politicamente che militarmente, nel lungo termine».
L'esito della giornata elettorale di ieri è confortante anche se non entusiasmante. Insomma, poteva andar peggio. Sembra infatti che nonostante i kamikaze, i razzi, e le intimidazioni che ci sono stati anche ieri (oltre 70 attacchi e una trentina di morti in 15 province su 34), un numero di seggi maggiore delle attese sia stato aperto e l'affluenza al voto sia stata buona, addirittura il 50%, anche se non paragonabile a quella delle presidenziali del 2004, quando votò il 70% degli aventi diritto. Un ottimismo, quello espresso dalla Nato e dall'Onu sul voto in Afghanistan, motivato più che altro dalle basse aspettative della vigilia. I talebani infatti da alcune settimane hanno ripreso l'iniziativa e in pochi giorni hanno dimostrato alla popolazione quanto scarsi ed effimeri siano i progressi compiuti in quattro anni dalle nuove istituzioni afghane.
L'affluenza in calo indica comunque che la sfiducia degli afghani nelle nuove istituzioni aumenta e se dovesse scendere sotto una certa soglia, non ci sarebbe aiuto internazionale in grado di fare argine: tornerebbero i talebani. La colpa di questa situazione è certamente di Karzai, la cui rielezione non è scontata e che non gode neanche più del favore degli Usa, pronti ad accogliere positivamente un'affermazione di Abdullah. Ma sulla situazione afghana continua a pesare anche un'ambiguità strategica che né il presidente americano Obama, né tanto meno gli altri paesi della Nato impegnati hanno ancora risolto. Non è ancora chiaro se l'obiettivo sia sconfiggere definitivamente i talebani, o solo contenerli, accontentandosi di impedirgli di lanciare nuovi attacchi terroristici contro gli Usa e che il governo legittimo controlli la maggior parte, anche se non tutto, il territorio. Finché un giorno, inevitabilmente, non verrà deciso il ritiro dei contingenti. E allora saranno dolori.
Attualmente gli uomini impiegati in Afghanistan sono circa 100 mila, in un paese in cui per controllare il territorio garantendo un minimo di sicurezza alla popolazione civile ce ne vorrebbero almeno quattro volte tanti. Figuriamoci poi se c'è anche da combattere per respingere le offensive talebane o per bonificare intere aree dalla loro presenza. Un'altra ambiguità che indebolisce la forza multinazionale è che non tutti i paesi condividono le stesse responsabilità. La maggior parte dei contingenti, e tra questi quello italiano e quello tedesco, possono difendersi se attaccati, ma non sono autorizzati a partecipare a operazioni di combattimento al di fuori della loro area. Dei 100 mila uomini, 62 mila sono americani - solo la metà all'incirca truppe combattenti - e al loro fianco combattono attivamente solo i contingenti inglese, canadese e olandese.
Anche l'Iraq da alcune settimane a questa parte sembra essere ripiombato nel terrore. I terroristi hanno portato il loro attacco fino al cuore delle nuove istituzioni irachene come probabilmente non erano mai riusciti in questi anni. I camion-bomba contro il Ministero degli Esteri, il Ministero delle Finanze e il palazzo del governo provinciale di Baghdad, hanno causato circa un centinaio di morti e oltre 600 feriti. Una delle esplosioni ha persino fatto venir giù un pezzo di viadotto, uccidendo gli ignari automobilisti che lo stavano attraversando. Poi i colpi di mortaio che hanno raggiunto la blindatissima "zona verde" e altre bombe contro obiettivi minori, un mercato in una zona sciita e due posti di blocco.
Per trovare un attentato di simili proporzioni a Baghdad bisogna risalire al primo febbraio del 2008, quando morirono 99 persone. Ma allora furono delle donne kamikaze a fare strage in diversi mercati, mentre questa volta sono state colpite al cuore le istituzioni civili, per dimostrarne la vulnerabilità. Considerando la potenza di fuoco, la capacità organizzativa e l'importanza strategica degli obiettivi, dietro c'è senz'altro la mano di al Qaeda, forse con l'aiuto - ma solo marginalmente - di qualche frangia ex baathista non ancora rassegnata, mentre la Siria continua a offrire ospitalità e supporto logistico ai terroristi per dimostrare, contribuendo a destabilizzare l'Iraq, di essere ancora un attore influente nella regione con il quale scendere a patti. La pazienza americana nei confronti di Damasco resta davvero un mistero.
Dopo il calo delle vittime di violenze negli ultimi due anni, grazie ai successi della nuova strategia americana voluta da Bush e praticata sul campo dal generale Petraeus, l'intensificarsi degli attacchi dalla primavera di quest'anno non può non essere messo in relazione con il ritiro, prima annunciato e poi avvenuto, il 30 giugno scorso, delle truppe americane dalle città e la consegna della responsabilità della sicurezza alle autorità irachene. Il 23 aprile 84 morti a Baquba in tre attentati suicidi in un giorno. Il 20 maggio 40 morti per un'autobomba a Baghdad. Il 20 giugno 72 morti per un camion-bomba a sud di Kirkuk, nel nord del paese. Il 24 giugno 62 morti nel quartiere sciita di Baghdad. Il 30 giugno le truppe americane lasciano le aree urbane e si ritirano nelle basi lontane dai centri abitati. Il 28 luglio 8 morti e 13 feriti per una moto-bomba a Baghdad. Il 31 luglio alcune esplosioni fuori da una moschea sciita fanno 31 morti. Sempre a Baghdad. Il 7 agosto un'autobomba uccide 38 persone appena escono da una moschera sciita fuori Mosul, nel nord, e sei pellegrini sciiti muoiono in una serie di esplosioni a Baghdad. E' un crescendo. Il 10 agosto due camion-bomba uccidono 30 persone e ne feriscono 155 in un villaggio sciita a est di Mosul. E di nuovo a Baghdad, un'autobomba uccide 7 lavoratori in un'area a maggioranza sciita. Il 16 agosto, sempre in un'area sciita di Baghdad, 8 morti e 21 feriti.
E pensare che appena tre settimane fa, ricorda il New York Times, il premier iracheno al Maliki aveva dato ordine di rimuovere le barriere anti-bomba in cemento armato dalle vie di Baghdad, convinto da un alto ufficiale dell'esercito a lui vicino che ormai la sicurezza non fosse più un "problema". A dargli una lezione ci ha pensato al Qaeda. Ma è una ulteriore sfida anche per il presidente Obama, cui molti ora chiedono di rallentare il piano di ritiro delle truppe Usa dall'Iraq. Ci sono diverse possibilità di un'«inversione di tendenza» in Iraq rispetto ai recenti progressi, avverte l'esperto Stephen Biddle, del Council on Foreign Relations, che individua ben quattro scenari nei quali il paese potrebbe «allontanarsi da una prospettiva di pace e stabilità a breve e medio termine». Una «vigorosa strategia preventiva, nella forma di un rallentamento del ritiro Usa dall'Iraq, sarebbe meno costosa, sia politicamente che militarmente, nel lungo termine».
Iran, alla Difesa volto noto del terrorismo internazionale
Da il Velino
Il ministro della Difesa appena designato dal presidente iraniano Ahmadinejad è un volto noto del terrorismo internazionale. Nei suoi confronti, dando seguito ad una specifica richiesta delle autorità argentine, l'Interpol ha spiccato un mandato di arresto internazionale e nel 2007 lo ha inserito nella lista dei maggiori ricercati. Ahmad Vahidi era a capo delle famigerate brigate al Qods quando nel 1994 ordinarono e organizzarono l'attacco terroristico al Centro ebraico di Buenos Aires, in cui rimasero uccise 85 persone. Il gruppo fa parte delle Guardie rivoluzionarie iraniane ed è noto per essere responsabile delle operazioni terroristiche nei paesi stranieri... Negli anni recenti Vahidi è stato viceministro della Difesa con delega allo sviluppo della missilistica.
«Vahidi - ricorda Kenneth Katzman, analista del Servizio ricerche del Congresso Usa - è anche sospettato di aver avuto un ruolo nell'attacco del 1996 alla caserma dell'Air Force Usa in Arabia Saudita nota come Khobar Towers»... La nomina di Vahidi alla guida del Ministero della Difesa lascia presupporre che il presidente Ahmadinejad abbia tutta l'intenzione di proseguire nella sua politica di sfida nei confronti dell'Occidente.
(...)
La scelta di Vahidi, secondo Katzman... è un «segnale forte», che indica che «Ahmadinejad ha intenzione di continuare, e forse anche accelerare, il supporto materiale dell'Iran ai gruppi e alle milizie della regione». E' proprio Vahidi, infatti, a sovrintendere da anni alla distribuzione di armi e missili a gruppi terroristici come Hezbollah, Hamas e Jihad islamica, riferisce un ex agente Cia infiltrato nelle Guardie rivoluzionarie...
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Il ministro della Difesa appena designato dal presidente iraniano Ahmadinejad è un volto noto del terrorismo internazionale. Nei suoi confronti, dando seguito ad una specifica richiesta delle autorità argentine, l'Interpol ha spiccato un mandato di arresto internazionale e nel 2007 lo ha inserito nella lista dei maggiori ricercati. Ahmad Vahidi era a capo delle famigerate brigate al Qods quando nel 1994 ordinarono e organizzarono l'attacco terroristico al Centro ebraico di Buenos Aires, in cui rimasero uccise 85 persone. Il gruppo fa parte delle Guardie rivoluzionarie iraniane ed è noto per essere responsabile delle operazioni terroristiche nei paesi stranieri... Negli anni recenti Vahidi è stato viceministro della Difesa con delega allo sviluppo della missilistica.
«Vahidi - ricorda Kenneth Katzman, analista del Servizio ricerche del Congresso Usa - è anche sospettato di aver avuto un ruolo nell'attacco del 1996 alla caserma dell'Air Force Usa in Arabia Saudita nota come Khobar Towers»... La nomina di Vahidi alla guida del Ministero della Difesa lascia presupporre che il presidente Ahmadinejad abbia tutta l'intenzione di proseguire nella sua politica di sfida nei confronti dell'Occidente.
(...)
La scelta di Vahidi, secondo Katzman... è un «segnale forte», che indica che «Ahmadinejad ha intenzione di continuare, e forse anche accelerare, il supporto materiale dell'Iran ai gruppi e alle milizie della regione». E' proprio Vahidi, infatti, a sovrintendere da anni alla distribuzione di armi e missili a gruppi terroristici come Hezbollah, Hamas e Jihad islamica, riferisce un ex agente Cia infiltrato nelle Guardie rivoluzionarie...
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Non è ancora troppo tardi
Oggi, sul Corriere della Sera, Piero Ostellino ricorre di nuovo a una classificazione che ci è cara, tra ceti produttivi e ceti improduttivi, burocratico-parassitari. Da una parte i "produttori", chi lavora e sta sul mercato rischiando in proprio, senza paracadute, chi da piccolo e medio imprenditore chi da lavoratore o da operaio, e chi nel mondo del lavoro cerca di entrarci scontrandosi con le incertezze della flessibilità e le mille barriere corporative, il familismo, il clientelismo - i cosiddetti "outsider"; dall'altra parte la grande industria assistita, pubblica e privata, le banche, i professionisti protetti dagli ordini, i dipendenti pubblici, gli amministratori degli Enti locali, insomma «le oligarchie che costituiscono la classe dirigente».
«Gli italiani della prima categoria sono anche la base sociale e il serbatoio elettorale del centrodestra. Ad essi Berlusconi aveva promesso la "rivoluzione liberale". Niente assistenzialismo, ma una radicale semplificazione legislativa che disboscasse la selva di leggi, regolamenti, licenze, divieti, che ne ostacolano la libertà d'azione; una forte riduzione fiscale, che lasciasse loro più risorse da destinare, oltre ai consumi, non solo alle proprie attività imprenditoriali, ma anche alla produzione di beni collettivi, nella sanità, nella scuola, nei servizi, che ora, in prevalenza, lo Stato fornisce con grandi sprechi. Sarebbe bastato questo per far lievitare il Paese».Ma, come sappiamo, Berlusconi non ha ancora mantenuto la sua promessa più importante. Ieri, perché «frenato dai suoi alleati (Udc e An) e per carenza culturale sua propria», e perché «ha continuato a strizzare l'occhio anche agli italiani della seconda categoria che, contrari a ogni cambiamento, votano in prevalenza a sinistra». «Forse - conclude Ostellino - è tardi per rimediare, ma a Palazzo Chigi e dintorni farebbero ugualmente bene a rifletterci e, passata la nottata, a provvedere».
Thursday, August 20, 2009
Lettera da un italiano deluso
Sono così impastati di tabù e politically correct che quando trovano uno che si esprime con schiettezza, credono d'aver trovato un animale raro. Molte cose dette da Matteo Lazzaro hanno con sé la forza della ragionevolezza e sono ampiamente condivise da milioni persone, come la sua voglia di "Stati Uniti". Tanto è il disgusto per il presente, tuttavia, da influenzare negativamente, fin troppo, la sua lettura del passato. Ed è proprio la parte storica nel ragionamento di Lazzaro a non reggere, perché frutto, come ha scritto Galli Della Loggia, del «disastro educativo prodotto negli ultimi decenni nelle nostre scuole» da manuali e insegnanti «convinti di contribuire in questo modo alle fortune del progressismo "democratico" anziché, come invece è accaduto, a quelle di un autentico nichilismo storiografico».
Ecco, in questi giorni in cui la politica, complice il presidente Napolitano, ha trovato il modo di aprire l'ennesima sterile polemica sui festeggiamenti per l'Unità d'Italia, sarebbe invece il caso di trarre qualche lezione da questo dibattito e ripensare al modo in cui celebrare questa ricorrenza.
Ecco, in questi giorni in cui la politica, complice il presidente Napolitano, ha trovato il modo di aprire l'ennesima sterile polemica sui festeggiamenti per l'Unità d'Italia, sarebbe invece il caso di trarre qualche lezione da questo dibattito e ripensare al modo in cui celebrare questa ricorrenza.
Wednesday, August 19, 2009
Il Pd non riuscirà a liberarsi di Di Pietro
Ho fatto bene, ieri, a non dar peso alla presa di distanza di Bersani da Di Pietro, così netta che sembrava rivelare una voglia di rottura nell'aspirante segretario del Pd. Voglia che forse sente crescere dentro di sé, come molti nel Pd, ma che non si può permettere politicamente. Ebbene, spinto da alcuni colleghi di partito e dall'avversario Franceschini, lesto ad approfittarne («L'avversario del Pd si chiama Berlusconi. Non Di Pietro»), oggi Bersani si è rimangiato tutto: «Mi pare di aver detto delle cose chiare: sono lontano da ogni ipotesi di esclusività del ruolo del Pd. Voglio lavorare per la costruzione di un'alternativa, aprendo il dialogo con tutte le forze dell'opposizione».
Rispetto a Franceschini, certamente Bersani, da uomo di D'Alema, prova una certa insofferenza per l'ex pm e coltiva l'idea di un Pd perno centrale di una coalizione con l'Udc e la Sinistra radicale, all'interno di un sistema elettorale "tedesco". Ma non troverà il coraggio di proporre al suo partito la rottura con Di Pietro, di cui molti elettori del Pd condividono l'estremismo antiberlusconiano. Per i candidati leader il tema è scomodo e non amano pronunciarsi univocamente, ma ormai s'è capito: l'alleanza con Di Pietro s'ha da fare. Chi più chi meno turandosi il naso.
Rispetto a Franceschini, certamente Bersani, da uomo di D'Alema, prova una certa insofferenza per l'ex pm e coltiva l'idea di un Pd perno centrale di una coalizione con l'Udc e la Sinistra radicale, all'interno di un sistema elettorale "tedesco". Ma non troverà il coraggio di proporre al suo partito la rottura con Di Pietro, di cui molti elettori del Pd condividono l'estremismo antiberlusconiano. Per i candidati leader il tema è scomodo e non amano pronunciarsi univocamente, ma ormai s'è capito: l'alleanza con Di Pietro s'ha da fare. Chi più chi meno turandosi il naso.
Boom! Se l'alibi c'è
Se troveranno conferma le indiscrezioni riportate da Cristiana Lodi, questa mattina su Libero, ci ritroveremo con un altro, l'ennesimo, delitto irrisolto, un assassino ancora a piede libero, e un altro magistrato incapace che continuerà a far carriera sperperando denaro pubblico e distruggendo vite. Fiumi d'inchiostro e ore e ore di chiacchiere televisive (ricordate le puntate di Porta a Porta con la famigerata bicicletta scura?) verranno di colpo azzerati.
Secondo quanto trapelato, infatti, la maxi-perizia super-partes ordinata dal giudice che non se l'era sentita di pronunciare un verdetto (ma in questo caso, se non ha potuto giudicare oltre ogni ragionevole dubbio, non ci sarebbero già i presupposti per un'assoluzione?) confermerebbe l'alibi dichiarato da Alberto Stasi fin dalle prime ore: mentre Chiara Poggi veniva uccisa era a casa a scrivere la tesi di laurea al computer.
Hanno trovato l'archivio porno di Alberto, su cui sono stati costruiti improbabili moventi, ma non sono stati in grado di accertare subito l'unica cosa che contasse, e cioè se avesse davvero lavorato al pc quella mattina. Ora, dagli esiti delle ultime, e si spera definitive, analisi informatiche sembrerebbe emergere che ci sia stata «interazione» per l'intera mattina fino alle 12 e 20 minuti. Poi Stasi ha telefonato a Chiara dall'utenza fissa di casa sua, sia sul cellulare di lei (ore 12 e 46) che sul fisso.
Non c'è bisogno di sottolineare che se fossero davvero queste le conclusioni della maxi-perizia, crollerebbe l'intero impianto accusatorio costruito dal pm Rosa Muscio e dai Ris (che nonostante le fiction hanno poco a che vedere con i colleghi Usa), che si troverebbero con un pugno di mosche a due anni dal delitto. Così come, improvvisamente, apparirebbero per ciò che sono il mistero delle scarpe senza impronte di sangue, le tracce di Dna più o meno compatibile sulla bici, i porno nel pc che avrebbero fatto arrabbiare Chiara spingendo Alberto ad ucciderla: indizi contraddittori e congetture debolissime.
E quelle macchie di sangue sul pavimento che Alberto non avrebbe proprio potuto fare a meno di calpestare - ci è sempre stato dato per certo - per scoprire il corpo della fidanzata? Lo scorso 4 agosto è stata ricostruita la scena del delitto e Alberto ha accettato di prestarsi ad una simulazione per constatare se davvero si potevano percorrere le stanze insanguinate evitando di calpestare le macchie. Ebbene, per sei ore l'imputato ha ripetuto il percorso in tutte le condizioni - al buio, con la luce, in penombra - senza mai calpestarle. La cautela è d'obbligo, aspettiamo l'ufficialità, ma la sensazione è che in questa storia l'unico colpevole sia in procura.
Secondo quanto trapelato, infatti, la maxi-perizia super-partes ordinata dal giudice che non se l'era sentita di pronunciare un verdetto (ma in questo caso, se non ha potuto giudicare oltre ogni ragionevole dubbio, non ci sarebbero già i presupposti per un'assoluzione?) confermerebbe l'alibi dichiarato da Alberto Stasi fin dalle prime ore: mentre Chiara Poggi veniva uccisa era a casa a scrivere la tesi di laurea al computer.
Hanno trovato l'archivio porno di Alberto, su cui sono stati costruiti improbabili moventi, ma non sono stati in grado di accertare subito l'unica cosa che contasse, e cioè se avesse davvero lavorato al pc quella mattina. Ora, dagli esiti delle ultime, e si spera definitive, analisi informatiche sembrerebbe emergere che ci sia stata «interazione» per l'intera mattina fino alle 12 e 20 minuti. Poi Stasi ha telefonato a Chiara dall'utenza fissa di casa sua, sia sul cellulare di lei (ore 12 e 46) che sul fisso.
Non c'è bisogno di sottolineare che se fossero davvero queste le conclusioni della maxi-perizia, crollerebbe l'intero impianto accusatorio costruito dal pm Rosa Muscio e dai Ris (che nonostante le fiction hanno poco a che vedere con i colleghi Usa), che si troverebbero con un pugno di mosche a due anni dal delitto. Così come, improvvisamente, apparirebbero per ciò che sono il mistero delle scarpe senza impronte di sangue, le tracce di Dna più o meno compatibile sulla bici, i porno nel pc che avrebbero fatto arrabbiare Chiara spingendo Alberto ad ucciderla: indizi contraddittori e congetture debolissime.
E quelle macchie di sangue sul pavimento che Alberto non avrebbe proprio potuto fare a meno di calpestare - ci è sempre stato dato per certo - per scoprire il corpo della fidanzata? Lo scorso 4 agosto è stata ricostruita la scena del delitto e Alberto ha accettato di prestarsi ad una simulazione per constatare se davvero si potevano percorrere le stanze insanguinate evitando di calpestare le macchie. Ebbene, per sei ore l'imputato ha ripetuto il percorso in tutte le condizioni - al buio, con la luce, in penombra - senza mai calpestarle. La cautela è d'obbligo, aspettiamo l'ufficialità, ma la sensazione è che in questa storia l'unico colpevole sia in procura.
E' tempo di affrontare la questione fiscale
«Cercheremo di ridurre le spese dello Stato per tagliare le imposte e per far sentire agli italiani di non vivere in uno Stato tiranno che opprime i cittadini ma in uno Stato libero e amico». Parole di Silvio Berlusconi nell'ultima intervista rilasciata al settimanale Chi. La speranza è l'ultima a morire, ma sono trascorsi anni (e due legislature) e Berlusconi non ha ancora mantenuto la sua promessa più importante.
C'è da sperare che sia la volta buona, perché la "questione fiscale" è uno dei principali freni alla crescita e non c'è ripresa globale a cui possiamo sperare di agganciare la nostra economia se non ci liberiamo dei freni a casa nostra. La situazione attuale è quella descritta da Antonio Martino, oggi su Libero:
C'è da sperare che sia la volta buona, perché la "questione fiscale" è uno dei principali freni alla crescita e non c'è ripresa globale a cui possiamo sperare di agganciare la nostra economia se non ci liberiamo dei freni a casa nostra. La situazione attuale è quella descritta da Antonio Martino, oggi su Libero:
Il nostro Paese ha un sistema tributario indifendibile: aliquote da confisca producono un gettito irrisorio, l'elusione, erosione ed evasione sono la regola e quanti non riescono a sottrarsi alla penale di aliquote assurdamente alte finiscono col produrre, investire, risparmiare e lavorare meno di quanto farebbero altrimenti. Il Paese cresce meno di quanto potrebbe, l'erario incassa sensibilmente meno di quanto altrimenti farebbe, i contribuenti privi di scappatoie vengono tartassati ed i furbi la fanno franca. Questa situazione non va gestita, va cambiata radicalmente e subito. Non mi si venga a dire che c'è la crisi e quindi non possiamo cambiare: è vero il contrario, che proprio perché siamo in crisi non possiamo permetterci il lusso di un sistema fiscale irrazionale.In un altro articolo, sempre di oggi ma su Il Foglio, Martino suggerisce di non aspettare che qualcuno faccia da "locomotiva" della ripresa: «L'interdipendenza esiste ma la soluzione ai problemi di un paese deve essere cercata prima e soprattutto al suo interno: se le politiche sono giuste il paese ritroverà la via della crescita anche in assenza di impulsi provenienti dall'estero, se sono sbagliate non sarà l'andamento del resto del mondo a tirarlo fuori dai guai».
(...)
L'Italia ha bisogno di un fisco semplice, trasparente, basato su aliquote ragionevoli, dove chiunque sia in grado di adempiere ai suoi obblighi fiscali senza il rischio di finire distrutto dalle eccessive pretese del fisco. Un sistema che favorisca e non impedisca il lavoro, il risparmio, l'investimento e l'intrapresa economica. Pensate che se fosse possibile abolire tutte le scappatoie fiscali un'aliquota unica del 19% renderebbe più dell'attuale groviglio di aliquote da confisca e opportunità di farla franca. L'evasione è un reato e va sempre combattuta, ma il modo più efficace di combatterla non è quello di inasprire pene che resteranno sempre teoriche ma di renderla meno conveniente.
(...)
Abbassiamo quindi drasticamente le aliquote e chiudiamo il maggior numero possibile di scappatoie: l'Italia riprenderà a crescere, le entrate tributarie aumenteranno e non dovremo continuare ad assistere al pietoso spettacolo di un Paese composto da furbi e tartassati.
Monday, August 17, 2009
Una via liberale per il Sud
Così Angelo Panebianco oggi sul Corriere della Sera:
«La via liberale... è quella che dice: solo i meridionali, e nessun altro, possono risolvere i loro problemi. Lo Stato, quindi, offre al Sud, come ha suggerito da tempo l'Istituto Bruno Leoni, solo l'opportunità di trasformarsi in una grande no tax area interrompendo contestualmente i flussi di trasferimento di risorse. Lo Stato resterebbe al Sud solo con gli apparati della forza (per contrastare la criminalità) e i servizi pubblici essenziali. A quel punto, probabilmente, si scatenerebbe un conflitto feroce fra le forze modernizzatrici del Sud (che ci sono) e quel "clientelismo senza risorse", fino ad oggi dominante, di cui ha parlato recentemente il presidente della Confindustria siciliana Ivan Lo Bello. Essendo cambiate le condizioni del gioco, le forze modernizzatrici avrebbero, per la prima volta, la possibilità di prevalere».Ma Panebianco coglie il punto anche quando esamina l'altra via, quella «paternalista», diremmo statalista. Se si sceglie quest'ultima, «bisogna seguirla fino in fondo, coerentemente».
«In questo caso, è il centro che deve decidere tutto e a tutto sovrintendere. Anche con soluzioni istituzionali drastiche: fine di ogni autonomia regionale (Sanità in testa) e locale, azzeramento delle classi dirigenti colpevoli di sprechi, eccetera. Il problema è impedire che gli interventi modernizzatori del centro vengano distorti e le risorse centrali "catturate" da classi dirigenti locali interessate a sfamare clientele. Come accadde alla vecchia Cassa del Mezzogiorno e come accadrà di nuovo se si mescoleranno ancora centralismo e autonomia, paternalismo e liberalismo».
Roma più cara di Milano
Il capoluogo lombardo è al 26esimo posto su 32 metropoli europee, Roma al 21esimo. E' quanto emerge da una elaborazione della Camera di commercio di Milano su dati dell'Economist intelligence unit. Ne avevo avuto l'impressione le poche volte che sono salito a Milano in questi ultimi anni. Roma inoltre risulta la quinta città europea ad aver avuto la maggior crescita dei prezzi dall'introduzione dell'euro a oggi. E' Oslo la città più cara d'Europa, mentre Londra è in testa per gli affitti e Milano per l'abbigliamento.
Più convenienti del capoluogo lombardo solo Atene (indice: 99), Lisbona (96), Dusserldorf (93), e tre città dell'Est: Bucarest (86), Budapest (78) e Sofia (67). Roma al 21esimo posto (107). Tra le singole voci, poi, non sorprende che Milano sia la città meno cara in assoluto per il costo degli alcolici. E' invece al 27esimo posto per il costo delle utilities (prima Vienna con 210; ultima Praga con 63); al 25esimo per gli articoli per la casa (prima Oslo con 250; ultima Sofia con 63); al 24esimo per gli alimentari (prima Copenaghen con 155; ultime Budapest e Sofia con 66); al 21esimo posto per gli affitti (prima Londra con 404; ultima Sofia con 51); al 21esimo per la cura personale (prima Copenaghen con 146; ultima Sofia con 55).
Milano sale tra le 20 città più care per i divertimenti (al 19esimo posto: prima Oslo con 136; ultima Sofia con 65), per il costo del tabacco (al 16esimo posto; prima Oslo con 225; ultima Budapest con 51) e per i trasporti (al 15esimo posto; prima Oslo con 165; ultima Sofia con 61). Mentre è nella top-ten delle città europee più care per quanto riguarda l'abbigliamento: al quinto posto in assoluto (città più cara Francoforte con 110; città più conveniente Manchester con 41). Nota: sono stato a Francoforte lo scorso inverno e c'erano ottimi affari.
Per quanto riguarda l'aumento dei prezzi dopo l'introduzione dell'euro, qualcosa di cui ci eravamo accorti anche nel nostro piccolo: è Roma ad aver registrato gli aumenti più vertiginosi. Tra il 2002 e il 2008 i prezzi sono aumentati del 27,6% per l'agroalimentare, del 24,8% per gli alcolici, del 49,3% per gli articoli per la casa, del 28,3% per i prodotti per la cura personale, del 39,1% per il settore del tabacco, del 31,8% per le utilities, del 5,2% per l'abbigliamento, del 13,7% per il divertimento, del 30,2% per i trasporti, del 29,4% per gli affitti (all'ottavo posto di questa classifica, mentre Milano è al 16esimo, con un +23,5%).
Più convenienti del capoluogo lombardo solo Atene (indice: 99), Lisbona (96), Dusserldorf (93), e tre città dell'Est: Bucarest (86), Budapest (78) e Sofia (67). Roma al 21esimo posto (107). Tra le singole voci, poi, non sorprende che Milano sia la città meno cara in assoluto per il costo degli alcolici. E' invece al 27esimo posto per il costo delle utilities (prima Vienna con 210; ultima Praga con 63); al 25esimo per gli articoli per la casa (prima Oslo con 250; ultima Sofia con 63); al 24esimo per gli alimentari (prima Copenaghen con 155; ultime Budapest e Sofia con 66); al 21esimo posto per gli affitti (prima Londra con 404; ultima Sofia con 51); al 21esimo per la cura personale (prima Copenaghen con 146; ultima Sofia con 55).
Milano sale tra le 20 città più care per i divertimenti (al 19esimo posto: prima Oslo con 136; ultima Sofia con 65), per il costo del tabacco (al 16esimo posto; prima Oslo con 225; ultima Budapest con 51) e per i trasporti (al 15esimo posto; prima Oslo con 165; ultima Sofia con 61). Mentre è nella top-ten delle città europee più care per quanto riguarda l'abbigliamento: al quinto posto in assoluto (città più cara Francoforte con 110; città più conveniente Manchester con 41). Nota: sono stato a Francoforte lo scorso inverno e c'erano ottimi affari.
Per quanto riguarda l'aumento dei prezzi dopo l'introduzione dell'euro, qualcosa di cui ci eravamo accorti anche nel nostro piccolo: è Roma ad aver registrato gli aumenti più vertiginosi. Tra il 2002 e il 2008 i prezzi sono aumentati del 27,6% per l'agroalimentare, del 24,8% per gli alcolici, del 49,3% per gli articoli per la casa, del 28,3% per i prodotti per la cura personale, del 39,1% per il settore del tabacco, del 31,8% per le utilities, del 5,2% per l'abbigliamento, del 13,7% per il divertimento, del 30,2% per i trasporti, del 29,4% per gli affitti (all'ottavo posto di questa classifica, mentre Milano è al 16esimo, con un +23,5%).
Friday, August 14, 2009
Birmania, se il "gioco" nucleare nordcoreano fa scuola
Su il Velino
Non ci sarebbe di che meravigliarsi se i casi della Corea del Nord e dell'Iran avessero fatto scuola e se anche la giunta militare al potere nell'ex Birmania avesse avviato un proprio programma nucleare con l'aiuto dei nordcoreani. Negli anni, a fronte di accordi mai rispettati, test missilistici e continue provocazioni, la comunità internazionale, con in testa gli Stati Uniti, ha garantito al regime di Pyongyang attenzioni, dialogo, legittimazione politica, persino aiuti. Alcune settimane fa, sul Washington Post, l'ex segretario di Stato Usa Henry Kissinger ha avvertito che è giunto il momento di fare sul serio, di porre come obiettivo degli sforzi diplomatici la definitiva eliminazione dell'arsenale e del programma nucleare nordcoreano, perché altrimenti, proseguendo con un processo negoziale ormai sul punto di legittimare il "fatto compiuto", la politica di non-proliferazione perderebbe ogni credibilità.
Il rischio è che solo avviare - o far credere di aver avviato - un programma nucleare militare possa rappresentare un capitale politico da spendere sulla scena internazionale, come da anni sta facendo la Corea del Nord, e che agli occhi dei dittatori possa quindi apparire come il modo migliore per garantirsi la permanenza al potere. Inseguendo l'atomica, regimi altrimenti isolati come il Myanmar potrebbero pensare di catturare l'attenzione delle grandi potenze, e in particolare degli Usa (in prima linea negli sforzi per la non-proliferazione), portandole prima o poi ad aprire canali di dialogo più o meno diretti, che in ogni caso e alla lunga sortiscono un effetto legittimante.
Proprio il Myanmar (l'ex Birmania) è al centro dell'attenzione degli analisti in questi giorni, ma non solo per la nuova condanna agli arresti domiciliari inflitta alla leader dell'opposizione democratica e Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Sospetti sulle ambizioni nucleari della giunta militare birmana esistono da tempo, ma recentemente si sono rafforzati. Alcuni segnali delle ultime settimane fanno temere che la Corea del Nord stia effettivamente aiutando il Myanmar a dotarsi dell'atomica.
CONTINUA
Non ci sarebbe di che meravigliarsi se i casi della Corea del Nord e dell'Iran avessero fatto scuola e se anche la giunta militare al potere nell'ex Birmania avesse avviato un proprio programma nucleare con l'aiuto dei nordcoreani. Negli anni, a fronte di accordi mai rispettati, test missilistici e continue provocazioni, la comunità internazionale, con in testa gli Stati Uniti, ha garantito al regime di Pyongyang attenzioni, dialogo, legittimazione politica, persino aiuti. Alcune settimane fa, sul Washington Post, l'ex segretario di Stato Usa Henry Kissinger ha avvertito che è giunto il momento di fare sul serio, di porre come obiettivo degli sforzi diplomatici la definitiva eliminazione dell'arsenale e del programma nucleare nordcoreano, perché altrimenti, proseguendo con un processo negoziale ormai sul punto di legittimare il "fatto compiuto", la politica di non-proliferazione perderebbe ogni credibilità.
Il rischio è che solo avviare - o far credere di aver avviato - un programma nucleare militare possa rappresentare un capitale politico da spendere sulla scena internazionale, come da anni sta facendo la Corea del Nord, e che agli occhi dei dittatori possa quindi apparire come il modo migliore per garantirsi la permanenza al potere. Inseguendo l'atomica, regimi altrimenti isolati come il Myanmar potrebbero pensare di catturare l'attenzione delle grandi potenze, e in particolare degli Usa (in prima linea negli sforzi per la non-proliferazione), portandole prima o poi ad aprire canali di dialogo più o meno diretti, che in ogni caso e alla lunga sortiscono un effetto legittimante.
Proprio il Myanmar (l'ex Birmania) è al centro dell'attenzione degli analisti in questi giorni, ma non solo per la nuova condanna agli arresti domiciliari inflitta alla leader dell'opposizione democratica e Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Sospetti sulle ambizioni nucleari della giunta militare birmana esistono da tempo, ma recentemente si sono rafforzati. Alcuni segnali delle ultime settimane fanno temere che la Corea del Nord stia effettivamente aiutando il Myanmar a dotarsi dell'atomica.
CONTINUA
Diplomazia senza politica
Tutto qui? Se davvero le nuove sanzioni minacciate ai danni della giunta militare birmana per la condanna del Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi si riducono, come sembra, a colpire i quattro giudici responsabili del verdetto, aggiunti nella lista delle persone indesiderate, e i loro beni congelati, l'Unione europea si copre di ridicolo. Tanto tuonò che non piovve. Né ha avuto gran forza la reazione americana, ma vedremo quali risultati porterà a casa il senatore Usa Jim Webb, stretto collaboratore del presidente Obama - almeno così pare - in visita in Birmania per incontrarsi con la giunta. Per non parlare del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, organo ormai del tutto ininfluente che non fa che esprimere "preoccupazioni".
Tutto questo circo diplomatico viene preso di mira da Claudia Rosett, che coglie il lato tragi-comico di una diplomazia ormai fine a se stessa, che accompagna una non-politica, con le sue parole vuote, rituali, senza alcun seguito, come i vari "concerned", disappointed", "unacceptable":
Tutto questo circo diplomatico viene preso di mira da Claudia Rosett, che coglie il lato tragi-comico di una diplomazia ormai fine a se stessa, che accompagna una non-politica, con le sue parole vuote, rituali, senza alcun seguito, come i vari "concerned", disappointed", "unacceptable":
«There's a comic side to this, as over-use and misuse combine to empty this already vacuous jargon of any real meaning».Qui non s'intende contestare le espressioni diplomatiche in sé, a volte la loro inevitabile inafferrabilità, ma il fatto che dietro di esse si nasconda molto spesso un vuoto politico.
Thursday, August 13, 2009
La ripresa darà ragione alla Thatcher
La predizione di Bill Emmot, sul Times, mi sembra verosimile:
I would venture a prediction: five or ten years hence, we will conclude that the countries that recovered most strongly and durably from the 2007-09 recession were those whose economies were the most flexible, the most able to seek out new opportunities and to shift resources from dud old sectors to new ones - which means more liberal countries, such as Britain and America. Over-regulated Europe will feel obliged again to shuffle in a liberal direction. Japan got stuck in its 1990s stagnation because its economy proved too rigid. That is the case for liberalism: not that markets are always right, but that they are a system of constant experimentation and adaptation that governments thwart at their countries' peril.
Wednesday, August 12, 2009
Salari differenziati, polemica surreale
E Calderoli apre il capitolo tasse
Una polemica surreale quella degli ultimi giorni sulle cosiddette "gabbie salariali", in cui per pura demagogia si è impiccata a una brutta espressione un'idea ampiamente condivisa da sindacati, Confindustria e governo, ma anche da esponenti riformisti del Pd, come il giuslavorista e senatore Pietro Ichino. Talmente condivisa che rientra già nell'accordo quadro siglato il 22 gennaio scorso da tutte le parti sociali (tranne la Cgil) per la riforma del modello contrattuale. Il meccanismo perverso che è scattato l'ha descritto bene Vittorio Macioce, oggi su il Giornale:
Nel nuovo sistema viene riconosciuto più spazio alla «contrattazione decentrata, di per sé virtuosa perché naturalmente votata a riflettere indicatori di produttività e di specifico costo della vita nei diversi ambiti aziendali e territoriali». «È in questo contesto - sottolinea il ministro - che devono essere lette tutte le affermazioni di questo pigro mese di agosto». I salari differenziati quindi saranno frutto della contrattazione territoriale e aziendale, non di un'imposizione dall'alto com'era prima che venissero abolite, alla fine degli anni '60, le cosiddette "gabbie salariali".
«Nessuno vuole il ripristino di meccanismi di indicizzazione dei salari al costo o ai costi della vita perché ne abbiamo già sperimentato gli effetti inflattivi. Nel governo tutti riconoscono la insostituibile funzione della contrattazione collettiva che nessuna legislazione centralistica può sostituire. Tutti vogliamo una più equa distribuzione della ricchezza attraverso i salari quale è stata negata dall'egualitarismo e dal centralismo retributivo», spiega Sacconi. Spetta alle parti, aggiunge, «dimostrare, fino a prova contraria, la capacità di definire con il contratto nazionale una dinamica minima delle retribuzioni e con i contratti decentrati parti sempre più consistenti del reddito secondo differenziazioni eque e trasparenti».
Saranno incoraggiati a fare ciò dalla detassazione e dalla decontribuzione già introdotte dal governo sulle componenti della retribuzione «variabilmente determinate in sede locale». «La tassazione secca e definitiva al solo 10% delle parti variabili del salario erogate unilateralmente o determinate dalla contrattazione nella dimensione territoriale e aziendale», spiega il ministro, è stata la «premessa» per quel «nuovo modello contrattuale che le parti sociali - con l'unica autoesclusione della Cgil - hanno pochi mesi dopo sottoscritto».
«Tutti nel governo pensano che spetti al contratto, e alla contrattazione decentrata in particolare, la realizzazione della diffenziazione delle retribuzioni», assicura Sacconi cercando di chiudere le polemiche. E oggi interviene di nuovo colui che, pur non parlando mai di "gabbie salariali", aveva acceso la miccia, il ministro Calderoli, che a La Stampa rivendica di voler «affrontare con serietà le due questioni collegate, quella meridionale e quella settentrionale», lanciando una nuova duplice proposta: azzerare del tutto l'Ires alle aziende che aprono e creano nuova occupazione al Sud; tagliare le imposte dirette, «l'Irpef tanto per capirsi», al Nord, dove il costo della vita è maggiore. Il ministro della Lega confessa di non averne ancora parlato con il ministro Tremonti, ma finalmente qualcuno che apre il capitolo tasse.
Altrettanto surreale poi, ricorda Macioce, la polemica sulle ronde, l'idea innocua, anzi di civiltà e comunque già consentita dalla legge, «di guardie civiche, dei liberi cittadini dei comuni che si organizzano per difendere le strade della propria città».
Una polemica surreale quella degli ultimi giorni sulle cosiddette "gabbie salariali", in cui per pura demagogia si è impiccata a una brutta espressione un'idea ampiamente condivisa da sindacati, Confindustria e governo, ma anche da esponenti riformisti del Pd, come il giuslavorista e senatore Pietro Ichino. Talmente condivisa che rientra già nell'accordo quadro siglato il 22 gennaio scorso da tutte le parti sociali (tranne la Cgil) per la riforma del modello contrattuale. Il meccanismo perverso che è scattato l'ha descritto bene Vittorio Macioce, oggi su il Giornale:
«E' chiaro che se uno le chiama così ti riportano agli anni '50, a qualcosa di vecchio, ammuffito, sepolto, abbandonato. E allora il signor Bonanni della Cisl parla di ritorno all'Unione Sovietica, che da queste parti comunque non c'è mai stata, gli operai del Sud pensano che qualcuno sta lì con le forbici a tagliare i loro stipendi, già all'osso, i politici si preoccupano di perdere voti, tutti fanno la voce grossa e qualcuno ci marcia evocando fame e malattie, tanto qualche Savonarola in giro non manca mai. Quella che doveva essere una mossa per rendere il costo dei lavoro meno stagnante, una sorta di rivoluzione contro la dittatura dei contratti nazionali, un modo per legare il salario alla produttività e dare un po' di respiro alle buste paga di chi lavora a Torino, a Milano o a Roma, dove il costo della vita è senza dubbio più alto, diventa invece una restaurazione, un tuffo nel passato. La cosa strana di questa storia è che poi tutti dicono: sì, bisogna difendere i salari reali. Oppure: sì, bisogna dare più spazio alla contrattazione aziendale e territoriale. Basta chiamare le cose con un nome diverso? Basta dire, come fa Brunetta, la parola magica federalismo? Federalismo dei salari? Forse sì. Ed è come se in questo Paese le riforme si incagliassero sullo scoglio di qualche parola, un eterno gioco di parole tabù, parole che non si possono dire, parole maledette, parole che fanno mettere mano alla pistola al solito esercito di benpensanti. Bum. Al minimo movimento spara. Il risultato è che tutto il dibattito politico gira intorno ai vocaboli. Non ci sono più casi da risolvere, ma parole da spianare».Una polemica montata «sul nulla», si sfoga stamane Berlusconi: «Mai parlato di gabbie salariali». La possibilità di salari differenziati è infatti demandata «alla contrattazione decentrata, già approvata peraltro dalle categorie sindacali, Cgil esclusa», in base, appunto, all'accordo per il nuovo sistema contrattuale, come prova a spiegare intervenendo sul Sole 24 Ore anche il ministro del Lavoro Sacconi, che di quell'accordo è stato l'artefice. L'obiettivo della riforma è di superare il vecchio modello di «contrattazione centralizzata», che ha sì contenuto le spinte inflattive negli scorsi decenni, ma che alla lunga ha prodotto «bassi salari e bassa produttività». «L'andamento delle retribuzioni si era infatti rivelato piatto e moderato perché una contrattazione centralizzata non può che tararsi sui vagoni più lenti del convoglio delle imprese».
Nel nuovo sistema viene riconosciuto più spazio alla «contrattazione decentrata, di per sé virtuosa perché naturalmente votata a riflettere indicatori di produttività e di specifico costo della vita nei diversi ambiti aziendali e territoriali». «È in questo contesto - sottolinea il ministro - che devono essere lette tutte le affermazioni di questo pigro mese di agosto». I salari differenziati quindi saranno frutto della contrattazione territoriale e aziendale, non di un'imposizione dall'alto com'era prima che venissero abolite, alla fine degli anni '60, le cosiddette "gabbie salariali".
«Nessuno vuole il ripristino di meccanismi di indicizzazione dei salari al costo o ai costi della vita perché ne abbiamo già sperimentato gli effetti inflattivi. Nel governo tutti riconoscono la insostituibile funzione della contrattazione collettiva che nessuna legislazione centralistica può sostituire. Tutti vogliamo una più equa distribuzione della ricchezza attraverso i salari quale è stata negata dall'egualitarismo e dal centralismo retributivo», spiega Sacconi. Spetta alle parti, aggiunge, «dimostrare, fino a prova contraria, la capacità di definire con il contratto nazionale una dinamica minima delle retribuzioni e con i contratti decentrati parti sempre più consistenti del reddito secondo differenziazioni eque e trasparenti».
Saranno incoraggiati a fare ciò dalla detassazione e dalla decontribuzione già introdotte dal governo sulle componenti della retribuzione «variabilmente determinate in sede locale». «La tassazione secca e definitiva al solo 10% delle parti variabili del salario erogate unilateralmente o determinate dalla contrattazione nella dimensione territoriale e aziendale», spiega il ministro, è stata la «premessa» per quel «nuovo modello contrattuale che le parti sociali - con l'unica autoesclusione della Cgil - hanno pochi mesi dopo sottoscritto».
«Tutti nel governo pensano che spetti al contratto, e alla contrattazione decentrata in particolare, la realizzazione della diffenziazione delle retribuzioni», assicura Sacconi cercando di chiudere le polemiche. E oggi interviene di nuovo colui che, pur non parlando mai di "gabbie salariali", aveva acceso la miccia, il ministro Calderoli, che a La Stampa rivendica di voler «affrontare con serietà le due questioni collegate, quella meridionale e quella settentrionale», lanciando una nuova duplice proposta: azzerare del tutto l'Ires alle aziende che aprono e creano nuova occupazione al Sud; tagliare le imposte dirette, «l'Irpef tanto per capirsi», al Nord, dove il costo della vita è maggiore. Il ministro della Lega confessa di non averne ancora parlato con il ministro Tremonti, ma finalmente qualcuno che apre il capitolo tasse.
Altrettanto surreale poi, ricorda Macioce, la polemica sulle ronde, l'idea innocua, anzi di civiltà e comunque già consentita dalla legge, «di guardie civiche, dei liberi cittadini dei comuni che si organizzano per difendere le strade della propria città».
«Non sono armati, guardano soltanto. Fanno luce, come le insegne dei negozi che rendono meno buia la notte. Magari non risolvono il problema, ma un po' tutti pensano che una mano di aiuto la possono dare. Come le chiamiamo? Ronde. E qui la fantasia si scatena. E tutti i discorsi si aggrovigliano sul nulla. Non si discute più di sicurezza, ma di fantapolitica. Le guardie civiche possono far sorridere, come i boy scout, ma tutte queste elucubrazioni sul regime sono irritanti. È lo starnazzo di troppa gente che non ha mai visto in faccia una dittatura. Regime, regime, regime, ma le ronde, poi, le fanno anche i sindaci di sinistra, solo che le chiamano in un altro modo. Teatro dell'assurdo».Come quando Berlusconi, qualche giorno fa, ha detto che la Rai non deve attaccare maggioranza e opposizione. «Nulla di scandaloso». Anzi, persino una banalità, e cioè che «il servizio pubblico, pagato da tutti, non può essere partigiano». Ma poi le parole sono state «tagliate e rimodellate» per far credere che Berlusconi vuole una Rai che non riporti notizie scomode per il governo. «La vischiosità del passato è l'ultima risorsa dei sacerdoti del Novecento. E il futuro resta imbrigliato in una ragnatela di parole», conclude Macioce.
Tuesday, August 11, 2009
Tutto come previsto, ancora 18 mesi
Il verdetto di condanna non è mai stato in dubbio e dopo numerosi rinvii "tattici" del regime, nella speranza di far scemare l'attenzione internazionale sul caso, stamane è arrivato. Aung San Suu Kyi è stata ritenuta colpevole di aver violato gli arresti domiciliari e condannata a tre anni di carcere. La Corte ha concesso ai giornalisti di assistere alla lettura della sentenza, ma solo perché era in programma l'ennesima sceneggiata. Dopo qualche minuto di pausa, infatti, il colpo di teatro. Ha fatto il suo ingresso in aula il ministro degli Interni birmano, il quale ha letto un ordine speciale di Than Shwe, leader della giunta militare al potere, che commutava la pena a "18 mesi di arresti domiciliari". Giusto il tempo per togliere dalla circolazione la leader dell'opposizione birmana per tutto il 2010, anno in cui si terranno le elezioni-farsa.
Fin dall'inizio il caso che ha portato al nuovo processo nei confronti di Suu Kyi è sembrato una montatura creata ad arte dal regime. Il 14 maggio scorso il nuovo arresto, quando neanche due settimane dopo, il 27 maggio, sarebbero scaduti i termini degli arresti domiciliari che duravano da sei anni, prorogati più volte di anno in anno dal 2003. Ma proprio a pochi giorni dalla scadenza, ecco quello strano individuo che riusciva a introdursi nella villa - controllatissima - della dissidente e a rimanerci due notti approfittando della sua ospitalità. Un caso preso subito a pretesto dal regime, o addirittura pianificato - come si direbbe alla luce di una tempistica a dir poco sospetta - per mantenere Aung San Suu Kyi ancora agli arresti.
Adesso vedremo come la comunità internazionale, ma soprattutto Europa e Stati Uniti, reagiranno. Se si limiteranno alle sdegnate dichiarazioni di queste ore, o se adotteranno misure concrete nei confronti della giunta militare birmana.
Fin dall'inizio il caso che ha portato al nuovo processo nei confronti di Suu Kyi è sembrato una montatura creata ad arte dal regime. Il 14 maggio scorso il nuovo arresto, quando neanche due settimane dopo, il 27 maggio, sarebbero scaduti i termini degli arresti domiciliari che duravano da sei anni, prorogati più volte di anno in anno dal 2003. Ma proprio a pochi giorni dalla scadenza, ecco quello strano individuo che riusciva a introdursi nella villa - controllatissima - della dissidente e a rimanerci due notti approfittando della sua ospitalità. Un caso preso subito a pretesto dal regime, o addirittura pianificato - come si direbbe alla luce di una tempistica a dir poco sospetta - per mantenere Aung San Suu Kyi ancora agli arresti.
Adesso vedremo come la comunità internazionale, ma soprattutto Europa e Stati Uniti, reagiranno. Se si limiteranno alle sdegnate dichiarazioni di queste ore, o se adotteranno misure concrete nei confronti della giunta militare birmana.
Friday, August 07, 2009
Usa-Iran, come sta cambiando la politica di Obama
Dopo le "carote", settembre potrebbe essere il mese del "bastone"
La principale svolta di Obama nella politica estera americana, l'apertura al dialogo con l'Iran, è stata travolta dagli eventi in soli sei mesi. La crisi politica scoppiata dopo la contestata rielezione di Ahmadinejad - lungi dall'essere superata - rende prossime allo zero le già esigue possibilità di risposta positiva da parte di Teheran. Ancor più di prima, infatti, la paranoia del nemico esterno, la corsa all'atomica e la chiusura verso qualsiasi compromesso con il "Grande Satana", saranno per Khamenei e Ahmadinejad strumenti irrinunciabili per ricompattare il regime e rinsaldare il loro potere. A meno che Ahmadinejad non sia tentato dal calcolo ipotizzato qualche giorno fa da Amir Taheri.
A Washington sono consapevoli della mutata situazione. Tra l'altro, ad una lettera personale che secondo il Washington Times il presidente Obama avrebbe segretamente inviato ad Ali Khamenei agli inizi di maggio, la Guida Suprema, rivela il New York Times, avrebbe risposto in modo «deludente». Ufficialmente le porte rimangono aperte, ma Obama si aspetta una risposta entro la fine dell'anno e sono allo studio i passi successivi nel caso di una mancata, o negativa, risposta da parte di Teheran. Il piano "B", nel caso in cui la diplomazia fallisse, non prevede solo nuove sanzioni, ma anche l'opzione militare.
La mattina del 3 agosto il segretario di Stato, Hillary Clinton, ha presieduto una videoconferenza con 20 funzionari del Dipartimento di Stato in servizio in sei località del mondo elette «punti di osservazione» privilegiati sull'Iran. Gli «occhi e le orecchie» dell'America sulla Repubblica islamica. Tra i funzionari è emerso un ampio consenso nel ritenere che la crisi in corso indurrà Teheran a concentrarsi sulla politica interna piuttosto che sulle sue relazioni bi e multilaterali. La Clinton ha ribadito la volontà americana di aprire con gli iraniani un «canale bilaterale», ma ha tenuto a sottolineare di aver «più volte ripetuto che in assenza di una risposta positiva da parte del governo iraniano la comunità internazionale si consulterà sui prossimi passi, e certamente i prossimi passi possono includere sanzioni».
Ma non è l'unico segnale che l'amministrazione Obama ritiene che si siano affievolite, se non del tutto azzerate, le possibilità di una risposta in tempi brevi da parte iraniana alla sua offerta di "engagement". Durante la sua visita in Israele della settimana scorsa, il segretario alla Difesa Gates ha delineato la tempistica Usa: l'Iran ha più o meno fino all'Assemblea generale Onu di metà settembre per rispondere positivamente all'offerta di negoziati bilaterali o multilaterali sul suo programma nucleare, dopo di che scatterà il tentativo di imporre sanzioni più dure, compreso un possibile embargo sull'esportazione in Iran di prodotti petroliferi raffinati, inclusi carburanti come benzina e gasolio. E' improbabile che Russia e Cina saranno d'accordo, ma gli Usa sembrano intenzionati a ottenere un regime più aggressivo di sanzioni, per aumentare la pressione e spingere l'Iran a rispondere all'offerta di dialogo, nonché per dissuadere Israele dall'agire unilateralmente.
L'amministrazione Obama in ogni caso non sembrerebbe affatto essersi rassegnata a un Iran nucleare, come aveva fatto credere l'incauta uscita di Hillary Clinton sull'«ombrello difensivo» da offrire ai Paesi arabi e del Golfo, che ha indotto molti a pensare che Obama non considerasse più inaccettabile l'atomica iraniana e che si preparasse al contenimento e alla deterrenza - linea dei realisti Scowcroft e Brzezinski, secondo cui l'Iran può essere contenuto come si è fatto con l'Urss. Una delle opzioni è quella definita dall'analista della Brookings Institution, Kenneth Pollack, «Leave it to Bibi», cioè lasciare che sia Israele ad attaccare gli impianti nucleari iraniani. Ma il messaggio recapitato da Gates ai leader israeliani sembra essere esattamente il contrario.
Secondo fonti militari e di intelligence israeliane, infatti, il segretario alla Difesa Usa avrebbe assicurato a Israele che, oltre a nuove e più dure sanzioni, l'amministrazione Obama è tornata a considerare, sia pure come ultima risorsa, l'opzione militare unilaterale contro l'Iran. Ma gli Usa avrebbero anche chiesto allo stato ebraico di lasciare che siano loro ad occuparsene. Ad avvalorare il ritorno dell'opzione militare sul tavolo, la notizia che il Pentagono sta cercando di ottenere dal Congresso i fondi necessari per accelerare il programma di costruzione della Massive Ordnance Penetrator. Una bomba da 13,6 tonnellate, che trasportata dai bombardieri invisibili ai radar B-2 sarebbe in grado di distruggere i bunker sotterranei penetrando a una profondità di 60 metri prima di esplodere.
Oggi, sul Wall Street Journal, il generale Chuck Wald ha contestato le convinzioni diffuse secondo cui le forze armate Usa sarebbero troppo «stressate», che non disporrebbero di un'adeguata intelligence per individuare i siti nucleari iraniani, né di armi in grado di distruggere i bunker sotterranei. «Se le pressioni diplomatiche ed economiche falliscono - assicura - quella militare è un’opzione tecnicamente fattibile e credibile».
La principale svolta di Obama nella politica estera americana, l'apertura al dialogo con l'Iran, è stata travolta dagli eventi in soli sei mesi. La crisi politica scoppiata dopo la contestata rielezione di Ahmadinejad - lungi dall'essere superata - rende prossime allo zero le già esigue possibilità di risposta positiva da parte di Teheran. Ancor più di prima, infatti, la paranoia del nemico esterno, la corsa all'atomica e la chiusura verso qualsiasi compromesso con il "Grande Satana", saranno per Khamenei e Ahmadinejad strumenti irrinunciabili per ricompattare il regime e rinsaldare il loro potere. A meno che Ahmadinejad non sia tentato dal calcolo ipotizzato qualche giorno fa da Amir Taheri.
A Washington sono consapevoli della mutata situazione. Tra l'altro, ad una lettera personale che secondo il Washington Times il presidente Obama avrebbe segretamente inviato ad Ali Khamenei agli inizi di maggio, la Guida Suprema, rivela il New York Times, avrebbe risposto in modo «deludente». Ufficialmente le porte rimangono aperte, ma Obama si aspetta una risposta entro la fine dell'anno e sono allo studio i passi successivi nel caso di una mancata, o negativa, risposta da parte di Teheran. Il piano "B", nel caso in cui la diplomazia fallisse, non prevede solo nuove sanzioni, ma anche l'opzione militare.
La mattina del 3 agosto il segretario di Stato, Hillary Clinton, ha presieduto una videoconferenza con 20 funzionari del Dipartimento di Stato in servizio in sei località del mondo elette «punti di osservazione» privilegiati sull'Iran. Gli «occhi e le orecchie» dell'America sulla Repubblica islamica. Tra i funzionari è emerso un ampio consenso nel ritenere che la crisi in corso indurrà Teheran a concentrarsi sulla politica interna piuttosto che sulle sue relazioni bi e multilaterali. La Clinton ha ribadito la volontà americana di aprire con gli iraniani un «canale bilaterale», ma ha tenuto a sottolineare di aver «più volte ripetuto che in assenza di una risposta positiva da parte del governo iraniano la comunità internazionale si consulterà sui prossimi passi, e certamente i prossimi passi possono includere sanzioni».
Ma non è l'unico segnale che l'amministrazione Obama ritiene che si siano affievolite, se non del tutto azzerate, le possibilità di una risposta in tempi brevi da parte iraniana alla sua offerta di "engagement". Durante la sua visita in Israele della settimana scorsa, il segretario alla Difesa Gates ha delineato la tempistica Usa: l'Iran ha più o meno fino all'Assemblea generale Onu di metà settembre per rispondere positivamente all'offerta di negoziati bilaterali o multilaterali sul suo programma nucleare, dopo di che scatterà il tentativo di imporre sanzioni più dure, compreso un possibile embargo sull'esportazione in Iran di prodotti petroliferi raffinati, inclusi carburanti come benzina e gasolio. E' improbabile che Russia e Cina saranno d'accordo, ma gli Usa sembrano intenzionati a ottenere un regime più aggressivo di sanzioni, per aumentare la pressione e spingere l'Iran a rispondere all'offerta di dialogo, nonché per dissuadere Israele dall'agire unilateralmente.
L'amministrazione Obama in ogni caso non sembrerebbe affatto essersi rassegnata a un Iran nucleare, come aveva fatto credere l'incauta uscita di Hillary Clinton sull'«ombrello difensivo» da offrire ai Paesi arabi e del Golfo, che ha indotto molti a pensare che Obama non considerasse più inaccettabile l'atomica iraniana e che si preparasse al contenimento e alla deterrenza - linea dei realisti Scowcroft e Brzezinski, secondo cui l'Iran può essere contenuto come si è fatto con l'Urss. Una delle opzioni è quella definita dall'analista della Brookings Institution, Kenneth Pollack, «Leave it to Bibi», cioè lasciare che sia Israele ad attaccare gli impianti nucleari iraniani. Ma il messaggio recapitato da Gates ai leader israeliani sembra essere esattamente il contrario.
Secondo fonti militari e di intelligence israeliane, infatti, il segretario alla Difesa Usa avrebbe assicurato a Israele che, oltre a nuove e più dure sanzioni, l'amministrazione Obama è tornata a considerare, sia pure come ultima risorsa, l'opzione militare unilaterale contro l'Iran. Ma gli Usa avrebbero anche chiesto allo stato ebraico di lasciare che siano loro ad occuparsene. Ad avvalorare il ritorno dell'opzione militare sul tavolo, la notizia che il Pentagono sta cercando di ottenere dal Congresso i fondi necessari per accelerare il programma di costruzione della Massive Ordnance Penetrator. Una bomba da 13,6 tonnellate, che trasportata dai bombardieri invisibili ai radar B-2 sarebbe in grado di distruggere i bunker sotterranei penetrando a una profondità di 60 metri prima di esplodere.
Oggi, sul Wall Street Journal, il generale Chuck Wald ha contestato le convinzioni diffuse secondo cui le forze armate Usa sarebbero troppo «stressate», che non disporrebbero di un'adeguata intelligence per individuare i siti nucleari iraniani, né di armi in grado di distruggere i bunker sotterranei. «Se le pressioni diplomatiche ed economiche falliscono - assicura - quella militare è un’opzione tecnicamente fattibile e credibile».
Thursday, August 06, 2009
Il "sussidio occulto"
A proposito di salari differenziati, oggi Alberto Alesina, sul Sole 24 Ore, mette il dito nella piaga, sollevando la questione del pubblico impiego. L'idea di legare i salari ai diversi livelli del costo della vita fra Sud e Nord, avanzata da alcuni membri del governo, è «ottima e allo stesso tempo risponde a criteri di razionalità economica e di giustizia». Una insegnante a Milano e a Caserta, osserva Alesina, è pagata allo stesso modo. «Come si può pensare che sia giusto così?». E a questo «si aggiunge il fatto che il pubblico impiego al Sud, in proporzione alla popolazione o a qualsiasi altro indicatore (necessità geografiche, reddito medio) è molto più alto che al Nord. Quindi nel Mezzogiorno i dipendenti pubblici sono molti e pagati meglio in termini reali, visto che i salari nominali sono uguali a quelli del Nord».
Secondo Alesina, che cita una sua simulazione di qualche anno fa, «la spesa per i salari pubblici al Sud era del 30-50 per cento più alta di quella ipotetica calcolata con criteri di uguaglianza nei confronti del Nord, sia in termini di tasso occupazionale sia di livello di salari reali. Insomma, fino a metà della spesa per il pubblico impiego al Sud la si poteva considerare un sussidio occulto». «Si può sicuramente discutere - concede Alesina - se sia giusto che il Nord, più ricco, regali risorse al Sud. Ma il punto è quale sia il modo migliore di farlo, per evitare incentivi perversi che finiscano per ostacolare lo sviluppo dei Mezzogiorno stesso».
E «garantire un pubblico impiego remunerato (in termini reali) più al Sud che al Nord è un metodo sbagliato». E' ovvio infatti che rispetto a un lavoro nel settore privato, un residente nel Sud preferisca l'impiego pubblico, fra l'altro a vita e senza alcun rischio. «Ecco allora un minore interesse per il lavoro nel settore privato, difficoltà per gli imprenditori a trovare forza lavoro per la concorrenza del posto statale, e forte domanda di occupazione pubblica che si traduce poi in pressioni politiche in quel senso. E il circolo vizioso continua».
Le reazioni dei sindacati e del Pd avranno un sicuro effetto politico: «Un'alzata di scudi non farà che peggiorare ancora il loro risultato elettorale al Nord con probabili ulteriori perdite di voti verso la Lega». Per quanto riguarda il governo, «il cosiddetto partito del Sud sicuramente insorgerà, ma è auspicabile che forte della sua maggioranza prenda in considerazione la proposta».
Secondo Alesina, che cita una sua simulazione di qualche anno fa, «la spesa per i salari pubblici al Sud era del 30-50 per cento più alta di quella ipotetica calcolata con criteri di uguaglianza nei confronti del Nord, sia in termini di tasso occupazionale sia di livello di salari reali. Insomma, fino a metà della spesa per il pubblico impiego al Sud la si poteva considerare un sussidio occulto». «Si può sicuramente discutere - concede Alesina - se sia giusto che il Nord, più ricco, regali risorse al Sud. Ma il punto è quale sia il modo migliore di farlo, per evitare incentivi perversi che finiscano per ostacolare lo sviluppo dei Mezzogiorno stesso».
E «garantire un pubblico impiego remunerato (in termini reali) più al Sud che al Nord è un metodo sbagliato». E' ovvio infatti che rispetto a un lavoro nel settore privato, un residente nel Sud preferisca l'impiego pubblico, fra l'altro a vita e senza alcun rischio. «Ecco allora un minore interesse per il lavoro nel settore privato, difficoltà per gli imprenditori a trovare forza lavoro per la concorrenza del posto statale, e forte domanda di occupazione pubblica che si traduce poi in pressioni politiche in quel senso. E il circolo vizioso continua».
Le reazioni dei sindacati e del Pd avranno un sicuro effetto politico: «Un'alzata di scudi non farà che peggiorare ancora il loro risultato elettorale al Nord con probabili ulteriori perdite di voti verso la Lega». Per quanto riguarda il governo, «il cosiddetto partito del Sud sicuramente insorgerà, ma è auspicabile che forte della sua maggioranza prenda in considerazione la proposta».
Clinton a Pyongyang, Rassicurazioni Usa a Corea del Sud e Giappone
Come volevasi dimostrare, la visita di Clinton a Pyongyang deve aver allarmato non poco Corea del Sud e Giappone, che temono di essere marginalizzati se Washington dovesse concedere alla Corea del Nord negoziati diretti sul suo programma nucleare. Sia il portavoce del Ministero degli Esteri sudcoreano che il capo segreteria del governo giapponese hanno reso noto oggi che Washington ha assicurato ai loro governi che la visita di Clinton ha avuto come unico scopo la liberazione delle due giornaliste e che l'ex presidente non ha discusso della questione nucleare con Kim Jong Il. Che le rassicurazioni siano arrivate o meno, o che siano state richieste solo successivamente, resta il fatto che i governi di Seoul e Tokyo hanno avvertito l'esigenza politica di renderle note.
Inoltre, un certo imbarazzo deve aver creato anche il fatto che insieme alle due giornaliste americane non siano stati liberati anche i cittadini sudcoreani e giapponesi nelle mani di Pyongyang, ai quali non si è fatto neanche cenno. Così i due funzionari governativi di Seoul e Tokyo hanno fatto anche sapere che durante la sua visita l'ex presidente Clinton ha esortato direttamente il leader nordcoreano Kim Jong Il a rilasciare i sudcoreani arrestati e a «fare progressi» sulla questione dei giapponesi rapiti. Anche qui, come sopra: non possiamo saperlo, ma la precisazione è emblematica di un certo imbarazzo.
La Corea del Nord trattiene dallo scorso marzo un lavoratore sudcoreano, accusato di aver denunciato il regime comunista in un distretto industriale congiunto Nord-Sud, e dalla scorsa settimana anche quattro pescatori accusati di aver varcato le sue acque territoriali. Nel 2002 il regime nordcoreano ha ammesso di aver rapito 13 cittadini giapponesi tra gli anni '70 e '80 e di averli usati per addestrare le sue spie. Cinque di loro hanno fatto ritorno in Giappone. Il regime di Pyongyang sostiene che gli altri otto sono morti, ma Tokyo chiede ulteriori indagini. E Washington ha sempre detto che a Seoul e Tokyo che il problema dei loro ostaggi non avrebbe dovuto interferire con la questione del nucleare.
Inoltre, un certo imbarazzo deve aver creato anche il fatto che insieme alle due giornaliste americane non siano stati liberati anche i cittadini sudcoreani e giapponesi nelle mani di Pyongyang, ai quali non si è fatto neanche cenno. Così i due funzionari governativi di Seoul e Tokyo hanno fatto anche sapere che durante la sua visita l'ex presidente Clinton ha esortato direttamente il leader nordcoreano Kim Jong Il a rilasciare i sudcoreani arrestati e a «fare progressi» sulla questione dei giapponesi rapiti. Anche qui, come sopra: non possiamo saperlo, ma la precisazione è emblematica di un certo imbarazzo.
La Corea del Nord trattiene dallo scorso marzo un lavoratore sudcoreano, accusato di aver denunciato il regime comunista in un distretto industriale congiunto Nord-Sud, e dalla scorsa settimana anche quattro pescatori accusati di aver varcato le sue acque territoriali. Nel 2002 il regime nordcoreano ha ammesso di aver rapito 13 cittadini giapponesi tra gli anni '70 e '80 e di averli usati per addestrare le sue spie. Cinque di loro hanno fatto ritorno in Giappone. Il regime di Pyongyang sostiene che gli altri otto sono morti, ma Tokyo chiede ulteriori indagini. E Washington ha sempre detto che a Seoul e Tokyo che il problema dei loro ostaggi non avrebbe dovuto interferire con la questione del nucleare.
Wednesday, August 05, 2009
Clinton a Pyongyang allarma Corea del Sud e Giappone
Di solito i rapitori non ti lasciano andare via con gli ostaggi se prima non gli hai consegnato il riscatto. E il regime nordcoreano non è nuovo a rapimenti di cittadini stranieri. Può anzi essere definito un "rapitore seriale". Un centinaio i giapponesi e migliaia i sudcoreani che sono ancora detenuti da Pyongyang. E' evidente che prima della partenza di Bill Clinton alla volta della capitale nordcoreana un accordo di massima fosse stato già raggiunto tra i due Paesi per la liberazione delle due giornaliste americane riportate a casa oggi dall'ex presidente Usa, che non avrebbe messo a rischio il suo prestigio personale esponendosi a un rifiuto.
Alcuni funzionari americani hanno assicurato che, in cambio della liberazione, alla Corea del Nord non sono state promesse contropartite specifiche, e che nelle trattative dietro le quinte non è entrata la questione del programma nucleare nordcoreano. Il fatto che ad accogliere Clinton all'aeroporto ci fosse Kim Kye-gwan, il capo negoziatore nordcoreano sul nucleare, farebbe pensare il contrario, ma la sua presenza si può spiegare anche con banali motivi di propaganda da parte di Pyongyang. Il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha confermato che Washington ha sempre considerato la liberazione degli ostaggi e il nucleare due temi distinti e separati, e ha insistito sul fatto che quella del marito è stata una missione strettamente umanitaria, senza alcun messaggio al regime da parte del presidente Obama.
Difficile però credere che Clinton si sia presentato a mani vuote. Ciò che preoccupa soprattutto gli alleati degli Stati Uniti nella regione, Corea del Sud e Giappone, è che qualsiasi cosa affermi il governo americano, l'incontro tra Clinton e Kim Jong Il (terrificante la foto che li ritrae insieme) possa rappresentare l'inizio di trattative dirette, bilaterali, sul nucleare, escludendo gli altri quattro Paesi (Corea del Sud, Giappone, Cina, Russia) coinvolti nei negoziati a sei interrotti da Pyongyang. Non subito, ovviamente, per fugare i sospetti di un collegamento diretto tra la missione di Clinton e l'inizio dei negoziati. Anche senza alcuna contropartita, infatti, la visita di Clinton rappresenta di per sé un messaggio, data la sua autorevolezza (un ex presidente con cui Pyongyang ha avuto a che fare per otto anni). Va nella stessa direzione del tentativo di Kim di disfarsi dei negoziati a sei a favore di quel negoziato diretto con gli Usa che insegue da sempre.
Anche il Wall Street Journal si chiede oggi se la visita di Clinton non sia da interpretare come solo «l'anticipo di una più ampia serie di concessioni che Kim ha estorto all'amministrazione Obama». Se così fosse, Kim Jong Il avrebbe la conferma che la sua strategia, fatta di promesse ripetutamente disattese, di ricatti e provocazioni, funziona. Che anziché accrescere l'isolamento internazionale della Corea del Nord, le garantisce concessioni sempre maggiori. Come dire a Kim, avverte il WSJ, che peggiore è il suo comportamento, più concessioni può riuscire a strappare. E il prezzo per riscattare i prossimi ostaggi sarebbe ancora più alto.
Oltretutto esiste anche un precedente storico. Un altro ex presidente Usa, Jimmy Carter, contribuì a dare una boccata d'ossigeno alla Corea del Nord in un momento di estrema difficoltà. Nel giugno del 1994 Carter si recò a Pyongyang, dove mise a punto le linee guida di un accordo quadro che prevedeva la fornitura alla Corea del Nord di reattori nucleari ad acqua leggera, in cambio della sospensione del programma nucleare e di un suo eventuale smantellamento. Nonostante il parere contrario dell'allora presidente sudcoreano Kim Young-sam, il presidente Clinton accettò l'accordo, che non solo significò la fornitura di assistenza materiale al regime di Pyongyang, ma anche il suo riconoscimento politico da parte americana subito dopo la morte del fondatore, Kim Il Sung, cioè nel periodo di maggiore vulnerabilità dalla Guerra coreana. Ma c'è da augurarsi che Clinton abbia imparato la lezione di allora e non si sia prestato a giocare il ruolo che giocò Carter.
Al di là della soddisfazione formale espressa per la liberazione delle due americane, i governi di Seoul e Tokyo si devono essere chiesti come mai Clinton non abbia intercesso in favore di alcuni dei loro cittadini ancora nella mani del regime nordcoreano. Sul Wall Street Journal, Gordon Chang si augura che la liberazione delle due giornaliste non sia avvenuta al prezzo di ulteriori negoziati, che darebbero a Pyongyang più tempo per completare il suo arsenale militare e per sviluppare i suoi missili balistici, e che gli Stati Uniti non si dimentichino degli altri ostaggi di Kim Jong Il: un centinaio di giapponesi e almeno un migliaio di sudcoreani, alcuni prigionieri addirittura dalla Guerra coreana e gli altri rapiti successivamente. Oltre, naturalmente, ai 23 milioni di nordcoreani che Kim usa come ostaggi.
Alcuni funzionari americani hanno assicurato che, in cambio della liberazione, alla Corea del Nord non sono state promesse contropartite specifiche, e che nelle trattative dietro le quinte non è entrata la questione del programma nucleare nordcoreano. Il fatto che ad accogliere Clinton all'aeroporto ci fosse Kim Kye-gwan, il capo negoziatore nordcoreano sul nucleare, farebbe pensare il contrario, ma la sua presenza si può spiegare anche con banali motivi di propaganda da parte di Pyongyang. Il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha confermato che Washington ha sempre considerato la liberazione degli ostaggi e il nucleare due temi distinti e separati, e ha insistito sul fatto che quella del marito è stata una missione strettamente umanitaria, senza alcun messaggio al regime da parte del presidente Obama.
Difficile però credere che Clinton si sia presentato a mani vuote. Ciò che preoccupa soprattutto gli alleati degli Stati Uniti nella regione, Corea del Sud e Giappone, è che qualsiasi cosa affermi il governo americano, l'incontro tra Clinton e Kim Jong Il (terrificante la foto che li ritrae insieme) possa rappresentare l'inizio di trattative dirette, bilaterali, sul nucleare, escludendo gli altri quattro Paesi (Corea del Sud, Giappone, Cina, Russia) coinvolti nei negoziati a sei interrotti da Pyongyang. Non subito, ovviamente, per fugare i sospetti di un collegamento diretto tra la missione di Clinton e l'inizio dei negoziati. Anche senza alcuna contropartita, infatti, la visita di Clinton rappresenta di per sé un messaggio, data la sua autorevolezza (un ex presidente con cui Pyongyang ha avuto a che fare per otto anni). Va nella stessa direzione del tentativo di Kim di disfarsi dei negoziati a sei a favore di quel negoziato diretto con gli Usa che insegue da sempre.
Anche il Wall Street Journal si chiede oggi se la visita di Clinton non sia da interpretare come solo «l'anticipo di una più ampia serie di concessioni che Kim ha estorto all'amministrazione Obama». Se così fosse, Kim Jong Il avrebbe la conferma che la sua strategia, fatta di promesse ripetutamente disattese, di ricatti e provocazioni, funziona. Che anziché accrescere l'isolamento internazionale della Corea del Nord, le garantisce concessioni sempre maggiori. Come dire a Kim, avverte il WSJ, che peggiore è il suo comportamento, più concessioni può riuscire a strappare. E il prezzo per riscattare i prossimi ostaggi sarebbe ancora più alto.
Oltretutto esiste anche un precedente storico. Un altro ex presidente Usa, Jimmy Carter, contribuì a dare una boccata d'ossigeno alla Corea del Nord in un momento di estrema difficoltà. Nel giugno del 1994 Carter si recò a Pyongyang, dove mise a punto le linee guida di un accordo quadro che prevedeva la fornitura alla Corea del Nord di reattori nucleari ad acqua leggera, in cambio della sospensione del programma nucleare e di un suo eventuale smantellamento. Nonostante il parere contrario dell'allora presidente sudcoreano Kim Young-sam, il presidente Clinton accettò l'accordo, che non solo significò la fornitura di assistenza materiale al regime di Pyongyang, ma anche il suo riconoscimento politico da parte americana subito dopo la morte del fondatore, Kim Il Sung, cioè nel periodo di maggiore vulnerabilità dalla Guerra coreana. Ma c'è da augurarsi che Clinton abbia imparato la lezione di allora e non si sia prestato a giocare il ruolo che giocò Carter.
Al di là della soddisfazione formale espressa per la liberazione delle due americane, i governi di Seoul e Tokyo si devono essere chiesti come mai Clinton non abbia intercesso in favore di alcuni dei loro cittadini ancora nella mani del regime nordcoreano. Sul Wall Street Journal, Gordon Chang si augura che la liberazione delle due giornaliste non sia avvenuta al prezzo di ulteriori negoziati, che darebbero a Pyongyang più tempo per completare il suo arsenale militare e per sviluppare i suoi missili balistici, e che gli Stati Uniti non si dimentichino degli altri ostaggi di Kim Jong Il: un centinaio di giapponesi e almeno un migliaio di sudcoreani, alcuni prigionieri addirittura dalla Guerra coreana e gli altri rapiti successivamente. Oltre, naturalmente, ai 23 milioni di nordcoreani che Kim usa come ostaggi.
Salari differenziati, a prezzi di mercato
Su il Velino
Fanno discutere i dati di un "occasional paper" della Banca d'Italia secondo cui il costo della vita al Sud è del 16,5 per cento inferiore rispetto al Nord. Subito il ministro per la Semplificazione normativa, Roberto Calderoli, ha rilanciato la proposta della Lega di «buste paga parametrate sul reale costo della vita nelle diverse aree del Paese». Il ministro in effetti non ha usato l'infelice espressione «gabbie salariali», una semplificazione giornalistica che fa riferimento a un sistema di oltre sessant'anni fa, abolito negli anni '68-'69, quando le retribuzioni venivano determinate a livello centrale secondo 14 parametri zonali, chiamati "gabbie". Oggi a SkyTg24 Calderoli ha infatti precisato che «nessuno vuole riportare le gabbie salariali. E' chiaro che è un discorso di contrattazione».
La sensazione quindi è che il dibattito sia entrato in un vicolo cieco di nominalismi che non hanno più attinenza con la realtà di oggi. Se si sgombra il campo dall'equivoco di stipendi differenziati per legge, o per effetto di una contrattazione centralizzata, anche i settori più aperti e riformisti del mondo sindacale e del Pd ritengono opportuno che al Sud le retribuzioni minime possano essere inferiori rispetto al Nord. Ma ciò dev'essere il risultato di una contrattazione d'area e aziendale, basata sulla produttività e sulle condizioni del mercato.
La prima proposta concreta in questi termini, tra l'altro, è arrivata solo pochi giorni fa dal segretario confederale della Uil Guglielmo Loy, che sul Sole 24 Ore ipotizzava un «contratto straordinario di accesso»: nelle otto regioni meridionali, in cambio di assunzioni a tempo indeterminato, il sindacato si impegnerebbe ad accettare retribuzioni inferiori ai minimi, derogando temporaneamente - per un periodo di 5 anni - ai contratti nazionali di categoria. Minore costo del lavoro, per creare più occupazione. Una proposta oggi finalmente realizzabile grazie alla maggiore flessibilità introdotta nella contrattazione con l'intesa sulla riforma del modello contrattuale promossa dal governo e siglata dalle parti sociali (tranne la Cgil).
Dato il più basso costo della vita, il nostro Mezzogiorno potrebbe sfruttare il basso costo del lavoro per attrarre gli imprenditori del Nord, che spesso oggi preferiscono trasferire le loro produzioni in Romania e in altri paesi dell'est europeo, scavalcando il Sud d'Italia. E d'altra parte già oggi al Sud in molti accettano di lavorare per molto meno dei minimi nazionali, solo che "in nero".
CONTINUA
Fanno discutere i dati di un "occasional paper" della Banca d'Italia secondo cui il costo della vita al Sud è del 16,5 per cento inferiore rispetto al Nord. Subito il ministro per la Semplificazione normativa, Roberto Calderoli, ha rilanciato la proposta della Lega di «buste paga parametrate sul reale costo della vita nelle diverse aree del Paese». Il ministro in effetti non ha usato l'infelice espressione «gabbie salariali», una semplificazione giornalistica che fa riferimento a un sistema di oltre sessant'anni fa, abolito negli anni '68-'69, quando le retribuzioni venivano determinate a livello centrale secondo 14 parametri zonali, chiamati "gabbie". Oggi a SkyTg24 Calderoli ha infatti precisato che «nessuno vuole riportare le gabbie salariali. E' chiaro che è un discorso di contrattazione».
La sensazione quindi è che il dibattito sia entrato in un vicolo cieco di nominalismi che non hanno più attinenza con la realtà di oggi. Se si sgombra il campo dall'equivoco di stipendi differenziati per legge, o per effetto di una contrattazione centralizzata, anche i settori più aperti e riformisti del mondo sindacale e del Pd ritengono opportuno che al Sud le retribuzioni minime possano essere inferiori rispetto al Nord. Ma ciò dev'essere il risultato di una contrattazione d'area e aziendale, basata sulla produttività e sulle condizioni del mercato.
La prima proposta concreta in questi termini, tra l'altro, è arrivata solo pochi giorni fa dal segretario confederale della Uil Guglielmo Loy, che sul Sole 24 Ore ipotizzava un «contratto straordinario di accesso»: nelle otto regioni meridionali, in cambio di assunzioni a tempo indeterminato, il sindacato si impegnerebbe ad accettare retribuzioni inferiori ai minimi, derogando temporaneamente - per un periodo di 5 anni - ai contratti nazionali di categoria. Minore costo del lavoro, per creare più occupazione. Una proposta oggi finalmente realizzabile grazie alla maggiore flessibilità introdotta nella contrattazione con l'intesa sulla riforma del modello contrattuale promossa dal governo e siglata dalle parti sociali (tranne la Cgil).
Dato il più basso costo della vita, il nostro Mezzogiorno potrebbe sfruttare il basso costo del lavoro per attrarre gli imprenditori del Nord, che spesso oggi preferiscono trasferire le loro produzioni in Romania e in altri paesi dell'est europeo, scavalcando il Sud d'Italia. E d'altra parte già oggi al Sud in molti accettano di lavorare per molto meno dei minimi nazionali, solo che "in nero".
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Tuesday, August 04, 2009
L'Iran da dittatura clericale a militare
L'investitura ufficiale di Ahmadinejad sembra segnare il passaggio della Repubblica islamica da una dittatura clericale a una dittatura militare. Il potere reale è sempre più nelle mani delle Guardie rivoluzionarie e degli apparati militari e di sicurezza del regime piuttosto che del clero, che però non rinuncia a lanciare la sua sfida al presidente rieletto e a chi ne ha permesso la rielezione, ossia la Guida Suprema, Ali Khamenei. Il regime iraniano cambia volto, perde la sua fonte di legittimazione religiosa, e si trasforma in una qualunque dittatura militare del Terzo mondo, che si regge solo sulla forza bruta. Il regime ha ancora il pieno controllo del Paese, ma solo grazie alle Guardie rivoluzionarie e alla milizia Bassij, non grazie al prestigio e all'autorità della Guida Suprema.
Il fatto che lunedì scorso importanti esponenti del regime, come gli ex presidenti Rafsanjani e Khatami, ed entrambi i candidati sconfitti alle presidenziali del 12 giugno, Moussavi e Karroubi, abbiano disertato la cerimonia di investitura rappresenta l'ennesimo gesto di sfida all'autorità della Guida Suprema, e indica che ampi settori dell'establishment clericale ritengono illegittimo il governo di Ahmadinehjad e resistono alla militarizzazione della Repubblica. La crisi politica è quindi lontana dal concludersi. Domani Ahmadinejad dovrà ricevere l'investitura anche da parte del Majlis, il Parlamento iraniano. Ratifica scontata, ma non priva di insidie.
A prescindere da come si concluderà la crisi, una cosa «è già chiara», per Amir Taheri: la dottrina del walayat faqih, «pietra angolare» del sistema khomeinista, «è morta». L'elite del regime è in uno stato di «guerra civile» e rischia di trascinare il Paese intero in un periodo di conflitto. Per 30 anni il walayat faqih – ovvero «tutela del giureconsulto», principio che attribuisce alla Guida Suprema l'ultima parola su ogni aspetto del governo della Repubblica islamica – ha rappresentato una barriera invalicabile contro qualsiasi genuina riforma. Ma ora il comportamento di Khamenei, osserva Taheri, «ha alimentato un consenso crescente» nell'establishment clericale sulla necessità che sia «tempo per l'Iran di andare oltre il khomeinismo, sia come ideologia che come sistema di governo». Da qui alla democrazia il passo è troppo lungo, e probabilmente distante dalle intenzioni dei principali protagonisti, ma ormai un segmento sempre più ristretto dell'elite si aggrappa ancora al concetto di walayat faqih e questo è «forse il vero miracolo avvenuto lo scorso mese», suggerisce Taheri.
Schierandosi apertamente dalla parte di Ahmadinejad nella disputa post-elettorale, e coprendo (se non ordinando) gli evidenti brogli, Khamenei ha compromesso l'autorità della sua figura, la Guida Suprema, su cui si regge tutto l'impianto istituzionale del sistema khomeinista. Non solo la sua autorità è stata più volte sfidata dai candidati di opposizione, da esponenti del regime dalle indubbie credenziali khomeiniste, come gli ex presidenti e ayatollah Rafsanjani e Khatami, e dalla piazza, ma persino dallo stesso Ahmadinejad, il quale, dopo aver nominato vicepresidente Rahim Mashai, per giorni ha ignorato l'ordine di tornare sui suoi passi impartito da Khamenei. Sfidando ripetutamente l'«ultima parola» della Guida Suprema, entrambi rifiutandosi di riconoscere la rielezione di Ahmadinejad e boicottando gli eventi presieduti da Khamenei, Rafsanjani e Khatami hanno dimostrato di non credere più, e comunque di non attenersi, al walayat faqih. E con essi una parte consistente del clero che conta. Khamenei appare sempre più succube dei pasdaran, la sua sorte politica legata a quella di Ahmadinejad. E il suo disagio è apparso evidente durante la cerimonia di investitura, quando ha quasi ritratto la mano mentre Ahmadinejad la cercava per baciarla.
Il principio del walayat faqih, spiega Taheri, ha sempre funzionato come il «centralismo democratico» nel leninismo. Le questioni potevano essere dibattute, discusse, all'interno del regime, ma una volta che la Guida Suprema avesse pronunciato «l'ultima parola», tutti dovevano adeguarsi ad essa rispettosamente. Così ha funzionato nei due decenni durante i quali Khamenei ha interpretato correttamente il suo ruolo di arbitro imparziale, al di sopra delle fazioni, ricorrendo in modo parsimonioso al suo diritto all'ultima parola, per chiudere i dibattiti e riunire la «ummah», la comunità di fedeli. «Ma nelle scorse settimane – osserva Taheri – è diventato chiaro che il walayat faqih non funziona più. Invece che calmare gli animi, gli interventi della Guida suprema hanno approfondito le divisioni interne». La Guida Suprema è scesa nell'agone politico.
Come mai Khamenei abbia deciso di abbandonare il suo ruolo di arbitro supremo per divenire il «sicario» di Ahmadinejad rimane un mistero. Forse perché ha la pistola delle Guardie rivoluzionarie puntata alla tempia. O forse perché terrorizzato dalla prospettiva di una «rivoluzione di velluto». In ogni caso, è evidente che «in poche settimane ha dilapidato un capitale politico accumulato in tre decenni». Nonostante rimanga un attore potente sulla scena politica iraniana, non è più al di sopra delle parti e ciò ha minato l'autorità della carica che ricopre (sia agli occhi del popolo che del clero), e con essa la legittimazione stessa del regime.
Il fatto che lunedì scorso importanti esponenti del regime, come gli ex presidenti Rafsanjani e Khatami, ed entrambi i candidati sconfitti alle presidenziali del 12 giugno, Moussavi e Karroubi, abbiano disertato la cerimonia di investitura rappresenta l'ennesimo gesto di sfida all'autorità della Guida Suprema, e indica che ampi settori dell'establishment clericale ritengono illegittimo il governo di Ahmadinehjad e resistono alla militarizzazione della Repubblica. La crisi politica è quindi lontana dal concludersi. Domani Ahmadinejad dovrà ricevere l'investitura anche da parte del Majlis, il Parlamento iraniano. Ratifica scontata, ma non priva di insidie.
A prescindere da come si concluderà la crisi, una cosa «è già chiara», per Amir Taheri: la dottrina del walayat faqih, «pietra angolare» del sistema khomeinista, «è morta». L'elite del regime è in uno stato di «guerra civile» e rischia di trascinare il Paese intero in un periodo di conflitto. Per 30 anni il walayat faqih – ovvero «tutela del giureconsulto», principio che attribuisce alla Guida Suprema l'ultima parola su ogni aspetto del governo della Repubblica islamica – ha rappresentato una barriera invalicabile contro qualsiasi genuina riforma. Ma ora il comportamento di Khamenei, osserva Taheri, «ha alimentato un consenso crescente» nell'establishment clericale sulla necessità che sia «tempo per l'Iran di andare oltre il khomeinismo, sia come ideologia che come sistema di governo». Da qui alla democrazia il passo è troppo lungo, e probabilmente distante dalle intenzioni dei principali protagonisti, ma ormai un segmento sempre più ristretto dell'elite si aggrappa ancora al concetto di walayat faqih e questo è «forse il vero miracolo avvenuto lo scorso mese», suggerisce Taheri.
Schierandosi apertamente dalla parte di Ahmadinejad nella disputa post-elettorale, e coprendo (se non ordinando) gli evidenti brogli, Khamenei ha compromesso l'autorità della sua figura, la Guida Suprema, su cui si regge tutto l'impianto istituzionale del sistema khomeinista. Non solo la sua autorità è stata più volte sfidata dai candidati di opposizione, da esponenti del regime dalle indubbie credenziali khomeiniste, come gli ex presidenti e ayatollah Rafsanjani e Khatami, e dalla piazza, ma persino dallo stesso Ahmadinejad, il quale, dopo aver nominato vicepresidente Rahim Mashai, per giorni ha ignorato l'ordine di tornare sui suoi passi impartito da Khamenei. Sfidando ripetutamente l'«ultima parola» della Guida Suprema, entrambi rifiutandosi di riconoscere la rielezione di Ahmadinejad e boicottando gli eventi presieduti da Khamenei, Rafsanjani e Khatami hanno dimostrato di non credere più, e comunque di non attenersi, al walayat faqih. E con essi una parte consistente del clero che conta. Khamenei appare sempre più succube dei pasdaran, la sua sorte politica legata a quella di Ahmadinejad. E il suo disagio è apparso evidente durante la cerimonia di investitura, quando ha quasi ritratto la mano mentre Ahmadinejad la cercava per baciarla.
Il principio del walayat faqih, spiega Taheri, ha sempre funzionato come il «centralismo democratico» nel leninismo. Le questioni potevano essere dibattute, discusse, all'interno del regime, ma una volta che la Guida Suprema avesse pronunciato «l'ultima parola», tutti dovevano adeguarsi ad essa rispettosamente. Così ha funzionato nei due decenni durante i quali Khamenei ha interpretato correttamente il suo ruolo di arbitro imparziale, al di sopra delle fazioni, ricorrendo in modo parsimonioso al suo diritto all'ultima parola, per chiudere i dibattiti e riunire la «ummah», la comunità di fedeli. «Ma nelle scorse settimane – osserva Taheri – è diventato chiaro che il walayat faqih non funziona più. Invece che calmare gli animi, gli interventi della Guida suprema hanno approfondito le divisioni interne». La Guida Suprema è scesa nell'agone politico.
Come mai Khamenei abbia deciso di abbandonare il suo ruolo di arbitro supremo per divenire il «sicario» di Ahmadinejad rimane un mistero. Forse perché ha la pistola delle Guardie rivoluzionarie puntata alla tempia. O forse perché terrorizzato dalla prospettiva di una «rivoluzione di velluto». In ogni caso, è evidente che «in poche settimane ha dilapidato un capitale politico accumulato in tre decenni». Nonostante rimanga un attore potente sulla scena politica iraniana, non è più al di sopra delle parti e ciò ha minato l'autorità della carica che ricopre (sia agli occhi del popolo che del clero), e con essa la legittimazione stessa del regime.
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