Anno nuovo, vecchi tentennamenti alla Casa Bianca di Obama. Il fallito attentato di Natale sul volo Amsterdam-Detroit, le minacce crescenti che giungono dallo Yemen, il panico di ieri a Newark, richiedono che il presidente mostri il suo volto più duro all'opinione pubblica, ricorrendo a una misura controversa come il "racial profiling", che neanche Bush aveva osato adottare. Ma questo genera la collera dei progressisti e delle associazioni per le libertà civili, senza placare l'opposizione dei repubblicani, che accusano l'amministrazione di debolezza. Tuttavia, è sull'Iran che il presidente dovrà far vedere al più presto di che pasta è fatto.
Come molti tra i più autorevoli analisti avevano previsto l'estate scorsa - e non avevo mancato di segnalarlo - nella Repubblica islamica si è messo in moto un processo di cui forse non è possibile anticipare gli esiti, ma che certamente non si concluderà con il mero ritorno allo
status quo ante. La Repubblica islamica non è, e non sarà più la stessa, ha cambiato natura. E qualcosa si è rotto al suo interno.
Nonostante le successive ondate di sanguinose repressioni e di arresti, il movimento di protesta di giugno non si è spento. Anzi, di settimana in settimana è cresciuto e si è trasformato. E' diventato un vero e proprio movimento di opposizione temuto dal regime. Nel quale, come sempre accade in queste situazioni, convivono diverse anime e personaggi, ciascuno dei quali gioca - o crede di giocare - la sua partita, mentre è più probabile che nessuno degli attori sia in grado di influenzare più di tanto gli eventi. Che l'esito di quanto sta accadendo in Iran sia o meno una rivoluzione democratica è impossibile prevederlo, ma certo sembrano essercene le condizioni, al di là delle intenzioni dei singoli protagonisti.
Dalla «rabbia per un'elezione rubata» a una «rivolta contro il sistema iraniano di governo islamico», ha osservato qualche giorno fa
Con Coughlin sul
Wall Street Journal. E nonostante la brutale repressione, «il movimento di opposizione è cresciuto sostanzialmente dai disordini del giugno scorso». Sei mesi fa, nelle strade, gli iraniani gridavano "Dov'è il mio voto?!". Da lì è partita la "Rivoluzione verde". Ma ora, secondo Coughlin, «i manifestanti non cercano più solamente elezioni democratiche, vogliono il
regime change». I loro slogan sono: "Khamenei è un assassino"; "Né Gaza, né Libano, offro la mia vita solo per l'Iran" e "Independenza, Libertà e Repubblica iraniana". «In altre parole, chiedono di fermare il sostegno dell'Iran ai terroristi in Palestina, Libano e in Iraq; la separazione tra stato e religione; e considerano Khamenei il nemico pubblico numero uno».
I manifestanti ora chiedono una «Repubblica iraniana, non islamica!», notava il mese scorso anche un attento osservatore come
Amir Taheri. E i presunti "leader" di questa rivoluzione? Rafsanjani rimane nell'ombra, ma è significativo che non voglia in alcun modo farsi vedere vicino o "riconciliato" con Khamenei e Ahmadinejad. Mousavi e Karroubi sembrano aver abbandonato la loro precedente idea di «realizzare il pieno potenziale della costituzione esistente». Un consigliere di Mousavi ha confidato a Taheri che ormai «hanno realizzato che la gente si è mossa più rapidamente di quanto immaginassero».
Anche Obama sembra prendere atto che il movimento di opposizione tiene e che l'instabilità interna è destinata a durare, se non ad aggravarsi. Il 28 dicembre
ha commentato con toni più duri ed espliciti la recente repressione del regime contro i manifestanti, ma ci aspettiamo che nei prossimi giorni muova passi concreti in una nuova direzione. Siccome l'insabilità interna non sembra aver convinto i leader della Repubblica islamica ad accettare la mano tesa di Obama sul nucleare, è arrivato per il presidente americano il momento di dimostrare di saper mutare strategia nei confronti del regime iraniano, e di avere un "piano B" con il quale rispondere all'evidente fallimento del tentativo di
engagement.
La politica di
engagement di Obama era iniziata con la rinuncia al cambio di regime, riconoscendo per la prima volta esplicitamente la natura islamica della Repubblica iraniana; era proseguita con messaggi scritti e video per invitare l'establishment al dialogo; era stata accompagnata da gesti tangibili come il taglio dei finanziamenti alle organizzazioni per i diritti umani. Obama aveva evitato di sostenere le manifestazioni dell'opposizione per non irritare Ahmadinejad e Khamenei e di intromettersi nei brogli elettorali del giugno scorso. Ma soprattutto, tramite l'Aiea, ha proposto agli ayatollah un accordo molto favorevole sul nucleare. Nulla di tutto questo è bastato.
Venerdì scorso Teheran ha respinto l'ultimatum implicito degli Stati Uniti e dei loro partner, che chiedevano di accettare entro il 31 dicembre la proposta dell'Aiea per il trasferimento dell'uranio iraniano all'estero in cambio di uranio arricchito al 19,75%. Gli iraniani hanno replicato ponendo a loro volta un ultimatum all'Occidente, perché accetti entro un mese (il 31 gennaio) la loro controproposta al piano Aiea. L'oggetto del contendere è sempre la modalità dello scambio di uranio. L'Iran infatti rifiuta di trasferire in blocco le quantità richieste del suo uranio debolmente arricchito, come prevede la proposta dell'Aiea. «Se la controparte accetta il principio dello scambio progressivo, per tappe, noi potremmo discutere gli altri dettagli», fa sapere il portavoce del Ministero degli Esteri iraniano,
Ramin Mehmanparast.
Di fronte al gioco degli iraniani, che di tutta evidenza è quello di prendere tempo, è urgente che l'America dimostri di avere un "piano B", più chiaro e minaccioso della semplice evocazione di non meglio specificate nuove sanzioni, il cui effetto è tutto da dimostrare consideranto le perplessità dei russi e, soprattutto, dei cinesi. Altrimenti, la credibilità della sua deterrenza agli occhi degli ayatollah precipiterà sotto zero.
Ray Takeyh, che continua ad essere favorevole all'
engagement, suggerisce però a Obama di seguire l'esempio di
Ronald Reagan quando definì l'Urss «l'impero del male». «E' prematuro - è l'analisi di Takeyh - annunciare la morte immediata del regime teocratico. L'Iran può benissimo entrare in un prolungato periodo di caos e violenza. Tuttavia - osserva - è ovvio che la durata di vita della Repubblica islamica si è considerevolmente accorciata». «Disastrosa», secondo Takeyh, si è dimostrata la decisione del regime di rifiutare ogni compromesso con l'opposizione dopo la frode elettorale del giugno scorso. Le «modeste richieste» di figure chiave dell'establishment, come Rafsanjani, sono state respinte «con arroganza». Quindi, le posizioni si sono radicalizzate e le concessioni che potevano essere fatte allora «oggi apparirebbero come un segno di debolezza e rafforzerebbero l'opposizione».
Da qui un regime senza più «orizzonte politico». Che per uno strano scherzo del destino si trova nello stesso «dilemma» dello shah, «che fece troppo tardi concessioni per rafforzare il suo potere e ampliare la base sociale» del suo consenso. La Repubblica islamica è guidata oggi da un «politico tentennante come fu lo shah». Come lo shah, oggi anche Khamenei sembra «riluttante a ordinare una repressione di massa». Il regime ha optato per una strategia repressiva ma di «contenimento». Mentre il movimento continua a sfidare le autorità, è probabile che si radicalizzi. «Al contrario del 1979, tuttavia, al movimento di opposizione mancano la coesione e leader riconoscibili». Mousavi e Karroubi agli occhi di Takeyh sembrano «più osservatori incuriositi che le menti dei recenti eventi. Ma più a lungo il movimento sopravvive, più è probabile che produca da sé i suoi leader». E' incredibile come finora senza un'ideologia, senza leader carismatici e un network organizzato, il movimento abbia potuto dar vita a manifestazioni così imponenti.
Per dirla in breve, secondo Takeyh la Repubblica islamica «è arrivata a un punto morto: non può né riconciliarsi con l'opposizione, né cancellarla di forza dalla faccia della terra». Cosa possono fare, dunque, gli Stati Uniti di fronte a questa nuova situazione che si è creata? Innanzitutto, «farebbero bene a riconoscere i cambiamenti del contesto». «L'amministrazione Obama dovrebbe prendere esempio da
Ronald Reagan e sfidare con perseveranza la legittimità dello stato teocratico, denunciando gli abusi dei diritti umani. L'idea che un linguaggio duro ostacoli un accordo sul nucleare è falsa. A questo punto - spiega Takeyh - la sola ragione per cui Teheran potrebbe accettare un accordo è per attenuare le pressioni internazionali mentre deve fare i conti con l'insurrezione al suo interno».
E anche se il regime dovesse adeguarsi alle richieste internazionali sul programma nucleare, «gli Stati Uniti dovrebbero restare fermi nel sostenere i diritti umani». Reagan, ricorda Takeyh, «non ebbe scrupoli nel denunciare l'Unione sovietica come l'"impero del male", mentre firmava con il Cremlino i trattati per il controllo degli armamenti. La Repubblica islamica, come l'Unione sovietica, è un fenomento transitorio».
«Sono fiducioso - ha dichiarato Obama riguardo la recente repressione - che la storia sarà dalla parte di coloro che cercano giustizia». Ma per
William Kristol il presidente Obama ripone «troppa fiducia nel corso della storia». Il popolo iraniano invece «ha bisogno di aiuto». «La storia del XX secolo, con le sue guerre, i genocidi e il terrorismo, non insegna forse che la parte di coloro che cercano giustizia non prevale facilmente? Che la giustizia ha bisogno di tutto l'energico sostegno possibile? E che l'aiuto degli Stati Uniti è cruciale? Gli Stati Uniti non hanno ancora cominciato a fare ciò che è in loro potere - a parole e concretamente, diplomaticamente ed economicamente, pubblicamente e in segreto, multilateralmente e unilateralmente - per provare ad aiutare il popolo iraniano a cambiare il regime di paura e tirannia che nega loro giustizia.
Regime change in Iran nel 2010 - ora questo sarebbe il cambiamento in cui credere».